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Cav: «Ecco perché lascio Napolitano e Letta inaffidabili», da unita.it

«Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i ‘miei guai giudiziari’ ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette ‘larghe intese’». Silvio Berlusconi ufficializza così, in una lettera al settimanale ‘Tempi’ che sarà in edicola il 3 ottobre, il suo addio al governo.

PARTNER INAFFIDABILI
«Come può essere affidabile – si chiede Berlusconi – chi non riesce a garantire l`agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?», attacca Berlusconi riferendosi a capo dello Stato e presidente del Consiglio.

PD IRRESPONSABILE, COMPRESO RENZI
«Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica: pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo».

GIUDICI POLITICIZZATI
Nonostante la disponibilità del Pdl a garantire la sopravvivenza di governo guidati da personalità estranee «i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un`incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d`Italia».

ABBIAMO CONTRIBUITO AD AIUTARE LA NAZIONE
«Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere – spiega – governi guidati da personalità estranee, talvolta ostili, al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l`economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l`impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà».
L ETTA HA USATO IVA COME RICATTO
Premette di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo», ma Silvio Berlusconi torna a spiegare anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l`aumento dell`Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento, ho capito che non c`era più margine di trattativa».

NON C’E’ STATA COLLABORAZIONE
Un giorno, ribadisce nella lettera a ‘Tempì che «io per primo ho voluto per il bene dell`Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione».

TORNIAMO AL VOTO
Ma così non è. «Quando capisci – scrive ancora Berlusconi – che l`Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l`espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».

IO NON HO MAI AVUTO AIUTI DI STATO
«Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato». Lo scrive Silvio Berlusconi in una lettera a ‘Tempì che sarà in edicola il 3 ottobre. «Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza- aggiunge- per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione».

