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“Meno tasse sul lavoro o sarà mobilitazione”, di Massimo Franchi

«Se la legge di Stabilità non scioglie il nodo della riduzione della tassazione per lavoratori e pensionati e della redistribuzione del reddito non si può che procedere con la mobilitazione unitaria ». In attesa, oramai da cinque giorni, di una convocazione a palazzo Chigi, Susanna Camusso rompe gli indugi e avverte il governo: la pazienza del sindacato è finita. Fatto il punto con il parlamentino Cgil nel Direttivo mattutino, il segretario generale della Cgil ribadisce la richiesta di un incontro con il premier Enrico Letta: «C’è già molto ritardo nel convocare le parti. Sollecitiamo il confronto. O la legge di Stabilità cambia passo o siamo destinati a declinare. Per usare un eufemismo sembra ci sia uno schema di galleggiamento e non ci si sta confrontando con il profilo del Paese e le esigenze dei cittadini – attacca Camusso – Non si aggredisce il nodo fondamentale: quello dell’ingiustizia nella distribuzione del reddito e della sovrabbondante tassazione sul lavoro dipendente e sulle pensioni».

IL CASO SACCOMANNI L’attualità politica riporta alle minacce di dimissioni di Saccomanni, ma alla Cgil interessano le politiche, non chi le fa. «Dire la verità sui conti è un buon proposito ma presuppone che finora non sia stato fatto – spiega Camusso – . I conti peggiorano per le leggi finanziarie che ripetono lo schema del 2011 che non hanno portato al risanamento e hanno peggiorato la condizione degli italiani». Per Camusso poi «non si può oscillare tra ripresa e orlo del baratro». Per la Cgil «ci sono le condizioni per fare una legge di stabilità come chiediamo, non bisogna cambiare i trattati europei ». Camusso chiede poi di evitare «piccoli provvedimenti» ma un cambio di politiche. E sulla questione Finmeccanica, Eni e Poste Vita avverte che dalla Cgil arriva un «gigantesco no alle privatizzazioni, un no a caratteri cubitali. Sarebbe un clamoroso errore». No anche a «tagli lineari alla spesa pubblica». Nel direttivo di ieri non si è parlato di congresso. La partita si sta giocando nelle tre commissioni, prima fra tutte quella Politica dove tutti i segretari generali e territoriali lavorano al documento congressuale. Nel fine settimana è però previsto un importante appuntamento. A Rimini la Fiom terrà la sua assemblea nazionale. E venerdì a Rimini interverrà Susanna Camusso. Se dal punto di vista interno, la partita è appena cominciata, sul piano confederale fa ancora fede il documento sottoscritto con Confindustria che chiedeva un forte calo del cuneo fiscale e la lettera inviata lo scorso 18 settembre dai tre sindacati confederali a Letta. In quel breve documento, Camusso, Bonanni e Angeletti disegnavano un quadro molto preciso. Cgil, Cisl e Uil sottolineavano come fosse «il momento di affrontare con decisione i temi della creazione di lavoro, della ripresa economica e della crescita. Per questo chiedevano al governo di avviare immediatamente un confronto sui contenuti della prossima legge di stabilità». I sindacati ribadivano «la necessità che la discussione si incentri sui temi individuati nel documento sottoscritto dalle parti sociali e che sia indispensabile puntare sul lavoro per costruire le condizioni di una ripresa dell’economia. Ritenevano necessario che fin dalle fasi preparatorie della legge di stabilità si imposti una discussione su una nuova e più efficace articolazione delle politiche fiscali in un’ottica di redistribuzione del reddito. Infine, le tre confederazioni chiedevano al governo di avviare una discussione di merito su esodati e pensioni».

BONANNI: MOBILITATI PER STABILITÀ Quando, alle 19, Enrico Letta risponde da Ottawa ribadendo l’impegno («con Confindustria e sindacati faremo un lavoro comune: ci siamo parlati e ci parleremo prima della legge di stabilità»), tocca a Raffaele Bonanni, in una sorta di staffetta sindacale, commentare. «È importante che il premier Letta abbia ribadito chiaramente l’impegno del governo per l’apertura di un confronto con le parti sociali nei prossimi giorni. Una cosa deve essere chiara: il sindacato si mobiliterà per favorire la stabilità politica e per far ripartire l’economia attraverso un taglio drastico delle tasse per lavoratori, pensionati e imprese che investono», spiega da Termoli il segretario generale della Cisl. «Noi siamo pronti al confronto dove porteremo le nostre richieste ma anche le nostre proposte sia sul taglio della spesa improduttiva sia sul piano degli interventi per favorire la creazione di nuovi posti di lavoro ed una ripresa dei consumi. Bisogna agire con tempestività e concretezza. Prima parte il confronto meglio è per il paese e per la stabilità del governo», ribadisce il leader Cisl.

