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“Due caimani e due bande di camerieri”, di Eugenio Scalfari

Il caimano. Debbo dire che Moretti aveva capito prima e meglio di tutti chi fosse il personaggio Silvio Berlusconi. E lo capì altrettanto bene Roberto Benigni scrivendo su di lui una ballata citata ieri sul nostro giornale da Gianluigi Pellegrino: “Io compro tutto dall’A alla Z / ma quanto costa questo c… di pianeta. / Lo compro io. Lo voglio adesso. / Poi compro Dio, sarebbe a dir compro me stesso».
Quanto a me, poiché siamo in tema di ricordi, in un articolo del 1992 scrissi e titolai: “Mackie Messer ha il coltello ma vedere non lo fa”. E poi D’Avanzo e la “dismisura” del Capo e proprietario di Forza Italia denunciata da Ezio Mauro come una sorta di lebbra che infetta e uccide la nostra democrazia.
Per dire chi è il Caimano la vena satirica e il giornalismo vedono talvolta più lontano della politica. La magistratura che ha il potere di controllo sulla legalità, è più lenta ma poi, quando arriva all’accertamento della verità, le sue sentenze definitive non consentono salvacondotti di sorta, il Caimano e il Mackie Messer di turno finiscono, come è giusto, in galera. Salvo difendersi con l’eversione.
Le dimissioni di tutti i deputati e i senatori del Pdl, chieste ed anzi imposte da Berlusconi e raccolte dai capigruppo Brunetta e Schifani, sono eversione vera e propria e così l’ha definita il presidente della Repubblica.
Non sono in nessun caso paragonabili all’Aventino messo in atto novant’anni fa dai deputati antifascisti. Loro avevano quella sola risposta possibile contro il regime dittatoriale che aveva calpestato e distrutto la democrazia; questi di oggi hanno la democrazia nel mirino e sperano che con questa trovata possano travolgere lo Stato di diritto che è la base sulla quale la democrazia si fonda.
Questo è l’obiettivo principale che il Caimano e i suoi sudditi ci propongono. Un obiettivo però difficilmente raggiungibile per due ragioni. La prima è procedurale: le assemblee parlamentari non possono funzionare se per qualche ragione viene a mancare non occasionalmente ma in permanenza il numero legale. Ma le dimissioni dei parlamentari del Pdl non incidono sul numero legale. Alla Camera il Pd da solo ha la maggioranza assoluta; in Senato la maggioranza è di 161 membri mentre i senatori del Pdl, della Lega e degli altri loro alleati raggiungono i 117. Quindi il Parlamento può continuare a funzionare.
Ma c’è un secondo elemento non procedurale ma politico: una parte dei sudditi forse non è più disposta a sopportare la sudditanza quando essa sconfina nell’eversione. Qualche segnale in questo senso c’è. Forse si aprirà qualche faglia nel Pdl che potrebbe innescare una vera e propria implosione. Si tratta di problemi di coscienza e di coraggio. Non ci metterei la mano sul fuoco per affermare che avverranno ma certo il tempo per verificarlo è molto breve.
L’altro bersaglio del Caimano è quello di abbattere il governo Letta o – peggio – di lasciarlo in vita paralizzato e logoro ogni giorno di più come già è stato tentato con qualche successo nei mesi scorsi e come si è platealmente verificato nella seduta del Consiglio dei ministri di venerdì, portando Letta alla conclusione di spezzare questo circuito nefasto e presentarsi alle Camere chiedendo la fiducia su un programma concreto e vincolante per tutti i parlamentari di buona volontà, quale che ne sia il colore e la provenienza.
Il Capo dello Stato è d’accordo su questo percorso, ricordando che i primi adempimenti con tempistica obbligatoria debbono essere la riforma elettorale che modifichi il “porcellum” in modo adeguato abolendo i suoi aspetti chiaramente anticostituzionali e l’approvazione della legge finanziaria senza di che il primo gennaio andrebbe in vigore l’esercizio provvisorio con la conseguenza di portare al fallimento la nostra finanza pubblica e al suo commissariamento da parte dell’Unione europea, della Banca centrale e del Fondo monetario internazionale.
A questa catastrofe che peserebbe sulle spalle di tutti gli italiani il Caimano e quelli che gli danno man forte ci possono arrivare e vogliono arrivarci. Il paese e gli elettori dovrebbero risvegliarsi e farsi sentire. Capiranno? Lo faranno? O una parte rilevante di loro mangerà ancora una volta la minestra avvelenata della demagogia? Sarebbe la sesta volta in diciannove anni di berlusconismo. Il pericolo è questo.

