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“Autistico in classe, alunni in fuga e a Napoli scoppia la polemica”, di Irene De Arcangelis

Alla scuola materna avevano deciso di passarci su. Sopportare la convivenza dei loro figli con un bambino autistico. Quando però l’hanno ritrovato tra i banchi della classe elementare con la prospettiva di cinque anni insieme, hanno deciso di risolvere il loro “problema” in maniera radicale: chiedere alla direttrice scolastica, e poi insistere anche con l’intervento di “persone influenti”, di cambiare sezione ai loro bambini. Pretesa comune ai genitori di sei piccoli alunni della scuola “Gennaro Sequino” di Mugnano, comune a Nord di Napoli. Richiesta subito respinta dalla responsabile che però, proprio a causa delle pressanti sollecitazioni, si è vista alla fine costretta a dare il benestare per il trasferimento dei sei alunni in altre scuole. Con una nota dolorosa che difficilmente il papà e la mamma del bambino affetto dalla sindrome di Kanner — che ha sei anni e che chiameremo Antonio — potranno dimenticare: durante una delle visite del gruppo di genitori alla direttrice scolastica si trovavano nella segreteria e hanno sentito tutto di quelle richieste “causate” dalla presenza del loro bambino.
Un caso chiuso — almeno sulla carta — con la fuga di sei bambini da un compagno disabile. Una fuga che i genitori dei sei trasferiti giustificano come una necessità perché preoccupati per le ripercussioni sotto il profilo puramente didattico e per le difficoltà, in presenza di un alunno con disabilità, a portare avanti il programma di studio. Vicenda però tutt’altro che finita sul fronte delle polemiche che sta provocando e che paradossalmente riguarda «una scuola — spiega l’assessore all’Istruzione di Mugnano, Anna Iacolare — che ha circa cinquanta casi di bambini con disabilità ma dove non si era mai verificato prima un episodio di intolleranza tale da lasciare sconcertati ». Così se i genitori di quei sei alunni hanno ottenuto quello che volevano, si apre il dibattito nell’istituzione scuola e nel mondo delle associazioni, a cominciare dal pensiero del ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, che dichiara subito la sua solidarietà alla dirigente scolastica Maria Loreta Chieffo e alla famiglia di Antonio. «Vogliamo capire meglio quello che è accaduto — spiega il ministro — Ma la soluzione non può essere quella di cambiare sezione perché c’è in classe uno studente disabile. Questi sono episodi spiacevoli sui quali servirebbe un serio dibattito pubblico, perché certi comportamenti danneggiano gli italiani e la scuola tutta. Oggi il ministro sentirà al telefono la direttrice scolastica, che per parte sua ha già inviato una dettagliata relazione sull’accaduto all’Ufficio scolastico regionale della Campania. «La scuola è integrazione — commenta il dirigente, Diego Bouchè — È vivere tutti insieme. Bene ha fatto la dirigente scolastica a non acconsentire al trasferimento in altre sezioni degli alunni». Dal punto di vista pratico Bouché si sta già muovendo per capire se c’è la necessità di aumentare alla elementare “Sequino” il numero degli insegnanti di sostegno «sempre nell’ottica di venire incontro alle esigenze della scuola».
Si scatenano anche le associazioni, cresce il dibattito sui social network. L’associazione “Tutti a scuola”, che sottolinea il grande momento di sofferenza per la famiglia del bambino disabile. E il promotore Toni Nocchetti rivolto ai genitori dei bambini in fuga: «Non sanno di avere in classe qualcuno che è una risorsa per i loro ragazzi. Io, che non ho figli disabili, so quanto possano arricchirsi dal fatto di non essere soli. L’ingresso di quel ragazzo era stato preparato come sarebbe dovuto essere? Si è fatta una riunione per far incontrare i genitori e chiarire tutto?». Un episodio comunque «incivile » per Gianluca Nico-letti, autore del libro “Una notte ho sognato che parlavi” in cui racconta la sua esperienza di padre di un bambino autistico: «Se c’è stata una scellerata chiamata alle armi con la scelta collettiva di spostare dalla scuola i propri figli, sarebbe disgustoso. Qualcosa che dimostra una arretratezza culturale estrema e significherebbe che nessuno si è posto il problema di questo ragazzo e della famiglia».

