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“Una stangata da 210 euro a famiglia e può tornare in ballo la prima rata Imu”, di Valentina Conte

Una stangata da 3,7 miliardi. Che può salire a 7 miliardi. Questo il conto immediato scaricato su famiglie, lavoratori e imprese dalla grave crisi politica aperta ieri dalle dimissioni dei ministri pdl. Il rincaro dell’Iva (dal 21 al 22%, a partire da martedì) e il saldo natalizio dell’Imu sulle prime case, entrambe misure ormai inevitabili senza un governo al timone, insieme valgono 3,7 miliardi. E cioè circa 210 euro in media nei prossimi tre mesi: 65 di Iva, 145 di Imu. Ma se il caos politico portasse a un cambio di maggioranza o allo scioglimento delle Camere, il forte rischio di non convertire il decreto Imu in tempo – quello che cancellava la prima rata,
rifinanziava la Cassa integrazione in deroga, copriva altri 6.500 esodati – farebbe balzare quel conto a 7 miliardi. Obbligando gli italiani a pagare per intero tutta l’Imu. Lasciando i lavoratori senza Cig, gli esodati scoperti da gennaio e le imprese orfane di altri 7 miliardi di crediti che lo Stato in quel decreto si impegnava a saldare. Inoltre, privi di un esecutivo operativo, la legge di Stabilità che l’Europa attende entro il 15 ottobre sarà minimale e “alleggerita” delle riforme: casa, Iva, lavoro. «Sarà la troika a scriverla», si allarmava ieri il viceministro Fassina. Mentre intanto la correzione del deficit al 3,1% è ineludibile.

Ora la Cig è in forse Tremano gli esodati

LA BEFFA per i lavoratori è doppia. Il loro posto è a rischio, la politica sfascia tutto e la Cassa integrazione salta. Prima evaporano 330 milioni per la Cig in deroga previsti per il 2013 nel decreto di venerdì scorso che doveva rinviare l’Iva a gennaio. Poi forse spariscono anche gli altri 500 milioni rifinanziati col decreto Imu di fine agosto (sempre sul 2013), quello che cancellava la prima rata di giugno, ma che con la crisi di governo può finire nel vicolo cieco della non conversione in legge. In totale fanno 830 milioni per le piccole imprese in crisi che non possono ricorrere ad altri ammortizzatori. In quel decreto Imu-Cig tra l’altro si stanziavano risorse aggiuntive, ora a rischio, per salvaguardare altri 6.500 lavoratori esodati, dal 2014 al 2019.

Misura tampone per frenare il deficit
LA CORREZIONE del deficit, leggermente tracimato rispetto al tetto del 3% sul Pil, è un’altra delle misure saltate nel Consiglio dei ministri di venerdì. Una grana enorme per l’Italia che non può permettersi sforamenti, pena la riapertura della procedura europea per deficit eccessivo. Crisi o no, un decreto dunque andrà varato al più presto, pari a 1,6 miliardi. Tanto vale lo 0,1% di sforamento (ma l’Fmi parla di 0,2%) coperto con tagli ai ministeri e dismissioni di immobili pubblici, già individuati dal Tesoro. Se non si corregge il deficit, l’Italia perderà un importante margine di 12 miliardi da spendere per nuovi investimenti nel 2014. E si genererà il caos assoluto sui mercati, con il rischio, peraltro già paventato, di declassamento.

Il ddl Stabilità. E salterà il taglio del cuneo fiscale

LA GRANDE incognita, a questo punto, è la legge di Stabilità, l’ex Finanziaria, che da quest’anno deve avere anche il “bollino” dell’Europa, da stilare e presentare a Bruxelles entro il 15 ottobre. Se le condizioni politiche non lo consentiranno, l’Italia sarà costretta a formularne una versione “tabellare”, scarna, essenziale per la tenuta dei conti e le spese indifferibili, come accaduto nel 2011, sotto il governo Berlusconi ormai agli sgoccioli e lo spread oltre i 500 punti, scritta con il fiato sul collo dei funzionari Ue. Dunque nessuna riforma Imu con la definizione della nuova Service tax. Né rimodulazione dell’Iva. Tantomeno la riduzione delle tasse sul lavoro. O la programmazione dei fondi europei da cofinanziare che, assieme al Fondo sviluppo e coesione, toccano gli 80 miliardi.

Nel limbo 7 miliardi di crediti della Pa
CON una legge di Stabilità dal fiato corto, ridotta ai minimi termini, senza una traccia di piano per il rilancio, tutti i sogni di ripresa vengono spenti. Difficilmente le imprese riusciranno a intercettare, in queste condizioni, i refoli di crescita attesi per i prossimi tre mesi. Sfuma il taglio del costo del lavoro. Si vanifica il secondo decreto del Fare. I 7 miliardi in più di crediti pubblici da ripagare sono a rischio, perché dentro il decreto Imu-Cig che nessun Parlamento convertirà in legge, se si sciolgono le Camere. E poi le crisi aziendali aperte: chi le seguirà? A partire dall’Ilva. E chi piloterà i casi Alitalia, Finmeccanica, Telecom? Anche la norma sulgolden
power- riconoscere come strategica la rete telefonica e “proteggerla” dagli stranieri – a questo punto svanisce.

La Repubblica 29.09.13

Camusso: «Difendere le istituzioni. Berlusconi suscita orrore», di Rinaldo Gianola

«Siamo agli ultimi giorni di Pompei, c’è Berlusconi invece del vulcano». Susanna Camusso, leader della Cgil, trova una battuta amara parlando con l’Unità appena dopo la notizia delle dimissioni dei ministri Pdl dal governo. «Questa decisione conferma che la destra è pronta a sacrificare tutto per l’interesse personale di Silvio Berlusconi. Non c’è alcuna ragione di governo, ma solo la volontà di rompere. Viene prima Berlusconi e poi tutto il resto, con disprezzo verso il Paese, le istituzioni democratiche, le persone che soffrono. Mi allarma la disinvoltura con cui si ignorano volutamente le difficoltà delle imprese, dei lavoratori».
Camusso,c’è la crisi di governo, nata dalla necessità di salvare il condannato Silvio Berlusconi. Cosa ne pensa? «La Cgil e tutto il sindacato sono ovviamente molto preoccupati. La crisi scoppia mentre si provava con grande fatica a ridare un po’ di smalto al Paese, si tentava di risollevarlo dagli effetti di una crisi lunga e devastante. Invece, niente. Vincono ancora gli interessi personali, individuali. Perché in una logica politica populista quello che conta è il destino del capo, gli altri non valgono nulla»

Cosa teme da questo corto circuito politico e di governo? «La crisi drammatizza due elementi. Primo: aggrava gli effetti della crisi pluriennale sulle famiglie che, mese dopo mese, hanno visto moltiplicarsi le difficoltà per la perdita del lavoro, la caduta del reddito, il deterioramento delle condizioni di vita. Secondo: l’attacco alle istituzioni è intollerabile, la progressione degli insulti e delle offese alla presidenza della Repubblica, alla magistratura, al Parlamento ha da tempo superato il livello di guardia. È bene ribadire oggi che non è nella potestà di nessuno, né dei partiti, né di singoli leader, attaccare e piegare ai loro interessi le istituzioni democratiche. Il problema vero non è quello della decadenza di Berlusconi, la questione più grave per la nostra democrazia è che un leader politico, un personaggio pubblico come Berlusconi non ha sentito il dovere di dimettersi dopo la condanna ».