* * *
Enrico Letta si presenterà alle Camere domani e dopo domani (meglio prima che dopo) con un programma concreto delle cose da fare.
Le prime due (riforma elettorale e approvazione delle legge finanziaria) le abbiamo già dette. Ma il contenuto di
quest’ultima sarà aggiornato e integrato da decreti che tengano conto degli impegni già indicati cinque mesi fa, sui quali allora il governo ottenne l’ampia fiducia del Parlamento. Fermi restano quelli presi con l’Europa di mantenere il deficit sotto la soglia del 3 per cento per evitare la ripresa della procedura di infrazione da parte dell’Ue, tutti gli altri sono dedicati alla crescita, agli sgravi delle imposte che pesano sui lavoratori e sulle imprese e sulle relative coperture finanziarie, credibili e non inventate.
La cifra totale delle risorse che è necessario reperire oscilla tra i 5,5 e i 7 miliardi, necessari soprattutto per evitare l’aumento dell’Iva, incentivare l’industria e i lavoratori e aumentare entro quest’anno il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione
creando in tal modo una liquidità preziosa per le imprese e per le banche.
Un programma al quale hanno lavorato nelle scorse settimane lo stesso Letta e Saccomanni. Ma il Caimano ha fiutato il pericolo ed ha emesso ieri pomeriggio un ultimatum rivolto questa volta ai suoi ministri: debbono dimettersi immediatamente perché l’aumento dell’Iva ci sarà. Doveva essere impedito dal Consiglio dei ministri di ieri, ma sono proprio i suoi ministri ad aver congelato quel Consiglio impedendo che prendesse qualunque deliberazione. Adesso il Caimano, sfoderando l’ennesima bugia, rovescia le responsabilità per mandare all’aria il governo prima ancora che si presenti alle Camere.
Resta ora da vedere se i suoi ministri si piegheranno all’ul-
ordine del boss. Tutti o solo alcuni? Tutti, capitanati da Alfano. Non ministri, ma camerieri che antepongono gli ordini del padrone agli interessi del paese.
Così l’Iva aumenta, la seconda rata dell’Imu dovrà esser pagata, le erogazioni destinate a pagare i debiti dell’amministrazione saranno bloccate e lo “spread” tornerà irrimediabilmente a salire. Il tutto senza curarsi dello sfascio del paese pur d’allontanare l’applicazione d’una sentenza che punisce un congenito evasore fiscale e creatore di fondi neri destinati alla corruzione.
Ci auguriamo che Letta vada fino in fondo e attendiamo anche di vedere come si comporteranno in questo caso Vendola e la sinistra che guarda le stelle (cinque che siano) e metta invece finalmente i piedi per terra.
Quanto a Grillo sappiamo che cosa vuole perché lo dichiara un giorno sì e l’altro pure. Può sembrare strano, ma vuole le stesse cose di Berlusconi: la caduta del governo, le elezioni anticipate col “porcellum”, le dimissioni di Napolitano e un governo di grillini e di chi la pensa come loro (Berlusconi?) per una politica che si disimpegni dall’Europa e dall’euro e spenda e spanda per far contenti gli italiani.
Ma in che modo li farà contenti? Il risultato sarà lo sfascio totale, peggio della Grecia che comunque dall’Europa e dall’euro non è uscita e non vuole uscire.
La Grecia è irrilevante per l’equilibrio europeo; l’Italia no. Il fallimento dello Stato italiano, una democrazia etero- diretta da due caimani, una spesa pubblica alle stelle (molto più di cinque) e i mercati all’assalto del nostro debito, del tasso di interesse e di quello dell’inflazione, sarebbe più d’una catastrofe. Finiremmo come il Mali o il Kazakistan o la Somalia, nelle mani di due bande dominate da due irresponsabili.
Questa è la posta in gioco e ormai è questione di giorni.