La Repubblica 23.09.13

Primarie l’8 dicembre Assemblea nazionale del PD

Il segretario del PD, Guglielmo Epifani al termine dell’Assemblea nazionale ha informato che la Commissione Congresso ha ritirato le proposte di modifica dello Statuto. Sulla base delle raccomandazioni per il regolamento congressuale approvate dall’Assemblea, la Direzione nazionale si riunirà il 27 settembre per dare il via al percorso congressuale fino alle primarie dell’8 dicembre 2013.

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LE RACCOMANDAZIONI DELLA COMMISSIONE CONGRESSO

Le proposte che seguono configurano una “manutenzione” dello statuto del Pd e offrono alcune indicazioni per il regolamento volte a realizzare un percorso congressuale condiviso e partecipato, garantendo la sua congruenza con le novità sopraggiunte sul piano politico e con la concreta situazione organizzativa del partito. Esse tendono a ridurre al minimo gli interventi sullo statuto, privilegiando nei limiti del possibile lo strumento della disciplina regolamentare.

1) La figura del Segretario e il candidato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri
La commissione per il congresso propone di superare l’identificazione automatica tra segretario e candidato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e di prevedere la scelta di quest’ultimo attraverso specifiche primarie di coalizione o di partito. La commissione propone di eliminare l’ultima frase dell’articolo 3.1 dello statuto (“ed è proposto dal Partito come candidato all’incarico di Presidente del Consiglio dei Ministri”) e di riformulare l’articolo 18.8 come segue: “il candidato del PD alla carica di Presidente del Consiglio dei Ministri è scelto attraverso primarie di coalizione o di partito a cui sono ammessi, oltre al Segretario nazionale, anche altri iscritti al Partito Democratico”.

2) La platea per l’elezione del segretario nazionale e dei segretari regionali
Secondo lo statuto attuale il segretario è scelto dagli elettori del Pd, definiti come cittadini italiani o residenti in Italia che “dichiarino di riconoscersi nella proposta politica del Partito, di sostenerlo alle elezioni, e accettino di essere registrati nell’Albo pubblico delle elettrici e degli elettori” (art. 2.3). La commissione propone di confermare l’attuale formulazione statutaria e di prevedere la possibilità di iscrizione all’albo degli elettori anche al momento del voto. La quota di partecipazione suggerita è di due euro.

Il congresso costituisce l’occasione per la realizzazione di una grande campagna di adesione che configuri i cittadini che sceglieranno di partecipare all’elezione del segretario e dell’assemblea nazionale come componenti di una larga “comunità” dei democratici, e per promuovere l’inscrizione al partito.

3) I congressi territoriali e la presentazione delle candidature
La commissione suggerisce di tenere i congressi di circolo e provinciali prima dello svolgimento della fase riservata agli iscritti del congresso nazionale (volta come da statuto a selezionare i candidati da sottoporre al voto degli elettori). La commissione propone inoltre di mantenere la norma attuale che prevede la scelta dei segretari regionali da parte degli elettori, e di svolgere i congressi regionali entro il 31 marzo del 2014. Eventuali deroghe devono essere comprovate da motivi politici, statutari ed elettorali, e saranno decise d’intesa dalla Commissione nazionale per il congresso e dalle direzioni territoriali competenti.

La commissione suggerisce di consentire l’elettorato attivo nei congressi territoriali e in quello nazionale a quanti si iscrivano al Pd fino alla chiusura delle operazioni di voto.

La commissione propone di prevedere la presentazione delle candidature a segretario nazionale prima dell’inizio della fase territoriale del congresso, e al tempo stesso di evitare la possibilità di riferimenti e apparentamenti tra i candidati territoriali e quelli nazionali. Analogo principio viene stabilito per i congressi regionali. Il regolamento dovrà contenere adeguate norme per il contenimento dei costi e dei mezzi di propaganda e per garantire le pari opportunità di accesso dei candidati agli spazi di informazione e alle strutture del partito.

4) Composizione e modalità di elezione dell’assemblea e della direzione nazionale
La commissione propone di eliminare dallo statuto l’obbligo di svolgere le convenzioni nella fase del procedimento elettorale nazionale e regionale riservata agli iscritti e di prevedere nel regolamento che in ogni collegio venga presentata una sola lista collegata a ciascun candidato alla segreteria nazionale.

La commissione raccomanda alla prossima assemblea nazionale di utilizzare la facoltà prevista nell’articolo 8.3 per integrare la composizione della direzione nazionale con una quota territoriale di 30 componenti indicati dalle assemblee regionali.