Vede un pericolo per la stabilità politica, delle istituzioni del Paese? «Vedo gli attacchi di Berlusconi e dei suoi: mi fanno orrore. Noi siamo figli della Liberazione, del sacrificio del popolo italiano, siamo cittadini fedeli alla Costituzione. Non si possono più accettare queste minacce».

Rischiamo di restare senza governo. Ci toccherà rimpiangere le larghe intese e l’esecutivo Letta? «Abbiamo molte critiche e perplessità sull’azione del governo Letta. Ma la sua caduta interrompe un tentativo di discussione, di elaborazione, in cui noi sindacati abbiamo presentato alcune proposte importanti, di un progetto diverso per uscire dalla crisi. La nostra urgenza è trovare una via d’uscita veloce al modello dell’austerità come politica economica, un’alternativa al liberismo e definire un rinnovato intervento pubblico. Sono temi che stanno discutendo i nostri vicini in Europa, persino in Germania, dopo la vittoria di Angela Merkel, le questioni aperte sono queste. Come è possibile riprendere la strada dello sviluppo, del lavoro, della redistribuzione del reddito, dell’equità, senza ammazzare i cittadini di sacrifici? Proviamo a pensarci e ad agire».

Cosa fa il sindacato, cosa farete, davanti alla crisi politica che potrebbe essere lunga e di difficile soluzione? «Nel direttivo Cgil dei giorni scorsi abbiamo definito questa situazione “la tempesta perfetta”, perché la crisi di governo si combina con i nodi irrisolti del Paese: la mancanza di politica industriale, la questione delle reti, la tutela e lo sviluppo di attività strategiche. Penso a Telecom Italia, al destino di Finmeccanica, ad Alitalia. Non c’è alcun dubbio che questi sono i fronti su cui combatteremo. Partiamo da qui, da queste imprese, da questi settori per cercare di cambiare la stagione dell’economia».

Però siamo riusciti a dare il controllo di Telecom agli spagnoli di Telefonica per 800 milioni di euro, un capolavoro. «E non è finita. Sento ancora dibattiti astrusi sulla rete di accesso. Vorrei ricordare che nessun Paese europeo ha separato la rete dalla compagnia di telecomunicazioni, vorrei aggiungere che nella liberissima Olanda il governo ha imposto “l’azione d’oro” quando un miliardario messicano ha pensato di comprarsi la rete. Francia e Germania, nostri amici e concorrenti, non hanno mai pensato di rinunciare a una grande compagnia aerea nazionale, di lasciarla ad altri, perché hanno ben chiaro che da queste imprese dipende la connettività dei loro Paesi col mondo. Su Finmeccanica vorrei solo dire che siccome parliamo di importantissimi sistemi industriali integrati, strategici per il futuro del Paese, nessuno pensi di poter far cassa trascurando l’opposizione dei lavoratori e dei sindacati ».

La crisi di governo, però, ha fatto scattare l’aumento dell’Iva, così rispetteremoil tetto del deficit al 3%. «È un risultato che ne porta un altro, drammatico. L’aumento dell’Iva è uno schiaffo a chi paga i beni di consumo già di più in proporzione rispetto al reddito. Da questo aumento non saranno certo colpiti i redditi elevati, i ricchi sempre più ricchi non fanno fatica. Pagano, invece, le famiglie, i pensionati, i cittadini con redditi bassi che fanno già fatica a fare la spesa. Abbiamo tolto l’Imu anche alla prima casa dei miliardari e aumentiamo il costo dei beni di prima necessità. È folle: così si tutela solo il privilegio dei più ricchi».
Quali sono i sentimenti dei lavoratori in giro per il Paese? «Incontro lavoratrici e lavoratori davanti alla fabbriche preoccupati e intimoriti. Temono di non riuscire a difendere il loro futuro, i loro figli. C’è chi cerca nella soluzione individuale la strada per superare le difficoltà, ma purtroppo non funziona. La paura porta a rinchiudersi. Dopo tutti questi anni di crisi, di chiusure, di licenziamenti vediamo come la rassegnazione sconfini nella rabbia. Bisogna fare un grande sforzo per mantenere in essere i legami sociali, delle comunità, del lavoro, la solidarietà verso chi ha pagato un prezzo altissimo alla crisi. Il sindacato, nonostante tante critiche, mantiene un ruolo importante».

Camusso, poniamo il caso che si vada a votare presto. «Così no. Spero almeno in un soprassalto di responsabilità da parte di tutti i partiti per approvare una nuova legge elettorale. La maggioranza che sostiene questo governo si era impegnata a varare la riforma elettorale. Andare al voto con questa legge non risolverebbe nulla».

Andiamo alle urne, cosa vorrebbe chiedere alla sinistra? «La sinistra ha commesso molti errori. Spero che, per ritrovare una radicata presenza e una diffusa partecipazione democratica, chi si è lasciato affascinare dal leaderismo individuale e dai partiti personali abbandoni queste tentazioni. Abbiamo bisogno di condividere obiettivi e valori, vorrei che la riduzione delle diseguaglianze fosse la priorità di un programma politico progressista. Non ci si può presentare agli elettori dicendo per prima cosa che si rispetterà il tetto del 3% del deficit e stop. Bisogna avere coraggio, proporre grandi investimenti, ridare allo Stato un ruolo attivo, seguire i patti europei ma con maggiore giustizia sociale nelle azioni di governo».

Come usciamo da questa emergenza? «Il momento è molto difficile. Ma non dobbiamo farci intimidire dall’aggressione e dagli insulti, le istituzioni democratiche si difendono con determinazione. Bisogna avere la forza di reagire, non si possono sempre subire le minacce. Reagire. Questa è anche la condizione fondamentale per far ripartire il Paese».

L’Unità 29.09.13

Chi paga i costi della «follia», di Paolo Guerrieri

Lo spread tra i rendimenti dei titoli italiani e dei titoli tedeschi riprenderà a galoppare accompagnato da una crescente perdita di fiducia sui mercati e da un sensibile impatto negativo sulla stabilità del nostro stock di debito. In questo modo si vanificano in larga misura le speranze di agganciare la ripresa internazionale, spingendo l’Italia verso un periodo di prolungata stagnazione. Potrebbe essere questa, in estrema sintesi, la fotografia dei rischi economici molto gravi legati all’apertura della crisi di governo decisa ieri da Silvio Berlusconi con le dimissioni dall’esecutivo dei ministri del Pdl e rendendo immediatamente operativa la decisione dei parlamentari del centrodestra di disertare le aule del Parlamento.

Il rischio concreto è rimettere in discussione non solo i risultati raggiunti fin qui, ma anche la formidabile opportunità di voltare pagina rispetto agli ultimi cinque

anni di crisi. Sembra proprio una scelta ai limiti della follia.
Per spiegare il perché la posta economica in gioco di una crisi di governo sia oggi così elevata si deve guardare alla peculiare fase di transizione attraversata dalla nostra economia e alla particolare rilevanza che le misure del governo assumono nel facilitare o meno questo passaggio.

Come ha ribadito il Fondo monetario internazionale nel Rapporto pubblicato l’altro ieri l’aggiustamento fiscale realizzato dall’Italia, in questi ultimi due anni, è stato davvero di enormi dimensioni. Ci ha permesso di rientrare nel gruppo dei paesi europei «virtuosi» con una serie di vantaggi legati a questo «status». Senza sottovalutare la ritrovata credibilità e il ruolo da protagonista recuperato dal nostro Paese in campo europeo e internazionale.

