Latest Posts

“E’ uno schiaffo alle famiglie e alle imprese”, di Carlo Buttaroni

Questa crisi, voluta da Berlusconi, è una storia di straordinaria follia. L’ultimo segmento del progressivo dissolvimento dei poteri e confini della politica. Il down rating morale e civile di un Paese, che dopo aver coltivato il grande sogno di un nuovo miracolo, si ritrova nuovamente nel tunnel di incertezza da cui sembrava, faticosamente, iniziare a uscire. Non c’è «politica», in questa crisi. E per molti versi è proprio la sua assenza a renderla incomprensibile al buon senso. Così come non c’è «economia», subordinata a interessi che di «comune» hanno ben poco. C’è, invece, il distacco definitivo tra il Paese reale, costretto ogni giorno a presentare i suoi conti, e il Paese legale incapace di ascoltarne i drammi e di accoglierne i bisogni. Qualunque siano gli esiti di questo nuovo terremoto, la questione non è se conviene tornare al voto subito, andare avanti qualche mese con un governo tecnico, oppure tentare l’esperienza di una nuova maggioranza parlamentare. Perché il dramma che si sta consumando in queste ore è nel colpo inferto alle famiglie, alle imprese, ai giovani. Ai quali è stato detto, inequivocabilmente, che i loro problemi sono subordinati a una lista d’attesa surreale, lontana anni luce dagli affanni di un Paese stremato e senza riserve d’energia. Un Paese dove il contatore dei fallimenti gira a velocità massima, dove il numero delle famiglie povere o quasi povere, in pochi anni, è pressoché raddoppiato e dove diminuiscono i redditi e si amplificano le disuguaglianze. Se l’aumento dell’Iva era una bomba a orologeria lanciata nelle retrovie di una ripresa probabilmente troppo fragile per sopportarne l’onda d’urto, l’idea di disinnescarla con un’esplosione ancora più potente rischia di mettere il Paese definitivamente in ginocchio.

SERVE BUONA REPUTAZIONE Anche perché, le fragili attese di una ripresa economica sono inevitabilmente legate all’affidabilità dell’Italia e alla sua capacità di recuperare una «good reputation» verso gli investitori stranieri. E la crisi politica che si è aperta mette in contabilità negativa anche quest’obiettivo. D’altronde, chi si occupa di selezionare i Paesi in cui realizzare gli investimenti, ha bisogno di avere garanzie di stabilità, buona gestione, trasparenza. E i problemi dell’Italia, contrariamente a quanto si crede, non sono la rigidità del mercato del lavoro o la forza del sindacato, ma la scarsa affidabilità, la burocrazia asfissiante, la corruzione, l’incertezza. Le autorizzazioni necessarie a realizzare un investimento industriale a normale sensibilità ambientale, per esempio, in Italia possono richiedere oltre tre anni e autorizzazioni da parte di oltre 15 uffici pubblici, mentre in altri grandi Paesi il tempo necessario è meno di un terzo e gli uffici coinvolti si contano sulle dita di una mano. Da noi la corruzione è percepita come un male endemico, figlia di un sistema che elude la legge, mentre altrove, pur presente, è vista come un nemico in agguato ma che si combatte con la forza del diritto e gli strumenti della sanzione giuridica. E c’è l’incertezza determinata dai cambi d’indirizzo politico che spesso stravolgono, in pochi mesi, il punto di ritorno d’investimenti che richiedono invece anni per diventare profittevoli. L’Italia non è considerata un affare per chi vuole investire. E questa nuova crisi azzera i deboli miglioramenti faticosamente raggiunti negli ultimi due anni. Evidenziando che il problema del Paese non è l’instabilità (una deviazione dalle grandi democrazie europee purtroppo radicata nel nostro sistema politico) ma l’irresponsabilità. Quasi fosse un istinto incastonato nel Dna, che rimane latente fino a quando circostanze particolari lo fanno riemergere e che si trasforma in risentimento verso le stesse istituzioni democratiche. In queste ore, ancora una volta, l’Italia è vittima di una politica prigioniera di se stessa, il cui arretramento dall’interesse comune non nasce nelle vicende degli ultimi mesi, né nello stallo istituzionale successivo alle elezioni, ma nel progressivo venir meno di quel senso di civile responsabilità che ha lasciato per troppo tempo senza risposta domande che presupponevano un progetto, una prospettiva, una direzione. Eppure, anche nell’avvitamento che sembra trascinarla verso il basso, solo la politica può offrire la soluzione per uscire dalla crisi di cui è prigioniera, trovando dentro di sé riserve di senso, di speranza, d’impegno. Non serve un governo a tutti i costi, qualunque esso sia, come non basterebbe una nuova contabilità elettorale se a dargli respiro non c’è una politica consapevole delle sfide che il Paese ha davanti. Ritenere che i risultati elettorali di febbraio scorso siano soltanto l’esito di una protesta «antipolitica» significa non aver capito nulla di quanto è accaduto, perché nelle urne si è espressa soprattutto la domanda di una nuova stagione che prenda le distanze dal passato.