L’Unità 24.09.13

“Come si insegna ai ragazzi a non uccidere le donne”, di Maria Novella De Luca e Diego Longhin

Bambini a lezione di “rispetto tra i generi” per combattere omofobia, razzismo, e rifiutare sempre e comunque la violenza sulle donne. Contro il femminicidio parte dal comune di Torino il primo progetto istituzionale in Italia di “educazione alla differenza” nelle scuole.
BAMBINI e ragazzi chiamati a capire e scoprire cosa vuole dire la parità tra i sessi. Perché di fronte alla tragedia del femminicidio, e di tutte le nuove forme di razzismo, è da loro che bisogna ricominciare. Nelle aule dei più piccoli e in quelle dei più grandi, in palestra, fuori dalle scuole, nei campetti di calcio, all’oratorio. In quell’età acerba in cui molto si scopre, molto si sperimenta, ma subito si sovrappongono giudizi, stereotipi. Così nelle scuole elementari di Torino si analizzeranno fiabe e cartoni animati, e alle medie si discuterà di Storia, ma partendo, finalmente, dal punto di vista femminile. Educazione sentimentale 2.0. Se a Torino le “lezioni di genere” salgono in cattedra, il movimento è in realtà più ampio, è fatto di genitori, insegnanti, educatori, che hanno deciso di reagire, preoccupati dalla deriva “intollerante” delle generazioni più giovani. Quelle stesse che quando arriva l’adolescenza partecipano o subiscono le campagne su Facebook, dove il sesso è un’arma, e chiunque
sia differente viene emarginato, con conseguenze a volte irreparabili. Gli adolescenti suicidi, il femminicidio, l’anoressia in nome di una bellezza impossibile… Spiega Umberto Magnoni, direttore del settore formazione del Comune di Torino: «Se ho la giusta percezione della differenza, se riconosco il ruolo dell’altro sesso, so anche che quella persona non è inferiore a me».
In Francia l’hanno chiamato “Abcd de l’egalitè”, un vero e proprio programma ministeriale per le scuole primarie, in Svezia sono ripartiti dagli asili, in Inghilterra dalle campagne contro i negozi di giocattoli troppo “sessisti“, in Italia molti licei organizzano spontaneamente corsi di “educazione di genere”. Gran parte di questi corsi, seguiti negli ultimi due anni da oltre sedicimila studenti, sono organizzati da un team coordinato da Lorella Zanardo, manager, scrittrice e autrice alcuni anni fa di un fondamentale documentario “Il corpo delle donne”, visto online da 5 milioni di persone. «Dopo il successo di quel documentario, in cui mostravo come i media mercificassero il corpo delle donne, ho ricevuto centinaia di richieste da parte di professori e professoresse, che mi chiedevano di incontrare i ragazzi proprio per parlare di questi temi, consapevoli di quanto la televisione influenzi i rapporti tra i sessi». Da qui è nato un fortunato progetto, “Nuovi occhi per i media”, con cui Zanardo e il suo team stanno girando le scuole d’Italia. «Mostriamo ai ragazzi i programmi che seguono di più, e poi senza mai criticare le scelte, proviamo a far vedere come dietro una semplice ripresa ci siano mille contenuti.
Uno dei tanti quiz di prima serata ad esempio: quando entra la candidata la telecamera prima inquadra le gambe, poi risale verso il seno, si ferma sulla scollatura, e infine mostra la faccia. Quando entra il candidato uomo lo zoom è subito sul volto…».
Una decostruzione dell’immagine insomma, che dopo le prime resistenze, i ragazzi iniziano a seguire. Perché, paradossalmente, i figli delle madri cresciute negli anni della lotta per la parità e del femminismo, stanno vivendo un salto all’indietro nel rapporto tra ragazzi e ragazze. Graziella Priulla, docente di Sociologia all’università di Catania, ha pubblicato di recente un manuale per le scuole superiori dal titolo “C’è differenza”. Un viaggio attraverso tutte quelle leggi, dal voto al divorzio all’aborto che hanno cambiato la vita delle donne. Ma un racconto anche della violenza maschile, e dello sfruttamento del corpo femminile. «Parlando con i miei studenti mi sono accorta che non sapevano nulla di tutto questo. Le ragazze cercano sempre di più di assomigliare a stereotipi tradizionali, i maschi si offendono se si chiede loro chi lava i piatti in famiglia…”.
Da una parte la sessualità sempre più esibita e precoce, dall’altra una grammatica dell’amore nutrita di simboli che si pensavano superati per sempre. «Nella mia classe ho delle studentesse brillantissime ma del tutto soggette alla volontà dei loro fidanzati coetanei», racconta Maria Monni, prof di Matematica di Cagliari. «Negli ultimi anni ho visto affievolirsi il sentimento di autonomia delle ragazze e aumentare il senso di orgoglio dei maschi in quanto maschi. Una vera regressione». Che ci sia ormai uno scarto infatti tra ciò che sono le bambine e le ragazze e la loro rappresentazione nella società è sempre più evidente. Lo sottolinea Irene Biemmi, ricercatrice di Scienza dell’Educazione all’università di Firenze, che ha analizzato decine di libri di testo delle scuole elementari, per descrivere poi il ruolo femminile che ne emerge. «Un’analisi sconfortante — ammette Biemmi — i maschi fanno almeno 50 professioni diverse, e molte prestigiose, e le donne soltanto 15, e tra queste ci sono la mamma, la fata e la strega…». E naturalmente anche la maestra, visto che l’82% del corpo docente è femminile, ma purtroppo e paradossalmente, «sono le stesse insegnanti a veicolare modelli arcaici, e infatti è proprio dalla loro formazione che si dovrebbe ricominciare».

La Repubblica 24.09.13

Spending review colpisce ancora la scuola: meno fondi per i libri alle famiglie in crisi”, di Salvo Intravaia

Il governo taglia i costi della politica regionale ma ci vanno di mezzo gli studenti meno abbienti. È un po’ difficile comprenderne le motivazioni, ma da quest’anno per gli alunni appartenenti alle famiglie che stentano ad arrivare a fine mese, comprare i libri di testo scolastici sarà un problema ancora più grosso dello scorso anno. Perché, mentre con una mano il governo assegna alle scuole 8 milioni di euro per l’acquisto di volumi in comodato d’uso, con l’altra ne taglia 50 che fino al 2012/2013 andavano a rimpinguare il capitolo di spesa che serviva per assegnare un contributo alle famiglie con figli alla scuola media o al superiore per l’acquisto dei libri scolastici. Contributo che viene assegnato ogni anno attraverso le regioni, in base al reddito familiare.