5) Rispetto della parità di genere
Lo statuto prevede (art. 1.3) la presenza paritaria di donne e uomini negli organismi dirigenti ed esecutivi del partito. Tale norma è applicabile per tutti gli organismi dirigenti ad ogni livello territoriale, e la commissione segnala l’esigenza che il regolamento della commissione di garanzia stabilisca le sanzioni che derivano dalla sua violazione.

6) Decadenza del divieto di rieleggibilità della Commissione di garanzia
La Commissione propone una modifica statutaria all’art. 39 comma 5 e 6 dello statuto per rimuovere il divieto di rieleggibilità della Commissione di Garanzia e del suo Presidente.

7) Ipotesi di calendario congressuale
Al fine di svolgere l’elezione del Segretario nazionale e della Assemblea (art. 9 dello statuto) l’8 dicembre, la commissione suggerisce di svolgere il 27 settembre la direzione nazionale che approva il regolamento e di prevedere come termine per la presentazione delle candidature l’11 ottobre.

www.partitodemocratico.it

“Lo spettro delle presidenziali”, di Claudio Sardo

L’Assemblea del Pd è finita male. Senza certezze sulle regole, tra sospetti incrociati, con uno statuto sbagliato ma tuttavia irriformabile a breve, e soprattutto con uno scontro che si spinge fino a contestare la legittimità stessa del congresso. Diciamo la verità: ieri, nei momenti di confusione è riapparso lo spettro delle presidenziali, quando i tradimenti a Prodi e Marini hanno portato il Pd sulla soglia della dissoluzione. Eppure nella giornata di ieri ci sono stati anche i discorsi dei quattro candidati alla segreteria: discorsi sul Pd e sull’Italia, sul governo di oggi e sui progetti futuri. Hanno composto, nell’insieme, una potenziale base di partenza per quel cambio politico, per quel passaggio a una nuova stagione, di cui la sinistra ha bisogno e l’Italia ancor più. Peraltro gli interventi di Matteo Renzi e di Gianni Cuperlo, i principali sfidanti, hanno cominciato a delineare davanti a quella platea i termini di un confronto vivace, non scontato, persino con qualche importante punto di convergenza.

Ma sulle procedure è scattato il riflesso autolesionista. Le procedure stanno diven- tando (ovunque, non solo nel Pd) una malattia della politica: surrogano il conflitto reale, sono al tempo stesso prova di impotenza e fonte di conflittualità infinita. Se la buona politica è progetto, visione sociale, sintesi e mediazione, la bagarre sulle regole è il teatro degli azzeccagarbugli. Lo statuto del Pd è un testo in larga parte sbagliato – come ripete Guglielmo Epifani – spesso inservibile alla circostanza concreta. Non è un caso che, ogni qualvolta debba essere applicato, ha bisogno di deroghe o emendamenti. Non è un caso che proclama la coincidenza tra segretario di partito e candidato-premier, ma il solo tesserato Pd diventato premier è stato un vice segretario, Enrico Letta.

Tutto ciò imporrebbe umiltà, ricerca paziente di un compromesso, rispetto del limite del diritto, senza la pretesa di trasferire principi ideologici in norme cogenti. In ogni caso, se lo statuto del Pd non basta a fare un congresso in cui tutti si riconoscano, si deve trovare un accordo per superare gli ostacoli (in attesa di scrivere uno statuto degno di questo nome). Questa è la matassa che il gruppo dirigente del Pd deve dipanare. È che ieri non è riuscito a fare. Speriamo che la prossima riunione della direzione arrivi dove ieri l’assemblea non è arrivata. Tuttavia, il confine è segnato. E oltre il confine c’è il baratro per il Pd. Nessuno può sfilarsi dalla responsabilità di una mediazione, perché a rischio sono la sopravvivenza del partito e il suo rinnovamento futuro. Se qualcuno pensa di fare il furbo, o di vestire i panni della vittima, o di ingannare gli avversari interni, è chiaro che sta giocando ancora co- me hanno giocato i franchi tiratori e i tiratori franchi alle presidenziali.

Il Pd è il solo partito esistente. Ma è fragile. Per ragioni politiche e culturali, non solo organizzative. Dover trovare di volta in volta regole provvisorie (come già accadde quando Bersani favorì contra legem la partecipazione di Renzi alle primarie) è molto più faticoso che avere uno statuto funzionante. Ma tant’è: il passaggio è obbligato. Di procedure peraltro sarebbe bene parlare il meno possibile: nel senso che il negoziato dovrebbe essere il più rapido possibile. Non si è ancora capito che l’autoreferenzialità è per la rappresentanza politica una zavorra or- mai insostenibile e una prova di inaffidabilità? Le priorità sono altre, sono nella società che cambia, e non possono sfuggire ad un corpo collettivo.