IL RISCHIO DI UN GRAVE CONFLITTO SOCIALE Pur nelle sue contraddizioni, il voto ha dato voce a una società che non vuole arrendersi. E non vuole solo urlare il proprio disagio, ma rafforzarsi nelle sue vocazioni primarie: lo sviluppo di qualità, l’efficienza del sistema pubblico, l’assistenza ai più deboli, la lotta alle disuguaglianze, l’attenzione al bene comune, la tensione a operare nell’interesse di tutti. Non rispondere a questo bisogno, con scelte politiche coerenti e concrete, significa non offrire alcuna soluzione alla crisi che sta attraversando il Paese. Soprattutto significa andare incontro al rischio concreto che la frattura che si è manifestata nelle urne, esploda nelle piazze, trasformandosi in un conflitto sociale. Tornare al voto senza le opportune risposte da dare al Paese significherebbe accettare questo rischio, con la possibilità reale di una paralisi analoga a quella che abbiamo già vissuto nei mesi successivi al voto, ma che potrebbe far precipitare l’Italia nella più cupa delle notti. E stavolta senza alibi. Per questo, prima ancora di una nuova legge elettorale, serve una stagione politica da far iniziare subito. Camminando su strade nuove, aperte a quanti vi sapranno guardare con intelligenza, lungimiranza e responsabilità. È proprio la società civile, adesso, a chiedere con forza di far tornare il potere nelle mani della buona politica. Ma bisogna fare in fretta perché il tempo è inesorabilmente scaduto. E il Paese rischia di affondare.

L’Unità 30.09.13

“Il Muro di Arcore per bloccare i fuggitivi”, di Ilvo Diamanti

Ciò che oggi avviene intorno a Berlusconi riassume, in modo esemplare, la storia dell’Italia, negli ultimi vent’anni. Ne segna l’inizio e, probabilmente, la fine. La biografia politica di Berlusconi, infatti, coincide con la parabola di Forza Italia. Un partito “aziendale”, la cui missione si riflette nella figura del Capo. L’imprenditore, mito e modello dell’Italia, dove “tutti ce la possono fare”. Da soli. Forza Italia. Un partito lontano da ogni ideologia. Che promette la soddisfazione degli interessi – generali e privati – di tutti. Anzitutto, quelli del Capo. Un partito che usa la comunicazione e il marketing, al posto dell’organizzazione. E, ai vertici, promuove tecnici, consulenti, avvocati, manager e specialisti. Fedeli al Capo. Forza Italia: il partito che ha ispirato la Seconda Repubblica. Imitato da tutti, senza troppa fortuna. Forza Italia: nel corso degli anni si è evoluta. Nel 2007 ha aggregato, anzi, inghiottito quel che rimaneva alla sua destra. Alleanza Nazionale. Ma il modello non è cambiato. Il Pdl è rimasto il partito “personale” di Silvio Berlusconi. Un luogo dove non esiste dibattito o confronto. Se non sul grado di fedeltà e il modo di interpretarla. Estremista o moderato. Dove ci si divide fra “ultra” e “diversamente” berlusconiani, per citare Alfano. Dove, però, chi non si adegua, chi “pensa di poter pensare” in proprio, se ne va. Oppure viene allontanato, cacciato in malo modo. Com’è avvenuto a Gianfranco Fini e ai residui di An non berlusconizzati.
Ebbene, il Pdl, dopo poco più di cinque anni, è stato dismesso. Come un prodotto scadente oppure scaduto, il suo produttore lo ha ritirato dal mercato. Lo ha sostituito con l’etichetta originaria. Quasi per rammentare a tutti da dove proviene. Una storia di successo. Un imprenditore di successo. Che può decidere, a proprio piacimento, secondo i propri interessi, come condurre e gestire le proprie attività. Il problema, però, è che, vent’anni dopo, l’imprenditore politico non è più lo stesso. Il partito non è più lo stesso. Il mercato (politico) non è pi ù lo stesso. Vent’anni dopo: la parabola è giunta al termine. Silvio Berlusconi è sull’orlo della decadenza. Non solo parlamentare. I suoi conflitti di interesse gravano su di lui, sulle aziende e sul partito-azienda. In modo assolutamente irrimediabile. Per questo non c’è spazio per