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“Diversamente grillini”, di Michele Prospero

Nessun patteggiamento, ripete Grillo mentre la crisi spalanca attimi di panico sul destino del Paese. In piena crisi di sistema, dalle istituzioni messe sotto scacco da Berlusconi alla tenuta sociale ed economica, rifiutare di entrare nei giochi istituzionali è indice di una mentalità, non antipolitica, ma impolitica. Si può anche sostenere che Pd e Pdl sono tra loro eguali. Che tra destra e sinistra nessuna differenza più corre ormai. Si può asserire con sommo disprezzo che le larghe intese siano state una vera sciagura. Che nelle sorde aule del Palazzo ogni vento di novità è soffocato. E tanto vale spostarsi sui tetti di Montecitorio a sventolare bandiere. Ma dopo la denuncia irriverente, dopo il gesto simbolico viene pur sempre il momento della responsabilità. Almeno dovrebbe subentrare. Per chi fa politica, in qualsiasi campo della lotta si collochi, persino nella trincea estrema, esiste dopo la battaglia più irriducibile anche il tempo della condivisione di un terreno comune. È quello che i grandi classici del realismo politico, da Machiavelli a Weber, chiamano il senso della responsabilità verso il mantenimento delle condizioni minimali del vivere sociale e politico. Se proprio questo parziale momento della convergenza sul bene pubblico assunto come avamposto da preservare ad ogni costo viene meno, la prospettiva attesa con una insana ansia salvifica diventa quella della catastrofe che inauguri la distruzione dello Stato e la rivolta incendiaria degli esclusi. Ma non si può fare politica coltivando il progetto di una casa che brucia lasciando dietro solo cenere e disperazione. A meno che non si intenda assumere le stesse corde identitarie dei movimenti della destra più radicale, un ponte tra conflitto e compromesso va postulato come una normale risorsa della politica che costruisce ordini. Rinunciare, per una pretesa scelta di principio non rivedibile, alla contrattazione dopo la lotta, al negoziato dopo la zuffa, significa uscire dal terreno della politica che, per essere tale, non può recidere il suo ineliminabile spirito costruttivo, da far valere anche nelle condizioni più tragiche. Lo diceva con finezza Machiavelli. «A uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo». E cioè tocca in ogni tempo dosare con efficacia il conflitto più radicale con le risorse del consenso, la disputa più intransigente e la resa dei conti più sbrigativa con la tenuta di un ordine politico condiviso.
Quando Grillo disdegna, nientemeno lo fa per una sacra opzione di valore, il possibile compromesso con i nemici, o irride alle figure istituzionali di garanzia ed equilibrio, mostra di prediligere lo scontro come ginnastica perenne o l’instancabile prova di forza come il solo connotato dell’agire politico. «Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano», ammoniva però Machiavelli. E chi se ne intende, qualcuno sembra pur esserci nel M5S, dovrebbe battersi per non spegnere le ragioni della politica, che non tollerano l’inesorabile distruzione di ciò che esiste in nome di un’assoluta volontà di non contaminazione con «la casta».

Dopotutto l’intransigenza di Grillo che rigetta il negoziato con chiunque, che non vuol sentir argomenti nei processi di formazione dei governi, non è così eticamente innocente. È infatti evidente che il rifiuto di siglare un compromesso con le forze democratiche, dinanzi a un Berlusconi che dà fuoco alla Repubblica per assecondare le sue ire distruttive, significa soltanto conferire un pazzesco plusvalore politico al Cavaliere della totale distruzione. Il diniego del negoziato con chi, tra gli errori e le mosse sbagliate che sempre sono oggetto di una critica valutazione, difende la legalità repubblicana coincide soltanto con l’offerta di un tonico di inestimabile significato alla destra distruttiva di Berlusconi.

Quando Grillo grida che nessun patteggiamento egli consentirà ai suoi rappresentanti, non rimane affatto equidistante tra le parti in causa. Toglie di sicuro, con il suo accanito gran rifiuto, dei margini preziosi alle forze della residua lealtà costituzionale e, di contro, rinvigorisce l’animo e le truppe di un Caimano che intende bere il nettare dell’impossibile rinascita sul cranio di una Repubblica uccisa. Se una dialettica democratica si aprirà dentro un non-partito premiato dal 25 per cento degli elettori, molto diversa diventerà l’evoluzione della crisi. Ma il comico genovese rinuncerà a fare il gendarme del Cavaliere consentendo ai suoi deputati di essere diversamente grillini?