“I moderati immaginari”, di Massimo Adinolfi

Enrico Letta ha detto in tv che quel che ci vuole è un «fatto politico». Quel fatto è descritto con sufficiente precisione da Ferruccio De Bortoli, sul Corriere della Sera di ieri: la formazione, in occasione del dibattito sulla fiducia che si aprirà domani, di «un’area moderata, che ha a cuore famiglie e imprese, ispirata ai valori liberali del Partito popolare europeo». Un centrodestra moderato ed europeista che dovrebbe dar mostra di esistere. Ma anche di dare appoggio al tentativo di Letta di proseguire nell’azione di go- verno, nonostante la disperata spallata berlusconiana. Un fatto politico: non una fuga alla spicciolata, un manipolo di dissidenti, un disinvolto congedo dal Cavaliere e dal suo destino, ma un’assunzione di responsabilità verso il Paese, la presa di distanza dalla deriva estremistica della neonata Forza Italia e, per questa via, la costruzione di quella casa dei moderati che non ha mai potuto prendere forma sotto la leadership berlusconiana.
Va da sé che in queste ore pronostici ed auspici si inseguono, anche perché, come dicevano i Latini, factum infectum fieri nequit. Traduciamo liberamente: quel che è fatto è fatto. E quel che è stato fatto – non in questi giorni o in queste ore ma in questi anni – non potrà essere cambiato dalle decisioni che saranno eventualmente prese domani. Ma oltre ai pronostici e agli auspici ci sono le analisi, e queste sì che riguardano i fatti.
Ora, è un fatto non solo che Berlusconi ha largamente egemonizzato il
centrodestra per tutto il corso di questa sgangherata seconda Repubblica, mescolando il liberalismo sbandierato alle origini con sempre più massicce dosi di populismo, praticato nella ricerca del consenso come nell’azione di governo. È un fatto anche che larghi ambienti della società italiana si sono troppo poco preoccupati di questa inedita mistura, non riconoscendo per tempo che la direzione intrapresa dal Cavaliere non andava affatto nel senso che oggi coraggiosamente auspicano, ma da tutt’altra parte. Non si vuole con ciò dire soltanto che è troppo facile, dinanzi ad una crisi al buio che potrebbe avere conseguenze sulla tenuta complessiva del Paese – e però, si vorrebbe pure aggiungere, con argomenti dal tono sin troppo emergenziale – caldeggiare il processo di scomposizione e ricomposizione del centro- destra italiano. Si vuole offrire, in più, una chiave di lettura delle vicende politiche che non risparmi le responsabilità di nessuno. Il che significa cominciare a dire, in primo luogo, che il berlusconismo non ha rappresentato un’anomalia solo per il carattere personalistico e padronale delle formazioni politiche a cui ha dato vita, e per l’infiltrazione di interessi privati nel suo profilo, ma anche perché non ha mai tracciato alcuna linea di demarcazione alla sua destra, dal ’94 a tutt’oggi. Con il concorso di responsabilità – va detto – di tutte le leggi elettorali, non solo del Porcellum, adottate durante tutta la seconda Repubblica. Le quali hanno dato tutte, da questo punto di vista, peggior prova del tanto disprezzato proporzionale.
Significa anche, in secondo luogo, che l’erosione della sensibilità istituzionale e del senso dello Stato (e anche del decoro della politica), così evidenti nelle ultime mosse del Cavaliere, con le dimissioni di massa pretese in blocco dai gruppi parlamentari, non appartengono solo alla radicalizzazione seguita a una sentenza definitiva di condanna, ma punteggiano tutta l’avventura del berlusconismo, rendendo fin dall’inizio scomoda la permanenza dei moderati sotto un’unica bandiera. I continui strappi – di Follini, di Casini, di Fini – per ricordare solo i più noti, non datano da ieri. Non solo, ma mentre al centro la tela si strappava sempre in maniera irreparabile, a destra si trovava sempre, altrettanto immancabilmente, il modo di ricucire: con la Lega di Bossi, con i vari Storace e Mussolini, con la Santanché (che oggi addirittura furoreggia al vertice del partito), e di nuovo con la Lega, questa volta di Maroni, pronta ad un nuovo connubio con il Cavaliere se questi portasse il Paese alle elezioni.
È impossibile insomma non vedere una coerenza in questa parabola. Un impasto politico-culturale e la sua fisionomia conseguente: la prova della difficoltà ad interpretare le ragioni del centro, e della facilità ad interpretare invece le ragioni della destra, più o meno estrema.
Può darsi ora che questa vicenda sia giunta al suo epilogo. Può darsi di no. Forse però è giunto all’epilogo almeno una qualche condiscendenza verso gli umori che hanno potuto raccogliersi sotto la comoda ala del berlusconismo. Il proposito dichiarato di cambiare la politica italiana, non solo i suoi comportamenti ma anche le sue liturgie, i suoi riti di legittimazione, ha probabilmente convissuto con l’idea sottaciuta di tenerla piuttosto sotto tiro; in ogni caso il risultato è stato quello di fiaccarla del tutto. Se da domani comincerà un nuovo cammino è presto per dirlo.