Ma per quest’anno le risorse si sono praticamente dimezzate e il contributo medio per studente in difficoltà passa da 163 euro – con cui era possibile acquistare da 6 a 7 libri – ad appena 85 euro a testa, che bastano a malapena per tre libri al massimo. Il resto dei testi scolastici dovranno sobbarcarselo le famiglie. Si tratta, secondo le stime effettuate dallo stesso ministero dell’Istruzione di più di 647mila studenti, appartenenti a nuclei familiari “con reddito inferiore ad 15.493,71 euro”. Famiglie che abbondano soprattutto nelle regioni meridionali. Nell’anno scolastico 2012/2013 il ministero erogò alle regioni ben 103 milioni di euro che per il 2013/2014 diventano 53.560.000.

Ma è la motivazione della sforbiciata che lascia perplessi. Nel 2012 il governo Monti emanò un decreto legge per tagliare i costi della politica nelle regioni. Una norma che, per il capitolo relativo all’acquisto dei libri di testo per gli studenti meno abbienti, rimase in stand by per qualche tempo. Poi arrivò il governo Letta che lo scorso 29 maggio, attraverso il suo ministero dell’Economia, ha operato “un accantonamento di 49.440.000, effettuato, in via cautelativa, nelle more dell’applicazione dell’articolo 2 del decreto-legge” sul taglio dei costi della politica regionale. Il decreto montiano che intendeva limitare vitalizi, indennità e gettoni di presenza degli amministratori locali finisce così per colpire gli studenti meno abbienti.

È soprattutto nelle regioni meridionali che abita la maggior parte degli studenti meno abbienti, sempre secondo viale Trastevere. Qualcosa come un milione e 721mila studenti di medie e superiori corrispondenti al 41 per cento del totale degli studenti poveri censiti dal ministero. Le regioni più penalizzate saranno quelle che hanno la percentuale più alta di studenti appartenenti a nuclei familiari in difficoltà rispetto al totale della popolazione scolastica regionale: Sicilia, Basilicata e Campania nell’ordine. In Sicilia, dove gli studenti meno abbienti ammontano al 29,1 per cento, verranno a mancare quest’anno risorse per 8 milioni e 600mila euro. In Campania, gli studenti poveri dovranno accontentarsi di 8 milioni in meno.

La Repubblica 23.09.13

Plebiscito Merkel ma occhio ai “grillini”, di Gian Enrico Rusconi

A prima vista il risultato elettorale in Germania è paradossale. La supervittoria di Angela Merkel e del suo partito rende difficile quello che sembrava l’esito scontato del futuro governo: una coalizione tra democristiani e socialdemocratici, la classica Grosse Koalition. I numeri, una collaudata tradizione e un certo umore diffuso, tra il rassegnato e il rilassato, la lasciavano aspettare. Invece potrebbe non essere così.

L’irritata battuta del leader della Spd, Peer Steinbrueck («Ora la palla è nel campo di Angela Merkel, lei deve trovarsi una maggioranza») è tutto un programma.

Ma qui forse la parola«programma» non è fuori luogo. Infatti se Cdu e Spd dovessero sedersi attorno ad un tavolo per stilare un programma di governo comune, la trattativa potrebbe essere lunga e laboriosa.

Ma guardiamo intanto il risultato complessivo delle elezioni. I due partiti popolari sono nettamente i più forti rispetto agli altri partiti diventati davvero «minori». Chi ha detto che i partiti tradizionali hanno fatto il loro tempo? Clamoroso, anche se prevedibile, è il tracollo dei liberali che da anni sostenevano una posizione aggressiva senza essere convincenti. Serio è anche il declino dei Verdi che – pare – pagano lo scippo compiuto dalla Merkel ai loro danni, con l’annuncio della chiusura delle centrali nucleari. Come se il programma dei Verdi non sapesse essere e mostrarsi più ricco e ampio di questa iniziativa.

Ma tra i partiti minori ha fatto capolino con un sarcastico 4,9% ( al momento in cui scriviamo) «Alternativa per la Germania» (AfD) che non entra in Parlamento per un soffio. Ma il botto è clamoroso, visto che le veniva continuamente negata una tale rilevanza numerica. Ma «Alternativa per la Germania» non è una piccola formazione come le altre. Non è un generico gruppo di protesta antieuropeista, un partito «populista» – come scrivono i giornali. E’ un piccolo gruppo di persone qualificate che fa un discorso radicale ragionato (giusto o sbagliato che sia) contro il frasario politicamente corretto sull’Europa e la sua moneta. Ha di mira la liquidazione dell’euro ovvero l’espulsione dalla sua area dei Paesi membri del’Ue che non sono in grado di sostenere e mantenere le regole definite. Una riaffermazione piena della autonomia e sovranità della Germania. Sono parole che suonano gradite ad ambienti istituzionalmente qualificati in Germania, in ambienti vicini alla Bundesbank e alla Corte federale. Questo partito costringe a ragionare seriamente sull’euro, a confrontarsi, a non accontentarsi delle giaculatorie. Angela Merkel lo sa e ne terrà conto. Il suo slogan «se fallisce l’euro, fallisce l’Europa» diventa ora assai più impegnativo di quanto non lo fosse sino ad ieri.