L’Unità 01.10.13

“La tempesta perfetta”, di Nicola Cacace

Un Paese che resta senza governo in una crisi sociale come questa è come una nave che resta senza timone nel pieno di una tempesta. Le speranze che non affondi si riducono a pochi spiccioli di probabilità. Questa immagine dovrebbero avere davanti agli occhi quanti in queste ore hanno la responsabilità ed il potere di evitare la crisi di governo.
Qui non si tratta più di Imu e di Iva, cose pur importanti al cui confronto le nuove problematiche sono milioni di volte più importanti, qui si tratta del sangue e della carne di milioni di italiani, dai giovani senza futuro che guardano oltre frontiera ai milioni senza lavoro e senza cassa integrazione, dal 30% delle famiglie del Sud che navigano in mare di povertà ai milioni di famiglie di Nord, Centro e Sud, che già non arrivano a fine mese, dai milioni di artigiani che lottano per non chiudere alle grandi aziende in crisi o in cassa integrazione, Ilva, Terni, Merloni, Fiat, dalle migliaia di piccole imprese strozzate da scarsa domanda e crediti zero alle grandi aziende che sono già diventate o stanno per diventare straniere, Telecom, Alitalia – al proposito voglio dire «meglio mani straniere competenti che imprenditori italiani furbetti ed incapaci».
Qui non si tratta più solo del milione di esodati che da Fornero in poi non sanno più come sopravvivere cinque anni senza paga e senza pensione, ma dai più di centomila giovani di élite che già oggi annualmente lasciano un Paese ingrato e stupido per arricchire praterie straniere. E per il Paese più vecchio del mondo come l’Italia, che da decenni ha dimezzato le nascite, da un milione a mezzo milione l’anno, questo flusso delle poche energie giovani ed acculturate che non si riesce ad impiegare decentemente in casa è il peggior delitto che un paese possa compiere, non solo verso i giovani ma verso se stesso!
Il bilancio della classe dirigente degli ultimi decenni, Berlusconi in testa, è stato così fallimentare che basta il dato dell’occupazione per dimostrarlo. L’Italia riesce ad occupare solo il 55% della sua popolazione in età di lavoro, mentre l’Europa ne occupa il 65% ed i Paesi nordici vanno addirittura oltre il 70%: in pratica da noi si costringono almeno 4 milioni di cittadini a restare inattivi, una cifra che si deve appunto ai 10 punti di differenza rispetto al tasso di occupazione europeo.
Anche se questo buco enorme di occupati dipende in gran parte dalla stupidità dei nostri dirigenti, imprenditori, politici ed anche sindacalisti, che mentre in altri Paesi si prendevano decisioni per redistribuire il lavoro disponibile, che è sempre meno per i bassi tassi di crescita delle economie avanzate e l’elettronica che brucia più posti lavoro di quanti ne crea, da noi si faceva il contrario, defiscalizzando gli straordinari (mentre in Germania lo sostituivano con la banca delle ore, in Francia con le 35 ore, in Olanda col part time, etc.), il problema non cambia. C’è solo la stranezza che nel Paese dei disoccupati si fanno lavorare i «pochi fortunati» quasi 1800 ore l’anno, mentre nei Paesi della quasi piena occupazione i «molti fortunati» lavorano meno di 1500 ore. E questo significa almeno 3 milioni di occupati in meno se avessimo gli stessi orari.
Se ad una nave già abbastanza scassata come l’Italia, Paese vecchio ed a bassa innovazione (a differenza della Germania che è vecchia come noi ma molto più innovativa) si toglie anche il timone del governo, in un mare in tempesta come questo, ogni possibilità di approcciare un porto di salvezza si vanifica.

Oltre a tornare di nuovo sotto il tallone di Bruxelles per i conti, chi non fa tutto il «decoroso» possibile per non lasciare la nave senza timone nel mare in tempesta si prende la responsabilità storica di accelerare le pene e la fine di un Paese già sofferente.