discussioni e confronti, che possano ridimensionare la fedeltà al Capo. Non solo in Parlamento, anche in politica e nella società. C’è il rischio, altrimenti, di secolarizzare il berlusconismo e, ancor più, l’anti-berlusconismo. Ridurlo a un ricordo. È per questo, soprattutto, che Berlusconi ha realizzato l’ultimo strappo. Far sottoscrivere le dimissioni ai suoi parlamentari e, a maggior ragione, imporre ai ministri del Pdl – pardon: Fi – di uscire dal governo. Certo, questa decisione risponde anche a motivi immediati. È una reazione dettata dai timori per gli effetti sul piano giudiziario – personale – della decadenza da senatore. Ma riflette, soprattutto, una sindrome da assedio, accentuata dalla paura di vedersi abbandonato. Almeno, da una parte dei parlamentari. Che potrebbero leggere la decadenza del Capo come un destino che va oltre l’ambito giudiziario. E si estende al contesto politico. D’altronde, prendere le distanze da Berlusconi, per gli “eletti” del Pdl, è rischioso, visto il destino toccato a chi ci ha provato. Ma rinunciare a un posto in Parlamento o a un incarico di governo, dopo pochi mesi, in nome di un leader “decadente”, è altrettanto rischioso. Per questo Berlusconi ha spezzato le larghe intese con gli altri partiti della maggioranza di governo. Per questo ha eretto un muro intorno a Forza Italia. Per difendere il proprio territorio. Non tanto dall’esterno, ma dall’interno. Per contrastare l’invasione dei “nemici”, ma, soprattutto, per impedire la fuga degli “amici”. L’esodo dei fedeli. Per bloccare sul nascere le tentazioni e i tentativi di quanti pensano a nuove esperienze politiche “moderate”. Magari a nuovi gruppi politici. In Parlamento, per ora. Domani non si sa. Infine, per sollevare, ancora, passione e sentimento. Meglio: risentimento. Perché, in Italia, il muro di Arcore resti quel che, nel mondo, è stato il muro di Berlino. Una frattura non solo politica, ma ideologica e cognitiva.
È questa la posta in gioco dello scontro in atto in questi giorni. Dentro e fuori il Pdl – o Fi. Segna il passaggio, tortuoso e contrastato dal berlusconismo al post-berlusconismo, significato dal percorso del partito personale in Italia. Perché i partiti personali “all’italiana” non dipendono dalla capacità di selezionare e di promuovere un leader. Dipendono dal leader stesso. L’origine e il fine unico, da cui dipendono, appunto, l’origine, ma anche “la” fine: del partito.
D’altronde, Berlusconi dispone ancora di consenso politico e, ancor più, di potere economico e mediatico. E li usa, se non per imporre le proprie scelte, almeno per interdire quelle altrui. Un ultimatum dopo l’altro. E ancor prima, per controllare il dissenso che si diffonde, in modo aperto, nelle sue fila. Per questo Berlusconi resiste. Fino all’ultimo. Perché lotta per la propria sopravvivenza – politica – ma anche per quella di Forza Italia. Il partito personale fondato sulla politica come marketing. Per questo vorrebbe andare a elezioni politiche presto. Subito. Perché, dal 1994 fino a pochi mesi fa, nel febbraio 2013, il “partito personale” di Berlusconi ha sempre dato il meglio di sé in occasione delle elezioni politiche. Per questo ha trasformato la vita politica in una campagna elettorale permanente. E oggi, per resistere alle minacce esterne e alle tensioni interne al partito, ha bisogno di nuove elezioni – al più presto. Nei primi mesi del 2014, se non entro l’anno.
Così si compie la parabola del “partito personale” all’italiana. Da Forza Italia a Forza Italia. Dall’inizio alla fine. Perché le prossime elezioni potrebbero, davvero, segnare la fine di Berlusconi (e del berlusconismo). Ma senza elezioni, presto o subito, la sua fine è segnata.
Non illudiamoci, però, che ciò avvenga senza lacerazioni. I muri che dividono società, politica e valori non crollano mai senza lasciare ferite profonde e di lunga durata. Meglio prepararsi. Ci attendono tempi difficili.