Torniamo così al risultato centrale delle elezioni, previsto, eppure straordinario. Parlare di «plebiscito» per Angela Merkel non è un’espressione semplicemente enfatica. Non si tratta infatti soltanto di numeri. Gli elettori hanno risposto positivamente all’unico vero slogan elettorale della Cancelliera : «Datemi fiducia. Fidatevi di me. Avete visto come ho governato bene? Come ho salvaguardato il vostro benessere? Come sto mettendo in riga gli europei recalcitranti?». Ha chiesto un atto di fiducia e lo ha avuto. E’ con questo che si presenterà ad un eventuale tavolo di formazione di una coalizione. Non avrà bisogno di fare la voce grossa.

Per il resto, se i socialdemocratici dovessero rendersi disponibili a coalizzarsi ha già pronte possibili varianti alla sua linea di «rigore». La socialdemocrazia esigerà soprattutto misure interne di maggiore equità sociale, di maggiore garanzia e sostegno per il lavoro precario. Sul piano europeo chiederà un atteggiamento più disponibile verso le iniziative della Banca centrale europea e altre misure minori che opportunamente pubblicizzate attenueranno l’immagine di eccessivo rigore della politica fatta sin qui. Ma non ci sarà nessuno scostamento dalla sostanza della strategia politica, economica e finanziaria condotta sinora dalla Germania della Merkel. La socialdemocrazia non ha né idee e né voglia alternativa – qualunque cosa dica Steinbrueck.

Il risultato chiave delle elezioni di ieri è che in Germania non esistono linee politiche alternative a quella intraprese in questi anni dalla Merkel. Veri autorevoli interlocutori possono venire soltanto dall’Europa.

La stampa 23.09.13

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“Se l’Europa non cambia”, di PAOLO GUERRIERI

Gli elettori tedeschi si sono espressi ma il risultato al di là del grande successo e della riconferma di Angela Merkel, si presenta molto incerto. Il partito Cristiano-democratico della Merkel potrebbe conquistare la maggioranza assoluta dei seggi ma la combinazione più probabile, al momento di scrivere, è una riedizione della grande coalizione tra Cdu e Spd.

La stessa che aveva governato nella legislatura che ha preceduto quella appena conclusa. A questo riguardo è difficile ovviamente fare delle previsioni, in presenza ancora di tante incertezze. Qualche considerazione si può comunque svolgere con riferimento alle speranze espresse da molti in Europa che un nuovo governo di grande coalizione – nel caso dovesse formarsi – possa avere una visione dell’Europa e dell’euro molto meno dogmatica di quella prevalsa finora e che possa portare addirittura a una riscrittura dell’Agenda europea.

È un’ipotesi, in realtà, che alla luce di questi risultati appare di difficile realizzazione. In altri termini, è assai improbabile che si possa produrre, almeno in tempi brevi, una nuova forte spinta verso un più avanzato progetto europeo. Mutamenti di qualche significato è più probabile che si producano in Germania sul fronte domestico. Proprio a partire dai temi dell’economia, che hanno pesato molto sul risultato elettorale – come peraltro in campagna elettorale – e sono destinati ad avere un grande spazio nell’azione del nuovo governo tedesco. Le sfide economiche da affrontare sul piano interno sono davvero impegnative. Certo, la Germania rappresenta oggi l’economia di gran lunga più potente d’Europa. La sua capacità industriale e la performance delle sue esportazioni non sono secondi a nessuno. Il tasso di disoccupazione (5,3 per cento) è il più basso, dopo quello dell’Austria, nella zona euro. Ma non meno importanti – pur se meno conosciuti – sono alcuni suoi punti deboli, accentuatisi nell’ultimo decennio.

Anni di bassi investimenti pubblici nelle infrastrutture, come strade e ferrovie, e nello stock di capitale privato, hanno fortemente abbassato il già modesto tasso di crescita potenziale dell’economia tedesca (è oggi intorno all’1,25 cento). Il dato è preoccupante anche alla luce della crescente carenza di manodopera che si sta profilando in Germania per l’invecchiamento della popolazione e una forza lavoro in calo. Oltreché lenta, la crescita tedesca ha premiato in questi anni in modo sproporzionato i ceti più ricchi. Per non parlare dei troppi lavori marginali a bassissima retribuzione che sono nati in questa fase in Germania.

È prevedibile dunque che il nuovo governo, chiunque esso sia, sia spinto a concentrare la propria azione in misura predominante su questi problemi interni, per cercare di intervenire sulle diffuse inefficienze economiche, le disparità di reddito, la crescente povertà nazionale e le tensioni sociali che queste tendenze stanno producendo.