La Repubblica 29.09.13

Femminicidi, Istat: “Smettiamola di contare solo le donne uccise”, intervista a Linda Laura Sabbadini

“I femminicidi sono in aumento”. “No, sono stabili”. “In Italia si ammazzano meno donne rispetto al resto d’Europa”. “È invece una escalation impressionante”. È infinito il battibecco sui numeri delle donne uccise nelle relazioni sentimentali, dibattito consumato sciorinando le cifre fornite ora dal Viminale, ora dalla lunga lista compilata annualmente dalla Casa internazionale delle Donne di Bologna. Per alcuni osservatori non esiste alcuna emergenza, anzi, è “propaganda”.

Eppure è possibile porre un punto fermo sulla questione: “Smettiamola di contare soltanto le donne uccise perché è un esercizio limitante”, esorta Linda Laura Sabbadini, direttrice del dipartimento per le statistiche sociali e ambientali dell’Istat e membro della commissione ONU che ha definito le linee guida a livello mondiale delle indagini statistiche sulla violenza contro le donne. Nel 2006 curò la prima vera ricerca sulla violenza contro le donne in Italia, mostrando una realtà sommersa e feroce: dieci milioni di italiane confessavano di avere subito violenza fisica, sessuale o psicologica nella stragrande maggioranza dei casi per mano degli uomini di famiglia.

Per Sabbadini non serve finire ammazzate per alimentare le statistiche: “I femminicidi sono la punta dell’iceberg. Dobbiamo comprendere tutte le manifestazioni di violenza di genere, fenomeno endemico e gravissimo che accomuna l’Italia al resto del mondo”. In attesa della nuova ricerca condotta dall’Istat sugli abusi nei confronti delle donne, rifinanziata dal ministero per le Pari Opportunità, Sabbadini fa parte della task-force interministeriale sulla violenza di genere: suo il compito di coordinare le banche dati istituzionali e non, per creare finalmente un osservatorio permanente e costituire un sistema di monitoraggio.

Partiamo dai dati che fanno discutere. Da gennaio a oggi secondo l’Eures sono stati compiuti 81 femminicidi. Hanno ragione coloro che sostengono che il numero delle donne uccise dai partner sentimentali sono invariati negli anni?

Sì, il quoziente è sostanzialmente stabile. Sta crescendo la percentuale di donne uccise sul totale degli omicidi perché contemporaneamente diminuisce il numero di omicidi di uomini. Ma ciò non può indurre a sminuire il fenomeno. La situazione è grave, proprio perché il tasso di omicidi di donne non si intacca. D’altro canto non esiste solo la barbarie dei femminicidi, la violenza contro le donne è molto più ampia e fin quando non avremo i dati dell’indagine Istat che ne stima il sommerso non potremo dichiarare con certezza se la violenza di genere è in crescita o diminuzione, ma solo fare ipotesi. I dati devono essere letti rigorosamente.

È emergenza?

Non credo che stiamo assistendo ad una recrudescenza, ma, insisto, non per questo la situazione è meno grave. Il numero di femminicidi è letteralmente inchiodato da anni, mentre il numero degli omicidi degli uomini sugli uomini è crollato negli ultimi 20 anni. È come se stessimo in una situazione di gravità permanente. Dobbiamo capire che il fenomeno è strutturale e quindi è pi ù difficile rimuoverlo.

Cosa risponde a coloro che obiettano che gli uomini vengono comunque uccisi in misura maggiore delle donne?

Che è vero e non solo in Italia. Ma gli uomini vengono uccisi da altri uomini per motivi differenti, spesso per criminalità organizzata. Le donne, invece, vengono uccise in quanto donne, mogli, fidanzate, ex compagne. Per contro la percentuale di uomini uccisi dalle loro compagne o ex compagne è bassissima. Per questo dobbiamo parlare di un fenomeno fortemente connotato e strutturale che trae le sue origini dallo squilibrio nei rapporti di genere.

Perché gli uomini arrivano a uccidere le donne che dicono di amare?

Il nucleo della violenza contro le donne è il rapporto di potere all’interno della coppia o della relazione. La violenza viene usata per ristabilire il potere maschile, è espressione del desiderio di controllo, dominio e possesso dell’uomo sulla donna. E man mano che la libertà delle donne aumenta il fenomeno diventa più grave poiché l’asimmetria è ancora più forte. Dobbiamo però cambiare rotta: smettiamola di contare soltanto le vittime di femminicidio. È un esercizio limitante. Dobbiamo invece comprendere tutte le manifestazioni di violenza contro le donne e mettere in campo strumenti di prevenzione e contrasto di lungo periodo che agiscano culturalmente, nel profondo, per evitare che queste violenze possano moltiplicarsi e permanere.