Ma il riposizionamento fiscale ha

prodotto costi davvero pesanti per l’economia reale – come dimostrano anche i dati più recenti – con una recessione produttiva e aumenti della disoccupazione come non si erano mai verificati da decenni. Di qui l’esigenza di una nuova fase che è stata in qualche modo avviata dal governo Letta in questi mesi. Si è cercato di ridefinire gli obiettivi della funzione di politica economica del nostro Paese in chiave di rilancio della crescita e lotta alla disoccupazione, pur nel rispetto dei vincoli di bilancio fissati dall’Europa. Sono state adottate una serie di misure, più o meno efficaci, ma che si sono scontrate da subito con la scarsità di risorse finanziarie a disposizione, dati i margini di bilancio molto ristretti. Tanto più che la flessione del Pil di quest’anno, prevista nell’ordine dell’1,7 per cento, non ha fatto altro che ridurre ancor più questi spazi. Di qui il tornante decisivo di scelte del governo da assumersi proprio

in questi giorni e destinato a culminare alla metà di ottobre con la presentazione della legge di Stabilità. Innanzi tutto per evitare uno sforamento del bilancio pubblico quest’anno, dato che i valori tendenziali sono già oltre il tetto del 3 per cento, pur se di poco. Anche per fronteggiare le reiterate prese di posizione che sono giunte dall’Europa.
E poi – ed è l’appuntamento più importante – per agganciare le opportunità di ripresa che si stanno materializzando a livello europeo e internazionale. E lo strumento chiave doveva essere proprio la legge di Stabilità. Il governo aveva già deciso di imperniarla su una strategia di rilancio economico, a partire dal taglio del cuneo fiscale. Inteso quest’ultimo come riduzione sia del prelievo sui redditi da lavoro sia della componente lavoro dei costi delle imprese. Interventi, certo costosi, da graduare nel tempo e da finanziare con una

revisione mirata e strutturale di alcune voci del bilancio pubblico.
È evidente che si tratti di passaggi tutti cruciali per il nostro Paese non solo per tentare di uscire dalla crisi, ma per cominciare a aggredire quelle carenze strutturali che sono alla base del ristagno e delle insopportabili disuguaglianze accumulatesi in tutti questi anni nella nostra società. Passaggi ai quali l’Italia rischia ora di presentarsi senza più la sponda fondamentale di un governo per l’irresponsabile decisione presa ieri da Berlusconi e da tutto il centrodestra. E i prezzi più elevati rischiano di pagarli tutte quelle famiglie e imprese che hanno sopportato i maggiori sacrifici in questi cinque lunghi anni di crisi. Ma tutto questo, a chi ha dimostrato ancora una volta di anteporre i propri interessi e utilità personali alle vere esigenze del Paese, interessa evidentemente molto poco o addirittura nulla.

L’Unità 29.09.13

“Il Regolamento del sistema nazionale di valutazione: istruzioni per l’uso” di Giancarlo Cerini

Il Regolamento che rinnova il Sistema Nazionale di Valutazione è giunto nei mesi scorsi sulle pagine della Gazzetta Ufficiale (DPR 28 marzo 2013, n. 80 in Gazz. Uff. n. 155 del 4-7-2013). Può dunque dispiegare i suoi effetti nella vita della scuola. Ma non tutto è sereno sul fronte della valutazione, le polemiche non mancano (sui contenuti del provvedimento, sulla sua tempistica, sull’architettura del sistema, sul ruolo dei diversi soggetti). Lo stesso Ministro dell’istruzione Maria Chiara Carrozza è intervenuta a chiarire che l’attuazione del Regolamento dovrà essere l’occasione per re-interrogarsi sul significato e la presenza della valutazione nel nostro sistema educativo, da finalizzare ad una migliore conoscenza del suo funzionamento, a responsabilizzare i diversi soggetti (dagli allievi ai docenti, dai dirigenti ai responsabili politici) verso il miglioramento dei risultati e la qualità dell’istruzione. Dunque quale sarà l’impatto del nuovo Regolamento nelle prossime vicende scolastiche? Vediamo di ricostruire gli elementi fondamentali di uno scenario in forte movimento.
Molte (troppe?) novità per la valutazione
La scuola non si “fida” della valutazione. Ne capisce l’importanza, a tutti i livelli (per gli allievi, gli apprendimenti, l’organizzazione, le professionalità), ma quando si passa alle realizzazioni concrete prevalgono la diffidenza e il disagio. Anche alcuni grandi “maitres à penser” (e non solo sindacati “scapigliati”) si scagliano con virulenza contro l’Invalsi (l’istituto nazionale delegato a svolgere compiti di valutazione di sistema). Come mai questo stato d’animo così polemico? Il fatto è che spesso la valutazione è stata associata ad una visione punitiva, classificatoria, competitiva nel rapporto tra le persone e l’organizzazione di appartenenza. Questo è avvenuto anche negli ultimi anni, quando nel nostro paese si è cercato di sviluppare una diversa cultura della valutazione. Le novità in materia di valutazione sono state tante, forse eccessive, e spesso veicolate da provvedimenti normativi approvati per decreto legge e senza un pubblico dibattito. Ricordiamone alcune:
– la generalizzazione delle prove Invalsi (censuarie) e l’inserimento di una prova nazionale strutturata all’interno dell’esame di licenza media (Legge 176/2007);
– la reintroduzione del voto in decimi nella scuola di base, il ripristino del “voto in condotta”, la certificazione delle competenze (legge 169/2008);
– l’introduzione della valutazione delle pubbliche amministrazioni e delle performances individuali e organizzative (d.lgs 150/2009, c.d. decreto Brunetta);
– la riconfigurazione del sistema nazionale di valutazione (SNV), con la previsione di una valutazione “esterna” di scuole e dirigenti (Legge 10/2011 e Regolamento SNV con il citato DPR 80/2013).