Qui non si tratta solo di ridurre l’esodo dei giovani migliori, di aiutare gli esodati a raggiungere vivi l’agognato porto della pensione, di ridurre le pene di operai ed imprenditori, di aiutare milioni di famiglie in povertà nera, di abbozzare un minimo di politica industriale per salvare in extremis quel poco rimasto.

Qui si tratta di salvare, meglio di non peggiorare le pene dell’Italia che soffre, quei due terzi di 61 milioni di cittadini che la crisi ha già molto impoverito, mentre l’altro terzo diventava più ricco, quell’Italia dei tanti bisogni che ogni giorno papa Francesco ci ricorda di mettere in testa al nostro impegno civile e politico.

L’Unità 01.10.13

“Le carrette di Caronte”, di Adriano Sofri

Nelle prime fotografie sono ancora pochi e disordinati, scoperti, supini con le braccia spalancate, in croce sulla sabbia. Nelle ultime sono allineati in un ordine pietoso, avvolti in lenzuoli bianchi. Coi piedi che fuoriescono, e lasciano vedere che qualcuno ha le scarpe, qualcuno una sola o nessuna. Come mai non hanno tolto le scarpe, prima di buttarsi? Forse non ne hanno avuto il tempo, forse hanno pensato che andare finalmente verso la nuova vita senza scarpe sarebbe stato troppo svantaggioso, o vergognoso. Sono tutti uomini, i testimoni dicono che alcuni dei morti avevano cercato di aiutare i compagni di viaggio. Sono tredici, ma si dice che ci sia un quattordicesimo morto, lo cercano: annegare in tredici, non sta bene. Molti, a riva, sono scappati, ne hanno ritrovati 70, anche una decina di bambini, una donna incinta ed esausta, un’altra donna. Uno, scappando, è stato investito da un’auto. Povero lui, disgraziato anche l’autista. E questo da dove sbuca? – si sarà chiesto. Dall’Eritrea, sbucava dall’Eritrea. È arrivato fino all’appuntamento con l’auto, pirata per giunta, dicono le cronache.
La conosco la spiaggia di Sampieri, ci ho fatto il bagno, tornavo da Scicli. Tutte le civiltà hanno concorso a fare Scicli bellissima, anche i cartaginesi, anche gli arabi. L’Africa era vicina. Sampieri la conoscono in tanti, c’è “u stabbilimientu bbruciatu”, il rudere della Fornace Penna, una delle stazioni del tour di Montalbano, che si conclude al faro di Puntasecca. Sampieri era un paesino di pescatori, ha una lunga spiaggia arrotondata, il 10 agosto ci vanno i ragazzi a migliaia, forse a vedere le stelle cadenti, la gente si lamenta della
monnezza che lasciano. Ora la gente è corsa ad aiutare questi naufraghi in cento metri di mare: “sedicenti eritrei”, ha scritto qualche cronaca trafelata. Un carabiniere, il maresciallo Carmelo Floriddia, si è prodigato nel salvataggio. Era in servizio: “Avrei fatto lo stesso se fossi stato in borghese”, ha detto.
La gente ha visto gli scafisti frustare e bastonare i loro passeggeri perché si buttassero in acqua.