Quali sono gli stereotipi duri a morire sulla violenza di genere che una ricerca statistica può contribuire a eliminare?

La violenza di genere non è un raptus né la manifestazione di una patologia. Spesso quando le cronache riportano un femminicidio, se opera di italiano si parla di raptus o patologia, se straniero di barbarie culturale, come se ammazzare non fosse comunque una barbarie. Le ricerche sulla violenza di genere ci dicono invece che questa si esprime con una escalation di episodi sempre più gravi, non è quasi mai episodica e spessissimo i suoi autori sono lucidissimi.

Attenzione: queste caratteristiche sono costanti ovunque nel mondo e non soltanto in Italia. Stiamo parlando di un fenomeno strutturale, trasversale, che tocca i Paesi avanzati e i Paesi in via di sviluppo, i ricchi e i poveri, i colti e gli analfabeti: che va intaccato con politiche di ampio respiro. Noi abbiamo un tasso di omicidi di donne simile alla Svezia e più basso della Russia e della Finlandia.

È anche un problema delle donne?

Nella ricerca che l’Istat condusse nel 2006 scoprimmo che dieci milioni di donne avevano subìto violenza fisica, psicologica o sessuale, nella stragrande maggioranza dei casi per mano di un uomo della famiglia o comunque vicino sentimentalmente. Un numero enorme. Ebbene, il 30% di queste donne disse che non ne aveva mai parlato prima con nessuno e soltanto il 18% considerava quanto accaduto un reato e questo dato è in linea con le statistiche di altri paesi: le donne stentano a riconoscere la violenza del proprio partner. Sappiamo bene che molte sopportano perché sperano nel cambiamento del proprio compagno. Altre perché pensano che sia meglio per i figli avere la figura paterna: e ,invece, proprio le statistiche ci dicono che i figli che assistono alla violenza nei confronti della propria madre hanno una probabilità molto maggiore di diventare a loro volta mariti violenti da adulti rispetto agli altri. Ciò accade in ogni luogo a prescindere dalla latitudine. Si tratta della trasmissione intergenerazionale della violenza, cosa terribile.

Quali sono le priorità per smorzare la violenza di genere?

Io sono esperta di statistiche non di politiche, posso solo dire che servono strategie di breve e lungo periodo. I centri antiviolenza vanno fortemente sostenuti, sono fondamentali perché intercettano le donne nel momento più difficile. Ma occorre investire anche nelle strutture sanitarie, nelle forze dell’ordine, nell’educazione scolastica, nel lavoro ad ampio spettro culturale nell’ottica dell’integrazione, come ci dice la Convenzione di Istanbul. Bisogna essere coscienti del fenomeno, senza cadere nell’errore di sminuirlo. Non abbiamo bisogno di un bilancino per stabilire se siamo di fronte a un problema gravissimo: un Paese democratico non può tollerare che dieci milioni di cittadine siano vittima di violenza, sia essa psicologica, fisica e sessuale. Soprattutto, se consideriamo che un quinto di quelle italiane dice di avere avuto addirittura paura per la propria vita.

L’Italia è un Paese fortemente maschilista?

Tutti i Paesi del mondo sono maschilisti, anche l’Italia lo è. Ce lo dicono i dati. Non esiste un luogo dove la violenza di genere sia stata eliminata. Esistono, è vero, Paesi dove il carico di lavoro familiare è distribuito in maniera più equa tra uomini e donne. Ma, ovunque la violenza di genere stenta ad essere compressa o eliminata. La verità è che il mondo non è pronto alla libertà delle donne, le resistenze maschili al cambiamento sono fortissime. Sta anche alle donne reagire con forza.