E sul fronte europeo? «Quello che va bene per l’Europa, va bene per la Germania», ha detto la Cancelliera Merkel chiudendo la campagna elettorale. Il problema tuttavia è che l’Europa avrebbe bisogno di una svolta a dir poco radicale della politica economica condotta fin qui, incentrata – com’è noto – su una linea di severa austerità che si è rivelata disastrosa per molti Paesi, incluso il nostro. I cambiamenti si imporrebbero su due fronti almeno: quello del processo di integrazione economica, a partire dall’unione bancaria, e l’altro delle politiche per la crescita. Sul primo fronte la Germania ha continuato finora ad opporsi su aspetti qualificanti del meccanismo unico di risoluzione, una componente fondamentale del progetto di unificazione bancaria. In tema di crescita, Berlino ha più che altro frenato la creazione di meccanismi di coordinamento più simmetrici delle politiche economiche nazionali, come anche sull’ipotesi di un autonoma capacità fiscale e di investimento dell’eurozona. Una serie di freni e cautele del governo tedesco destinate a perpetuarsi e che rendono altamente improbabile una vera e propria svolta nella politica verso l’Europa. Essi derivano in effetti dalla necessità per il futuro governo di evitare decisioni oggi troppo difficili da far digerire ai cittadini elettori tedeschi. La grande maggioranza dei tedeschi è convinta – perché così è stato loro fatto credere in questi anni – che la politica condotta fin qui dalla Germania si sia spinta già molto in là sul piano della solidarietà agli altri partner dell’area euro, a partire dai paesi più indebitati. Di conseguenza, ritengono che qualunque concessione ulteriore debba avvenire solo sul piano della più stretta condizionalità, il che implica imporre agli altri Paesi regole e procedure sempre più vincolanti. In una tale prospettiva la sopravvivenza dell’euro verrebbe comunque garantita, ma il futuro dell’euro zona sarebbe sempre più caratterizzato da un sostanziale ristagno e da crisi ricorrenti dei paesi della periferia più indebitati, da fronteggiare eventualmente con iniziative e decisioni ad hoc prese all’ultimo minuto. Qualcosa di già visto in altre parole.

l’Unità 23.09.13

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“Il futuro Ue dipende ancora da Berlino”, di ANDREA BONANNI

LO STRAORDINARIO successo che gli elettori tedeschi hanno attribuito ad Angela Merkel premia i risultati tangibili ottenuti nel governare il Paese ma anche il fatto che, sotto la guida della cancelliera, la Germania è diventata indiscutibilmente la potenza egemone del Continente. Un risultato che la nazione tedesca ha vanamente inseguito per 150 anni al prezzo di stragi e distruzioni, e che ora ha ottenuto in modo pacifico, e tutto sommato consensuale, grazie all’esistenza della Ue. EGRAZIE all’accortezza con cui la Merkel ha saputo gestirne i meccanismi. Ora che la cancelliera viene riconfermata alla guida della Germania e dell’Europa, la reazione nelle altre capitali, al di l à dei messaggi protocollari di felicitazione che cominciano a piovere su Berlino, è insieme di sollievo e di preoccupazione.
Il sollievo nasce dal fatto che l’Europa crede di sapere che cosa aspettarsi dalla leadership di Angela Merkel. Molti capi di governo sono convinti di conoscere quali siano i margini di manovra che hanno a disposizione quando devono negoziare con la leader tedesca. Ed hanno avuto negli anni più difficili della crisi la prova che la cancelliera, pur cercando di anteporre gli interessi della Germania a quelli dei suoi partner, alla fine, quando si trova con le spalle al muro, non perde di vista l’interesse collettivo. Come ha dimostrato appoggiando la scelta di Draghi di schierare la Banca centrale europea a difesa della tenuta della moneta unica: un’opzione che a Berlino raccoglieva ben pochi consensi.
Ora il fatto che la Merkel esca enormemente rafforzata da queste elezioni la pone in una posizione di forza anche nei confronti di quelle frange del suo stesso partito che negli anni passati hanno spinto la cancelleria verso posizioni di eccessiva intransigenza. I falchi dell’ortodossia monetaria, che si annidano soprattutto nelle fine della stessa Cdu-Csu, oltre che nel partito liberale escluso dal Parlamento, avranno almeno in teoria minori possibilità di condizionare le scelte del governo tedesco in senso anti-europeo.
La preoccupazione che serpeggia delle capitali è dovuta invece al fatto che una vittoria tanto schiacciante della cancelliera non può che rafforzare ulteriormente l’egemonia di Berlino sul resto dell’Europa. La Merkel ha dimostrato che i tedeschi condividono in larghissima maggioranza sia la filosofia sia il modo in cui il governo tedesco ha gestito la crisi dell’euro.
Una filosofia e un metodo che hanno creato non poche difficoltà ai partner della Germania e che hanno suscitato anche dissensi profondi in molti Paesi.
Da una parte qualcuno può nutrire la speranza che la cancelliera, allontanata la preoccupazione di farsi rieleggere alla testa della Germania, potrà dedicare il suo terzo mandato a perseguire l’interesse comune europeo piuttosto che l’interesse particolare del suo Paese. Ma il consenso che la sua politica di severità e rigore ha riscosso presso gli elettori tedeschi legittima invece l’aspettativa che Berlino si rafforzi nella convinzione che le scelte fatte fino ad ora fossero quelle giuste. E dunque che non si debba deviare dalla strada già imboccata.
Per questo motivo, dietro le dichiarazioni di soddisfazione per la vittoria della cancelliera, sono molte le capitali europee che sperano di vedere la Merkel costretta ad una grande coalizione con gli avversari socialdemocratici. Il passaggio della Germania da un governo di centro-destra ad uno di centro- sinistra offre ai partner di Berlino maggiori margini di manovra. I socialdemocratici si sono dimostrati finora più sensibili alle sofferenze patite dai Paesi che la Germania ha costretto ad una politica di sangue, sudore e lacrime. E c’è la speranza che la Merkel, per ottenere il voto dell’Spd, sia obbligata ad ammorbidire in qualche modo la linea del rigore sia all’interno sia all’esterno della Germania. Ma le aspettative non possono che essere limitate. Anche i socialdemocratici, se pure saranno chiamati al governo, devono comunque prendere atto che la linea dura della signora Merkel in Europa ha ottenuto una valanga di consensi. E non potranno non tenerne conto.

