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“Confronto sul Snv”, di P.A. da La Tecnica della Scuola

Si è svolto il 26 settembre a Roma, presso il Liceo Albertelli, un incontro tra i rappresentanti dell’Invalsi e le organizzazioni sindacali sul tema “Avvio di un confronto sul Sistema Nazionale di Valutazione”. 
Il presidente dell’Istituto, dott. Sestito, ha avviato la riunione precisando che il confronto si intende solo sulle materie di competenza dell’Invalsi; che il lavoro di valutazione deve stimolare e sostenere i processi di miglioramento e non dare le pagelle alle scuole e che non è loro intenzione entrare nella sfera di competenza contrattuale.
Ha, quindi, parlato diffusamente dei due processi fondamentali del futuro SNV:
l’autovalutazione e la valutazione esterna.
È stato inoltre descritto il quadro concettuale di riferimento, l’innovazione costituita dall’aggiunta a questo quadro della valutazione dei risultati a lungo termine degli alunni di ciascuna scuola e della necessità di focalizzare l’analisi sui processi.
Ha riportato poi il discorso sui progetti in corso, VALES e Valutazione e miglioramento, precisando a più riprese che gli strumenti e le procedure di selezione per i valutatori esterni messe in opera per questi progetti non verranno integralmente ripetute per l’attuazione del SNV.

L’avvio del SNV è previsto dal Regolamento sul sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione (DPR del 28 marzo 2013, n. 80, emanato in applicazione del d.l. n. 225/2010 convertito con modificazioni dalla legge n. 10/2011) ed è stato licenziato dal Governo Monti a elezioni 2013 già avvenute.
Tuttavia, come è stato fatto rilevare da tutte le Organizzazioni sindacali presenti, l’avvio del SNV avviene all’insegna di molte, importanti criticità.
Non è chiaro, sostiene Flc, se ci siano parametri comuni da considerare nella autovalutazione di istituto, né in base a quali indicatori verranno individuate le scuole che saranno oggetto di valutazione esterna.
Sarebbe inoltre auspicabile, continua Flc-Cgil, che in questi contesti il peso dei test venisse ricalibrato in modo da uscire da quella sorta di delirio statistico cui si è assistito in questi anni in cui i test hanno costituito di fatto l’unico indicatore della valutazione.
La valutazione dei Dirigenti Scolastici va espunta dal Regolamento in questione, dice ancora Flc, perché tenere insieme valutazione individuale e valutazione di sistema costituisce un elemento che distorce le dinamiche interne alla scuola e, insieme, un elemento che ostacola il pieno dispiegarsi dell’autonomia scolastica.
Anche la UilScuola critica “l’assenza della Direttiva del MIUR prevista per legge e di una risposta alla richiesta unitaria di incontro con il Ministro su questa tema, mentre risulta inappropriato l’avvio di un confronto con il solo INVALSI.

La Uil ha evidenziato come lo stesso Istituto che si chiama fuori dalle questioni contrattuali, ha invece, e senza coinvolgere scuole ed insegnanti, avviato e concluso un’iniziativa di formazione del personale senza consultare le organizzazioni sindacali.

Quindi il giudizio UilScuola rimane negativo anche perché il processo valutativo deve vedere insegnanti e scuole, anche a livello di rete, partecipi e protagonisti, essendo questione importante e delicata.

Deve essere il Ministro, viene sottolineato dalle Oo. Ss., a porsi come garante istituzionale del SNV nel quadro delle finalità costituzionali del sistema di istruzione e formazione. Ma su questo terreno tutto tace e pesa inoltre anche la mancanza delle previste Direttive.
Contestualmente la Flc-Cgil fa sapere che ha notificato al Tar Lazio il ricorso per l’annullamento del Regolamento (DPR del 28 marzo 2013, n. 80), ritenendo quel provvedimento non solo profondamente negativo e inadeguato alle esigenze della scuola italiana, ma anche illegittimo sul piano giuridico.