Tra queste priorità c’è anche l’azione di logoramento che Berlusconi sta attuando ai danni del governo Letta. È la sua risposta alla sentenza definitiva. È il tentativo del condannato di riconquistare per via politica quella legittimazione che l’ordinamento gli ha tolto. Ma si tratta di una battaglia aperta: non è detto che Berlusconi riesca ad ottenere le elezioni anticipate a febbraio-marzo del 2014. Se il Pd reagirà con serietà e forza, se Letta insieme al Pd saprà sfidare il leader del Pdl, anticipando i suoi ricatti su Imu e Iva e mettendolo con le spalle al muro sulle principali scelte di politica economica e sul- le riforme, Berlusconi potrebbe non trovare le complicità per far saltare il tavolo.

Questo tema è già dentro il percorso congressuale del Pd. Nessuno sa come finirà la partita. Ma sarebbe un suicidio, se Berlusconi trovasse nel Pd sponde sulla linea della rottura. La stabilità non è mai un bene in sé. L’Italia però ha bisogno di costruire in questi mesi alcune premesse del cambiamento futuro: l’obiettivo è portare il Paese ad una condizione migliore nel suo rapporto con l’Europa, e alle riforme istituzionali ed elettorali necessarie per consentire un voto utile. Così si potrà progettare un cambiamento più profondo. Come può il Pd rinunciare a questo obiettivo?

A Berlusconi del cambiamento futuro non interessa nulla. Se il Pd sarà capace di intestarsi questa politica e questa interpretazione del governo Letta, potrà sopportare meglio anche l’eventuale rottura di Berlusconi. Se invece tutto resterà appeso ai ricatti del Pdl, il Pd rischia di importare al suo interno ulteriori lacerazioni, come già dimostrano le tensioni tra Letta e Renzi. Un congresso è anche conflitto. Ma in un partito, anche durante il conflitto, sono chiare le ragioni comuni. Se vengono meno, non c’è più il partito.

L’Unità 22.09.13

Si moltiplicano le imprese “rosa”, da lastampa.it

Le imprese femminili hanno un passo più veloce rispetto al totale delle imprese. Considerando il periodo giugno 2013-giugno 2012, l’esercito delle imprese in rosa è cresciuto di 4.878 unità, pari al +0,34%, mentre le imprese nel loro complesso sono aumentate dello 0,13%.

Prato, Siracusa, Pescara e Novara le città più «vivaci» anche in questo anno tanto difficile. Molise, Abruzzo e Basilicata, invece, le regioni le cui attività produttive sono maggiormente tinte di rosa. Sono gli ultimi dati elaborati dall’Osservatorio dell’Imprenditoria femminile di Unioncamere-InfoCamere.

«Forse le pari opportunità non sono ancora pienamente entrate nel dizionario comune degli italiani», sostiene il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello. «Ma un fatto appare incontrovertibile: anche quando le condizioni del mercato non sono certo vantaggiose, la voglia di impresa delle donne non cede».

Alla fine del secondo trimestre di quest’anno, le imprese femminili iscritte al Registro delle imprese delle Camere di commercio sono 1.429.880, il 23,6% del totale delle imprese. Quasi il 12% di esse (per complessive 171.414 unità) ha al comando giovani di meno di 35 anni. Oltre al cospicuo saldo positivo (pari a quasi 5mila unità in più), l’Osservatorio fa emergere anche la tendenza al rafforzamento strutturale dell’imprenditoria femminile. Anche se le donne continuano a scegliere prevalentemente la forma giuridica della ditta individuale (a giugno lo hanno fatto in 854.718), il bilancio dei dodici mesi esaminati registra un forte incremento delle società di capitali «rosa»: +9.027 unità, con una crescita dello stock di queste imprese del 4,21%. Sensibile anche l’aumento delle cooperative guidate da donne: 923 imprese in più, con un aumento nel periodo del 3,13%.