La Repubblica 23.09.13

“L’Italia è nella fascia bassa Ue per gli stipendi ai docenti e tra i peggiori per gli scatti di carriera”, di P.A. da La Tecnica della Scuola

Il “Fatto quotidiano” riprende l’antica questione dello scarso apprezzamento della professione insegnante in Italia e dello scarto stipendiale che c’è in confronto con le altre nazioni, anche se già in Europa è presente al suo interno una differenze stramba di stipendi tra il corpo docente, con la consequenziale differente considerazione in cui è tenuta la professione in ogni Stato.
Si passa da una media per il secondario di 4.780 euro annui lordi in Bulgaria per arrivare ai massimi del Lussemburgo, dove un prof del liceo viaggia su una media di 104.049 euro.
L’Italia, come è noto, si posiziona nella fascia bassa, caratterizzata tra l’altro, rispetto alla stragrande maggioranza degli altri Paesi europei, da un aumento molto ridotto e lentissimo dello stipendio durante la carriera.
I dati più affidabili, specifica Il Fatto, nel settore provengono da uno studio di Eurydice, organismo che dipende dalla Commissione europea, che sottolinea come in tanti Stati europei, a partire dall’anno scolastico 2009-2010, i salari nelle scuole siano stati congelati o addirittura ridotti, a causa della crisi.
Si tratta di dati relativi all’anno scolastico 2011-2012, sono cifre da cui vanno tolte le imposte che variano da Paese a Paese, mentre le statistiche sono espresse in base allo standard del potere d’acquisto. Sono prese poi in considerazione i soli docenti di ruolo.
In Italia, sostiene Eurydice, il salario medio annuo della secondaria superiore si posiziona a quota 30.431 euro e il livello massimo è raggiunto con 34.867, ma solo dopo 34 anni di anzianità.
In Francia invece il livello minimo della secondaria è di 28.666, e si può arrivare a 47.610 per il secondario superiore.
I Paesi europei dove ci vogliono almeno 34 anni di anzianità per raggiungere lo stipendio più alto sono, oltre all’Italia, Spagna, Ungheria, Austria, Portogallo e Romania, mentre ce ne vogliono appena dieci in Danimarca, Regno Unito ed Estonia.
Gli insegnanti più poveri si ritrovano in Bulgaria, appena 4.780 euro annui lordi in media per il secondario. Bassi i salari dello stesso ciclo di studi anche in altri Paesi dell’Europa centro-orientale: Romania (5.078), Lettonia (9.216), Ungheria (9.448), Estonia (9.520) e Slovacchia (9.605).
Niente rispetto ai 104.049 del Lussemburgo e a seguire, nei primi posti, ci sono la Danimarca (70.097) e l’Austria (57.779);
e poi la Finlandia (49.200), che per il parametro Pisa, che a livello dei Paesi Ocse, i più industrializzati, misura la qualità formativa degli studenti, figura sempre al primo posto a livello mondiale. Seguono: Belgio (48.955), Regno Unito (44.937), Svezia (35.948).
Due casi a parte sono la Germania e la Spagna, dove gli stipendi, oltre che per l’anzianità, differiscono molto anche secondo la regione. In Germania, ad esempio, i salari sono ancora decisamente più bassi nell’Est e a Berlino rispetto all’Ovest. A livello nazionale per il liceo si passa da un minimo a inizio carriera di 45.400 euro fino ad arrivare a 64.000. In Spagna, invece, si passa da 33.000 a 46.000, comunque decisamente al di sopra dell’Italia