Si tratta di un pacchetto “consistente” di novità, che la scuola ha subìto passivamente, piuttosto che agito da protagonista. Si pensi all’impatto delle prove Invalsi, che spesso determina comportamenti opportunistici nelle scuole (il cd. cheating) o invita i docenti al “teaching to the test”. Bene hanno fatto le Indicazioni/2012 per il primo ciclo a mettere in guardia contro una didattica finalizzata all’esclusivo superamento dei test. Ciò significa considerare le prove Invalsi come uno strumento utile, ma non esclusivo, per meglio interpretare i meccanismi dell’apprendimento, le conoscenze fondamentali, i processi didattici. La somministrazione censuaria delle prove sembra comunque utile (ma non tutti sono d’accordo) perché consente ad ogni scuole di disporre di informazioni preziose sugli apprendimenti, informazioni che però dovranno essere utilizzate con molta cautela, sia all’interno della scuola, sia -a maggior ragione- verso l’esterno.
La via della “sperimentazione”
La cultura della valutazione (a livello di sistema educativo) richiede di chiarire il rapporto tra autovalutazione (o valutazione interna) e valutazione esterna, di affrontare lo “snodo” tra valutazione e miglioramento, di prendere in considerazione il sistema di incentivi-premi e comunque le conseguenze che possono essere associate ai processi valutativi.
Le sperimentazioni avviate in questi ultimi anni possono aiutare a chiarire questi nodi. Ci riferiamo in particolare al progetto VALES (Valutazione e Sviluppo scuole), che sembra essere stato gradito –una volta tanto- da un’ampia platea di istituzioni scolastiche (oltre 600, di cui 300 impegnate ufficialmente nella ricerca). Nel progetto sono stati apprezzati:
a) l’assenza di un sistema premiale/competitivo e, viceversa, l’erogazione di finanziamenti a tutte le scuole partecipanti, per favorirne l’impegno;
b) l’inserimento nel programma di valutazione della performance del dirigente scolastico (come “interprete” e “leader” della propria comunità professionale, e non solo come organo “monocratico);
c) la finalizzazione esplicita delle diverse fasi del processo di valutazione alle azioni di miglioramento;
d) l’accentuazione della dimensione autovalutativa, come spinta al protagonismo dei soggetti “interni” e all’assunzione di responsabilità da parte della scuola per il proprio sviluppo.
Questi criteri, di cui c’è traccia anche nel nuovo Regolamento sul sistema nazionale di valutazione, sembrano dunque accantonare la logica competitiva suggerita in precedenza (cfr. Progetti “Valorizza” e “VSQ”) per sposare invece altri orientamenti maturati a livello europeo, come ad esempio il modello CAF-Common Assessment Framework, cioè la capacità di autoanalisi delle organizzazioni pubbliche, incentrate su processi autovalutativi accompagnati da azioni di audit e/o monitoraggio esterno, sulla base di indicatori quali-quantitativi per la descrizione del funzionamento di una istituzione, nel nostro caso formativa. Molte esperienze costruite dal basso (marchio Saperi, rete Avimes, rete AIR, rete Faro, iniziative AICQ, ecc.) sembrano suggerire una “via italiana” alla qualità dell’istruzione, strategia che andrebbe valorizzata per costruire un maggiore consenso attorno agli sviluppi del sistema di valutazione.
Le coordinate del nuovo regolamento
Pur accolto tra molte polemiche e “distinguo” il nuovo Regolamento sul sistema di valutazione si innesta nell’alveo di questa cultura. Certamente la parte innovativa del regolamento è la previsione di un’azione di valutazione esterna delle scuole. Si tratta di un tassello mancante nel nostro sistema, mentre fin dall’attribuzione dell’autonomia (art. 21 della legge 59/1997) si faceva carico ad ogni scuola di rendere conto della propria produttività culturale. E’ stato un principio in larga parte disatteso dalle scuole, visto il mancato obbligo di adottare procedure di autovalutazione o di dotarsi di un proprio “bilancio sociale”. Esistono esempi diffusi di autovalutazione (anche in rete), si trovano buone esperienze di “rendicontazione sociale”, ma è mancato un vero e proprio impegno di sistema.
Nel regolamento sul SNV questo principio di responsabilità si comincia a scorgere, nella connessione indispensabile tra:
– pratiche di autovalutazione (anche sulla base di un input che arriva da indicatori e dati forniti dal centro: prove Invalsi, “scuola in chiaro”, questionari di sistema, customer satisfaction, ecc.);
– momenti di verifica esterna “in situazione” (oggi relegati a faticosi e sporadici interventi ispettivi nel campo delle patologie più evidenti e dunque troppo tardivi);
– azioni di miglioramento (spesso lasciati alle dinamiche volontaristiche degli istituti);
– espressione di giudizi e apprezzamenti (una pagella per le scuole, hanno semplificato i giornali, ma la questione va affrontata con più delicatezza);
– forme di trasparenza e rendicontazione pubblica (apparentemente scontata, ma non scevra di qualche rischio).
Insomma, emerge dall’articolato del nuovo Regolamento (ma mancano ancora i decisivi protocolli sulla cui base condurre le indagini nelle scuole), un’idea di valutazione finalizzata al miglioramento, ove la competizione è semmai con sé stessi, per una scuola che diventa consapevole dei propri punti di forza così come delle proprie criticità, attraverso l’analisi di informazioni comparabili su base più ampia. Il confronto con un punto di vista “esterno” può aiutare a superare la propria autoreferenzialità. L’obiettivo, alla fine, è quello di stimolare ogni istituzione scolastica a dare il meglio di sé, a raggiungere standard ottimali di funzionamento (che dovranno però essere resi espliciti), a produrre risultati soddisfacenti in termini di apprendimento degli allievi, tenendo conto dei diversi contesti (il c.d. “valore aggiunto”).
Cosa valutare, di una scuola?
Nell’impianto di un sistema di valutazione esterna delle scuole è decisiva l’articolazione e la struttura dei protocolli di visita, mentre non se ne trova traccia nel Regolamento. Tutto è demandato all’Invalsi senza che il legislatore abbia espresso indirizzi portanti sulle priorità degli elementi da osservare. Un conto è mettere a fuoco le aree di eccellenza (per incentivarle ulteriormente), un altro è curvare l’analisi sulle aree di criticità (per favorirne il superamento)? La direzione della valutazione non è questione di poco conto.
Un protocollo di valutazione dovrà considerare le diverse dimensioni didattiche, progettuali, organizzative e gestionali delle istituzioni scolastiche. Le aree di osservazione faranno riferimento ad alcuni aspetti fondamentali del funzionamento di una scuola, quali:
a) apprendimenti, eccellenze e dispersione:
– apprendimenti degli allievi (rilevati attraverso prove strutturate nazionali, prove elaborate a livello locale o di istituto, elementi di valutazione “autentica”, portfolio e dossier);
b) partecipazione e inclusione degli studenti alla vita di istituto:
– partecipazione, comportamento, iniziativa degli allievi, clima sociale dell’istituto, pratiche inclusive, spirito di collaborazione, responsabilità sociale;
c) organizzazione didattica e innovazione tecnologica:
– modelli organizzativi e didattici, qualità delle metodologie, impiego di tecnologie digitali e multimediali, articolazione dei gruppi, didattiche laboratoriali, utilizzo di risorse culturali esterne;
d) professionalità, ricerca, valutazione e documentazione:
– organizzazione della comunità professionale, sviluppo professionale, iniziative di ricerca formazione e documentazione; disponibilità alla valutazione interna ed esterna della qualità del lavoro;
e) rapporti con la comunità scolastica e il territorio:
– rapporti, gradimento e soddisfazione dei diversi soggetti della comunità scolastica, con particolare riferimento agli studenti, ai genitori, ai rappresentanti della comunità sociale (stakeholder, enti locali, ecc.), e relative procedure di rendicontazione;
f) stili di leadership e processi decisionali:
– ruolo del dirigente scolastico (e dello staff di direzione) in relazione alla gestione delle risorse umane, alla promozione culturale e professionale, alle dinamiche relazionali e comunicative, al sistema delle decisioni;
g) servizi gestionali e di supporto:
– gestione dei servizi amministrativi, tecnici, ausiliari e di supporto, in rapporto all’efficacia ed efficienza delle procedure di gestione delle risorse finanziarie e strumentali.