L’Unità 01-10-13

“La regia delle ‘ndrine sui flussi dei clandestini”, di Roberto Galullo

In barca a vela, peschereccio o carretta dei mari, in appena 18 giorni – dal 29 luglio al 15 agosto – sulle coste calabresi sono approdati 410 migranti. Un ritmo vertiginoso – 22 clandestini al giorno – che questa estate non si è fermato neppure lungo le coste siciliane o pugliesi. Soltanto negli ultimi cinque giorni, forse gli ultimi utili prima che il mare diventi impossibile da solcare, in Calabria e Sicilia sono sbarcate almeno 600 persone.
Ieri una nuova tragedia: 13 immigrati morti annegati sulla spiaggia di Sampieri a Scicli (Ragusa) durante lo sbarco. Stavano cercando di raggiungere a nuoto la riva, dopo essere stati costretti, a furia di bastonate, a lanciarsi in acqua da un barcone che si era arenato. Il naufragio è avvenuto nella stessa zona dove il 18 novembre 2005 morirono altri 25 migranti nel corso di un altro, tragico sbarco.
Tour della disperazione e della speranza (per chi cerca scampo fuori da nazioni massacrate da guerre e fame) ma purtroppo, al tempo stesso, in Calabria, “carichi” umani di braccia e corpi a costo quasi zero per la criminalità (organizzata o no) che riesce ormai da anni a fare, in questo settore, affari fiorenti.
Fino a qualche anno fa – quando la ‘ndrangheta era ancora tutta riti e “santini” – il traffico clandestino di esseri umani non era molto gradito alle cosche per la massiccia intensificazione dei controlli da parte delle Forze dell’ordine sul territorio. La preoccupazione delle ‘ndrine riguardava principalmente il mercato degli stupefacenti il cui giro d’affari in Calabria è, senza alcun dubbio, più remunerativo dell’arrivo dei clandestini. I sistemi criminali, però, evolvono, atteso il fatto che i codici della vecchia mafia non tolleravano, appunto, neppure il narcotraffico che invece rende, eccome (24,2 miliardi all’anno per la sola ‘ndrangheta secondo le stime di Demoskopika). Con lo sfruttamento della prostituzione e l’immigrazione clandestina – fenomeni legati a doppio filo agli sbarchi in Calabria – la ‘ndrangheta ricava ogni anno proventi illeciti per 500 milioni: 370 milioni dallo sfruttamento della prostituzione e 130 milioni dall’immigrazione clandestina (fonte: L’impero della ‘ndrangheta – Giulio Perrone Editore, 2013).
Solo questo dato aggregato dovrebbe dirla lunga sul cambio di prospettiva per le cosche che guadagnano dagli sbarchi e dal successivo impiego nelle attività illecite in quasi ogni settore (dall’agricoltura all’edilizia, passando per il commercio, il turismo e i servizi) di una quota parte dei clandestini, quelli più disperati e pronti a tutto pur di sopravvivere.
Nessuno però, finora, aveva ipotizzato che la criminalità potesse organizzarsi anche in vista di una fase successiva rispetto a quella, drammatica, dello sbarco, vale a dire l’accoglienza. Averlo scoperto (secondo quanto è emerso finora) è merito dell’operazione Ammit con la quale, l’11 settembre, le Dda di Firenze e quella di Reggio Calabria hanno stroncato gli interessi economici in Toscana riconducibili ad un quarantenne di Reggio Calabria, «già condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso in via definitiva dalla Corte d’appello di Reggio Calabria nell’ottobre del 2000 quale appartenente alla potente ‘ndrina dei Molè di Gioia Tauro – si legge nel comunicato stampa congiunto delle due Procure – per aver favorito la latitanza di Girolamo Molè e per avere gestito i rapporti economici della cosca allo scopo di realizzare lo sfruttamento economico delle opportunità offerte dalla sviluppo dell’area portuale di Gioia Tauro; nell’ultimo decennio, aveva spostato i propri interessi economici in Toscana».
L’operazione ha portato al sequestro di immobili, società e auto per oltre 43,8 milioni e all’arresto di 5 persone per trasferimento fraudolento di valori. Tra i beni sottoposti a sequestro preventivo – e proprio qui va letto il salto di qualità che la criminalità comune o organizzata è pronta a fare – c’è anche il 66% di una società cooperativa iscritta presso la Camera di commercio di Catanzaro a ottobre 2011 ma formalmente inattiva. Nell’oggetto sociale della coop si legge anche la «gestione di centri di accoglienza per stranieri o persone bisognose». E non è un caso che gli investigatori hanno scoperto che la coop avrebbe dovuto iniziare, a breve, a gestire un albergo finalizzato ad accogliere i migranti. Un segnale allarmante per il colonnello Sebastiano Lentini della Dia di Reggio Calabria «perché dimostra l’interesse a mettere in campo attività con il settore pubblico e le istituzioni». Ed infatti, sempre nell’oggetto sociale della coop, si legge che per raggiungere gli scopi «la società potrà usufruire di contributi, agevolazioni e finanziamenti da parte dello Stato, della Regione, della Ue e di ogni altro ente pubblico e privato». Il tenente colonnello Antonio Raimondo, a capo del Gico della Gdf di Firenze (il Gruppo d’investigazione sulla criminalità organizzata), non sa spiegarsi i motivi per i quali l’albergo che doveva accogliere i migranti non è ancora entrato in funzione. «Forse sono rimasti bloccati dalle indagini che abbiamo avviato due anni fa – spiega al Sole 24 Ore – o erano in attesa di capire con quali istituzioni entrare in contatto per avviare l’ospitalità o forse attendevano il momento congiunturale favorevole». Certo, la crisi tocca ogni settore, compresa l’accoglienza ai migranti.
Per capire il business che può aprirsi per la criminalità (organizzata o no) basti pensare che, solo in Calabria, dal ‘98 a fine agosto 2013 gli immigrati sbarcati sulle coste e successivamente rintracciati sono stati oltre 26 mila. Analizzando i flussi, emerge che il picco massimo è stato raggiunto, dal punto di vista quantitativo, nel biennio 2000-2001 rispettivamente con 5.045 soggetti nel 2000 e 6.093 nel 2001 pari al 45,2% sul totale degli sbarcati. Nell’ultimo periodo, inoltre, la Calabria ha visto incrementare il numero degli immigrati sbarcati sulle sue coste di quasi 6 punti percentuali passando da 1.944 immigrati del 2011 ai 2.056 del 2012.
Il business al momento è tutto calabrese, come conferma il colonnello Francesco Fallica, ora all’Interpol, e fino a due mesi fa comandante della Guardia di Finanza di Ragusa, provincia presa anche ieri d’assalto dagli sbarchi e che, tra le altre cose, ospita il centro di accoglienza di Pozzallo. «Quello che sta emergendo dalle indagini di Firenze e Reggio Calabria – spiega Fallica al Sole-24 Ore – non ha precedenti in Sicilia. È incredibile. A Ragusa finora non sono state neppure mai scoperte organizzazioni criminali che veicolassero i migranti verso attività illecite anche se vale il motto “mai dire mai”».
Quel che in Sicilia è “mai dire mai” in Calabria, spesso, è già realtà.