La Repubblica 30.09.13

“La scuola iniqua”, di Benedetto Vertecchi

Si dice che di buoni sentimenti siano lastricate le vie dell’inferno. Aggiungerei che la quantità di buoni sentimenti esibiti sui diversi aspetti del funzionamento della scuola (da quelli istituzionali e organizzativi a quelli didattici) è tale da fornire non solo i materiali occorrenti per provvedere al lastricato, ma anche per assicurarne un’adeguata manutenzione. Infatti, se dovessimo prendere per buone le dichiarazioni d’intenti che si sono succedute circa la funzione della scuola, il suo ruolo nell’assicurare l’uguaglianza delle opportunità educative, il contributo che essa potrebbe fornire al superamento delle differenze fra allievi appartenenti a diversi strati sociali, il diritto di tutti ad acquisire le conoscenze necessarie per partecipare consapevolmente alla vita politica e sociale nel mondo contemporaneo, potremmo immaginare che l’utopia descritta da Bacone nella Nuova Atlantide si sia finalmente realizzata e che nella società contemporanea la scuola costituisca una sorta di Casa di Salomone, che rischiara col proprio apporto di conoscenze e valori le varie manifestazioni della vita associata.

Evidentemente qualcosa deve esserci sfuggito, se oggi, guardandoci intorno, non solo non intravediamo nulla che richiami alla nostra memoria le caratteristiche della mirabile istituzione uscita dalla penna del grande Cancelliere, ma abbiamo l’impressione del contrario, e cioè che il cammino virtuoso che talvolta aveva fatto pensare alla scuola come ad una istituzione capace di assicurare una certa misura di equità non solo si sia arrestato, ma abbia avuto inizio un movimento retrogrado, che ci riporta a concezioni della natura umana e dei destini sociali che si credevano superate. La grande crescita dei sistemi scolastici nell’Ottocento e nel Novecento (compresa, anche se con ritardo rispetto ad altri paesi, quella del sistema scolastico italiano) è stata resa possibile, se non dal superamento, almeno da un’attenuazione delle interpretazioni deterministiche circa i processi di sviluppo nella prima parte della vita. In altre parole, è del tutto inutile provvedere all’educazione formale di bambini e ragazzi che si considerano per naturaincapaci di apprendere. Senza troppo sottilizzare nella ricerca di giustificazioni teoriche, la spinta sociale all’istruzione ha assunto un carattere antinaturalistico, quando ha affermato la necessità di sottrarre all’ignoranza e alla superstizione quegli strati maggioritari delle popolazioni che da secoli vi soggiacevano. Quando tale spinta si è incontrata con l’irruenza militaresca della cultura del positivismo l’impegno per l’istruzione ha assunto le caratteristiche di una vera e propria guerra: il nemico da battere era l’analfabetismo, il territorio da conquistare erano le quote di popolazione che permanevano in uno stato di soggezione e di mortificazione mentale che si trascinava da secoli.

I nodi teorici dello sviluppo scolastico che in un primo tempo si era evitato di affrontare emersero tuttavia non appena, proprio per il diffondersi dell’alfabetizzazione, incominciarono ad emergere le contraddizioni di società (è il caso dell’Italia) che avevano intrapreso inconsapevolmente un cammino di equità, respingendone però le implicazioni sociali e politiche. Un conto era infatti offrire a tutti i bambini (o, almeno, a gran parte di loro) i primi rudimenti dell’istruzione, altro conto accettare che tali rudimenti potessero essere considerati da parti più o meno consistenti della popolazione il primo passo di un percorso a conclusione del quale poteva intravedersi per alcuni la perdita di una condizione di favore e per altri il raggiungimento di traguardi di equità. Quel che i deterministi nostrani avevano omesso di considerare era che la spinta all’equità doveva essere considerata intrinseca alla crescita dei sistemi d’istruzione formale, come sarebbe dovuto apparire evidente se si fosse considerato che la prima, grande spinta all’alfabetizzazione (quella conseguente alla riforma religiosa di Lutero) aveva avuto l’intento di assicurare a tutti i cristiani le medesime opportunità di accesso alle Scritture: è come dire che la componente dinamica di quella prima alfabetizzazione si qualificava come una sorta di equità delle condizioni per la salvezza.

Assistiamo oggi ad un ritorno di determinismo, anche se variamente imbellettato. In breve, si assumono decisioni che possono essere giustificate solo dall’assunzione preliminare di differenze tra gli individui per ciò che riguarda il loro potenziale di apprendimento. Se il determinismo tradizionale faceva derivare dalla natura la ragione delle differenze tra gli individui, quello attuale ha lasciato cadere ogni reticenza: il successo nell’istruzione varia in modo concomitante alle condizioni sociali degli allievi. Solo la riproposta rituale dei buoni sentimenti che si è soliti associare all’educazione scolastica impedisce di affermare, sic et simpliciter, che solo una parte favorita degli allievi trarrà dalla scuola benefici che potranno segnare positivamente il corso successivo della vita. Nell’educazione si è affermata una linea di pensiero che vorrebbe essere realista, e che a mio giudizio è invece iperrealista: per essa occorre prendere atto di aspetti fenomenici dell’educazione. La linea delle interpretazioni si colloca tutta su un asse sincronico: il successo deriva dal merito, il merito è espressione di qualità intellettuali e morali, tali qualità sono più frequenti in certi strati della popolazione e meno in altri eccetera. Eppure, anche chi si pone su tale linea di pensiero non rinuncia a bruciare granelli di incenso sull’ara dell’equità, come se si trattasse di una divinità che può essere soddisfatta con semplici pratiche di devozione rituale.

È vero invece che l’equità non è una categoria rarefatta e difficile da verificare. L’educazione è equa se, prendendo in considerazione un certo numero di variabili descrittive delle condizioni in cui si pratica, delle procedure tramite le quali si esprime e dei risultati che consegue si riscontra che la loro distribuzione non varia sostanzialmente al variare di altri aspetti di contesto, come la collocazione delle scuole nel territorio o la classe sociale di appartenenza degli allievi. Il nostro è un sistema scolastico iniquo non perché alcuni studenti hanno un risultato migliore di altri, ma perché tale risultato non deriva da interazioni fra le caratteristiche degli allievi e l’offerta educativa, ma tra le prime e un certo numero di fattori non scolastici di contesto. Chi si straccia le vesti per la modestia dei risultati italiani nelle ricerche comparative (per esempio, le rilevazioni Ocse-Pisa) farebbe bene a non soffermarsi solo sulle graduatorie, con ragionamenti da caffè dello sport. Potrebbe, più utilmente, porre a confronto le varianze dei punteggi nei diversi sistemi scolastici. In particolare, vanno considerati due tipi di varianza: la varianza entro le scuole e la varianza fra le scuole . La varianza entro le scuole, se non modificata in modo artificiale (per esempio, tramite sistemi discriminatori di formazione delle classi), ricalca grosso modo le differenze esistenti fra gli allievi. Quella che dovrebbe preoccupare (e che nel sistema scolastico italiano è drammatica) è la varianza fra le scuole. Ci sono scuole buone e scuole che lo sono molto di meno, scuole fornite ampiamente di mezzi e scuole prive del necessario, scuole di città e scuole di campagna, scuole delle aree residenziali e scuole dei dormitori degli immigrati, non importa se italiani o stranieri, e così via: chiunque è in grado di proseguire questa elencazione. I risultati del nostro sistema scolastico preoccupano non solo per la modestia dei livelli medi, ma soprattutto per la disgregazione fra le diverse sedi in cui si pratica l’educazione.