Ho riguardato il Caronte di Michelangelo, che percuote con il remo i dannati, scaraventati giù dalla barca, in balia di Minosse. Scena grandiosamente terribile, ma i poveri dannati avevano a che fare là con demonii mostruosi, brutali o grotteschi. Quando succedono davvero, le cose, e i dannati non sono dannati se non dalla sorte e dalla cospirazione di tanti loro simili, Caronte e aiutanti sono ridotti a piccoli infami, somiglianti a tutti gli altri. E nemmeno: “Siccome sono più forte di lui, l’ho fermato”, ha detto il maresciallo. Un momento dopo aver flagellato i propri trasportati erano già difficili da riconoscere, se non avessero avuto l’atteggiamento vile. Ripugnanti. Però nell’ordine della disgrazia, nell’ordine del giorno gli annegati sono gli ultimi, i superstiti i penultimi, e gli scafisti i terzultimi. C’è una lunghissima strada d’acqua e di deserti da fare a ritroso per arrivare ai terzi e ai secondi e ai primi. Il primo, in Eritrea, si chiama Isaias Afewerki, fu un valoroso combattente per l’indipendenza, poi ha preso il potere e instaurato un governo provvisorio: vent’anni dopo, è ancora là, provvisoriamente. Partito unico, neanche la finzione di elezioni. L’alibi è la guerra. Quella con l’Etiopia si concluse ufficialmente nel 2000, con 70-80 mila morti tra le due parti, in tre anni. In realtà non è mai finita. La sua Eritrea è una caserma-prigione. Il servizio militare obbligatorio per donne e uomini è in realtà un regime di lavori forzati a tempo indeterminato. Sotto i cinquant’anni è praticamente impossibile uscire legalmente dal paese. Chi protesta e cerca di evadere finisce ammazzato o torturato nelle galere segrete. Ci sono migliaia di prigionieri che non hanno mai avuto un processo. Chi riesce ad andare lontano – dopo aver attraversato il Sudan, e il deserto, e la Libia, e il mare; oppure il Sinai egiziano, e Israele; oppure Aden e la Turchia e la Grecia; oppure il Qatar, passando dal Nepal (!) – vive nel terrore d’esser rimandato indietro. E se da qualche parte arriva, la sua famiglia deve temere la rappresaglia. Nell’elenco dei cittadini eritrei inghiottiti dal nulla occupano uno spazio ingente i giornalisti. Reporter senza frontiere pensa che per la libertà delle comunicazioni l’Eritrea stia all’ultimo posto, sotto la Corea del Nord. In Libia c’erano, e ci sono ancora, migliaia di eritrei prigionieri. Nel Sinai c’è una vasta industria del sequestro nei loro confronti, a scopo di lucro: riscatto da estorcere ai parenti in Europa, magari smercio di organi. Le donne sono preziose ovunque, in patria e fuori, a scopo di stupro.
L’Italia ebbe colpe imperdonabili, in Abissinia. Il generale Rodolfo Graziani fu prodigo di iprite e di fosgene, e fu entusiasta della loro efficacia. Oggi l’Italia ha rapporti eccellenti col governo eritreo.