www.Huffingtonpost.it

“Uno sparo nel buio”, di Michele Ainis

Che invidia per le squadre di calcio, lì almeno c’è una regola chiara. Poniamo che un allenatore dica all’arbitro: guai a te se mi fischierai un rigore contro, perché subito dopo la mia squadra abbandonerà il campo di gioco. Risultato? L’allenatore sarà squalificato per condotta antisportiva, la squadra uscirà sconfitta a tavolino per 3 a 0. Dopo di che il campionato prosegue senza interruzioni. E se invece non c’è di mezzo una partita ma un partito? Se quel partito (il Pdl) annuncia le dimissioni in massa dei suoi parlamentari?
Idea geniale, ma non del tutto originale. Nel gennaio 1864 si dimise Garibaldi, insieme ad altri 9 deputati: i garibaldini, per l’appunto. Tuttavia il precedente non fa testo, e non solo perché il partito di Silvio Berlusconi è allergico alle camicie rosse. Stavolta cambiano i numeri dell’esodo, dunque pure le sue conseguenze. Non cambiano però le procedure, o almeno non del tutto. Cerchiamo di metterle in fila.
Primo: le dimissioni sono un atto individuale, non collettivo. Vanno perciò presentate una per una. E vanno altresì votate in Parlamento, per giunta a scrutinio segreto, dato che si tratta d’una votazione su singole persone. Anche questa regola ha origini remote: risale al 20 dicembre 1850 il primo voto negativo sulle dimissioni del deputato Incisa Beccaria, che dunque rimase inchiodato al proprio scranno. Oggi però vige una regola al quadrato, giacché per prassi la richiesta non viene mai accolta alla prima votazione. Un antidoto contro le dimissioni in bianco, che qualche partito faceva firmare ai propri candidati alle elezioni (se sgarri, ti licenzio). Anche il secondo voto, però, non sempre è positivo. Nel 2006 Prodi governava sul filo del rasoio, sicché al Senato ogni assenza diventava una tragedia. Da qui le dimissioni dei sottosegretari-senatori, regolarmente impallinate nel segreto dell’urna. Per forza: la destra sperava nel rasoio, i sottosegretari (e i loro amici) disperavano della longevità di Prodi.
Secondo: il Porcellum. Significa che ogni eletto ha alle calcagna un non eletto, che ne prenderà le veci se lui libera la poltrona in Parlamento. Sicuro che avrà voglia di dimettersi a sua volta? Tanto per dire, dietro Berlusconi incalza il molisano Di Giacomo, che ha già fatto sapere di non volerne sapere. Ma ammettiamo pure che obbediscano tutti come soldatini, benché fra voti e controvoti ci vorranno mesi prima d’arrivare al capolinea. Scatterà a quel punto un autoscioglimento delle Camere? Manco per niente. La «dissoluzione» avviene quando manchi il numero legale, e non è questo il caso. Alla Camera il Pd ha la maggioranza assoluta, al Senato il Pdl — anche sommandovi la Lega e Grandi autonomie — raggiunge 117 seggi, mentre il numero legale viaggia a quota 161. Quindi si può andare avanti, come d’altronde è già successo: la XIV legislatura (2001-2006) s’aprì e concluse con 12 scranni vuoti.
Insomma: un colpo fragoroso, però senza proiettile. E al contempo una litania di paradossi. Con l’annuncio d’una crisi istituzionale senza crisi di governo, mentre semmai dovrebbe succedere il contrario. Con la lettera a Napolitano contro gli abusi della Giunta firmata ieri da Brunetta e Schifani, come se fosse lui la Giunta del Senato. Con un’interminabile querelle sulla retroattività della legge Severino, quando comunque fra un paio di settimane Berlusconi verrà interdetto dai pubblici uffici. Infine con un drappello di ministri che si dimettono da parlamentari ma intanto restano ministri. È ormai la cifra della Repubblica italiana: una Repubblica dimessa, non dimissionaria.