L’analisi dell’organizzazione scolastica viene compiuta dai nuclei di valutazione attraverso incontri, audizioni, sopralluoghi, visite a classi e laboratori, acquisizione di documentazione. Gli indicatori di performance e gli standard di riferimento (descritti in apposite rubriche) dovranno consentire l’apprezzamento di evidenze circa il funzionamento dell’istituto.
Ma chi saranno i valutatori delle scuole?
Gli orientamenti normativi più recenti (dalla Legge 10/2011 al Regolamento SNV) attribuiscono al corpo ispettivo la funzione di valutazione esterna delle scuole, prevedendo che un apposito contingente di ispettori si impegni in questo compito (in tale direzione si muove anche il recente decreto-legge 104/2013 che “sblocca” la nomina di nuovi Ispettori). Questa prospettiva si scontra però con molte difficoltà pratiche e teoriche:
a) il servizio ispettivo italiano è ridotto al lumicino (circa 30 ispettori in servizio sui 300 in organico), dopo anni di disinteresse. L’attuale concorso (che per altro focalizza il profilo su competenze giuridiche e procedurali) non sembra garantire un sufficiente ricambio;
b) la visita alle scuole dovrebbe essere compiuta da equipe multi-professionali, in grado di apprezzare le diverse variabili in gioco nel funzionamento delle scuole; ad esempio, occorre prestare attenzione, da un lato, alla dimensione gestionale e organizzativa e, dall’altro, agli aspetti di funzionamento didattico e quindi alle caratteristiche dell’offerta formativa;
c) manca in Italia un profilo di valutatore, se si eccettua qualche progetto pilota realizzato dall’Invalsi, prevalentemente nelle regioni del Sud e l’ormai vetusta esperienza dei monitoraggi MIUR-IRRE (Monipof, Moniform) connessi all’avvio dell’autonomia scolastica attorno agli anni duemila;
d) resta da risolvere la dicotomia tra funzioni di valutazione e funzione di accompagnamento-miglioramento che, al momento, sono state nettamente separate e ricondotte le prime all’Invalsi e le seconde all’Indire;
Si fa strada l’idea che gli ispettori coordineranno i team di valutazione, composti da altre professionalità, provenienti dall’interno e dall’esterno della scuola. In tal senso si è mosso l’INVALSI per reclutare attraverso un apposito Bando le figure da utilizzare per gli interventi nelle scuole “VALES” oggetto di valutazione esterna. Ma, al di là delle sperimentazioni che riguardano un piccolo numero di scuole, occorre soppesare impatto, costi, praticabilità di un sistema che voglia essere presente in tutte le scuole italiane (circa 9.000) e non limitarsi ad intervenire solo in quelle che presentano criticità.
Un buon modello di riferimento è l’OFFSET inglese, l’ufficio per il controllo degli standard in educazione, affidato agli Ispettori di ”sua maestà”. Il servizio ispettivo riesce a garantire un sistema di visite generalizzate alle scuole, che si concludono con il rilascio di un report valutativo che rappresenta la base conoscitiva per ulteriori interventi. Ma altri paesi hanno adottato strategie in cui prevalgono figure di sistema che abbinano alla funzione ispettiva quella di supervisione ri-orientamento delle pratiche professionali. In Australia è stato addirittura coniata una nuova professionalità, quelle del network leader, come “agente di innovazione” e figura di raccordo e di stimolo alla progettualità delle scuole di una certa area territoriale.
Alcuni nodi da sciogliere
Il tema della valutazione ne richiama altri, perché è al crocevia di molte questioni per lo sviluppo del nostro sistema. Il dibattito che si è sviluppato a seguito dell’adozione del nuovo Regolamento si è accentrato attorno ad alcuni nodi irrisolti. Li analizziamo in breve:
a) il ruolo centrale attribuito all’INVALSI. Dall’articolato emerge la posizione di preminenza che l’Invalsi è venuto assumendo attraverso l’evoluzione del quadro normativo (dalla legge 10/2011 alla legge 35/2012, fino alla legge 111/2012). Si è voluto assicurare all’Istituto non solo la funzione tecnica di “rilevazione degli apprendimenti” (come era nella tradizione dell’Invalsi), ma la regia dell’intero sistema, per il quale viene costituita una cabina di regia “guidata” dal Presidente dell’Invalsi. In essa il rappresentante del MIUR (il servizio ispettivo) assume un ruolo che appare marginale. Resta dunque aperto il tema della “terzietà” del sistema di valutazione rispetto al potere esecutivo e all’amministrazione, da un lato, e il necessario rapporto tra le scelte di indirizzo politico-culturale (la scuola che vogliamo per il nostro paese) ed il ruolo “tecnico” dell’Invalsi. La Direttiva del Ministro all’Invalsi rappresenta al momento la strada maestra per definire tali indirizzi (la più recente risale all’autunno 2012: la Direttiva n. 85 del 12-10-2012);
b) il peso eccessivo attribuito alle prove Invalsi. Se il sistema si apre ad altri indicatori (il funzionamento della scuola, la cultura organizzativa, la professionalità degli operatori, il legame con il territorio, ecc.) il “peso” dei test dovrebbe diminuire, perché si affacciano sulla scena altri valori, altri oggetti di analisi, cioè i fattori che possono influire su (una parte) dell’apprendimento. Questo per evitare l’indesiderato “teaching to the test”. E’ però ovvio che i risultati degli apprendimenti, quelli misurati dall’Invalsi, ma anche quelli rilevati in altro modo dalla scuola, avranno un loro peso nella valutazione della qualità di una scuola (magari al netto del valore aggiunto), ma saranno inseriti nel contesto più ampio delle caratteristiche di una scuola, come già appare nel quadro di riferimento dei protocolli VALES e nell’indice del RAV, il rapporto di autovalutazione che è stato predisposto in questi mesi dai dirgenti neo-assunti e dalle scuole Vales;
c) le caratteristiche dell’autovalutazione. C’è un consenso generalizzato sull’importanza dell’autovalutazione, ma poi le modalità per realizzarla sono diverse. Ha destato preoccupazione, nelle prime prove tecniche promosse da Invalsi e MIUR, la rigidità degli strumenti proposti. L’autovalutazione deve considerare i risultati dei test Invalsi, i dati strutturali di “Scuole in chiaro”, i questionari predisposti per la customer satisfaction, un questionario nazionale di sistema… Sembra venire meno quell’autonomia delle scuole nelle pratiche autovalutative che ne fanno uno strumento duttile e legato ai diversi contesti. E’ vero che un “dato” si capisce solo se è collocato in un “range”, se ci si confronta con situazioni più ampie, se ci si posiziona in un quadro di riferimento prestabilito (benchmarking), ma il rischio di una competizione al ribasso è dietro l’angolo e rischia di “falsare” le carte o di indurre a comportamenti opportunistici. Ben venga il confronto, ma dovrebbe essere soprattutto con se stessi, con i risultati precedenti, con l’evoluzione della situazione, da collegare alle scelte consapevoli che si vengono compiendo in una scuola;
d) la pubblicità dei dati. A gran voce si reclamano trasparenza, tracciabilità, documentazione, open data, accesso pubblico a tutte le informazioni di interesse per gli utenti e gli stakeholder. Ma in materia di istruzione la cautela è d’obbligo. Occorre soppesare gli effetti indesiderati di una diffusione immediata dei risultati dei test, perché non rappresentano tutto il valore di una scuola, anzi rischiano di portare fuori strada e di semplificare tutto. Si potrebbero accentuare le differenze tra scuole buone e scuole scadenti, mandare in crisi certe istituzioni (per farne che, poi?), accentuare la non equità del nostro sistema (se i genitori scegliessero in base alle loro condizioni o convinzioni sociali). Bene ha fatto in questi anni l’Invalsi a blindare la pubblicazione dei dati (anche se negli ultimi mesi questa convinzione sembra essersi appannata), riservandoli alla conoscenza ed alla gestione delle singole scuole. Ben altro è il concetto di rendicontazione sociale, cioè la responsabilità della scuola nel render conto dei propri risultati correlandoli alle risorse disponibili, ai dati di contesto, al lavoro effettivamente svolto. Un bilancio sociale non coincide con la pubblicazione di qualche tabella.
Questi nodi sono appena sfiorati dal testo del nuovo Regolamento, ma andranno sciolti con accortezza, se vogliamo che l’avvio del sistema di valutazione sia un’occasione di sviluppo e miglioramento della scuola e non dia luogo a quelle reazioni difensive che hanno quasi sempre accompagnato nel nostro paese l’introduzione di innovazioni in materia di valutazione.

da Notizie della Scuola

“Un governo senza Berlusconi”, di Claudio Sardo

Silvio Berlusconi ha aperto la crisi contro l’Italia. Non si tratta soltanto di una crisi di governo. Siamo pericolosamente vicini a un collasso delle istituzioni democratiche, mentre nella società si diffonde un impasto di sfiducia, paura, perdita di competitività e di diritti. Questa crisi segnerà uno spartiacque: dalla seconda Repubblica purtroppo non si può uscire con una, pur limitata, condivisione.