La Tecnica della Scuola 28.09.13

“Le lacrime di Napolitano”, di Umberto Rosso

«QUANTO più tu abbia la ventura di inoltrarti, in età avanzata, nel tuo percorso di vita, tanto più avverti il vuoto di quelle che sono state presenze assai care, venute meno via via nel corso degli anni…». La frase però si ferma in gola, un groppo di commozione fin quasi alle lacrime, che un bicchiere d’acqua non basta a mandar giù. L’aula magna della Bocconi, sorpresa e disorientata da quel capo dello Stato umano troppo umano, sopraffatto dai sentimenti, poi capisce e lo aiuta e conforta con l’applauso più forte. Una, due, tre volte. Un applauso e un bicchiere d’acqua. Giorgio Napolitano, il presidente che a qualcuno è sempre sembrato un presidente freddo, l’uomo della razionalità assoluta e del controllo “comunista” sulle emozioni, tutto “politica” e poco “personale”, si è emozionato davvero tanto nel ricordo di Luigi Spaventa.
Ma negli ultimi tempi, in molte occasioni, il presidente della Repubblica non ha nascosto i suoi momenti di commozione. Soprattutto quando ha parlato dell’Italia e all’Italia che soffre e che non ce la fa. Quando si è rivolto ai giovani del Sud che sono senza lavoro o ai ricercatori che sono stati costretti a lasciare l’Italia per inseguire il loro sogno. Rivolgendosi agli operai che nelle miniere in Sardegna come nelle acciaierie dell’Ilva perdono il posto. O rievocando le pagine di un’Italia che ha pagato duramente il prezzo della libertà, come nei suoi viaggi a Sant’Anna di Stazzema o ricevendo al Quirinale le comunità ebraiche e le vittime dello sterminio nazista.
Ora, ecco appunto senza più “filtri” anche i ricordi personali, ecco Luigi Spaventa, come in altre occasioni ricordando le figure che hanno segnato la vita del nostro paese. Stavolta lo confessa, «vorrei esprimere, se mi è concesso, un sentimento personale, che affiorava in me nel preparare questo intervento». Un racconto di un’Italia che non c’è più, e il capo dello Stato non fa mistero che c’è di mezzo anche il velo della nostalgia, dei tempi andati, forse di un’Italia migliore. «Finisci – dice per avere quasi il senso del dissolversi del tuo mondo come sfera di affetti radicati e di comunanze essenziali. E quel che allora può soccorrerti è il ricordo che ridiventa vita come qui oggi, è il sentire vicine figure, storie, pensieri che ancora possono accompagnarti». Serve, a questo punto, un altro bicchiere d’acqua e un altro applauso.
Scorrere in pubblico l’album di famiglia può fare di questi scherzi. Senza troppe indulgenze però. Perché nella confessione “dal vivo” alla Bocconi, c’è sempre spazio per una rivisitazione anche sferzante degli anni trascorsi nel Pci. La grande macchina comunista delle preferenze per esempio? «Si è sempre detto, ed è vero, che il partito induceva masse di elettori a dare la preferenza a candidati che non conoscevano, benchè illustri». Ma, rievoca Napolitano, «nessun miracolo fu più grande del far confluire nelle elezioni europee del 1989 oltre centomila preferenze sul nome, per tanti difficile perfino da pronunciare, di Maurice Duverger, eminente costituzionalista francese». O come nel caso del “benaltrismo” di sinistra, termine coniato proprio da Spaventa, «le visioni più avanzate rispetto ai problemi sul tappeto che erano sempre così nobilmente astratte…».

La Repubblica 28.09.13

“Il colpo di coda del Caimano”, di Curzio Maltese

L’aggettivo per definire la strategia del centrodestra deve essere aggiornato di continuo. Ieri era «inquietante», come ha detto il presidente Napolitano. Oggi siamo passati al grottesco. Il lungo delirio quotidiano cominciato due mesi fa, dopo la sentenza sull’evasione fiscale Mediaset, ha toccato nella giornata di ieri il suo picco critico con la strana decisione di Berlusconi di confermare le dimissioni dei parlamentari del Pdl.
Ma anche la presenza dei ministri di destra nel governo Letta. Come se il governo potesse sopravvivere a un atto così clamoroso.
È ormai difficile capire la logica che muove le mosse contraddittorie dell’ultimo Berlusconi. Forse non c’è neppure. La scelta schizofrenica di ritirare i parlamentari e non i ministri, sembra rispondere piuttosto a un misto di sentimenti di rabbia, disperazione e debolezza. L’ex premier sa che se si andasse davvero a una conta sull’ipotesi di far cadere il governo e tornare presto al voto, una parte dei suoi non lo seguirebbe. Con un passo avanti e due indietro, ogni santo giorno, Berlusconi cerca di tenere insieme falchi e colombe e al contempo continua a tenere la pistola puntata alla tempia dell’alleato Pd, in vista del voto sulla decadenza. A parte questo, c’è la furia dell’Unto contro l’ipotesi per lui offensiva di essere trattato come un cittadino normale. Nel suo caso, un pregiudicato normale.
Alla fine, Berlusconi e la sua creatura, il centrodestra, si trovano insieme a un bivio fatale fra quel che converrebbe loro e quel che sono. A Berlusconi, a Forza Italia e anche alle contigue aziende di famiglia, oggi converrebbe un ritiro dalla scena del padre fondatore, condannato e quasi
ottuagenario, magari col ruolo nobile di king maker del futuro leader. È la strada dolorosa ma utile intrapresa vent’anni fa in Germania da Helmuth Kohl, travolto dallo scandalo dei fondi neri. Ma Berlusconi non è Kohl, Forza Italia non è la Cdu. Qui abbiamo un despota egoista ed eversivo, circondato da una corte di miracolati. È possibile che alla fine la natura prevalga sulla ragione e la destra decreti la fine delle larghe intese.
Per la verità, dopo la giornata di ieri, il governo è già un morto che cammina. È incapace di agire, bloccato sulle vicende personali di un uomo, costretto a tirare a campare fra un rinvio e l’altro. Il Consiglio dei ministri di ieri si è concluso con l’ennesimo nulla di fatto. Questo è un governo d’inizio legislatura e sembra di una mesta fine, ha soltanto cinque mesi di vita ed è già vecchio. Il pregiudizio ideologico, favorevole o contrario, che ha accompagnato la nascita delle larghe intese, ormai può e deve lasciare il posto a un giudizio sui fatti. In cinque mesi il governo non ha saputo o non è stato messo nelle condizioni di avvicinarsi a nessuno degli scopi per cui era nato. Non ha tenuto sotto controllo il debito pubblico, salito al 132 per cento del Pil, e neppure il rapporto Pil-deficit. Non ha fatto ripartire l’economia, non ha creato un posto di lavoro e non ha avviato alcuna riforma, tantomeno quella della politica o almeno del sistema
elettorale. Quanto al sacro totem fondatore, la Stabilità con la maiuscola, giudichi il lettore. Nell’insieme finora il governo Letta è parso una versione peggiorativa del non rimpianto governo Monti. A riconferma che in Italia le grandi coalizioni non funzionano. Non solo e non tanto per motivi ideologi, etici o come vogliamo chiamarli. Non funzionano e basta. Berlusconi non è Kohl e tantomeno Merkel, Pdl o Forza Italia non sono comunque la Cdu, il Pd non è l’Spd e non esistono valori comuni. Quei pochi che in Germania hanno consentito l’alleanza fra destra e sinistra, le leggi, la Costituzione, l’interesse del Paese, qui sono attaccati, messi in dubbio e finanche derisi ogni giorno. E allora di che stiamo parlando?