Il Corriere della Sera 28.09.13

“Il momento peggiore”, di Fabrizio Forquet

C’è una compulsiva attitudine della politica italiana che meriterebbe l’attenzione di uno specialista freudiano. Quella di farsi del male – e soprattutto di fare del male al Paese – nel momento peggiore, nel momento in cui le scelte rischiano di produrre il massimo del danno. È accaduto due anni fa, quando le tensioni tra Berlusconi e Tremonti hanno portato a una crisi di credibilità proprio mentre i mercati chiedevano il massimo della fiducia, si è ripetuto l’anno scorso quando nel corso dell’approvazione della legge di stabilità il Pdl ha di fatto tolto la fiducia a Monti, torna ad accadere quest’anno, con il governo Letta che è a un passo dalla crisi proprio alla vigilia di prove cruciali per la tenuta della nostra economia. È bene che lo si sappia con il massimo della chiarezza: questi sono i giorni peggiori per aprire una crisi. Basterebbe leggere il rapporto del Fondo monetario internazionale reso noto proprio ieri: «Ritardi nella politica potrebbero minare la fiducia spingendo l’Italia in un contesto negativo di rialzo dello spread, difficoltà di finanziamento delle banche e peggioramento dell’economia». Una spirale negativa, quella paventata dal Fmi, che potrebbe compromettere il ritorno del Pil al segno positivo nell’ultimo trimestre dell’anno. Gli economisti di Barclays stimano l’effetto crisi in una mancata crescita di due decimali di Pil negli ultimi tre mesi del 2013, con la conseguenza di portare a flat l’attuale stima di +0,2%. Un arretramento frutto di un inevitabile rinvio almeno al prossimo trimestre delle scelte di investimento delle imprese e dell’ulteriore gelata dei consumi, conseguenza di una fiducia ancora una volta tradita. Il campanello d’allarme, come sempre, arriva in queste ore dallo spread. Con i 14 punti di differenziale accumulati rispetto ai Bund tedeschi nella sola giornata di ieri. Il mercato è tornato inquieto verso i titoli italiani. E sarebbe un grave errore scambiare il recente periodo di sereno con un bel tempo stabile. Tanto più che l’Italia ha ancora 46 miliardi di titoli a medio e lungo termine da emettere sul mercato entro la fine dell’anno. Ma non sono solo i tassi. L’allarme viene da una questione industriale che si pone in tutta la sua evidenza proprio in queste ore attraverso le vicende tormentate di Telecom, Alitalia, Ilva. Casi (anche i primi due) che nulla c’entrano con un paventato assalto straniero ai nostri “gioielli”, ma che sono piuttosto l’esito di fallimentari scelte politiche e industriali e che richiederebbero, adesso più che mai, un governo capace di sostenere strategie industriali forti. Ci sono poi le scadenze che incrociano in modo sempre più stringente impegni europei e scelte di politica economica nel corso delle prossime settimane. A cominciare dalla data del 15 ottobre per approvare quella legge di stabilità cui è stata delegata tutta la strategia di rilancio economico, a cominciare dal taglio del cuneo fiscale. Una legge di stabilità che, in base alla nuova governance europea sottoscritta dall’Italia, dovrà poi essere approvata entro metà novembre in sede europea, in un confronto su cui pesa non poco la credibilità dei governi. Per non parlare dell’appuntamento con il Consiglio europeo del 24-25 ottobre, dove l’Italia potrebbe presentarsi senza un presidente del Consiglio nei suoi pieni poteri, al primo vertice in cui la Merkel darà la linea tedesca del dopo-elezioni. Cosa ne sarà poi di quella boccata di ossigeno che sta arrivando all’economia attraverso il pagamento dei debiti alle imprese? Finora alle aziende sono stati pagati poco più di 11 miliardi. Ne mancano altri 16 per centrare
l’obiettivo del 2013. Una frenata proprio ora significherebbe un grave danno in termini di fiducia e investimenti, non senza un impatto sul deficit per le mancate entrate già previste. Sono tutti passaggi essenziali per provare ad agganciare i flebili segnali di ripresa internazionale di fine anno. Passaggi ai quali l’Italia rischia ora di arrivare senza un governo. Laddove non solo servirebbe un governo, ma servirebbe anche un governo credibile. Perché è chiaro che a nulla servirà un Esecutivo che dalla prossima settimana dovesse ricominciare a ballare sull’Imu, dopo lo spettacolo indecoroso sull’Iva cui abbiamo assistito fino alla tarda serata di ieri. Non basterà in questo senso una verifica finta. Serve, se ancora è possibile, un patto di governo credibile, su un programma complessivo d’autunno che metta al centro le vere esigenze del Paese, che sono quelle dell’economia e del lavoro, separando queste scelte dalle utilità politiche e personali di breve respiro. La sensazione, invece, è che oggi prevalgano – da una parte – i rancori e le paure di chi fa fatica a guardare al proprio futuro personale oltre una lunghissima e sfibrante carriera politica e – dall’altra – le ambizioni concorrenti di piccoli leader preoccupati soprattutto dal proprio appeal con un elettorato che fa sempre più fatica a seguirli. In mezzo c’è l’interesse dell’Italia, ma questo ai più sembra importare molto poco.