La Repubblica 01.10.13

“Storia minima dell’aumento dell’IVA fra il 2011 e oggi, ovvero ricordiamoci che l’aumento dell’IVA fu introdotto da Berlusconi nell’estate del 2011”, di Marco Causi

L’aumento dell’IVA è una questione che ha una sua storia. Una storia che ci permette di ricordare e ricostruire alcuni dei passaggi più drammatici della vita politica ed economica italiana negli ultimi due anni. E di apprezzare, quindi, il punto in cui siamo oggi, molto migliore di quello di due anni fa, grazie ai tanti interventi messi in campo, prima, dal Governo Monti e, poi, dal Governo Letta. Un punto che avrebbe potuto ulteriormente migliorare se i parlamentari e i ministri del PDL, con le loro sciagurate dimissioni, non avessero interrotto l’azione del Governo.
La storia ha inizio nel luglio del 2011, con il decreto-legge n. 98, il primo tentativo del Governo di allora di porre un argine alla crisi finanziaria che aggrediva l’Italia mettendola a rischio di insostenibilità per effetto del suo ingente debito pubblico. Si stabilì – con il voto contrario del Partito Democratico – di prevedere un taglio per 4 miliardi nel 2013 e per 20 miliardi nel 2014 a carico della spesa sociale e dei regimi di esenzione e agevolazione fiscale sovrapposti alle prestazioni assistenziali.
Un mese dopo, nell’agosto 2011, con un successivo decreto emergenziale, il decreto-legge n. 138, nel disperato tentativo di recuperare credibilità, si anticipò di un anno, dal 2014 al 2013, l’obiettivo del pareggio di bilancio in termini strutturali, e si stabilì che i tagli alla spesa sociale e assistenziale, diretta o indiretta, dovessero essere di 4 miliardi non più nel 2013 ma nel 2012 e di 16 miliardi non più nel 2014 ma nel 2013. Come clausola di salvaguardia, si introdusse in alternativa e in assenza di questi risparmi l’aumento delle aliquote IVA.
Il PD si oppose a quelle misure, proponendo invece un aumento delle imposte patrimoniali sugli immobili e sulle ricchezze finanziarie. Il PD, invece, aderì dall’opposizione, con responsabilità, all’altra richiesta del Governo di allora e cioè di mettere in atto una riforma, anche costituzionale, relativa ai principi di equilibrio del bilancio, su cui il Governo italiano si era impegnato nelle sedi europee e internazionali, forse sperando che l’adesione a una più forte disciplina a lungo termine potesse sostituire le difficoltà di azione nell’immediato per mettere in atto le manovre di aggiustamento. Quella riforma oggi è attuata, con il nuovo articolo 81 della Costituzione e la nuova legge rafforzata di bilancio.
Dopo tre mesi, un nuovo Governo, presieduto da Mario Monti, nel decreto cosiddetto «salva Italia» nel novembre 2011, salvò dai tagli indiscriminati le spese sociali e assistenziali, varando una riforma dell’ISEE il cui decreto di attuazione sta per essere definitivamente pubblicato in Gazzetta Ufficiale in questi giorni.
Il «salva Italia» introdusse invece un aumento rilevante dell’imposizione patrimoniale su immobili e ricchezze finanziarie (depositi e titoli) e, per chiudere i conti di quella drammatica manovra, fissò l’incremento delle aliquote IVA del 10 e del 21 per cento, che sarebbero dovute passare al 12 e al 23 per cento a partire
dal 1° ottobre 2012 e al 12,5 e al 23,5 per cento dal 1o gennaio 2014.
La storia dei successivi diciotto mesi, gli ultimi, dal dicembre del 2011 a oggi, racconta l’impegno a trovare coperture alternative a questi aumenti dell’IVA. Nel decreto n. 95 del 2012 l’incremento del 2 per cento viene posticipato al luglio del 2013 e ridotto l’aumento a partire dal 1o gennaio 2014. Alla fine, la legge di stabilità 2013, nel dicembre dello scorso anno, è riuscita, grazie agli interventi messi in atto durante tutto il 2012 sia sulle spese (pensioni, spending review) sia sulle entrate, a limitare l’aumento dell’aliquota ordinaria – previsto per il 1o luglio 2013 – dal 23 al 22 per cento e a cancellare del tutto gli aumenti programmati sull’aliquota ridotta al 10 per cento. Il decreto 76 del luglio 2013, infine, posticipa di tre mesi l’entrata in vigore dell’aumento dal 21 al 22 per cento.
Insomma: da aumenti dell’IVA previsti dal 10 al 12,5 per cento per l’aliquota agevolata e dal 21 al 23,5 per cento per quella ordinaria, dobbiamo oggi confrontarci soltanto con l’aumento dal 21 al 22 per cento dell’aliquota ordinaria. Si potrebbe dire che siamo quasi all’ultimo miglio, ma al tempo stesso è importante non dimenticare quanta strada abbiamo percorso, anche per non dissiparne i risultati.
Il nuovo decreto che il Governo aveva predisposto, e la cui approvazione è stata bloccata dalle dimissioni dei parlamentari del PDL, contiene un nuovo rinvio di tre mesi, finanziato con l’aumento delle accise sulla benzina. Se si volesse davvero evitare in modo permanente quest’ultimo aumento dell’IVA – che è la coda finale lasciataci in eredità dall’incapacità di Berlusconi e del centro-destra di affrontare la grave crisi dell’estate del 2011 – occorrerebbe peraltro aprire una discussione onesta e libera da ideologismi e strumentalizzazioni. A regime, non è affatto detto che coprire il mancato aumento dell’IVA con le accise sia una buona soluzione. Se ne possono trovare di migliori, come ad esempio interventi selettivi sulla distribuzione dei prodotti fra le diverse aliquote, oppure ancora la permanenza di una “coda” IMU sulle unità immobiliari di maggior pregio.