Nella stragrande maggioranza, tuttavia, le imprese femminili (fenomeno che possiamo considerare ancora relativamente recente, visto che l’86% di esse è stata costituita dopo il 1990), restano di piccola dimensione: quasi il 69% ha meno di 1 addetto (a fronte del 67% della media nazionale).Il settore terziario continua ad attrarre fortemente l’universo femminile: 3.573 le unità in più nei servizi di alloggio e di ristorazione, 1.107 in più quelle legate al noleggio e agenzie di viaggio. Significativi i numeri anche di chi continua a scegliere il mondo dei servizi alla persona (+1.288), ma anche quelli di attività che, fino a pochi anni fa erano appannaggio dell’universo maschile: +1.337 le imprese femminili che operano nelle attività finanziarie, assicurative e immobiliari, +1.055 il saldo delle costruzioni.

A livello territoriale, la regione più rosa si conferma anche nel II trimestre 2013 il Molise (dove quasi il 30% del tessuto produttivo è femminile), seguita da Abruzzo (27,8%) e Basilicata (27,7%). A livello provinciale emerge il primato di Benevento (in cui 32,3% delle imprese ha una donna al comando), seguita Avellino (32,2%), da Frosinone (30,8%) e da Isernia (poco più del 30%). Particolarmente proficuo in termini di diffusione di imprese femminili è stato l’anno intercorso tra giugno 2013 e giugno 2012 per Prato (dove la variazione percentuale è stata del +2,62%), Siracusa (+2,40%), Pescara (+2,28%) e Novara (+2,22%).

Otto imprese guidate da donne su 100 si devono all’iniziativa di cittadine straniere. Sono infatti 114.963 le unità produttive gestite da imprenditrici di altra nazionalità, 82mila delle quali (pari al 5,76% del totale delle imprese femminili in Italia) hanno al vertice una cittadina extracomunitaria.

www.lastampa.it

“Per Fmi e Confindustria sempre più disoccupati”, di Marco Ventimiglia

La disoccupazione è cresciuta nel passato, sta continuando a farlo adesso, ed il suo incremento non conoscerà sosta pure nel prossimo futuro. Un’affermazione drammatica, che rappresenta la sommatoria dei dati forniti ieri dal Fondo Monetario Internazionale e da Confindustria. Drammatica ma per nulla sorprendente, perché gli ultimi numeri in fatto di senza lavoro non fanno altro che ribadire quanto emerso da plurime rilevazioni precedenti, sia in ambito globale che restringendo l’analisi allo specifico italiano. Semmai, nel nostro Paese suonano come un nuovo campanello d’allarme nel momento in cui si comincia a parlare di ripresa finalmente in atto.

ANNO DISASTROSO Cominciamo dall’Fmi, del quale sono state diffuse le linee guida del suo “World Economic Outlook”. Ebbene, in un contesto internazionale che continua a rappresentare molti elementi di criticità, «la disoccupazione resterà a un livello inaccettabilmente elevato in molte economie avanzate così come in vari paesi emergenti». Il passaggio riservato al nostro Paese, poi, è di quelli da brivido. Per il Fondo Monetario, infatti, «in Italia i senza lavoro saliranno dal 10,7% del 2012 al 12,6% nel 2013 per poi ridiscendere al 12,4% nel 2014». Dunque nell’anno in corso le persone prive di un’impiego stanno arrivando ad una quota che non trova riscontri negli ultimi anni, e la flessione prevista per il 2014 è troppo debole per non rischiare di andare incontro a revisioni di segno opposto. L’Fmi, del resto, vede nero anche per quanto riguarda il Pil del nostro Paese, in sintonia pure in questo caso con precedenti rilevamenti. In particolare, l’economia italiana si contrarrà nuovamente quest’anno, con un calo del Prodotto interno lordo dell’1,8%, per poi risalire in modo debole nel 2014, con un +0,7%. Previsioni, quelle relative all’Italia così come altri principali partner di Eurolandia, che restano comunque invariate rispetto alle ultime stime ufficiali diffuse a luglio. Le forbici, invece, il Fondo Monetario Internazionale le ha adoperate relativamente alle stime per il Pil mondiale. Le previsioni del World Economic Outlook, lo vedono sì crescere del 2,9% nel 2013 e del 3,6% nel 2014, ma con un taglio rispettivamente di 0,3 e 0,2 punti percentuali rispetto ai precedenti numeri ufficiali, comunicati anch’essi nel mese di luglio. Non manca, nel documento dell’Fmi, un’analisi generale della situazione nel Vecchio continente, dove si ritiene fondamentale rafforzare l’area Euro. Enfasi pure sull’unione bancaria, la cui realizzazione «sarà cruciale e deve comprendere un meccanismo unico di supervisione e risoluzione delle crisi». Secondo l’organizzazione con sede a Washington, poi, è fondamentale la direzione intrapresa dai singoli Stati dell’Unione europea. «Servono si legge nel documento chiari programmi di riforme strutturali e di bilancio, così come delle politiche più prevedibili». Ed ancora, i vari esecutivi Ue devono «migliorare ulteriormente la qualità degli aggiustamenti di bilancio, espandendo la base imponibile e riformando il sistema degli sgravi fiscali». Quanto a Confindustria, ieri a farsi sentire è stato il suo Centro Studi. Dall’indagine annuale del Csc si apprende che nel 2012 si è registrata una contrazione dell’occupazione dello 0,6% all’interno delle aziende associate a Confindustria. Si tratta di un dato che purtroppo consolida un trend, se è vero che nel 2011 il calo era stato dello 0,3%, mentre nel 2010 si era verificata una flessione più marcata, -1,1%. La diminuzione, spiega la nota del Csc, «è tutta dovuta alla riduzione dei flussi in entrata, scesi all’11,7%, dei lavoratori dipendenti, dal 12,6% rilevato nell’indagine precedente». Ma è diminuito anche il turnover in uscita, dal 12,9% al 12,2%. Parallelamente è aumentato il ricorso alla Cig, «che nel 2012 si legge nell’indagine del Centro Studi ha assorbito potenziale forza lavoro pari al 5,3% delle ore lavorabili nell’industria (dal 4,2% nel 2011), e al 2,5% nei servizi (dall’1,3%)».