Il SOle 24 ore 28.09.13

“Un Aventino contro il Paese” di Carlo Galli

E’ quello dei parlamentari del Pdl un Aventino rovesciato: e non solo perchè allora si trattò di secessione e non di dimissioni, ma soprattutto perché allora si volle testimoniare contro la criminale violazio- ne della legalità da parte del governo e dei suoi apparati, mentre oggi si vuole impedire l’esecuzione di una sentenza legale che corona un giusto processo.

Un gesto (che sia un bluff inconsistente, o una linea di comportamento destinata a essere applicata, o una tattica dilatoria per impedire all’Aula del Senato di votare su Berlusconi) che si prefigge un obiettivo di breve periodo: un oscuro disegno di incerta rivincita elettorale, attraverso ben certe lacerazioni irreparabili del tessuto costituzionale. Ciò che risulterebbe da quel gesto, cioè dalle loro dimissioni (con subentro dei non eletti, e loro ipotetiche ulteriori rinunce, e così via), è infatti la paralisi del Parlamento e del governo. Ma al di là delle conseguenze immediate – terrificanti al punto che non è esagerato parlare di pugnalata alle spalle a un’Italia ancora in ginocchio – sarebbe questo un vulnus talmente grave dell’architettura costituzionale, da non avere uguali nella storia repubblicana. Si tratterebbe della lacerazione di quell’originario patto costituente che incanala la politica e i suoi conflitti all’interno di istituzioni condivise che trasformano i nemici in avversari. Di fatto, si rischierebbe non solo il collasso economico, e la disgregazione sociale, ma anche la messa in mora della democrazia repubblicana: e non dal basso, dai movimenti antagonisti, ma dall’alto, dal cuore delle istituzioni.

E se ci si chiede il perché di tutto ciò, la risposta è ancora più desolante. Non per una qualche idea, sia pure rivoluzionaria, dell’Italia e del suo destino; non per un progetto politico in grande stile, per un disegno alternativo di civiltà; ma per salvare il soldato Silvio, per sottrarre un condannato (per reati comuni) alla sua pena, peraltro mitissima; per far precipitare tutta l’energia politica di una parte, la destra, nelle vicende di un singolo – e sia pure del suo capo –, ovvero per politicizzare oltre ogni limite un evento privato di rilievo giudiziario. Sottrarre Berlusconi alla pena non è il colpo di pistola che dà il via alla rivoluzione, e neppure il caso d’eccezione che spalanca un ordine nuovo: è tutto, e soltanto, ciò che la destra vuole, al prezzo della rivoluzione. L’inversione logica di pubblico e privato è perfino grottesca. Allo stesso modo, è terribile il paragone storico fra la destra che fece l’Italia unita, e ne fondò le istituzioni, e la destra che la divide e le rovescia per uno solo.

Ecco il tornante storico a cui la destra italiana va incontro; ecco gli interrogativi a cui non può sottrarsi. Davvero non vuole avere un orizzonte che vada oltre Berlusconi? Davvero vuole segnare in questa fase politica una cesura, un punto di non ritorno invalicabile, distruggendo il sistema politico e istituzionale del Paese, col rischio che questo si riassesti e si riequilibri in un modo tale da escludere da un nuovo patto costituzionale una destra consegnata al ruolo che ebbe il Msi al tempo della prima Repubblica? Davvero vuole sottrarsi alla comune responsabilità di portare l’Italia fuori dal guado, e vuole mostrarsi insensibile verso gli italiani e ciecamente devota al suo capo? Davvero vuole mettere a repentaglio, oltre che quello dell’Italia, anche il proprio futuro, il proprio elettorato di riferimento, i propri interessi, le proprie alleanze internazionali, e rischiare di perire politicamente, per un solo uomo? Davvero l’ordine, la legalità, il buon governo, il senso dello Stato e degli interessi strategici nazionali, il patriottismo, la fedeltà a un dovere, la moderazione e la prudenza, non fanno più parte del patrimonio della destra italiana? Davvero vuole essere solo un grumo di rancori eversivi, incapace diesibire una civile consapevolezza della sfera pubblica e delle sue regole ed esigenze, o una grandezza di intenti? Davvero non riesce a conciliarsi con quello Stato di diritto che invoca a parole per rovesciarlo nei fatti? Davvero si limita a coincidere con la persona di Berlusconi?