La Repubblica 28.09.13

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“LA POLITICA DELL’EVERSIONE”, di GIANLUIGI PELLEGRINO

Ormai è chiaro che nemmeno la legge Severino c’entra più niente. Né lo stanco ritornello di una incostituzionalità che semplicemente non esiste. Il Pdl infatti brandisce argomenti pronti ad essere usati anche contro la solenne interdizione dai pubblici uffici che da qui a breve sarà definitiva. Siamo così al plastico e persino ostentato abuso di potere politico contro la sanzione di un grave illecito comune, doverosamente punito dal controllo giurisdizionale che la Costituzione garantisce “in nome del popolo italiano”. La maschera è quindi definitivamente gettata. Non c’è più nemmeno l’argomento di facciata che allegava una pretesa reazione al Pd che starebbe tradendo un patto di solidarietà e di salvacondotto che peraltro sarebbe gravissimo, e nullo di diritto, se fosse mai stato stipulato. C’è invece la dichiarata volontà sovversiva di un intero partito ridotto a mero esecutore degli ordini di un condannato che è disperato perché nonostante i mille espedienti utilizzati per sfuggirvi (censurati più volte dalla Corte costituzionale), ha infine dovuto fare i conti con il lento, ma per fortuna inesorabile principio della “legge uguale per tutti”. Per quanto incredibile possa essere, è proprio contro questo che annunciano dimissioni di massa i parlamentari del Pdl ridotti alla mera obbedienza al capo, dal combinato disposto di un partito padronale e del porcellum, che ne è la più cristallina proiezione e ne reca infatti le impronte digitali, perché riduce persino dal punto di vista istituzionale senatori e deputati a soldatini di latta nelle mani di chi li ha nominati.
Siamo così alla prova provata di un eversione conclamata come l’ha definita ieri Ezio Mauro. Un’eversione non più sottesa o malcelata ma eletta a programma politico annunciato, declamato in pubblica piazza e perseguito con disperata ma geometrica potenza. Del resto la straordinaria gravità di quanto accade è nella necessaria reazione che il Capo dello Stato, supremo garante dell’ordine costituzionale, ha dovuto mettere nero su bianco, consegnando suo malgrado anche al resoconto documentale della storia repubblicana, la fotografia di una sedizione senza precedenti che si riteneva impossibile dover registrare in una democrazia occidentale nel terzo millennio. È la riaffermazione di principi basali di uno Stato di diritto che il Presidente della Repubblica ha dovuto ufficialmente sottolineare, essendosi superato ogni possibile limite e avendo lo stesso Capo dello Stato fatto esercizio del massimo possibile di pazienza costituzionale a partire dalla già inquietante occupazione del tribunale di Milano, che i parlamentari del Pdl inscenarono all’alba di questa nuova e definitiva escalation eversiva.
Tutto questo riesce persino a mettere in secondo piano la pur straordinaria gravità dei fatti per cui Berlusconi è stato condannato, per altro verso trascurati dai troppi che solo adesso appaiono scoprire quello che sin dall’inizio era ben chiaro. Non c’era purtroppo spazio per alcun serio progetto di larghe intese con chi persegue come unico e irricevibile punto di programma il salvacondotto di un condannato.
Senza dire poi che a sancire un definitivo giudizio politico bastava quanto affermato dalla stessa difesa del Cavaliere davanti ai giudici dove infine si riconosceva l’enorme e straprovato sistema di frode fiscale orchestrato dalla sue aziende, cercandosi soltanto di sostenere come non raggiunta la prova sulle sue personali responsabilità penali. Bastava fermarsi qui, alle sue stesse parole e domandarsi se potesse avere un ruolo politico e istituzionale di qualche minima spendibilità il proprietario di imprese che si riconosce abbiano scippato all’erario e quindi a tutti noi, centinaia di milioni di euro a diretto beneficio del padrone.
Ma ora che lo Stato di diritto, comprovata anche la sua responsabilità penale, sta imponendo la dovuta interdizione alle cariche pubbliche, una logica proprietaria bulimica e ipertrofica impone di piegare definitivamente anche quel che resta delle istituzioni rappresentative. Dopo aver comprato con ogni mezzo donne, giudici, testimoni e forse anche senatori per ribaltare governi in carica, non si accetta che non proprio tutto alla fine si possa acquistare. Si materializza così non solo il finale di fiamme del Caimano di Moretti, ma anche la ballata sublime e angosciante che al cavaliere dedicò il grande Benigni: “Io compro tutto dall’A alla Z ma quanto costa questo c…. di pianeta. Lo compro io. Lo voglio adesso. Poi compro Dio, sarebbe a dir compro me stesso”.