Il governo Letta, benché privo di un accordo politico, è stato l’ultimo tentativo di gettare insieme un ponte verso un nuovo sistema, di porre le precondizioni di cambiamenti necessari.

Ma con Berlusconi è impossibile costruire. Non ha il minimo senso di responsabilità nazionale. Non gli interessa che a pagare i suoi ricatti siano i cittadini più deboli, le imprese che cercano di resistere alla crisi, le famiglie già colpite dalla perdita del lavoro e dai tagli al welfare. Così come, con cinismo, ha imposto che l’esenzione dall’Imu del 10% più ricco del Paese fosse a carico dei cassintegrati e delle imprese, oggi ha usato l’aumento dell’Iva – da lui provocato – per coprire la vergogna del ritiro dei ministri, motivato dalla ribellione eversiva ad una sentenza di condanna definitiva.

Qualcuno dirà che tutto era già scritto e che non bisognava avventurarsi sul terreno delle intese parlamentari con il Pdl. La discussione resterà aperta a sinistra. Ma in punto di partenza non può che essere il Paese, cioè quest’Italia declinante che aumenta il distacco dall’Europa e che rischia di precipitare in termini di produzione, di lavoro, di reddito, di solidarietà, di senso civico. Le elezioni non hanno dato alcuna maggioranza. Grillo ha giocato per Berlusconi e le larghe intese, fregandosene del cambiamento e cercando di lucrare su una rendita di opposizione. Il Pd non è stato capace di liberarsi dalla tenaglia, anzi alle elezioni presidenziali ha tentato persino di suicidarsi. E il leader del Pdl si è seduto sulla riva del fiume, anche perché sapeva che alcuni suoi processi stavano arrivando a sentenza.

La legislatura più incerta è cominciata così, tentando di aprire una strada per l’Italia prima ancora che per i partiti della strana coalizione. C’era una domanda di governo che veniva dai settori più deboli del Paese e dalle forze più esposte alla competizione interna ed internazionale. C’era una domanda di riforme, perché non si può più tornare al voto con questa legge elettorale. Se le nuove elezioni dovessero vanificare ancora le volontà degli italiani, sarebbe una catastrofe: svanirebbe ogni residuo di fiducia interna, scapperebbero gli investitori esteri e lo spettro populismo si allungherebbe sulla politica. Ma tutte le ragioni, che sono state all’origine del governo Letta, non sono venute meno. Anzi, sono diventate più grandi. L’Italia ha bisogno vitale di cambiamenti profondi, di riforme serie, di un nuovo clima sociale.

La reazione di Berlusconi alla sentenza ha colpito il governo alle fondamenta, nella sua stessa credibilità. Le dimissioni dei parlamentari Pdl annunciate mentre Letta era a Wall Street a convincere gli investitori a scommettere sull’Italia sono state un colpo alla schiena. In uno Stato di diritto le sentenze si rispettano. Come si rispettano le leggi: un condannato per reati gravi come la frode fiscale si ritira dagli uffici pubblici senza neppure bisogno di un voto sulla decadenza. Questo accade ovunque c’è una Costituzione. Su questo è stato chiaro fin dal primo giorno che il governo Letta non avrebbe fatto sconti, né baratti.

Il governo Letta non è mai stato un’assicurazione per Berlusconi. Ora è stato dimostrato. La presenza del Pdl in maggioranza era semmai per il Cavaliere l’avamposto da cui lanciare l’affondo finale. Ma ora è arrivato il momento della verità. E non solo lui, ma l’intero suo partito e i suoi elettori sono chiamati a una scelta dalla quale può dipendere il prossimo futuro. È chiaro che nulla sarà più come prima. Dopo questo strappo, Berlusconi si è autoescluso dal confronto sulla transizione economica, sociale e istituzionale del Paese. Si è chiamato fuori dall’arco costituzionale, per dirla con parole del passato. Ora bisognerà vedere se il Pdl reggerà e se dalla sua rottura emergerà una nuova destra, europea e costituzionale, disposta a costruire le basi dell’Italia di domani.

Enrico Letta non deve mollare. E il Pd deve sostenerlo nel prossimo passaggio cruciale in Parlamento. Sarebbe demenziale a questo punto giocare di sponda con Berlusconi per arrivare ad elezioni immediate, senza cambiare neppure la legge elettorale. Letta e il Pd devono sfidare la destra, devono riproporre il tema di un governo fino alla fine del 2014 a quanti nel Pdl non accettano l’oltraggio all’Italia. Certo, la scena dei ministri Pdl licenziati come domestici sorpresi a rubare non offre molte speranze: ma sappiamo, e vediamo, che alcune coscienze sono turbate.

Letta e il Pd devono riaprire la sfida anche con Sel e anche nel campo dei grillini. Certo, sarebbe irresponsabile proseguire la legislatura con una maggioranza formata da qualche scilipoti del Pdl e/o dei Cinque stelle. Ma Letta sia chiaro in Parlamento: non ci saranno salvacondotti per Berlusconi come per nessun altro nelle sue condizioni; le riforme elettorali e istituzionali sono necessarie per costruire un nuovo sistema politico; la ripresa europea si riaggancia con politiche di equità e con politiche fiscale concentrate sul lavoro (altro che sconti Imu ai più ricchi). Se la maggioranza avrà una sua solidità politica (compreso il progetto di una destra alternativa a Berlusconi), si punti al traguardo del 2014 con il Cavaliere all’opposizione. Se i numeri saranno esigui si abbia almeno la dignità di cambiare la legge elettorale prima di tornare al voto. È una battaglia decisiva per l’Italia. Ma sapevamo che la battaglia decisiva sarebbe passata dentro questo governo.

L’Unità 29.09.13

“Ora basta, pensate al Paese”, di Mario Calabresi

A metà di un sabato pomeriggio in cui gli italiani cercavano di godersi le ultime ore di clima mite, prima della pioggia che annuncia l’autunno, è arrivato improvviso il gelo di una crisi inutile e disastrosa. La decisione a sorpresa di Silvio Berlusconi di far dimettere i suoi ministri, per far crollare il governo, è un colpo durissimo per il nostro Paese. Un’umiliazione che ci sprofonda nel caos, nella mancanza di credibilità, che ci rimette sotto esame, che conferma ogni peggior stereotipo sugli italiani.

Oggi è il compleanno del Cavaliere, compie 77 anni, ma il regalo che ha fatto agli italiani è amarissimo. Non si tratta soltanto dell’aumento dell’Iva o del rischio di dover pagare l’Imu, cosa su cui si continuerà a discutere e che fa parte delle opposte propagande, ma del lavoro e degli sforzi gettati via e dell’impossibilit à di concentrarsi sul salvataggio dell’Italia.