Lo si può temere, ma non lo si deve ancora del tutto credere, almeno finché non sarà esperito, e fallito, ogni tentativo di riportare alla ragione l’irragionevolezza, di moderare l’eccesso, di mostrare fermezza verso la destabilizzazione. Compiti che certo non possono essere affrontati con l’ottimismo dell’ingenuità, o con ipocrita connivenza, ma che pure si affacciano incombenti, ed esigono la forza, la lucidità, la lungimiranza, la pazienza, la buona volontà, di tutti quelli che non si rassegnano alla decadenza: non quella di un privato; quella collettiva, di noi tutti.

L’Unità 28.09.13

“Appesi a un filo”, di Federico Geremicca

L’immagine è certamente abusata, ed è quella del muro contro muro: ma stavolta davvero non ce ne è altre in grado di fotografare il punto – drammatico – cui è giunta la situazione. A cinque mesi esatti dal suo insediamento (28 aprile) il governo di Enrico Letta appare, infatti, appeso a un filo. Ieri sera il Consiglio dei ministri ha deciso di sospendere ogni attività in attesa del chiarimento reclamato dal premier dopo le dimissioni annunciate dai gruppi parlamentari del Pdl in caso di decadenza di Silvio Berlusconi: e testimoni raccontano che nella sala del governo lo scontro tra i ministri sarebbe stato durissimo.

Dopo settimane di scontri e tensioni, il clima di sfiducia reciproca si è fatto ormai palpabile, e perfino i rapporti personali sembrano irrimediabilmente compromessi. Entro metà settimana il chiarimento arriverà nelle aule parlamentari, e il voto di fiducia che sarà richiesto da Enrico Letta rappresenterà un «momento della verità» oggettivamente non più rinviabile. Il blocco dell’aumento dell’Iva, intanto, è stato congelato in attesa dell’indispensabile verifica tra i due principali partiti della maggioranza.

Il Pdl annuncia manifestazioni di piazza per il 4 ottobre – giorno in cui tornerà a riunirsi la Giunta per le elezioni del Senato – e il Pd pare aver rotto gli indugi: così non si può continuare, ha confidato Epifani ai suoi, se Berlusconi vuole la crisi lo dica, noi siamo pronti.

Il vero punto di svolta, in una giornata tesa come non si ricordava da tempo, è stato rappresentato, forse, dal cambio di passo dei due presidenti – Napolitano e Letta – che hanno considerato non più tollerabili gli attacchi e i quotidiani aut aut del partito di Berlusconi. Che qualcosa si fosse incrinato nella proverbiale pazienza del Capo dello Stato, del resto, lo si era intuito dal tono col quale aveva denunciato – in mattinata a Milano – il venire meno perfino del «rispetto personale», oltre che istituzionale. Nell’incontro poi avuto a metà pomeriggio con Enrico Letta, il Presidente ha potuto apprezzare come anche per il capo del governo un chiarimento definitivo non fosse più rinviabile.

A questo punto, il bivio che si profila è drammaticamente chiaro: se quello del Pdl (con il preannuncio di dimissioni di massa) è solo un bluff per tentare di ottenere in extremis quella che da settimane viene definita l’«agibilità politica» di Silvio Berlusconi, il governo in qualche modo potrà serrare le file e andare avanti; in caso contrario, la crisi diventerà inevitabile e il Paese si ritroverà nuovamente a un passo da possibili elezioni anticipate. Un voto al quale si andrebbe, naturalmente, nelle peggiori condizioni possibili: senza una nuova legge elettorale (e dunque con la quasi certezza del riproporsi di una situazione di difficile governabilità), con il Paese tutt’ora nel piena di una difficilissima congiuntura economica e con la possibilità (il rischio) che l’ondata di discredito e disaffezione nei confronti della politica faccia il resto.

Non erano questi, naturalmente, gli orizzonti e gli obiettivi che si immaginavano per il pur sofferto e anomalo governo delle «larghe intese»: ma era precisamente questo, invece, il possibile epilogo che il Colle e il presidente del Consiglio temevano mentre chiedevano al Pdl ed al suo leader di separare le vicende giudiziarie di Berlusconi dall’attività di governo e dalla sua tenuta. Non lo si è voluto fare, oppure è risultato impossibile farlo: il risultato, purtroppo, non cambia. Il Paese si ritrova di nuovo ad un passo dal baratro: e l’alternativa tra nuove elezioni o l’insediamento di un governo ancor meno coeso e credibile di quello attuale, piuttosto che suscitare entusiasmi solleva pesanti e comprensibili preoccupazioni…

La stampa 28.09.13