La Repubblica 28.09.13

“La sfida di Letta al Cavaliere”, di Ninni Andriolo

Una proposta politica: «prendere o lasciare» per un patto di governo che «non venga rimesso in discussione dopo il voto di fiducia». Né per la decadenza di Berlusconi dal Senato, che la giunta voterà nelle prima decade di ottobre, né per un nuovo eventuale problema giudiziario che possa investire il Cavaliere. Letta va all’attacco: «Non tiro a campare».

E sulla stessa linea si schierano il Pd e i ministri democratici che si riuniscono per chiedere «un chiarimento totale e definitivo» con il Pdl. In attesa di questo salta il decreto per congelare l’aumento dell’Iva. «Inutile con la crisi incombente aumentare le tasse – spiega Letta ai ministri – Non è possibile esaminare alcun provvedimento economico senza un preventivo chiarimento politico». E Berlusconi si assume così anche la responsabilità di bloccare misure per non far lievitare il debito pubblico oltre la soglia del 3% e di lasciare senza risposte emergenze come l’Ilva, Telecom e Alitalia.

Berlusconi incita i parlamentari a dimettersi? Cerca di determinare la paralisi del Parlamento? Gioca con il Paese facendo credere che la sua dichiarazione di guerra non riguarda il governo? «Una evidente contraddizione che mette in chiaro le divisioni del Pdl e il totale disprezzo per l’Italia», commentano dalle parti di Palazzo Chigi. Si va fino in fondo, quindi. Perché Letta non intende «tirare a campare rimanendo sulla graticola». E se Berlusconi ha voluto la guerra, si assuma pubblicamente le responsabilità. «C’è la necessità di un chiarimento inequivoco in Parlamento al più presto – spiega il premier – Se possibile già all’inizio della prossima settimana perché così non si può più andare avanti». Lunedì o martedì al massimo il premier riferirà alle Camere per ottenere una rinnovata fiducia al governo. Su un programma chiaro «e duraturo» che guardi al 2015. Se verrà sfiduciato, ne trarrà le conseguenze. Un percorso condiviso con il Colle che riconferma il suo sostegno all’esecutivo. Ma dalle parti di Palazzo Chigi non escludono altre maggioranze possibili.

Perché se il gioco di Berlusconi è quello di ottenere le urne anticipate alla fine di novembre per bloccare il voto del Senato sulla sua decadenza, dalle parti del premier ribattono che bisogna varare «legge di Stabilità e riforma elettorale» prima di nuove elezioni».

E il chiarimento, ieri, è stato avviato quasi subito, al rientro di Letta dagli Stati Uniti, quando il premier si è trovato a tu per tu con Alfano e Lupi e ha avuto la conferma che Berlusconi intende proseguire la sua guerra per accelerare il voto. E che prevede – dopo le decisioni della Giunta del Senato sulla sua decadenza – anche il proposito di non far partecipare i parlamentari Pdl ai lavori di Montecitorio e Palazzo Madama per costringere il presidente della Repubblica a trarne le conseguenze. Un gioco al massacro per le istituzioni. Che, tuttavia, non scalfisce di un millimetro il proposito del premier di andare al chiarimento «senza se e senza ma» nella sede più opportuna, cioè il Parlamento. Proposito che il presidente del Consiglio ha confermato ieri ad Alfano, ma anche a Epifani e a Monti durante la girandola di contatti intrattenuti via telefono o direttamente. Determinazione che il premier ha rilanciato anche con Gianni Letta incontrato prima di salire al Colle.

«TENSIONI NON PIÙ SOSTENIBILI»

«Non sono più sostenibili tensioni legate alla mancata separazione tra il piano del governo e la vicenda Berlusconi» così Letta, ieri sera, durante il Consiglio dei ministri. E ancora, «se si va verso la crisi inutile procedere con il decreto per bloccare l’Iva che prevede l’introduzione di nuove tasse». Posizioni già espresse ad Alfano e a Lupi, prima che il vice premier e il ministro rientrassero a Palazzo Grazioli per riferire a Berlusconi e allo stato maggiore Pdl. Un incontro breve e teso tra Letta, vice premier e ministro. La tensione è poi sfociata in una lite tra Franceschini e lo stesso vicepremier durante la seduta del cdm. Il capo del governo, ieri pomeriggio, era pronto a «trarre le conseguenze» e a risalire immediatamente al Quirinale nel caso in cui la premessa politica che doveva costituire il centro del Consiglio convocato per le 19,30 – «ho ancora la fiducia di questo governo?» – si fosse risolta con il pollice verso dei ministri Pdl.

Ipotesi ancora in piedi in serata, malgrado le rassicurazioni fatte trapelare da Palazzo Grazioli nel tardo pomeriggio. «Allo stato l’ipotesi dimissioni non esiste» tagliava corto, tra gli altri, Fa- brizio Cicchitto. In realtà dentro il Pdl è riesplosa la contesa – mai sopita – tra falchi e colombe. E la giornata ha pre- so una piega diversa quando si è capito che dalle parti di Palazzo Chigi si stava studiando anche la praticabilità di una strada che consentisse un governo di scopo malgrado l’Aventino – se non le dimissioni – dei parlamentari Pdl. «I problemi del Paese e della gente sono tanti e di tale portata che non è ammissibile comprometterne la risoluzione con fibrillazioni, aut aut o minacce», avverte Letta. Una «sfida per l’Italia» quella che ingaggia il presidente del Consiglio. Una risposta «dura» alla guerra scatenata da Berlusconi per bloccare la sua decadenza, ricandidarsi – malgrado tutto e in barba alle regole – e conquistare più favorevoli rapporti di forza.