L’Unità 22.09.13

“Un tuffo contro i “mostri” in Laguna la rivolta nel giorno delle supernavi”, di Roberto Bianchin

È bastata una nuotata in allegria per fermare i bisonti del mare. Per tenere incatenate le grandi navi alle banchine, con i passeggeri che non capivano i motivi dei ritardi nelle partenze, e i veneziani, per una volta vittoriosi, che facevano festa sulla riva delle Zattere sotto un sole tropicale. Inneggiando, tra fischietti, trombette, tamburelli, pentole, bandiere, “ombre” di vino e canzoni degli anni Sessanta, ai trenta coraggiosi che si erano buttati nelle acque tumultuose del canale della Giudecca per impedire per un paio d’ore con i loro corpi il passaggio delle grandi navi, armati solo di ciambelle salvagente, materassini e paperette gonfiabili.
È stata una festa, riuscitissima, più che una protesta, quella messa in scena ieri dal comitato “No grandi navi”, che raccoglie centinaia di cittadini veneziani di ogni età, condizioni e colore stanchi dello sfruttamento turistico cui è sottoposta la città, esponenti delle società remiere, delle associazioni ambientaliste, dei centri sociali. La giornata infatti era di quelle da record. In negativo: 11 grandi navi, più 5 navi da crociera e 2 traghetti sotto
le 40mila tonnellate, per un totale di 18 navi in un solo giorno, che vogliono dire 36 passaggi nel bacino di San Marco tra arrivi e partenze. Una cifra pazzesca. Che nell’intero week-end arriva alla bellezza di 27 navi in tre giorni. “Una follia”, secondo il comitato. «Numeri nella norma, nessun evento eccezionale», minimizza il presidente del terminal passeggeri, Sandro Trevisanato.
La battaglia era cominciata la mattina. Mentre entravano tranquille nel porto la Splendor of the seas, la Seabourn Odyssey, la Norwegian Jade, la Queen Victoria, la Royal Clipper e la Msc Divina, navi lunghe 300metri e alte più del campanile di San Marco, quelli del comitato “No navi”, un centinaio, con tute e mascherine bianche, andavano a smantellare, con una manovra diversiva, la “Welcome Area” dei croceristi all’aeroporto Marco Polo di Tessera: portavano fuori tavoli, sedie e attrezzature, e sigillavano gli uffici con un nastro bianco e rosso. Nessun danno. “Stop cruises, save the lagoon”, avevano scritto su uno striscione. Intanto cominciava la festa a San Basilio, sulla riva delle Zattere, vicino al porto da dove partono le grandi navi, che è durata fino a sera. Musica, gazebo, punti di ristoro, giochi per i bambini. «Mettendo la navi in fila, è come se passasse un muro di ferro lungo tre chilometri — spiegava Silvio Testa, vogatore, ex giornalista, portavoce del comitato — 772mila tonnellate di stazza lorda,
20mila passeggeri, 8mila membri d’equipaggio, tutti concentrati in un colpo solo: fanno la metà dei cittadini veneziani. Senza contare l’inquinamento dell’aria, i disturbi per il rumore, l’erosione dei fondali per il movimento delle eliche».
Che siano troppe 410 grandi navi l’anno che passano davanti a San Marco, in una città come Venezia più fragile di un merletto, come il fatto che siano troppi anche 25 milioni di turisti, lo racconta una signora che va in giro con un grande cartello appeso al collo, che dice tutto: “Venezia muore di turismo”. E si accoda alla protesta, un po’ a sorpresa, anche il governatore leghista del Veneto Luca Zaia, che battezza il passaggio delle grandi navi come “una schifezza immonda”, e dice che è un problema da risolvere velocemente, badando però a non colpire l’occupazione del settore (5mila addetti). Lo “stop immediato” alle grandi navi lo chiede anche il sottosegretario ai beni culturali Ilaria Borletti. Intanto l’assessore all’ambiente Gianfranco Bettin dispone il monitoraggio dei fumi emessi dalle ciminiere delle navi e la misurazione dell’inquinamento acustico. E il sindaco Giorgio Orsoni sbotta: «L’ora delle decisioni è arrivata, le grandi navi devono andarsene al più presto».