Il Sole 24 Ore 01.10.13

“Dal caos alla follia così ci vede il mondo”, di Beppe Severgnini

Occorre spettacolare incoscienza, e notevole miopia, per non vedere le conseguenze di una crisi di governo. Con i conti pubblici in affanno, alla vigilia della legge di bilancio, con un elettorato spaccato in tre e senza una legge elettorale che garantisca un vincitore, chi correrebbe un rischio del genere?
La risposta la conosciamo. La conosce anche l’opinione pubblica internazionale, e aspetta di vedere come va a finire. Ma non ha né molto tempo né grande pazienza, stavolta. Enrico Letta era appena stato a Londra e New York, cercando di spiegare e rassicurare. Quello che è accaduto durante il fine settimana è, per lui e per noi tutti, umiliante e grottesco.
Ai nostri rappresentanti, che domani decideranno del futuro del governo, possiamo solo chiedere d’essere responsabili, per una volta. Ma a chi ci guarda da lontano dobbiamo dire qualcosa di più, e dare un motivo di speranza.
Certo, non è facile essere ottimisti davanti a un fuoco di sbarramento di titoli dove, senza distinzioni di latitudine, si ripetono gli stessi vocaboli: precipizio, collasso, scacco, caos, follia. A quanti ci osservano da fuori — per interesse, curiosità o simpatia — dobbiamo però avere la forza di annunciare: signori, è la fine di un’epoca.
L’anomalia italiana rappresentata da Silvio Berlusconi — anomalia sorretta dal voto, non dimentichiamolo — sta per finire. La decisione di creare un proprio partito e scendere in campo risale all’autunno del 1993. Vent’anni dopo quel partito è nominalmente ricomparso, ma il suo leader è l’ombra dell’uomo di allora. L’Italia non è più «il Paese che ama». Se l’amasse, almeno un po’, non lo terrebbe in ostaggio.
La decisione rabbiosa di ritirare l’appoggio al governo — presa insieme a pochi fedeli, resa pubblica in una domenica di pioggia — segna la fine di una stagione. Un finale malinconico per una rappresentazione che ha avuto, agli occhi spietati del mondo, aspetti farseschi: gli scarti d’umore, le virate improvvise, i videomessaggi, i falchi e le colombe, il delfino angosciato (provate a tradurre in tedesco o in inglese «Sarò diversamente berlusconiano»!).
È inutile nasconderselo. In ogni altra democrazia sarebbe inconcepibile che un leader colpito da una condanna definitiva per frode fiscale, e coinvolto in altri processi per gravi reati, possa continuare a dettare condizioni. Fuori d’Italia avrebbero capito — e forse segretamente ammirato — un’uscita di scena dignitosa, accettando le leggi del proprio Paese. Non capiscono invece — non a Londra e non a Washington, non a Berlino e nemmeno a Pechino — che la seconda potenza industriale europea sia in balia dei fantasmi di un uomo «incapace di separare il proprio destino da quello della nazione» (The Guardian ).
Nessun leader, per nessun motivo, può usare la propria gente come scudo. Silvio Berlusconi non è il colonnello Kurtz. Niente Apocalypse Now . L’Italia non vuole l’apocalisse: né ora né mai. Vuole invece vedere l’alba di una convivenza nuova, e deve convincere partner e alleati che manca poco: la notte è stata abbastanza lunga.