Lo striminzito orario di attività del sistema scolastico italiano è stato giustificato con l’argomento che occorreva allineare l’offerta didattica a quella prevalente in altri paesi europei e che, comunque, si trattava di orari più o meno corrispondenti a quelli finlandesi, ossia a quelli del paese saldamento insediato in testa alle graduatorie internazionali. Anche prescindendo dalla confusione fra orario delle lezioni (comparabile fra Italia e Finlandia) e orario di funzionamento delle scuole (questo secondo orario è incomparabile, perché in Finlandia le scuole sono aperte tutto il giorno e spesso anche la sera per consentire agli allievi di utilizzarne le dotazioni), come spiegare l’alta varianza fra le scuole che caratterizza il sistema scolastico italiano e la varianza minima del sistema finlandese? La risposta non è difficile: il nostro, a differenza di quello finlandese, è un sistema iniquo.

da Tuttoscuola 30.09.13

“I diversamente berlusconiani”, di Francesco Merlo

Alfano “diversamente berlusconiano” sembra il Sordi dell’otto settembre: «Inaudito. L’alleato è passato al nemico». Di sicuro nessuno ha il linguaggio degli Scilipoti e dei Di Gregorio, ma tutti hanno quello della sofferenza vera. Certo, il «siamo e restiamo berlu- sco-nia-ni» ci fa sorridere perché è un paradossale rimprovero a Berlusconi di non essere più berlusconiano, con l’idea pasticciona e comica che il
vero Berlusconi sono loro.
E tuttavia il loro lessico non è da traditori ma da traditi e da umiliati. Cicchitto, per esempio, che è stato il primo a tirare fuori la testa dalla trincea, si sente ferito, non solo nella sua intelligenza e nella sua storia, ma anche nella sua qualità di consigliori: «Una decisione così importante non si può prendere senza discuterne con il gruppo dirigente», cioè con lui.
E si capisce che Cicchitto, come dice, resterà con Berlusconi, o per lo meno con il Berlusconi a immagine e somiglianza di Cicchitto, il quale a sua volta pare diventato improvvisamente Habermas e dunque non più fedele a quell’altro Berlusconi al quale giura di restare fedele (e scusate il pasticcio che, davvero, non è mio): «Berlusconi avrebbe bisogno di un partito serio, radicato sul territorio, democratico nella sua vita interna, un partito di massa, dei moderati, dei garantisti, dei riformisti e non un partito di alcuni estremisti di destra
dall’inaccettabile tonalità anche nel confronto con gli avversari politici». E va sempre bene buttarla in dottrina crociana, ma prima ancora che politica qui la disfatta è esistenziale: è Cicchitto in carne e sangue che non vuole essere trattato «come delle semplici pedine da manovrare, in modo per di più disordinato, ad opera di pochi dirigenti del partito».
E però la frase che entrerà nella storia politica è «sarò diversamente berlusconiano» che è un capolavoro di “angelina” fedeltà e di “diavolino” tradimento, ed è la prima volta che Alfano mostra il quid, che è l’orgoglio ferito dell’ortodosso.
I diversamente abili sono, nel linguaggio del politicamente corretto, gli handicappati, e infatti così si sente Alfano: un berlusconiano azzoppato. E conoscendo Alfano, che è stato sempre il più servizievole, in quel “diversamente” non c’è il voltafaccia su cui la macchina del fango sta già lavorando, ma c’è la morte di una identità. Più che un eufemismo dunque è un ultimo respiro sotto forma di ruggito, anche perché Alfano non è Martelli di fronte a Craxi, ma è il soldato ridotto a carne da macello dal suo generale, è il carabiniere abbandonato dal re.
La cosa che sorprende anche noi è che tutte queste dichiarazioni non hanno il frastuono del fuggi fuggi, non c’è il panico dentro il teatro che dove ciascuno cerca l’uscita ma nessuno la trova, e tutti si calpestano. C’è invece la rivolta del loggione che alla Scala è occupato dai fedelissimi e dai veri intenditori e persino dai generosi come è, secondo noi, Beatrice Lorenzin che non è mai stata in discoteca, non è mai stata una pin up in tacchi a spillo, ma è una maschiaccia di periferia che ci ha creduto per davvero e che ora dice, povera figlia, «tentano di distruggere tutto quello che Berlusconi ha costruito e rappresentato ». Ecco: quando i loggionisti non applaudono più a comando ma mugugnano e persino fischiano, significa che il bluff è svelato: «Fi non può essere un movimento estremista in mano a degli estremisti. Vogliamo stare con Berlusconi ma non con i suoi cattivi consiglieri » dice infatti il ministro Lupi che è stato un capo claque, un superloggionista. Ma anche lui come Cicchitto scopre, solo adesso, di avere assecondato un’illusione cocente, e ancora non capisce che opporre Berlusconi a Berlusconi è uno stilema che la storia ha già consumato con sdoppiamenti ben più importanti e con ben altra forza tragica: il Napoleone dell’Elba, il Mussolini del 25 luglio, e lo Stalin del «resto irri-du-ci-bil-men-te comunista» che era il
refrain dei profughi della cortina di ferro, quelli di “Ho scelto la libertà”. E l’idea di purificare il Berlusconi di oggi innaffiandolo con il Berlusconi d’antan, la certezza di epurare un giorno chi li epura oggi sembra satira: riprenderanno il loro cammino e Berlusconi rinascerà dalle proprie ceneri.
E infatti Beatrice Lorenzin come gli altri «accetta senza indugi la richiesta di dimissioni da ministro» ma non si riconosce «in una destra radicale che mette fuori i moderati senza alcuna riflessione culturale segnandoli come traditori». Sono parole pesate, dove le dimissioni non sono certo uno sfregio ad Enrico Letta, ma il modo più efficace per togliere argomenti ai falchi che li stanno già linciando, in una gara a chi scaglia la pietra più grossa contro gli adulteri. E sul sito di
Libero e sul Giornale sono «attaccati alla cadrega» che è un misto di cattedra e bottega, visibilità e guadagno. E ovviamente «traditori» e «comunisti». E la Lorenzin viene accusata di seguire il marito comunista perché, notoriamente disinformati, i fanatici la confondono con la De Girolamo che ha anche il peccato originale di essere sposata con Francesco Boccia, comunista. E Quagliarello diventa Quagliarella e Quaquaraquà perché ha detto che «piuttosto che far parte di una specie di Lotta Continua di destra preferisco occuparmi del club Napoli della Salaria» che è la frase più sferzante contro la presunzione dei nuovi mostri, senza l’ipocrita venerazione come premessa e anche il biasimo è divertito, l’intelligenza critica è persino scanzonata, a un passo dalla verità.
E mentre Cicchitto viene malmenato da Galan, «ogni volta che parlava ci faceva perdere voti», la Carfagna vince la gara dei servi zelanti: è stata la prima a metterli tutti «fuori dal partito». È il linguaggio della canea, la solita gogna, hanno tutti il fangolino in bocca e lo sputo in canna. Parte la macchina del fango su ordine di Berlusconi (quale?) che di buon mattino, essendo, come ricorda la Gelmini, «ancora e sempre il punto di riferimento dei moderati» aveva affidato la sua minaccia a tutti quelli che gli facevano gli auguri: «Si ricordino la fine di Fini».