La Tecnica della Scuola 23.09.13

“Perchè l’austerità è stata un suicidio”, di Carlo Buttaroni

Uno studio dal titolo emblematico “Moltiplicatori fiscali ed errori nelle previsioni di crescita”, firmato da due economisti del Fondo Monetario internazionale, Daniel Leigh e Olivier Blancherd, ha messo nero su bianco quello che da tempo sosteniamo: la politica del rigore è stata un suicidio. Analizzando i casi di Spagna, Portogallo e Grecia, i due studiosi hanno dimostrato, dati alla mano, che la premessa alla base delle politiche “lacrime e sangue” è completamente sbagliata. E dalle conseguenze devastanti. Il principio attivo della cura- austerity messo a punto nei laboratori di Bruxelles, infatti, si basava sulla convinzione che per ogni euro tagliato ci sarebbe stata una contrazione dell’economia pari a 0,50 euro. I dati hanno dimostrato, invece, che la contrazione reale è stata di 1 euro e mezzo. Quindi, tre volte tanto. In un altro rapporto interno del Fondo monetario internazionale, pubblicato il 17 settembre, si legge che l’austerity deve avere un “limite di velocità” e che alcune delle politiche imposte hanno presentato rischi di “autodistruzione” per l’economia locale. Il mea culpa del FMI arriva ben dopo la scoperta di grossolani errori nel modello teorico dell’austerity elaborato da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff. Secondo Reinhart e Rogoff, c’è una correlazione tra debito pubblico/pil elevato, cioè superiore al 90%, e bassa crescita economica. Da qui le politiche di tagli e sacrifici per cercare di uscire dalla recessione. Ebbene, quella premessa era completamente sbagliata, fondata su basi metodologiche discutibili e inficiata da un banale errore nel foglio di calcolo. Depurando l’analisi da questi errori fatali, infatti, il tasso di crescita medio dei Paesi ad alto debito non è -0,1% bensì +2,2%. La politica “lacrime e sangue” quindi non solo non poteva curare la malattia ma poteva solo peggiorarla, creando disoccupazione, riducendo i consumi e accentuando le disuguaglianze. Oggi, il problema principale di tutte le economie avanzate è rappresentato, infatti, dalla debolezza della “domanda aggregata”, cioè la domanda di beni e servizi espressa da un sistema economico nel suo complesso. E tanto più c’è disuguaglianza tanto più la domanda aggregata è debole e la crescita economica disomogenea e lenta. Il motivo di questo fenomeno non risiede nella moralità del pensiero egualitario, ma in un ben individuato meccanismo economico chiamato propensione al consumo. Contrariamente a quanto generalmente si crede, infatti, nei ricchi tale propensione è più bassa, mentre il vero motore dei consumi è il ceto medio, non solo perché rappresenta una platea più ampia, ma anche perché è portato a convertire in consumi una percentuale proporzionalmente molto più elevata del proprio reddito rispetto ai ricchi. Se far ripartire i consumi è una delle principali chiavi delle economie avanzate, per far ripartire l’intera economia (insieme all’aumento delle esportazioni), ecco allora l’importanza di politiche che favoriscano l’occupazione e una più equa distribuzione della ricchezza. Un passaggio di questo tipo richiede, però, uno spostamento significativo verso un modello di crescita centrata sul lavoro e sull’incremento della domanda aggregata, soprattutto nella sua componente essenziale, cioè i consumi. È questo il principale insegnamento della crisi, che traccia anche la via per uscirne. Un percorso che deve portare a una riconsiderazione delle politiche per il lavoro, delle politiche industriali e di protezione sociale, accompagnate da efficienti politiche salariali. Strumenti, questi, in grado di dare un contributo essenziale anche nel far crescere la fiducia dei cittadini che è quasi più importante di quella dei mercati finanziari. Le politiche, quindi, non solo devono essere eque, ma devono essere comprese in maniera corretta e positiva dai cittadini, considerando che il costo della crisi finanziaria è ricaduto esclusivamente su coloro che non hanno responsabilità per le decisioni disastrose che hanno affondato l’economia reale e messo a dura prova il loro futuro. Se le stime saranno confermate, la fase economica compresa tra il 2008 e il 2013, vedrà il Pil dell’Italia diminuito dell’8,6%. I segnali di ripresa arriveranno soltanto dal secondo trimestre dell’anno prossimo. Ma sarà una ripresa lenta e fragile, frenata da una disoccupazione alta (e in crescita anche l’anno prossimo) e da una domanda interna debole, trainata dall’aumento dell’export. I riverberi recessivi si faranno sentire a lungo sul mercato del lavoro. La riduzione dei livelli occupazionali continuerà fino alla primavera del prossimo anno, quando inizierà un lieve recupero. In assenza di interventi, il 2014 potrebbe chiudersi con una ulteriore crescita del tasso di disoccupazione. L’ulteriore contrazione del Pil nel 2013 avrà come effetto un peggioramento del rapporto con il debito, che potrebbe restare sopra il 130% fino al primo trimestre 2014. Fatte queste considerazioni la domanda sorge spontanea: cosa altro serve per attestare la necessità di politiche completamente diverse, ridistributive ed espansive, in grado di far ripartire la domanda interna? Quali altre prove occorrono per comprendere l’urgenza di politiche per il lavoro fondate sulla qualità sociale, sui diritti che sostengano le famiglie e il ceto medio. Riflettiamo su chi è più visionario: chi pensa di poter uscire dalla crisi proseguendo sulla strada del “rigore” attraverso road map irrealizzabili o chi ritiene che occorre mettere al centro politiche economiche che superino i paradigmi che hanno portato alla situazione attuale? E riflettiamo anche su un altro aspetto: siamo portati a pensare il trattato di Maastricht come un moloch. Ma in periodi diversi altri Paesi hanno chiesto di rinegoziarlo perché non riuscivano a rispettare i parametri che erano stati fissati. Da quando è scoppiata la crisi quel trattato è sembrato, invece, qualcosa di intoccabile e di non negoziabile. In realtà, non è così. E dopo i disastri creati da convinzioni e calcoli sbagliati è venuto il momento di ripensare i parametri alla luce della necessità di quelle politiche espansive che è necessario mettere in campo per uscire dalla fase recessiva e rendere solida la ripresa.