Il corriere della Sera 01.10.13

Ghizzoni e Vaccari “L’agenzia delle Entrate rimanga a Mirandola”

Testo dell’interrogazione
Al Ministro dell’economia e delle finanze – Per sapere Premesso che:
In applicazione delle ormai note norme della c.d. spending review, con le quali è stato predisposto un piano di revisione dell’assetto organizzativo degli uffici territoriali dell’Agenzia delle Entrate, il 30 settembre è prevista la chiusura definitiva dell’ufficio Territoriale di Mirandola;

l’ufficio Territoriale di Mirandola è il riferimento per un bacino d’utenza esteso: ad esso, infatti, si rivolgono non solo i “contribuenti” residenti dei 9 comuni dell’area nord modenese (Camposanto, Cavezzo, Concordia, Finale Emilia, Medolla, Mirandola, San Felice Sul Panaro, San Prospero, San Possidonio), ma anche i residenti dei confinanti o vicini comuni della provincia di Mantova che, tradizionalmente, gravitano su Mirandola per i servizi erogati e per la presenza delle scuole medie superiori;

recenti dati dimostrano che l’ufficio Territoriale di Mirandola ha svolto una mole di lavoro considerevole: nel 2011 le pratiche relative agli atti privati sono state più di tremila;

la chiusura di tale servizio penalizzerà pertanto i cittadini dell’area nord modenese, che da oltre un anno e mezzo affrontano peraltro tutti i disagi provocati dal drammatico sisma del maggio del 2012; nel suddetto periodo, l’ufficio ha comunque continuato a funzionare: provvisoriamente trasferimento all’interno della sede dell’Ufficio territoriale di Carpi (a partire dal 26.5.2012), ha successivamente riaperto a Mirandola (dal 16.1.2013), sistemato all’interno di un container messo a disposizione gratuitamente dal Comune, che ne metterà a breve a disposizione un altro, per ampliare gli spazi a favore degli impiegati e degli utenti;

nel corso del 2014 il Provveditorato regionale opere pubbliche effettuerà i lavori di ripristino della originaria sede dell’Agenzia delle Entrate, sita in piazza Conciliazione, cioè nel cuore della città storica di Mirandola: la riapertura dell’Ufficio territoriale in quella sede avrebbe anche sicuri effetti positivi per il centro storico, profondamente ferito dal sisma del maggio 2012 e che, con ogni sforzo, si cerca di riportare alle condizioni di funzionalità e vivibilità precedenti al terremoto;

nei giorni scorsi, si sono svolti incontri tra i sindacati di categoria e la Direzione Regionale e Provinciale dell’Agenzia delle Entrate per trovare ogni utile soluzione a consentire che l’ufficio delle Entrate di Mirandola possa continuare a erogare i propri servizi ai cittadini dell’area nord modenese:-

Se il Ministro interrogato non ravveda la necessità di intervenire affinché i residente dei 9 comuni dell’area nord modenese (82.000 abitanti), che da oltre un anno e mezzo sopportano i gravi disagi provocati dal sisma del maggio 2012, possano continuare a ricevere i servizi erogati dall’Agenzia delle Entrate sul loro territorio non solo come sportello decentrato, ma con tutte le funzioni e le attività che ha sempre svolto.