L’Unità 28.09.13

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«Paese stremato, la crisi sarebbe devastante» di Salvo Fallica

«L’Italia sta attraversando un momento di profonda fragilità politica ed economica. La situazione è più che preoccupante e non rendersene conto è da irresponsabili».

Con chiarezza e nettezza, il presidente di Confindustria Sicilia e vice- presidente nazionale con delega alla legalità, Antonello Montante, risponde così a l’Unità sulle convulse e drammatiche fasi che vive il Paese, in un momento nel quale il presidente Napolitano ha stigmatizzato, come mai aveva fatto prima, la scelta di una parte politica che mette a rischio la vita del governo Letta.

Dopo la battuta iniziale, Montante aggiunge: «C’è bisogno di tante cose, ma soprattutto di un governo che sia nella pienezza dei poteri. Una crisi in questo momento creerebbe effetti di cui è difficile prevedere l’impatto. Di certo, come sempre accade, a pagar- ne le conseguenze più pesanti sarebbero imprese e famiglie».

Quanto è importante il valore della stabilità?
«Un Paese stabile diventa credibile, dà garanzie ed attrae investimenti. Oggi, più che mai, bisogna fare leva sul senso comune di responsabilità e trovare un accordo per lavorare a soluzioni che garantiscano la stabilità, così da scongiurare il rischio di tensione sociale. La stabilità politica è il pre- supposto anche per la stabilità finanziaria ed economica».

Confindustria, i vescovi, l’Ue, tutti uniti nel chiedere che il governo Letta continui. Può sintetizzare tutti i rischi che corre il Paese, a livello economico, finanziario e sociale se cade il governo?

«Una crisi di governo ora sarebbe un gravissimo danno per l’Italia e rischierebbe di far ripiombare il nostro Paese in una spirale negativa che in questo momento non possiamo permetterci. La coperta è già cortissima. Le imprese sono allo stremo, la disoccupazione è ai massimi storici, un ulteriore passo indietro rischierebbe di far saltare ogni equilibrio. Il patto di Genova, siglato ad inizio settembre tra imprese e lavoratori, contiene richieste precise in materia di fisco, politica industriale, efficienza della spesa pubblica. Tutte cose sulle quali non è più possibile tergiversare. Senza dimenticare la spada di Damocle dell’Unione europea che ha imposto di rispettare il patto di stabilità al 3 per cento. Insomma, non è tempo di divisioni perché faremmo il gioco di Paesi che in termini di competitività e di credibilità politica risultano più forti e aggressivi dell’Italia. Bisogna piuttosto lasciare che il governo vada avanti sulla legge di stabilità e sugli altri provvedimenti necessari per valorizzare le potenzialità di ripresa e assicurare la tenuta dei conti pubblici».

In questa fase così difficile non vi è il rischio anche per la battaglia della legalità e dell’etica? Non vi è il pericolo che in una fase di eventuale destabilizzazione del Paese, la criminalità organizzata rialzi la testa?

«Maggiore è la debolezza di un Paese, maggiore è la possibilità che la criminalità organizzata ne tragga vantaggio. Anzi, è proprio questo il terreno dal quale trae linfa il malaffare. Ne- gli ultimi anni abbiamo fatto un lavoro enorme sul fronte della legalità e dell’etica: Confindustria, con altre istituzioni, ha ribaltato un sistema, emarginando chi distorce il mercato, facendo concorrenza sleale a tutte quelle imprese sane che vivono di vero mercato e che rappresentano la maggioranza del tessuto economico italiano. Alla base di tutto però serve una politica forte e credibile, capace di sostenere i propri cittadini». Quali sono le urgenze dell’Italia?

«Le urgenze sono tante, ma non crediamo nel tutto e subito. Sicuramente occorre reperire risorse per tagliare il cuneo fiscale. Ma anche la progressiva eliminazione del costo del lavoro dalla base imponibile Irap, la detassazione e decontribuzione delle retribuzioni legate alla produttività, la delega fiscale, la velocizzazione del pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione, la salvaguardia dei marchi storici del nostro paese che hanno fatto diventare l’Italia una potenza industriale a livello mondiale. E poi c’è l’emergenza credito perché le banche continuano a razionare i prestiti».

Vuol lanciare un appello a tutte la parti politiche?
«Posso solo ribadire l’invito alla responsabilità. Non è il momento delle liti. È il momento di remare tutti nella stessa direzione per salvare la “nave-Italia” dagli abissi».