“La militanza non esiste più ora l’impegno è occasionale”, di Paolo Rigi

Le iniziative culturali, del «loisir» e sportive sono gli ambiti cui più volentieri partecipano gli italiani. Tuttavia non disdegnano di impegnarsi anche nelle problematiche relative al territorio in cui vivono, piuttosto che nel volontariato sociale.
Meno frequentate, invece, le attività legate alla politica, alla protesta o ai temi della Pace. Prendono parte maggiormente a queste attività, in generale, la componente maschile, i più giovani (fino a 34 anni) e i più adulti (oltre 55 anni), chi risiede nel Nord Est, chi fa un lavoro in proprio, i pensionati e gli studenti. Soprattutto, il nucleo dei cosiddetti «militanti» che si dedica esclusivamente alle attività di un’associazione è una quota marginale (0,8%), mentre numericamente più consistenti sono coloro che partecipano non in modo esclusivo (interessati: 21,6%) o solo saltuariamente (occasionali: 68,5%).
È questa la mappa sull’impegno sociale e il profilo di chi partecipa alle loro attività, secondo la ricerca Community Media Research – Questlab per La Stampa.
La graduatoria Un primo aspetto d’interesse proviene dagli ambiti tematici della partecipazione. Le manifestazioni culturali (59,3%) assieme a quelle dello sport (52,1%) risultano collocarsi in cima alle preferenze degli italiani. Se questo secondo ambito d’attività è tradizionalmente quello più frequentato, è interessante sottolineare come il variegato mondo delle iniziative culturali costituisca un polo di attrazione assolutamente significativo.
Evidentemente, esiste una domanda diffusa – in senso ampio – di cultura, di approfondimento o anche solo estetica che richiede nuovi percorsi e nuovi approcci. Basti solo rinviare ai successi crescenti delle mostre, o al moltiplicarsi delle occasioni dei festival su diversi argomenti.
Non molto distanti, incontriamo poi la partecipazione alle iniziative legate ai problemi dell’ambiente e della salute (49,2%), ai mondi del volontariato sociale (49,1%), al territorio o alle città in cui si vive (40,9%): dunque, ambiti d’impegno legati alla valorizzazione o alla difesa del proprio ambiente, alla costruzione di reti di solidarietà.
Seppure di altra modalità, tuttavia è interessante osservare come una quota rilevante di cittadini si impegni attivamente in iniziative come le sagre o le feste paesane (44,3%). Attività che negli anni recenti si sono assai diffuse sul territorio e, seppure con valenze diverse, non per questo risultano meno importanti nella costruzione del capitale sociale. Più spesso, infatti, si tratta di iniziative volte a raccogliere fondi per le comunità locali, fino a quelle di rievocazione storico e di recupero delle tradizioni.
Se escludiamo quanti partecipano ad associazioni di carattere professionale o di categoria (30,4%), l’ambito della politica in senso generale è quello meno frequentato, benché circa un terzo (35,6%) degli interpellati abbia partecipato a iniziative promosse da partiti o movimenti politici. Ciò non significa che siano militanti: si tratta di cittadini che per interesse personale hanno assistito ad alcune di queste occasioni.
Lo fanno 9 su 10 Solo un decimo degli intervistati (9,1%) dichiara di non aver partecipato ad alcuna iniziativa nell’arco dell’ultimo anno. Quanti restano ai margini di quest’aspetto della vita sociale sono soprattutto la componente femminile (12,5%), le fasce d’età più attive sul lavoro (da 35 a 44 anni: 15,0%; da 45 a 54 anni: 12,8%), i dirigenti e i tecnici (19,4%) e le casalinghe (16,2%).
Quindi, le fasce centrali della popolazione più impegnate sul lavoro, le donne e le casalinghe hanno minori occasioni di sperimentare una partecipazione attiva.
Se una quota analoga (11,3%) è entrato in contatto con una sola iniziativa, è interessante osservare come siamo in presenza di un fenomeno di partecipazione diffusa e, di conseguenza, meno continuativa nel tempo. Si partecipa molto, ma si aderisce poco. In altri termini, esiste un fenomeno di pendolarismo associativo, dove una parte rilevante della popolazione transita in più luoghi, non necessariamente vicini tematicamente, sulla base di specifiche istanze o interessi.
Così, nell’ultimo anno il 32,4% ha frequentato da due a quattro iniziative e ben il 47,1% più di cinque. Da un lato, la molteplicità dell’offerta associativa e di occasioni spinge le persone a scegliere di volta in volta ciò che attrae o interessa maggiormente. Dall’altro, diventa più difficile catturare l’attenzione e un impegno per lungo tempo, perché le progettualità individuali oggi si fanno più corte e più orientate pragmaticamente.
I profili di chi si mobilita Il fenomeno del pendolarismo associativo, si rispecchia anche nel profilo dei partecipanti. Come già detto, circa un decimo degli intervistati non partecipa ad alcun ambito associativo («Assenti»: 9,7%). La quota prevalente (68,5%) ha una partecipazione «occasionale», ovvero circa una volta l’anno. Gli «interessati» (partecipano almeno 2-3 volte l’anno) rappresentano il 21,6%. Infine, i «militanti» (partecipano tutti i mesi) costituiscono una quota largamente marginale (0,8%).
Dunque, le associazioni possono contare su bacini sempre più ristretti di persone che stabilmente prestano la loro opera. Per converso, cresce il noverodi persone aggregabili su azioni specifiche o su iniziative particolari, sia sotto il profilo tematico chedel tempo.
Sono questi i tratti principali delle nuove forme di partecipazione. Il livello di identificazione e di appartenenza esclusivo a una sola associazione (militanti) tende a ridursi, mentre cresce la quota di quanti partecipano attivamente, ma non in modo continuativo (interessati).
Più ampio è, poi, il numero di persone che si mobilita, ma sporadicamente (occasionali) e su un numero plurale di occasioni associative. Quindi, la cifra della partecipazione è caratterizzata da una minore appartenenza esclusiva, ma per converso da una partecipazione plurale e con identificazioni parziali.