www.camera.it

“Allarme crisi, sindacati contro”, di Alessandra Ricciardi

I sindacati hanno ben chiari i rischi di una crisi. A partire da quell’ipotesi, che diventa sempre meno remota, di una legge di stabilità scritta dalla cosiddetta Trojka (Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale e Unione Europea), e che non sarebbe assai diversa da una manovra messa a punto esclusivamente da un soggetto ragionieristico (ministero dell’economia) e non anche politico: tagli lineari alla spesa dello stato, con una riduzione degli stipendi dei dipendenti pubblici, se non addirittura (come del resto già avvenuto in Grecia) un licenziamento delle unità ritenute in esubero, dalla sanità alla scuola. É questo uno degli scenari più inquietanti che sta dietro la porta della crisi politica che nei prossimi giorni dovrà essere definita nei suoi contorni e nei suoi sbocchi con il ritorno in parlamento del premier Enrico Letta.

Ieri i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, rispettivamente Susanna Camusso, Raffaele Bonanni, Luigi Angeletti, hanno annunciato la mobilitazione e sottoscritto un documento a sostegno della governabilità del paese. Per spiegare le loro ragioni si preparano volantinaggi nei supermercati e assemblee nei luoghi di lavoro, comprese le scuole. Giovedì a Piombino la prima manifestazione con i segretari generali.

Il documento sindacale rivendica le tre priorità della prossima legge di stabilità: «Restituzione fiscale ai lavoratori dipendenti e ai pensionati; una riduzione fiscale sulle imprese collegata agli investimenti e all’ occupazione; il completo finanziamento della cassa integrazione in deroga e la definitiva soluzione al problema degli esodati e dei precari della pubblica amministrazione, della scuola e della ricerca». Mai si parla di rinnovo dei contratti dei dipendenti pubblici, su cui pure le singole categorie, a partire da quelle della scuola, in queste settimane hanno fatto pressing sul governo. Evidentemente la consapevolezza a livello confederale, anche in casa Cgil, è che si tratta di un obiettivo non perseguibile. Nel riaffermare la necessità di un taglio alla spesa pubblica, essenziale per centrale l’obiettivo del 3% del rapporto deficit/Pil, i tre segretari argomentano la necessità, «abbandonando la dannosa logica dei tagli lineari», di realizzare «un vero riordino istituzionale e una riduzione della spesa corrente attraverso i costi standard, avviando un processo contrattuale di riorganizzazione della pubblica amministrazione». L’unico contratto di cui, almeno fino al 2014, è dato parlare è quello che deve servire a riorganizzare la macchina pubblica. Un invito che è stato rivolto alle stesse categoria perché si facciano promotrici di proposte al governo che sarà. Sembra dunque, se la linea sarà confermata, che anche le richieste legate agli scatti di anzianità nella scuola siano destinate a depotenziarsi. Per cedere il passo a un progetto riformista della macchina pubblica prima che a procedere a riduzioni di spesa siano soggetti esterni.

Intanto la crisi, se non sarà ricomposta e dovesse concludersi con il voto anticipato, minaccia di rendere inutile in questi giorni il lavoro delle camere per la conversione in legge da un lato del decreto sulla razionalizzazione della pa, con le misure per l’avvio della stabilzzazione dei precari pubblici, e dall’altro del decreto scuola. Dal via libera all’assunzione su tutti i posti disponibili nell’organico dei docenti alle misure per il welfare degli studenti, tutto rischia di saltare. «Siamo in prima pagina sul Financial Times con il governo Letta a rischio e siamo anche in prima pagina per la vicenda Telecom: non avrei mai pensato di continuare a finire in prima pagina sul Ft per questo, è un danno di reputazione enorme», ha commentato il ministro dell’istruzione Maria Chiara Carrozza.

da ItaliaOggi 01.10.13

“Il coraggio di salvare la faccia”, di Michele Brambilla

Da quel che se ne sa, l’incontro di ieri pomeriggio fra Berlusconi e i gruppi parlamentari del Pdl è stato più simile a un Politburo che all’assemblea di un partito che vive in una democrazia. Il capo ha parlato permettendo agli altri una cosa sola: di ascoltare. Le domande non erano permesse, le obiezioni men che meno. A Cicchitto che avrebbe chiesto la parola, pare che Berlusconi abbia risposto che se ci si mette tutti a discutere, non si finisce più; e quindi se l’ex capogruppo alla Camera ha qualcosa da dirgli, fa meglio a dirglielo in amicizia, durante una cena, davanti a un buon bicchiere di vino.