«Cacciamole giocando», dicono i trenta nuotatori «selezionati dal comitato dopo prove durissime», che hanno avuto la trovata di “rispondere con un sorriso” all’ “insulto” del passaggio delle grandi navi. Quando si tuffano in acqua alle quattro del pomeriggio dalla riva delle Zattere, cuffia arancione per essere ben visibili, e mute da sub per resistere in acqua il più a lungo possibile, le forze dell’ordine, che si aspettavano un corteo di barche, rimangono sorprese.
I gommoni della polizia, dei carabinieri, dei vigili urbani e della Guardia di finanza, non sanno bene cosa fare. Li controllano a distanza. I nuotatori, tra cui Tommaso Cacciari, nipote dell’ex sindaco, trascinano cordoni di palloncini colorati e si esibiscono in vari, e approssimativi, stili di nuoto. Si distendono lungo il canale, tra le Zattere e la Giudecca, impedendo il passaggio. Le navi decidono di rinviare la partenza. Si fermano anche i vaporetti. Viene dato l’ordine di bloccare la circolazione. Sono costrette a rinviare la partenza la Seabourn Odyssey, la Azamara Quest, la Splendour of the seas, la Queen Victoria, la Azamara Journey, la Msc Divina, la Norwegian Jade, la Royal Clipper. Quando passano, che ormai è sera, dalle rive salutano. Ma da domani si ricomincia.

La Repubblica 22.09.13

“La mia verità sull’omofobia”, di Ivan Scalfarotto

Due giorni fa la Camera ha approvato l’estensione integrale della legge Mancino alla omofobia e alla transfobia. Si tratta di un passo storico per l’Italia che però ha suscitato dubbi polemiche che rischiano di sminuirne la portata. E sarebbe un errore perché, a mio parere e non solo, si tratta invece di una vera e propria svolta. Vediamo dunque di chiarire i punti chiave della questione.

Per la prima volta un ramo del Parlamento italiano approva una norma ad hoc che riconosce in Italia l’esistenza, la dignità e il diritto di vivere pacificamente di una comunità di persone – le persone Lgbt, cioè lesbiche, gay, bisessuali e transgender – che fino ad oggi non sono state riconosciute in quanto tali, al contrario di altre minoranze. Le uniche norme antidiscriminatorie finora in vigore sono di origine europea e afferiscono a diritti individuali, come quelli del lavoro. Non solo, ma per la prima volta il Parlamento italiano ha mandato solennemente al Paese il messaggio per cui l’odio contro queste persone costituisce un disvalore per la nostra comunità nazionale.

L’omofobia e la transfobia diventano così fenomeni da reprimere allo stesso modo del razzismo, della xenofobia e dell’antisemitismo. La legge Mancino è stata estesa nella sua interezza. Anche l’emendamento Verini, che la modifica, introduce un cambiamento per tutta la legge e non solo per l’omofobia e la transfobia. Persino il titolo della legge risulta modificato: la legge Mancino ora si chiama «Misure urgenti in materia di discriminazione, odio o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi o fondati sull’omofobia o sulla transfobia».