La Repubblica 30.09.13

“Università, decreto di programmazione: stop all’apertura di nuovi atenei”, di Corrado Zunino

Un ministro dell’Istruzione iperattivo, malgrado i venti di crisi che soffiano sul governo, ha firmato la nuova versione del decreto sulla programmazione triennale (2013-2015) delle università. Dice alcune cose importanti, il decreto ministeriale. Dice che in Italia non ci sono le condizioni per aprire nuove università pubbliche: le sessantotto esistenti (più tre promosse da enti pubblici non statali) sono sufficienti, e sufficientemente indebitate. Un nuovo ateneo potrà nascere solo da una fusione: uno al posto di due, come già è accaduto con l’Università di Modena e Reggio Emilia.

Maria Chiara Carrozza non ha cancellato alcuna università (in Grecia, per confronto, ne sono state cancellate otto), ma ha scritto che i finanziamenti di Stato arriveranno tenendo conto delle sforbiciate che i singoli atenei daranno ai loro rami secchi: corsi di laurea senza pubblico e con scarso appeal per il mondo del lavoro, corsi di laurea realizzati oggi in sedi decentrate. Il blocco ai nuovi atenei riguarda anche le “realtà telematiche”. La possibilità di aprire nuove università private sarà invece “subordinata a un rigido controlli del ministero”.

Nella competizione virtuosa per ottenere finanziamenti di Stato – si legge nel decreto – le università dovranno puntare soprattutto “sul miglioramento dei servizi destinati agli iscritti, sulla

promozione dell’integrazione territoriale fra atenei e centri di ricerca, sul potenziamento dell’offerta didattica in lingua straniera”. Si chiede al mondo accademico italiano di darsi un profilo internazionale richiamando, per esempio, insegnanti dall’estero. E di offrire agli studenti un orientamento perpetuo: farsi conoscere presto dalle potenziali matricole, assisterle nella messa a fuoco del piano di studi migliore e accompagnarle in uscita a un impiego coerente con gli studi fatti. Incentivi pubblici arriveranno a chi farà entrare nelle commissioni di concorso “quote maggioritarie di docenti esterni all’ateneo”, e qui la Carrozza torna sui recenti e scandalosi concorsi accademici , soprattutto in Medicina. Gli atenei avranno 45 giorni per presentare i loro programmi triennali, il Miur potrà finanziarli singolarmente attingendo al Fondo ordinario di ciascun ateneo (la quota premio, al massimo, potrà essere del 2,5% sul totale).