È quasi inutile mettersi a ricordare la situazione nella quale siamo: la mancanza di lavoro, di speranze, di prospettive; il coraggio che moltissimi devono mettere in campo ogni giorno per andare avanti; la disperazione di chi deve abbassare una saracinesca per sempre o di chi ha ricevuto la lettera di licenziamento. Inutile anche gridarlo di fronte a chi è sordo ai problemi di tutti.

Nei Paesi normali, quelli noiosi in cui le elezioni si tengono a scadenze fisse, i cambi di governo sono considerati traumatici perché ogni volta bisogna rimettere in moto la macchina con guidatori nuovi. Noi ci permettiamo il lusso – suicida – di farlo per la seconda volta nello stesso anno. Con un disprezzo totale della vita dei cittadini e dei loro problemi.

In Francia è appena stata varata una commissione che dovrà stilare un rapporto per immaginare come sarà il Paese tra dieci anni, per programmare politiche capaci di interpretare e guidare i cambiamenti. Il nostro orizzonte invece si è ridotto ad una manciata di ore. Non abbiamo nemmeno più la vista breve, sembriamo condannati alla cecità.

Nella settimana in cui dovremmo solo discutere del fatto che la prima azienda telefonica nazionale passa in mani straniere o che la nostra compagnia aerea di bandiera presto non sarà più tricolore, siamo risucchiati nel gorgo dei problemi giudiziari di un uomo solo.

Un uomo solo, che può gridare all’ingiustizia e alla persecuzione, ma che non ha il diritto di trascinarci a fondo tutti, di toglierci la possibilità di tornare a respirare.

Tra quindici giorni andrà presentata la legge di stabilità, il passaggio chiave per chi come noi ha i conti pubblici a rischio; il 15 novembre arriveranno le pagelle europee; il nostro debito è risalito pericolosamente; il Fondo Monetario proprio due giorni fa è tornato a parlare di Italia a rischio: E noi, che avremmo un disperato bisogno di uno scudo di protezione e di credibilità, ci presentiamo al giudizio nudi e disarmati.

Questa settimana Letta era a parlare a Wall Street, per rassicurare sulla nostra stabilità, pensate allo sconcerto o alle risate (a seconda che ci amino o no) che si stanno facendo in giro per il mondo.

Avremmo bisogno di alzare la testa, dare spazio all’energia e alla razionalità e provare a immaginare e costruire, partendo dai problemi reali, un’altra Italia.

Un’Italia in cui alla possibilità di dare un contratto di lavoro a un giovane sia attribuita la stessa dignità e importanza dei problemi giudiziari di Berlusconi. In cui si capisca, come ci raccontava su queste pagine con grande lucidità e efficacia il professor Enrico Moretti, che avere una compagnia aerea di bandiera con una base di voli internazionali non è uno sfizio ma una necessità vitale per far crescere l’occupazione e ogni tipo di commercio.

In cui ci si interroghi sul futuro possibile della sanità pubblica, sulle cure che ci potremo permettere, sull’importanza della ricerca e degli investimenti in istruzione per ripartire.

Un’Italia in cui non si vive prigionieri delle guerre tra falchi e colombe, ma in cui il semplice cittadino che sta aspettando un colloquio e il grande imprenditore che deve decidere un investimento non vedano vanificati i loro sforzi dai risultati di un pranzo del sabato in Brianza.

Gli italiani meritano rispetto. È tempo di chiarezza, di passaggi netti, definitivi.

Sappiamo con certezza che la maggioranza dei politici del Pdl non approva questa decisione. Sarebbe ora che trovassero la dignità e la forza di non scambiare l’affetto, la fedeltà e la riconoscenza per il Capo con l’adesione a un gesto che fa del male a tutto il Paese.

E sarebbe il tempo in cui tutti quelli che pensano di appartenere ad una comunità fatta di sessanta milioni di persone e non ad una parte, avessero il coraggio di dire: «Questa volta viene prima l’Italia».

La Stampa 29.09.13

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“Franceschini: no al voto col Porcellum i moderati di buona volontà scelgano tra il Cavaliere e il futuro del Paese”, di GIOVANNA CASADIO

«Siamo a un bivio, all’epilogo di vent’anni di berlusconismo. So che ci sono persone che hanno seguito Berlusconi sin qui e che si chiedono ora se essere fedeli al proprio leader o al proprio Paese». Il ministro Dario Franceschini, nella giornata più concitata per il governo, tra un dibattito della sua Areadem a Cortona e il filo diretto con il premier Letta sulla crisi di governo, spera in una spaccatura nel Pdl.
Ministro Franceschini, il governo è dimezzato, la crisi è dichiarata
di fatto?
«Quando i ministri di uno dei partiti che sostengono il governo, si dimettono, è evidente che si è piombati nella crisi. Come gestirla lo decideranno il presidente Napolitano e il presidente del Consiglio. Non si poteva del resto andare avanti in modo ipocrita».
E quindi ora cosa succede?
«Vengono al pettine tutti insieme molti nodi, ma soprattutto la vera anomalia di Berlusconi, che noi abbiamo detto essere il conflitto d’interessi, i toni esagerati… ma il nodo più grosso è un altro, e cioè l’idea che lui ha di non essere sottoposto alla legge e alle regole come gli altri cittadini. Uno può ritenersi innocente, può ritenersi vittima, però qualsiasi uomo politico di destra o di sinistra, di questo tempo o dei tempi passati, di fronte a una sentenza definitiva di condanna per frode fiscale, ne prende atto. Berlusconi è incapace di accettare le regole, anche a costo di rovesciare le conseguenze delle proprie vicende personali sull’Italia».
Lui per ò dice di rompere per l’aumento dell’Iva, su cui governo e Pdl si stanno palleggiando la responsabilità?
«Mi offendo solo a sentire il termine “palleggiare”. Sull’Iva, venerdì il consiglio dei ministri ha preso atto che c’era una crisi politica già avviata, e quindi era impossibile approvare un decreto d’urgenza per impedirne l’aumento senza un chiarimento politico, visto che è una maggioranza parlamentare a dovere convertire quel decreto in legge Lo capiscono anche i paracarri che aumento dell’Iva e il fatto che si potrebbe pagare la seconda rata dell’Imu è colpa di chi ha portato il paese in questa crisi. E si comprende altrettanto facilmente
che il riferimento all’Iva è solo un pretesto. Nelle scelte degli ultimi giorni di Berlusconi non c’è più una razionalità».
Cosa c’è, allora?
«La logica del “muoia Sansone con tutti i filistei”».
Si apre ora una verifica parlamentare?
«La scelta sarà del presidente Napolitano, ma noi vorremmo che tutto avvenisse in Parlamento, con un voto alla luce del sole, senza ambiguità».
Si torna alle urne o ci sono le condizioni per evitarlo?
«Tornare al voto con il Porcellum, alla vigilia di una sentenza possibile della Consulta sull’incostituzionalit à di questa legge,
significherebbe ancora instabilit à: chi vince alla Camera, non ha un maggioranza al Senato. Questo governo di emergenza, delle larghe intese, è stato il frutto di una coabitazione temporanea tra avversari per gestire una fase di emergenza e ha fatto un lavoro positivo per affrontare i problemi economico-sociali. Ora siamo al bivio. Per vent’anni il sistema politico italiano è stato bloccato su Berlusconi e si è costituita una coalizione intorno a lui, e una contro di lui. Piaccia o non piaccia, siamo alla fine del ciclo politico berlusconiano. Ciò che avverrà nel centrodestra dopo Berlusconi, non riguarda solo gli elettori di quel campo, ma tutto il paese. In politica non esiste il vuoto, viene colmato sempre. È accaduto con Forza Italia nel ’94; pochi mesi fa con Grillo. Dopo Berlusconi si apre a destra uno spazio politico che può essere occupato da una forza populista o da un partito moderato europeo che faccia riferimento alla famiglia del Ppe. È quello che vorrebbero tutti gli ambienti moderati italiani e europei».
Sta rivolgendo un appello ai moderati del Pdl?
«Sto semplicemente dicendo che quanto avverrà nelle prossime ore può condizionare il futuro del centrodestra e del sistema politico italiano. So che ci sono persone che pure hanno seguito Berlusconi in questi vent’anni e che adesso si stanno interrogando su cosa fare, se scegliere fino in fondo la fedeltà al proprio leader o al proprio paese. Spero che qualcuno trovi il coraggio di dirlo ad alta voce, non soltanto per fare continuare il cammino di questo governo, ma per la cosa più importante: dare all’Italia un partito di destra normale europea. Che possa governare transitoriamente con il Pd per tornare poi ad essere nostro avversario, insieme rispettando le regole della convivenza democratica».
Lei pensa a un nuovo governo, non alle urne. Ma con quale maggioranza?
«Mi fermo al passaggio parlamentare di martedì. Lì ogni parlamentare potrà dimostrare se ritiene più importante la propria parte o il proprio paese».
E quanto potrebbe durare questo nuovo governo?
«Il Parlamento ha ancora la possibilità di lavorare fino alla primavera del 2015, affrontando le emergenze economico sociali, il semestre europeo di presidenza italiana, cambiando la legge elettorale e completando il percorso di riforme costituzionali almeno con il superamento del bicameralismo. Oppure può fare precipitare tutto nel voto subito».