L’Unità 29.09.13

Anp: “Così spariscono autonomia e contrattazione di scuola”, di R.P. da La Tecnica della Scuola

Ma anche la Flc-Cgil è sulla stessa lunghezza d’onda. Sotto accusa la nota del Miur del 17 settembre scorso con cui si dà indicazione alle scuole di avviare la contrattazione facendo riferimento agli “avanzi” degli scorsi anni. La nota ministeriale 6348 del 17 settembre scorso segna di fatto la fine della contrattazione integrativa di istituto.
La nota è di una limpidezza cristallina: le istituzione scolastiche, in attesa di conoscere l’effettiva consistenza delle risorse disponibili, potranno “provvedere unicamente alla contrattazione delle risorse eventualmente rimaste disponibili provenienti dagli anni scolastici decorsi, secondo la destinazione definita dalla medesima contrattazione”.
Se si tiene conto che ben poche scuole dispongono di residui dello scorso anno di una certa entità, è del tutto evidente che la contrattazione, almeno in questa fase, sarà del tutto impraticabile.
Nella stessa nota, per la verità, il Miur sottolinea che “si rinvia a successiva comunicazione a seguire della necessaria intesa con le OO.SS., non ancora intervenuta in data odierna“.
Questo significa che si aspetta di trovare un accordo con i sindacati per destinare una parte del fondo di istituto al pagamento degli scatti stipendiali di tutto il personale.
Ma né la Flc-Cgil né l’Anp sono d’accordo a seguire questa strada anche perchè lo scorso anno le cifre definitive sono arrivate a marzo.
Il sindacato di Giorgio Rembado, anzi, ha preso carta e penna e ha scritto al Ministro in persona per sottolineare che “tale indicazione è in netto contrasto con le istruzioni a suo tempo (luglio 2012) impartite in merito, ma soprattutto comporta la paralisi di tutte le attività non di insegnamento”.
“Non sarà possibile infatti conferire incarichi per progetti ed attività fino a quando non sarà stato reso noto l’importo disponibile “ scrive Rembado, che aggiunge: “La scuola intanto non aspetta e deve andare avanti, né si può pensare che conferire un incarico a marzo, o dopo, risolva il problema”.
“Viene meno in tal modo – conclude Rembado – ogni margine per la progettazione autonoma ed anche per un utilizzo ordinato delle poche risorse disponibili. Quando queste saranno note, se mancheranno, come lo scorso anno, appena poche settimane al termine delle lezioni, non resterà che distribuirle a consuntivo a chi comunque ha fatto qualcosa”.
Per parte sua, la Flc di Mimmo Pantaleo ha già fatto sapere da diversi giorni di essere nettamente contraria all’utilizzo del fondo di istituto per il riconoscimento degli scatti stipendiali.
Posizione ampiamente condivisa anche dall’Anp.
Gli altri sindacati, al contrario, sembrano intenzionati a trattare con il Ministero proprio su questo punto, ma la partita è solo agli inizi, per capire come potrà evolvere bisognerà aspettare ancora qualche giorno.

La Tecnica della Scuola 28.09.13

“Analfabetismo paralisi e cura per l’Italia”, di Paola Casi

Le scrivo a nome di un gruppo di docenti di vari CTP dell’Emilia Romagna per segnalare una situazione di sofferenza che ci preoccupa come cittadini e come insegnanti di lingua italiana. Secondo un’opinione abbastanza diffusa, l’analfabetismo era una piaga che abitava la società italiana dei nostri progenitori e che si è sostanzialmente estinta nel secolo scorso. In Italia, sono in realtà ancora presenti invece casi di analfabetismo totale, a causa del quale circa il 5% delle popolazione tra i 16 e i 65 anni non è in grado di usare la lettura e la scrittura nemmeno in modo elementare. All’interno di questa allarmante percentuale, stanno anche molte persone che arrivano in Italia da altri paesi. Il livello di scolarità di molti migranti provenienti da contesti di estrema povertà o da paesi coinvolti in guerre è infatti attualmente al di sotto degli standard europei. La differenza rispetto agli analfabeti italiani di oggi o di un centinaio d’anni fa, sta soprattutto nel fatto che i nuovi arrivati spesso non padroneggiano la lingua italiana nemmeno sul piano del parlare o dell’ascoltare. Alcuni di loro, pur avendo un livello medio-basso di scolarizzazione nel proprio paese d’origine, risultano “illetterati” in quanto hanno imparato alfabeti di lingue che usano un sistema di simboli diversi dall’alfabeto latino (si pensi alla scrittura araba o al sistema di ideogrammi utilizzato in Cina). Per altri ancora le nozioni insegnate a scuola non sono state accompagnate dall’apprendimento di un codice scritto, ma solo comunicate oralmente. Queste persone possono affermare di aver ricevuto un’istruzione, senza tuttavia aver mai impugnato una penna o sfogliato un libro.
Noi docenti di italiano come lingua seconda abbiamo negli ultimi mesi messo in piedi una campagna di sensibilizzazione su questo tema. In questi anni abbiamo infatti visto crescere il numero delle persone analfabete che frequentano i CTP. Abbiamo potuto constatare le enormi difficoltà degli analfabeti nell’apprendere la lingua e nel muoversi in modo autonomo in Italia oggi. Abbiamo infine assistito alle bocciature di queste persone ai test obbligatori di lingua per l’ottenimento del permesso di soggiorno, con una conseguente negazione di alcuni diritti fondamentali per accedere ai quali la Repubblica dovrebbe in teoria offrire strumenti integrativi a chi ha più bisogno. Al centro della nostra riflessione abbiamo posto un appello che nel giro di due settimane ha già raccolto moltissimi autorevoli consensi. Centinaia di docenti di italiano della scuola pubblica e del mondo dell’associazionismo vorrebbero, con questa campagna e con questo appello, segnalare una situazione di sofferenza che deve prevedere con urgenza risposte adeguate a livello istituzionale.
E’ possibile trovare una versione articolata dell’appello sul sito : www.italianoperme.it