Alla fine, Berlusconi ha assicurato che con i ministri e i perplessi del partito «è tutto chiarito». Non sappiamo se sia vero, e se il dissenso sia rientrato a tempo di record. Pare che, in realtà, i contrari alla crisi siano ancora più contrari di prima, per non dire furenti per il trattamento da scolaretti che è stato loro impartito. Bisogna vedere, però, fin dove avranno il coraggio di spingersi.

In questi giorni, infatti, uno spettro si aggira fra tutti coloro che non hanno condiviso il blitz dei falchi ad Arcore.

È uno spettro che ha la forma e la figura di Gianfranco Fini. Troppo fresco è il ricordo del flop dell’ex segretario di Msi ed An. Quando lasciò il Cavaliere, ebbe il plauso della sinistra e di gran parte della stampa: ma non quello degli elettori, l’unico che conta. Fini voleva creare una destra de-berlusconizzata ed è, molto semplicemente, sparito. E perfino Monti, che è Monti, alle urne non ha avuto il risultato sperato.

Insomma è possibile che le cosiddette colombe del Pdl siano tormentate da un interrogativo: se non ce l’hanno fatta loro, perché dovremmo farcela noi? Berlusconi è ancora un grande capo carismatico; i voti li porta a casa lui, non noi. Sembra – la cautela è d’obbligo perché quando si tratta di politica, non c’è mai nulla di definitivo – sembra che sia soprattutto Alfano a temere un fallimento politico, oltre che di passare per traditore. Gli altri sarebbero più determinati a rompere con Berlusconi, ma vorrebbero appunto essere trascinati da Alfano, che è il segretario del Pdl, e quindi darebbe alla svolta un preciso significato politico. E Alfano, come detto, tentenna.

I dubbi sul rischio di sparire e i tormenti del vicepremier sono comprensibili. Ma c’è anche un altro scenario, alternativo a quello di una «fine alla Fini», che Alfano e le colombe dovrebbero prefigurarsi. E cioè: se torniamo ad obbedire come se nulla fosse successo, con quale faccia ci ripresentiamo agli italiani? Solo ieri mattina, i ministri del Pdl avevano emesso un comunicato durissimo, parlando addirittura di «metodo Boffo», un metodo che in serata abbiamo visto riproporsi perfino contro il presidente della Repubblica; poche ore prima erano stati creati nuovi soggetti politici come i «diversamente berlusconiani»; più d’uno aveva escluso di entrare nella neonata, anzi neo-rinata, Forza Italia.

Insomma il dissenso era stato forte e rumoroso. Se ci si rimette in riga solo perché il capo ha intimato di rimettersi in riga, è probabile che ci si garantisca una sopravvivenza: ma con quale faccia si sopravviverebbe, è facile immaginarlo. Tanto più che gli stessi ministri oggi silenziati in un’assemblea da vecchio Pcus (c’è sempre da imparare dai nemici) erano già stati umiliati sabato scorso, quando avevano saputo di doversi dimettersi dalla telefonata di un avvocato del Capo. Neanche dal capo stesso.

Vedremo oggi se davvero la fronda è morta in culla, come sostiene Berlusconi, oppure se i frondisti stanno solo prendendo tempo. Vedremo. Vorremmo però solo aggiungere una cosa. In questa partita non sono in gioco solo la leadership di Berlusconi e il domani di chi non sa se osare o meno un dissenso. È in gioco l’Italia, o almeno una buona parte del futuro dell’Italia. Ieri, ricordando il 25 luglio, abbiamo scritto che allora ci furono uomini che, pur sinceramente devoti a Mussolini, non esitarono ad anteporre a quella devozione l’interesse dell’Italia. Oggi non si chiede di porgere ai fucili la schiena, come capitò a Ciano che del Duce era addirittura il genero; ma almeno di preservare la faccia.

La Stampa 01.10.13