Su un piano europeo, il ministro ha proposto a Bruxelles che l’Unione adotti un sistema di classifiche comunitarie proprio per valutare le università continentali. “Libera circolazione dei laureati, trasportabilità dei titoli in Europa, creazione di uno spazio di istruzione europeo, equiparazione dei titoli e, soprattutto, un ranking europeo delle università”.

da repubblica.it

“La via Emilia ferita dal terremoto riprende la marcia”, di Aldo Bonomi

Continuo a cercare, per continuare a capire la metamorfosi, territori resilienti, capaci di adattarsi al trauma del cambiamento, smart land e piattaforme produttive che intrecciano funzioni urbane e distretti produttivi in cambiamento e geocomunità di area vasta dove cambiano e si evolvono le comunità locali fatte di campanili, capannoni e il Comune, con il sindaco a cui si torna per ricercare uno spazio di posizione adatto al competere.
La via Emilia, la piattaforma emiliana che va dalla logistica di Piacenza fino a Bologna mi pare terreno fertile per i miei microcosmi. Nel 2011, dentro la crisi, rappresentanze del lavoro e delle imprese in mutamento e la Regione si impegnarono per un patto per la crescita intelligente, sostenibile, inclusiva. È di questi giorni il rappresentarsi in fiera, al Cersaie, di un distretto storico, quello ceramico di Sassuolo, che si evolve aprendosi agli investimenti stranieri, senza con questo perdere identità produttiva locale e anzi usando i flussi in entrata per aumentare i flussi in uscita.
Per il mutamento della comunità locale basta citare Novellara, che tiene assieme, nel profondo territorio agricolo, la confraternita dell’aceto balsamico con il più grande tempio Sikh d’Europa, un tempio indù e quattro moschee.
A proposito di resilienza a fronte di momenti traumatici, mi pare importante ragionare su come la piattaforma emiliana ha reagito al terremoto, al “terremoto industriale” che tra Modena e il Po, tra maggio e giugno di un anno fa, ha distrutto un tessuto produttivo ove si produceva il 2% del Pil italiano. Si è fatto della ricostruzione del cratere un territorio ove ricostruire pensando a una smart land vocata al sapere, alla green economy, mantenendo manifattura e made in Italy.
Le cifre – che stavolta di freddo hanno ben poco – raccontano di un’economia che non si è mai fermata. Nei mesi appena successivi al sisma i lavoratori in cassa integrazione guadagni a causa del terremoto erano 41.335, mentre oggi, dopo appena un anno e mezzo, sono poco più di duemila. Anche i soldi cominciano ad arrivare: a luglio erano 1.179 le ordinanze di pagamento emesse dai Comuni in relazione alle 3.372 domande di contributo a fondo perduto per la ricostruzione di abitazioni, per un totale di 100 milioni di euro; allo stesso modo, sono stati già emessi pagamenti alle imprese per 31,2 milioni su un totale di 140 milioni richiesti.
Non tornerà tutto come prima, tuttavia, né si può parlare di ricostruzione in senso stretto. Piuttosto, di un esperimento che ha coinvolto tutti, dalle istituzioni alle associazioni di rappresentanza, dalle banche alle imprese, dagli ordini professionali ai sindacati, fino ai cittadini.
Così, accanto alle multinazionali del biomedicale che sono rimaste sul territorio e alle piccole e medie imprese dell’indotto, è stato potenziato il ruolo degli istituti scolastici superiori Luosi e Galilei, che grazie al contributo del Comune di Torino, della stampa e del gruppo Bnp Paribas sono stati dotati di un laboratorio scientifico biomedicale aperto alla partecipazione di altre scuole del territorio. A Mirandola è stata poi pianificata l’apertura di un Istituto tecnico superiore per le nuove tecnologie sulla vita, così come di uno specifico tecnopolo biomedicale che conterrà un laboratorio tecnologico, un laboratorio di biologia cellulare e un laboratorio chimico tossicologico. A tutto questo, peraltro, si aggiungono i 50 milioni di euro di contributi per la ricerca industriale che presto verranno messi a disposizione per le grandi come per le piccole e medie imprese.
Molto è ancora da fare, ovviamente, ma la fase dell’emergenza dei campi è finita e le scuole sono ormai tutte riaperte già nel settembre del 2012. Diverso è il discorso per il piccolo commercio, che attende quella ricostruzione dei centri storici che è la nuova grande priorità e che, in questi mesi, sta mostrando i primi risultati. A Reggiolo, ad esempio, ben trenta attività sono tornate dov’erano prima del sisma. Non solo: c’è da riqualificare il patrimonio edilizio, con la messa in sicurezza dei 487 edifici che hanno presentato domanda al bando Inail, che mette sul piatto quasi 80 milioni e che la Regione vuole ampliare, concedendo alle imprese il credito d’imposta. C’è da dialogare con le banche per il credito alle imprese e per la ristrutturazione dei debiti di quelle realtà private dal terremoto di commesse e redditività. In quest’ottica sono un’ottima notizia, i 44 milioni figli dell’accordo tra le Cna di Modena e Bologna e UniCredit, che ha offerto alle imprese la possibilità di presentare 130 progetti in Regione, permettendo loro di avere subito le risorse per farli partire, senza aspettare i tempi della burocrazia.
Soprattutto, occorre dotare il “cratere” – e più in generale tutto il territorio emiliano-romagnolo – di quelle reti lunghe da tempo richieste e necessarie per aprirsi e per competere nel nuovo scenario competitivo, dalla Cispadana, alla bretella Modena-Sassuolo, dalla E45 al passante di Bologna. Infrastrutture, queste, che si inseriscono in un’ancora più ampia e ambiziosa strategia: quella di riavvicinare il territorio al mondo, di renderlo attrattivo agli investimenti, per favorire e orientare gli investimenti verso la crescita e il consolidamento di una nuova smart land emiliana, che incorpora, riproduce, ibrida e diffonde i saperi, che intreccia la storia e le tradizioni con le visioni di futuro, che vuole fare del terziario avanzato ciò che rafforza la manifattura e non ciò che la sostituisce.
Nel “cratere” si sono stressati e messi al lavoro parole e concetti antichi come comunità, cittadinanza, condivisione, coesione sociale e il Comune dei Sindaci operosi. Coniugandole con le parole della metamorfosi: distretti in cambiamento, piattaforme produttive e geocomunità di sistemi territoriali che competono nella globalizzazione.