Aver esteso la legge Mancino significa che al suo interno sono stati introdotti i reati di omofobia e transfobia. Questo, nella pratica, significa stabilire che «istigare a commettere o commettere atti di discriminazione per motivi fondati sull’omofobia e sulla transfobia» è un reato e che «verrà punito con la reclusione fino a un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro»; allo stesso modo viene detto che è reato «istigare a commettere atti di violenza per motivi fondati sull’omofobia e sulla transfobia» e che questo reato è «punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni». Viene inoltre vietata ogni organizzazione, associazione movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’istigazione alla discriminazione o alla violenza per motivi fondati sull’omofobia e sulla transfobia. Chi partecipa a tali organizzazioni o presta assistenza alla loro attività è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni.

A parte questi reati di nuova introduzione, la legge Mancino prevederà che per qualsiasi altro reato, non punito con l’ergastolo ma commesso con finalità di discriminazione o di odio fondati sull’omofobia o la transfobia, si applicherà la famosa «aggravante» di cui tanto si è discusso: in pratica la pena sarà aumentata fino alla metà. È bene ricordare che l’aggravante non era prevista nel testo base della commissione: per consentire l’arrivo in aula della legge, il Pd si era infatti reso disponibile a procedere con un testo che non la prevedeva, impegnandosi però a introdurla in aula, come effettivamente avvenuto. È su questo punto che si è arenata la trattativa per arrivare a un’intesa con il Pdl.

Il fatto di aver cercato un’intesa che fosse la più ampia possibile, pur avendo la possibilità di un accordo diretto con M5S e Sel, non è stato compreso correttamente e ha dato adito a critiche come quella di non aver voluto creare problemi alla maggioranza delle larghe intese. Si tratta di una interpretazione infondata. Nella storia del Paese, le grandi riforme civili non sono mai state collegate alle maggioranze di governo: basti pensare alla legge sull’aborto e a quella sul divorzio. I motivi della nostra scelta sono stati due: prima di tutto, fare in modo che la legge fosse considerata un passo importante di crescita per tutto il Paese e non la vittoria di una parte sull’altra. In secondo luogo, garantire una più agevole approvazione al Senato.

Nella legge Mancino ci sono poi altre disposizioni che vale la pena ricordare, come il divieto, in pubbliche riunioni, di manifestare o ostentare simboli propri delle organizzazioni razziste e omofobiche, che è punito con la pena della reclusione fino a tre anni o con una multa. Oppure il divieto di accedere a luoghi dove si svolgono competizioni agonistiche a chi vi si rechi con quegli emblemi o simboli. Questo significa che, se fino a ieri, uno striscione razzista non poteva essere esposto in uno stadio mentre si poteva esporre uno striscione a contenuto omofobico, con la nuova legge non sarà più così.

Anche sugli emendamenti presentati è bene fare chiarezza. L’emendamento Verini fornisce una chiarificazione dell’intera legge Mancino (non solo la parte sull’omofobia e transfobia) forse superflua, ma che è stata richiesta da parte del mondo cattolico. Si tratta di un’applicazione dell’articolo 21 della Costituzione sulla libertà di pensiero: le norme della legge Mancino sono norme penali che non servono a risolvere conflitti sulle opinioni. Chiunque può continuare a dire di essere contrario al matrimonio gay o allo ius soli. Sono opinioni che possono non piacerci, ma non possono essere oggetto di un procedimento penale.

Il sub-emendamento Gitti in realtà è molto meno preoccupante di come sia stato descritto. Basta leggerlo: vi si dice che non costituiscono atti di discriminazione le condotte delle organizzazioni di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione ovvero di religione o di culto a queste condizioni. Tutto questo solo «ai fini della presente legge». Questo vuol dire che se vi è un’altra norma che stabilisce un divieto di discriminazione (per esempio: norme sul divieto di discriminazione sul lavoro), queste non vengono sanate da questo emendamento.

Qualcuno, infine, ha detto che questo emendamento serviva a coprire organizzazioni neofasciste: è un’osservazione infondata. Al contrario, la legge approvata mercoledì prevede il divieto, assistito da pesanti sanzioni penali, di creare o assistere organizzazioni che abbiano tra i propri scopi l’omofobia. Fino a ieri questo divieto non era previsto.

L’Unità 21.09.13