La Republica 29.09.13

“Il fantasma degli aiuti Ue”, di Federico Fubini

Il disgelo rischia di morire sul nascere. Gli investitori esteri avevano ripreso a puntare sui titoli del Tesoro, le banche italiane erano tornate a piazzare i loro bond sui mercati globali.
GIÀ da qualche giorno però tutto si era bloccato con il crescendo del ricatto sul governo. Non è questa però la sola conseguenza del terremoto politico in corso. C’è altro, perché a chi vuole staccare la spina al governo dev’essere sfuggita la svolta contenuta nell’ultimo rapporto del Fondo monetario sull’Italia: per la prima volta si descrive uno scenario in cui il Paese chiede aiuto all’Europa.
È una “raccomandazione” sepolta ad arte in una scheda tecnica, quasi ad attutirne l’impatto. Ma il senso è chiaro, perché un prestito come quello evocato dall’Fmi implica conseguenze che per le élite del Paese sarebbero drammatiche: un programma di riforme pilotato da Bruxelles, Berlino o Francoforte, dunque una messa sotto tutela internazionale. Stefano Fassina, viceministro dell’Economia del Pd, ha subito riassunto il quadro senza giri di parole: «Così sarà la Troika a scrivere la prossima Legge di stabilità».
È con questa posta in gioco che al G20 di inizio mese Fabrizio Saccomanni e Christine Lagarde avevano avuto un colloquio a tratti molto teso. Il ministro dell’Economia aveva protestato con la leader del Fondo monetario. Voleva sapere perché nelle bozze dei rapporti sul-l’Italia, quelli poi usciti ieri, l’Fmi fosse così pessimista sul sistema bancario: stime di perdite, a quanto pare, astronomiche. Lagarde aveva scaricato tutto sul suo vice David Lipton, un economista passato dalla Casa Bianca di Bill Clinton. E alla fine, gli scenari peggiori sono stati rimossi dal testo ufficiale.
La diffidenza che li ha ispirati invece resta. E a credere alle stesse parole di quel rapporto, rimane integra anche l’ipotesi che l’Italia a un certo punto debba bussare al fondo salvataggi europeo, l’Esm. Secondo l’Fmi l’innesco potrebbe arrivare proprio dalle banche, ora che finiranno sotto esame europeo prima che la vigilanza su di loro passi all’Eurotower di Francoforte. A pagina 11 del “rapporto articolo 4” pubblicato venerdì dal Fondo monetario, un “check up” sull’Italia, compare in effetti una “matrice dei rischi” che descrive proprio questa ipotesi. Il primo punto parla di “coalizione instabile” (eufemismo da tecnici) che porta a “arretramenti”, cioè un deficit sopra al 3% del Pil, a riforme in stallo e a “declassamenti del rating”. Da tempo questo è uno degli incubi di Saccomanni. Oggi l’Italia è a due soli gradini dal rating “spazzatura” di Moody’s e Standard & Poor’s, per di più con prospettive negative; in caso di declassamenti multipli, le banche potrebbero continuare a finanziarsi alla Bce solo se il governo accetta un prestito e un programma vigilato dall’Europa. Per l’Irlanda e il Portogallo l’ingranaggio dell’aiuto partì così. Di certo su queste dinamiche c’è una persona che oggi non intende affatto far sentire il suo peso, neanche in modo informale: Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea, ex governatore di Bankitalia, sa bene che una sua interferenza per alleviare la situazione del Paese da cui proviene minerebbe la sua credibilità nel resto d’Europa.
Draghi capisce anche che il fronte più delicato in questi mesi lo investe da vicino, perché riguarda le banche su cui dovrà vigilare. È qui che l’avvertimento del rapporto Fmi sull’Italia si fa più esplicito. È il il secondo nella “matrice dei rischi” indicati dal Fondo monetario. Gli economisti di Christine Lagarde temono che l’aumento dei fallimenti d’impresa, la caduta dei prezzi degli immobili e la difficoltà di finanziarsi all’estero indeboliscano alcuni istituti di credito. La probabilità che ciò accada è stimata come “media”, ma l’impatto “elevato”: aumenti delle sofferenze bancarie e
credit crunch ancora più forte. In quel caso il Fondo ritiene che gli istituti debbano fare trasparenza sui conti e il governo, se necessario, debba ricapitalizzarli con fondi pubblici. Oppure — qui il passaggio chiave — il Fondo dice che vanno “usate le misure di protezione europee se lo stress ha impatto sullo Stato”. È ciò che
è già successo alla Spagna.
Non è un destino inevitabile, anche perché l’Italia un anno fa ha già attraversato senza scosse mesi di governo dimissionario. Ma così l’Fmi presenta uno scenario in cui il Paese bussa al fondo salvataggi Ue, perché non può più sostenere le banche aumentando il debito pubblico. Nessuno l’aveva mai scritto nero su bianco in un testo ufficiale. Il terremoto politico aperto ieri rende peraltro quest’ipotesi più concreta, per un motivo preciso: l’esposizione delle banche italiane ai titoli di Stato è salita negli ultimi tre anni da meno di 200 a circa 400 miliardi. Se il valore di Bot, Btp o Ctz scivola nella crisi di governo, ci saranno ricadute più forti sui bilanci degli istituti. Un motivo di più perché nessuno abbia voglia di fare sconti all’Italia, ora che le sue banche stanno per passare al setaccio europeo e il Paese viaggia senza bussola.

La Repubblica 29.09.13