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Io ho firmato

Su: http://chn.ge/19LWMnl si può invece firmare e leggere una versione più breve della stessa petizione, ad oggi sostenuta da 650 firmatari tra cui TULLIO DE MAURO (Università Roma 3), MONICA BARNI (Direttrice CILS Università per stranieri Siena), GRAZIELLA FAVARO (Centro Come Milano), CARLA BAGNA (Direttore CLUSS Università per stranieri Siena), LORENZO ROCCA (CVCL Università per stranieri Perugia), DUCCIO DEMETRIO (Università Bicocca Milano), VANNA IORI (Università Cattolica Milano), GABRIELE PALLOTTI ,(Università Modena e Reggio Emilia), CLOTILDE PONTECORVO (Università La Sapienza Roma), ROBERTA CARDARELLO (Università Modena e Reggio Emilia), ROSELLA BOZZONE COSTA (Università Bergamo), RITA LIBRANDI (Università Orientale Napoli).

RingraziandoLa per l’attenzione e sperando di poter contare sul Suo appoggio,

La saluto cordialmente.

Maria Rita Colla

http://www.change.org/it/petizioni/analfabetismo-paralisi-e-cura-per-l-italia?share_id=GFeURMzALd&utm_campaign=mailto_link&utm_medium=email&utm_source=share_petition