L’Unità 23.09.13

“Storia di un compromesso”, di Filippo Ceccarelli

A quarant’anni di distanza i nodi della storia si sciolgono senza smettere di aggrovigliarsi. Per cui dinanzi all’anniversario del compromesso storico, la formula coniata da Enrico Berlinguer al termine di tre successivi articoli pubblicati su Rinascita tra il 23 settembre e il 12 ottobre con il titolo “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile”, l’irresistibile tentazione è di far partire il ricordo da come era ridotta l’automobile, enorme e sgraziatissima berlina della nomenklatura, dopo lo spaventoso incidente mentre portava il segretario del Pci all’aeroporto di Sofia.
Le foto si vedono in Sofia 1973: Berlinguer deve morire, di Giovanni Fasanella e Corrado Incerti (Fazi, 2005). Era il 3 ottobre, a missione conclusa, e in quel groviglio di vetri e lamiere rese informi da un camion militare, Berlinguer riportò diverse contusioni, ma volle ripartire lo stesso. Allora in diversi, anche molto vicini a lui, maturò il sospetto, reso noto da Emanuele Macaluso nel 1991, che i bulgari avessero tentato di fargli la pelle. Perché troppo “indipendente” dalla casa madre del comunismo.
Ma quel 3 ottobre né l’intransigente leader bulgaro Todor Zhivkov, né le varie correnti del Kgb sapevano ancora nulla del compromesso storico. Eppure, grazie proprio a quel misterioso incidente, una volta rientrato in Italia, il leader comunista si mise a riposo, anzi a letto, dove con calma, «rassegnato all’immobilità » come raccontò poi a Vittorio Gorresio, ebbe modo di finire la seconda puntata e di scrivere per intero la terza, nel cui ultimo capoverso è presente la fatidica espressione.
Dietro quelle due parolette c’era un mondo oggi del tutto sparito e in parte anche dimenticato, se non rimosso. Il golpe cileno, i colpi di Stato, l’imperialismo americano. Ma nel retroterra non era difficile avvertire la lezione “geniale” di Lenin, più volte richiamata nel testo. Poi la duttilità dottrinaria di Gramsci. Quindi la tradizione del realismo togliattiano alla luce dell’elaborazione di Franco Rodano secondo il quale la “rivoluzione” era da intendersi in Occidente come un processo interno allo sviluppo della democrazia. Anche in questo senso avere il 51 per cento, come Allende, non serviva più, o non serviva ancora.
C’era infine un’attenzione assai viva al mondo cattolico, alle gerarchie ecclesiastiche, al Vaticano, alla Dc, i cui continui sommovimenti vedevano in quello scorcio prevalere una composita maggioranza di centrosinistra. Ma soprattutto c’era Aldo Moro, che in estate a proposito della “difficile democrazia” italiana con linguaggio ispiratissimo aveva annunciato: «Non noi, con la nostra volontà, ma la storia stessa, l’evoluzione e i movimenti dello spirito umano potranno forse, in tempi imprevedibili, modificare questa situazione».
Per la cronaca: c’erano in quel momento anche il colera, Amarcord,
rivolte nelle carceri e Jesus Christ superstar.
Tonino Tatò, che aveva il senso della solennità e di Berlinguer era l’angelo custode, ha poi descritto nei dettagli il momento preciso in cui il compromesso storico venne al mondo, durante la convalescenza: «Lui sta seduto in pizzo in pizzo alla poltroncina, dinanzi al tavolo tondo del soggiorno, in canottiera, pantaloni di flanella, pianelle di cuoio ai piedi, sigaretta accesa tra le labbra (allora fumava le Turmac rosse), occhio sinistro semichiuso per evitare il fumo, biro con inchiostro nero nella mano destra, davanti a parecchi fogli».
Ha quasi finito, ma l’ultima frase è tanto decisiva quanto incompiuta. Tatò chiede il foglio e legge: «La gravità dei problemi, le minacce incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo un…». È qui che Berlinguer si è fermato. Ma la parola che gli ronza in testa è sempre quella: “Compromesso”. Solo, occorre affiancarla con un attributo che le assegni «un senso di durata strategica». Inutile rimarcare che a quei tempi le parole, in politica, avevano molto più peso di oggi.
Quando il compromesso storico venne fuori, non fu accolto con benevolenza dai più attenti osservatori. «Formula infelice», decretò
Gorresio; «vaga e rozza », scrisse Enzo Forcella. In un incontro con gli studenti lo stesso Berlinguer riconobbe che si trattava di un’espressione provocatoria usata anche per «destare attenzione». Questo in effetti accadde. Poco dopo, incontrando a Ravenna gli operai dell’Anic, gli disse uno di loro che sull’autobus la mattina non si parlava più di calcio, ma di compromesso storico. Tutto lascia pensare che Berlinguer abbia risposto con uno dei suoi indimenticabili sorrisi. Per cui: «Io non credo che sia proprio così, credo che si parli ancora e anche di calcio», d’altra parte non c’era niente di male e anche lui — ma in verità disse “anche noi” e non era plurale maiestatis,
ma il più profondo sintomo d’identificazione — parlava di calcio.
A pensarci bene, dopo tanti anni, il compromesso storico teneva insieme due termini in contrasto fra loro. Nella retorica questa figura ha il nome di ossimoro. Ma non solo per questo dispiacque, oltre che al Psi, anche nello stesso Pci. Giorgione Amendola, che guardava ai socialisti, e Pietro Ingrao, che puntava sulla spaccatura della Dc, rimasero perplessi. Luigi Longo, il presidente del partito, disse chiaro — e suonò inaudito — che la formula non gli piaceva «e non so nemmeno
se rende bene l’idea». Avrebbe preferito, con Gramsci, «blocco storico» — ma a quel punto era un’altra cosa. Sia come sia, Maurizio Ferrara diede poi alle stampe, in sonetti romaneschi, Er compromesso rivoluzzionario.
Più tardi il Bagaglino mise in scena I compromessi sposi.
Ma quando intorno al 1975 partì la solidarietà nazionale, dal terreno coniugale la faccenda scivolò sul piano orgiastico con “l’ammucchiata”.
Rilette oggi, le “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile” colpiscono per l’intuizione di un leader che guardava molto in là, ma forse proprio per questo dovettero suscitare parecchi timori, anche molto lontano dall’Italia. Nelle sue asciutte argomentazioni ideologiche il compromesso storico era una proposta politica ragionevole, però al tempo stesso una via di palingenesi. Si presentava come il massimo della continuità, ma insieme innescava una novità esplosiva. E soprattutto arrivava troppo presto, eppure forse era già troppo tardi. A riprova che non solo la politica, ma anche la storia, con i suoi nodi e garbugli, e in fondo la vita stessa vivono, se non di ossimori, di cose molto complicate e solo in apparenza inconciliabili. L’orrido “inciucio” era comunque molto di là da venire.

La Repubblica 23.09.13