La Stampa 30.09.13

“Vietato votare col Porcellum”, di Massimo Luciani

Parlare di crisi al buio non è mai stato più giustificato di oggi. È tanto al buio che non si sa neppure se formalmente si aprirà, visto che sono percorribili sia la strada delle dimissioni del presidente del Consiglio che quella di un semplice rimpasto. Ma questo è niente. Si sa ben poco di quale potrà essere lo scenario politico nel caso in cui la crisi non si risolvesse e si andasse alle elezioni.

Fanno francamente sorridere le cronache che parlano di qualche leader intento a scrutare i sondaggi, quando dovrebbe essere evidente che nessun sondaggio è affidabile in un momento come questo, nel quale le variabili indeterminate sono troppe, dal risultato della discussione interna al Pd alla tenuta di un partito come il Pdl, umiliato sino al punto di vedere la sorte dei propri ministri decisa in una riunione cui non partecipava il segretario.

Nella prospettiva del sistema istituzionale, però, qualche punto fermo è ragionevole indicarlo. Anzitutto, non si può dimenticare che l’articolo 67 della Costituzione è tuttora in vigore e che, quindi, il mandato parlamentare è libero. Lo è perché quella stessa disposizione costituzionale vuole che i parlamentari, pur nella diversa appartenenza politico-partitica, rappresentino la nazione, i suoi interessi generali.

Questa legislatura mostra bene perché la libertà del mandato abbia una funzione di garanzia costituzionale: quando ci sono partiti nei quali la dialettica interna manca, o non è regolata in forme autenticamente democratiche, nei quali basta la telefonata o il tweet del leader per definire una linea politica, agli elettori deve essere garantito che i loro eletti recuperino sul terreno del dialogo parlamentare il confronto pluralistico che è stato cancellato sul piano della vita partitica. E questo vale, ovviamente, anche di fronte alle crisi di governo. Un’altra certezza è che, anche qualora la legislatura non si salvasse e si andasse ad elezioni anticipate, non si potrebbe votare con l’attuale legge elettorale. Le ragioni sono almeno due. La prima è la più nota: una legge gravemente sospetta di illegittimità costituzionale e che consente l’attribuzione di un premio di maggioranza abnorme non può continuare a determinare la costruzione della rappresentanza politica in un Paese di democrazia consolidata come l’Italia. Lasciamo pure stare il rischio che la Corte costituzionale la dichiari illegittima. Anche se questo non accadesse le cose non cambierebbero, perché il problema politico di fondo è che l’opinione pubblica non reggerebbe una nuova tornata elettorale con regole così diffusamente detestate. La seconda è che la legge Calderoli rischia di produrre ancora una volta un risultato politico paradossale. Sappiamo tutti, infatti, che alla Camera il premio è nazionale, sicché chi lo conquista ha la maggioranza assoluta (anzi, qualcosa in più). Sappiamo anche, però, che al Senato è regionale, sicché alla lotteria del premio regionale può capitare di vincere o di perdere, e magari di perdere dopo che si è vinto quello nazionale alla Camera. I tormenti della legislatura in corso dipendono anche da questa irrazionalità di fondo della legge, che riconosce premi che sono, allo stesso tempo, eccessivi e inutili. La logica del premio, infatti, è che lo si dà per governare. Che senso ha dare premi quando non è detto affatto che una maggioranza di governo riesca, così, a formarsi?
Una soluzione radicale del problema si potrebbe avere solo con una riforma costituzionale che trasformasse il Senato in camera delle autonomie e lasciasse alla Camera dei deputati il rapporto di fiducia con il governo. Tuttavia, già a Costituzione invariata qualcosa si potrebbe fare, almeno correggendo l’errore che si commise nel 2005, quando si disse che al Senato il premio avrebbe dovuto essere regionale perché la Costituzione prevede che quella camera sia eletta – appunto – «su base regionale». Come, inascoltato, qualcuno di noi costituzionalisti aveva osservato già allora, la Costituzione è perfettamente rispettata se il premio ha una misura nazionale, ma viene semplicemente distribuito su base regionale.