“L’insegnante che vorrei a lezione con Recalcati e Lodoli”, di Antonio Valentino

In queste settimane, segnate dall’inizio del nuovo anno scolastico e delle lezioni, giornali e riviste, cartacei e on line, si sono sbizzarriti a proporci i punti di vista di personaggi, generalmente noti e accreditati, del mondo dell’università e della scuola e della cultura in genere. Tra i non pochi che offrivano considerazioni con cui in ogni caso fare i conti, due soprattutto, di recente lettura (su la Repubblica dello scorso mercoledi), hanno richiamato la mia attenzione: Massimo Recalcati – psicanalista, tra i più noti in Italia, e professore universitario -, con l’articolo “Il Maestro riluttante. Cari professori non fate gli psicologi”) e Marco Lodoli – professore in un Istituto Professionale della periferia di Roma ed editorialista di Repubblica -, con “La scuola raccontata diventa un boom editoriale”. Le loro considerazioni mi hanno colpito per motivi diversi ma convergenti. Recalcati, perché, nel rappresentare le storture della nostra scuola – o quelle che a lui sembrano tali – individua, e ci propone, come “mito” per l’oggi, la professoressa Giulia, un’insegnante che, ai tempi in cui lui frequentava le Superiori, lo ha “salvato”, appassionandolo alla cultura, con “un’ora di lezione”. È chiaro che qui l’ora di lezione sta a significare il momento di svolta, più emotivo che razionale, che gli ha aperto gli occhi sul significato e l’importanza dei saperi scolastici e, si intuisce, sulle sue scelte future. Non dice cosa è successo dopo quella lezione, ma si immagina. Il suo modello di scuola lo si può derivare, con buona approssimazione, da alcuni passaggi dell’articolo. Soprattutto laddove egli chiarisce che l’apprendimento non è “travasamento di informazioni” e che non con le tecniche si produce apprendimento valido, ma occorre altro. E questo “altro” sembra essere il recupero di un qualcosa che, a suo dire, è stato dimenticato: “l’importanza dell’ora di lezione nel promuovere l’amore verso il sapere, come condizione per ogni possibile apprendimento”. Certamente su questo non si può che convenire. E la polemica contro la lezione frontale non si può che sottoscriverla. (Ma la sottoscriverebbe anche la mitica Prof.? Un dubbio). Qui però interessano, oltre al non detto (riguardante le modalità di quella che Recalcati presenta come una sorta di sua folgorazione ad opera della professoressa Giulia), i suoi accenti accesamente polemici verso alcuni tratti che egli ritiene distintivi della scuola di oggi e che, indistintamente, elenca così: “morte dei libri, informatizzazione degli strumenti didattici, esaltazione delle metodologie dell’apprendimento, accanimento valutativo, burocratizzazione fatale della funzione degli insegnanti che deve sempre pù rispondere alle esigenze delle istituzione e non a quelle degli allievi”. Se questa sua visione sia corretta, tutta o in parte, ogni persona di scuola potrà dirlo interrogando la propria esperienza professionale e le pratiche didattiche più diffuse nella propria scuola. Comunque, se si può capire la polemica contro un certo accanimento valutativo di questi ultimi anni (anche se a me preoccupa molto di più la carenza diffusa di una cultura della valutazione nella nostra scuola) e contro la “burocratizzazione della funzione docente” (che andrebbe chiarita un po’ meglio, soprattutto se riferita a pratiche didattiche che risponderebbero “più alle esigenze delle istituzioni che a quelle degli allievi”), si capisce meno quello che ho letto come un vero e proprio furore iconoclasta contro le nuove tecnologie e le recenti metodologie dell’apprendimento. La domanda è: può un insegnante ignorare gli strumenti attraverso cui si produce apprendimento oggi – e le loro enormi potenzialità, anche ai fini di un pensiero logico-operativo e autoriflessivo -? O non confrontarsi con le varie teorie dell’apprendimento, su come funziona il cervello di un adolescente (e il suo d’adulto), cosa può favorire un apprendimento sensato e responsabile, cosa può sviluppare autoapprendimento e autovalutazione? Ecco, mi sembra che questo tipo di polemica adombri un’idea di insegnante e di apprendimento che, a dirla con Pascoli, mi sembra, “d’altro luogo, d’altro tempo, d’altra vita”. L’insegnante oggi – penso – non è la persona colta che concepisce e organizza la lezione come show appassionante, non è il “capitano, mio capitano” (con tutta la simpatia e il rispetto). Ma il professionista attrezzato sui saperi disciplinari – e sul curricolo di scuola -, che sa valutare e promuovere atteggiamenti autovalutativi, che promuove apprendimenti, anzichè fare belle lezioni per produrre “innamoramenti” per chi è già ben disposto, che offre strumenti di crescita culturale e insegna a utilizzarli, che, mentre insegna, ricerca come insegnare meglio e sa tradurre in azione i risultati della sua ricerca sul campo, che sa lavorare con i suoi colleghi, perchè sa che dal confronto e dal lavoro con i pari si apprende molto più che sui libri dei nostri accademici, che saper far lavorare in team gli studenti non è una concessione alla moda, ma un modo efficace per produrre apprendimenti sensati e duraturi. Certo, il buon docente “tiene” ai suoi studenti. Nel senso che questi sono dentro le sue preoccupazioni e attenzioni di insegnante impegnato a sviluppare competenze e saperi che ne facilitino la crescita; e che sa che la qualità della relazione interpersonale e dell’ambiente di classe e di scuola sono fondamentali per il suo sviluppo. Da un intellettuale attento e rigoroso come Recalcati – e da altri come lui – ci si aspetterebbe non furori polemici – appassionanti/appassionati – e miti d’altri tempi; ma chiavi di lettura dei problemi degli insegnanti oggi e idee per uscirne. Diverso è invece l’approccio di Lodoli. Sollecitato sul tema anche dalla lettura di alcuni libri sulla scuola, editi recentemente. Né poteva essere diversamente. La sua esperienza professionale lo porta a riflettere su terreni solo apparentemente altri rispetto a quelli di Recalcati. Lodoli parte dal dilemma che è ben presente nel dibattito tra chi si interessa di scuola: “Agganciarsi al modello anglosassone, produrre conoscenze certificabili, formare studenti che siano oggettivamente pronti a entrare nel mondo del lavoro, spazzando via il fumo per praparare un arrosto ben commestibile”? Scelta che significa concretamente “Una scuola efficiente che non si perda in ciance sentimentali, [e nella quale] ogni studente (…) dovrà dimostrare in modo inequivocabile di possedere competenze utili, di essere una risorsa umana in grado di trovare presto la sua collocazione sul mercato del lavoro”. Oppure: affrontare il malessere diffuso, il disagio sociale e culturale che cresce dentro le nostre scuole sempre più piene di studenti carichi di problemi esistenziali, psicologicamente fragili? Come se ne esce? L’autore sembra fare sue alcune “ricette” che trova nei libri recensiti. Per esempio, la lotta ad una “idea crudelmente meritocratica della scuola” di cui parla Eraldo Affinati (nell’Elogio del ripetente, Libellule, Mondadori), considerata – opportunamente – del tutto insensata, quando studenti di classi intere, “soprattutto nelle periferie e negli IP”, hanno dietro le spalle famiglie dissestate. Ma anche il rifiuto di un modello aziendalistico di scuola – qual è quello che viene paventato (ed enfatizzato, a mio avviso) in Alex Corlazzoli (“Tutti in classe”, Einaudi), – che si vuole finalizzato a “consegnare ai suoi clienti un sapere utile e [che] invece si ritrova ad affrontare macerie psichiche, un mondo adolescenziale bombardato dal cinismo, dalla povertà dall’ignoranza”. E la riproposizione – e la difesa – , infine, in Adolfo Scotto di Luzio (La scuola che vorrei, Bruno Mondadori), di “un patrimonio culturale nobile, una tradizione immensa”, la cui trasmissione è costretta a fare i conti con insegnanti che si ritrovano “in una trincea fangosa, inermi a combattere contro una trasformazione antropologica devastante, contro un immaginario consumistico dove non trova posto nessun principio di bellezza e di conoscenza”. Queste interpretazioni-indicazioni sono certamente chiave di lettura e stimoli in ogni caso utili. Ma la questione che è centrale – e che riguarda il senso di cui caricare il far scuola oggi – richiede, credo, uno sguardo più ampio e più lungo. E non può comunque prescindere da considerazioni che riguardano il contesto: la drammaticità, da una parte, di una crisi economica – che continua a mordere – e di un clima sociale in cui l’etica pubblica appare sempre più lasca e improbabile; un sistema scolastico, dall’altra, che ignora l’idea di riforme condivise, di accompagnamento efficace e di manutenzione continua; e sottovaluta i temi prioritari della formazione sul campo del personale e dello sviluppo professionale e di carriera. Richiamo, quest’ultimo – e torniamo così al cuore dei nostri ragionamenti –, con cui si vuole evidenziare soprattutto la necessità di un recupero urgente – sul terreno formativo – di idee portanti come quelle della relazione e della “cura” (come competenze e progetti), ma anche di saperi integrati e “interrogati” e di metodi e tecnologie al passo coi tempi. Le professoresse Giulia, ora come ora, mi sembrano solo surrogati.

da ScuolaOggi.org