Il Sole 24 Ore 29.09.13

“Dignità”, di Roberto Napoletano

Il comportamento di Silvio Berlusconi non è dignitoso e suggella un’esperienza politica che si chiude sotto il segno di un permanente conflitto di interessi. Invece di occuparsi di cose serie (il lavoro che non c’è e il risparmio da proteggere) chiede al “suo” partito di spendersi in toto per occuparsi dei problemi giudiziari di una persona (cioè lui) che ha avuto tre gradi di giudizio per difendersi e rifiuta il verdetto finale ponendo se stesso (grave) e l’Italia (gravissimo) fuori dalle regole dello stato di diritto. Questa è la realtà. Sbaglia Berlusconi (molto) e sbaglia (soprattutto) chi nel suo partito lo incoraggia o gli va dietro voltando le spalle al Paese e confermando l’impronta padronale di una forza politica che rischia di congelare sotto una cappa nefasta la rappresentanza di istanze di centro e di centrodestra attente alle vere emergenze degli italiani e ancora molto diffuse nel corpo vivo del Paese.

Due anni fa l’Italia era uscita da tutti i portafogli e questo giornale si è assunto la responsabilità di segnalarlo con un titolo a caratteri cubitali (FATE PRESTO) che esprimeva il rigore algebrico del Sole 24 Ore ed è rimasto nell’immaginario collettivo. Allora Berlusconi comprese e fece il passo indietro nell’interesse del Paese. Adesso, purtroppo, rischia di trascinare i suoi (se non avranno un risveglio di dignità) e gli altri in una spirale negativa che può solo fare male (molto) a tutti. Da un po’ di tempo in qua la situazione sui mercati (almeno quella) è nettamente migliorata rispetto al novembre del 2011. Sono, però, sotto gli occhi di tutti gli effetti della persistente, strisciante, crisi di stabilità politica che ci ha già portato a essere superati dalla Spagna nel giudizio degli investitori. C’è chi vuole fare un po’ di soldi e scommetterà su un periodo relativamente breve di instabilità. Attenzione, però: il passo dalla piccola alla grande speculazione può essere breve e, nel giro presumibilmente di tre settimane, i mercati decideranno se le speranze per l’Italia sono perse o rimangono in vita. Il segnale verrà dai tesorieri dei grandi fondi e rifletterà esclusivamente il livello di perdita di denaro che potranno (loro) riscontrare sui titoli italiani. Ovviamente, lo scudo e la Banca centrale europea faranno la loro parte.
Il Paese ha bisogno di un governo che governi e metta a posto una situazione molto difficile cogliendo l’opportunità di una fragilissima ripresa con interventi (forti) nella scuola, nello Stato, nelle Regioni, nella burocrazia centrale e locale, per preservare il rigore e liberare risorse oggi sprecate da investire, attraverso minori prelievi e oneri, sul capitale sopravvissuto delle multinazionali tascabili dopo che le grandi aziende (soprattutto private) hanno clamorosamente fallito, con le debite eccezioni, sul mercato globale e hanno (troppo) spesso chiesto e ottenuto riparo nei flussi assistenziali della spesa pubblica italiana. Si vada, dunque, in Parlamento e si verifichi se c’è dentro lo schieramento berlusconiano chi, a viso aperto, vuole scommettere sull’esperienza di governo in atto mettendo l’Italia e le ragioni della sua emergenza economica e sociale prima di tutto. Si verifichi, altresì, se all’interno del Parlamento emergono, in altre forze politiche, condizioni di maturità per affrontare seriamente i temi spinosi dell’economia e quello non accantonabile della riforma elettorale. Le ipotesi da verificare sono un governo vero che arrivi fino al semestre europeo di presidenza italiana facendo (non galleggiando) o un governo di scopo per archiviare almeno il Porcellum prima del nuovo ricorso alle urne. L’economia ha bisogno di scelte forti e del (massimo) di governo, non di pannicelli caldi o governicchi di sorta.

Il Sole 24 Ore 29.09.13