Una crisi al buio, insomma. Ma le compatibilità costituzionali e della razionalità politica sono luci segnapasso che potrebbero evitare di cadere nel baratro (o di non riuscire ad uscirne, visto che, probabilmente, nel baratro ci stiamo già).

L’Unità 30.09.13

“Già concessi oltre 162 milioni di contributi”, di G.V. da La Gazzetta di Modena

Giovedì, alle 11.30 a Solara in via 1° maggio, si terrà la presentazione del progetto di ricostruzione della scuola primaria. L’edificio, che rinascerà grazie alle risorse della Regione, ma anche grazie alle donazioni di Sanofi Italia, Croce Rossa e privati cittadini, potrà ospitare 125 alunni e sarà dotato di cinque aule, due laboratori, una sala insegnanti ed una mensa. Interverranno il sindaco, l’ad di Sanofi Zanni, il presidente regionale Cri Scavuzzo e l’assessore regionale ala scuola Bianchi.
Sono oltre 12mila i cittadini, per un totale di più di 7 mila unità abitative, coinvolti nelle pratiche Mude (Modello unico digitale per l’edilizia) accettate dai comuni per il contributo alla riparazione o alla ricostruzione delle abitazioni, mentre più di 1800 sono le imprese che hanno a che fare con le procedure Sfinge. Per quanto riguarda le abitazioni, i dati estrapolati dal sistema registrano circa 2700 richieste di contributo in lavorazione da parte dei professionisti e dei comuni, a cui vanno aggiunte altre 2556 domande già depositate presso i comuni stessi. Le ordinanze di contributo concesse ammontano a 1623, per un importo di quasi 162 milioni 500 mila euro. Le imprese che hanno fatto domanda tramite il sistema telematico Sfinge sono invece 415, per un valore di 290 milioni complessivi. Gli uffici della Regione hanno incontrato finora 550 aziende, mentre 107 sono i decreti approvati, per un totale di 47.2 milioni. «La macchina della ricostruzione è definitivamente decollata e cominciano a vedersi i primi importanti risultati – afferma l’assessore regionale alle attività produttive Gian Carlo Muzzarelli – Nostro compito rimane quello di lavorare a stretto contatto con enti locali, professionisti, imprese e cittadini, al fine di accelerare le pratiche edilizie e di concessione dei contributi. In particolare, stiamo agendo in due direzioni: da un lato, tramite una nuova ordinanza già al vaglio della Corte dei Conti, si cerca di semplificare le procedure di domanda per i condomini, di consentire il cambio di proprietà nei centri storici finalizzato all’affitto concordato e, per tenere conto della crisi di liquidità degli studi tecnici, di riconoscere al professionista il 50% della parcella ammissibile con l’approvazione della pratica di contributo; dall’altro lato stiamo invece completando l’iter per l’assunzione di nuovo personale nei comuni: la gara per la selezione dell’agenzia si è conclusa ed il decreto di assegnazione è stato emanato, entro poche settimane gli enti potranno lavorare a pieno regime».

La Gazzetta di Modena 30.09.13