A breve il testo (per ora solo una bozza) sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. Poi inizierà l’iter parlamentare. Qualche punto interrogativo sulla copertura finanziaria. Il decreto legge sulla scuola approvato dal Governo il 9 settembre potrebbe essere pubblicato già nei prossimi giorni nella Gazzetta Ufficiale.
Gli uffici dei diversi Ministeri (e del Miur in particolare) hanno lavorato molto in queste ultime ore per ritoccare, correggere e integrare.
Il testo di cui siamo entrati in possesso si può dunque considerare pressoché definitivo.
Nelle prossime ore vi proporremo qualche approfondimento, per intanto dobbiamo rilevare che la copertura finanziaria appare – a nostro parere – piuttosto debole, come si può capire da una attenta lettura dell’articolo 27.
La parte più consistente (13 milioni di euro per l’anno 2013, 315,535 milioni per l’anno 2014, 411,225 milioni di euro per l’anno 2015 e a 413,243 milioni di euro a decorrere dall’anno 2016) è infatti legata all’aumento delle accise sui prodotti alcoolici .
Ma 8,717 milioni di euro per l’anno 2014, 34,868 milioni per il 2015 e 52,302 milioni a decorrere dall’anno 2016 deriveranno da una riduzione della spesa prevista dall’articolo 2 della legge 28 giugno 2012, n. 92 (in pratica si tratta degli stanziamenti per gli ammortizzatori sociali ).
Evidentemente il Governo prevede di risparmiare queste somme grazie ad una possibile diminuzione della disoccupazione o della cassa integrazione. Ma se non ci sarà una ripartenza consistente dell’attività produttiva, cosa succederà?
Il rischio a questo punto è che, come è spesso accaduto in occasioni precedenti, la Ragioneria generale dello Stato formuli obiezioni decisive che potrebbero mettere in discussione la conversione in legge del provvedimento.
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“Municipalizzate, addio ai Comuni dopo due anni di conti in rosso”, di Lorenzo Salvia
La tagliola sulle ex municipalizzate scatterà dopo due anni di bilancio in perdita. Con l’obbligo di vendita delle quote se quella del Comune è una partecipazione di minoranza. E con l’imperativo di liquidare l’intera società se invece il Comune ne possiede più del 50%. Non solo. Per ripianare le perdite sarà sbarrata la strada del salvataggio dall’alto, finora percorsa troppe volte. A tappare il buco non potrà essere più lo Stato, con relativo trasferimento di denaro fresco. Il compito spetterà allo stesso Comune con l’unico strumento che resta nelle mani dei sindaci: l’aumento delle tasse locali, dalle addizionali Irpef alla service tax che verrà.
Il governo torna ad occuparsi del cosiddetto capitalismo municipale, quella galassia di 3.600 società partecipate dai Comuni che dal perimetro classico dei servizi pubblici locali,come energia, trasporti e rifiuti, si è allargata nel tempo verso la cultura, lo sport, il commercio, le varie e pure le eventuali. Il pacchetto allo studio dei tecnici del ministro per gli Affari Regionali, Graziano Delrio, dovrebbe arrivare in Consiglio dei ministri nelle prossime settimane, sotto forma di decreto legge. Un intervento d’urgenza perché per le società partecipate ci sono due scadenze, ormai vicinissime. Entro il 30 settembre tutti i Comuni al di sotto dei 30 mila abitanti dovrebbero cedere tutte le loro partecipazioni. Mentre entro la fine dell’anno i Comuni che hanno fra i 30 mila e i 50 mila abitanti dovranno fare le loro scelte, conservando le loro partecipazioni al massimo in una sola società. Un obbligo di ritirata deciso nel 2010, più volte prorogato come da antica tradizione italiana e anche corretto dallo Corte costituzionale che ha «salvato» le società controllate dalle Regioni, cancellando la parte che le riguardava.
Le due scadenze potrebbero essere congelate, ma solo a patto di far partire nel frattempo le nuove regole generali. Cominciando dalle misure «punitive» in caso di buco di bilancio. In realtà la logica di questa modifica sta nel principio di responsabilità. Il salvataggio dall’alto delle società in rosso, per mano dello Stato, ha consentito ad alcune municipalizzate di distribuire dividendi anche quando erano in perdita. E soprattutto ha spalmato su tutti i contribuenti italiani il costo dei salvataggi che si sono ripetuti nel tempo. Il buco di Palermo, per fare un esempio, veniva pagato da tutti gli italiani. Con le nuove regole, invece, se il buco è a Bologna saranno gli stessi cittadini di Bologna a pagarlo con le tasse locali più alte. Il che non significa accanirsi sui bolognesi ma mettere sul chi va là il loro sindaco: l’aumento delle tasse locali è garanzia di mancata rielezione. E quindi il sindaco starà ben attento a non creare un buco che gli costerebbe politicamente caro. O almeno questa è l’idea. Resta però da definire cosa si intende esattamente per «buco di bilancio». Gli anni in perdita consecutivi utili per far scattare le sanzioni dovrebbero essere due, ma la discussione è ancora aperta. Ed è possibile che vengano considerati in perdita solo i bilanci con un «rosso» al di sopra di una certa soglia.
Ma non c’è solo questo nel pacchetto allo studio. Prima di tutto la cornice: i Comuni saranno chiamati a «giustificare» le loro partecipazioni. Dovranno cioè fare un elenco delle politiche pubbliche che vogliono perseguire e poi motivare il ricorso ad una società, possibile solo se non ce ne sono già disponibili sul mercato o nel terzo settore. Una norma di programma che però, insieme alle sanzioni in caso di rosso, potrebbe frenare quell’attivismo che ha portato i Comuni a crearsi le loro società per gli scopi più diversi. Ad oggi i componenti dei consigli d’amministrazione hanno raggiunto quota 24 mila, un dato sottolineato anche dalla Corte dei conti che ha definito le partecipate il «vero cancro degli enti locali».
In alcuni settori come l’acqua, i trasporti e i rifiuti saranno incentivate le alleanze fra Comuni e l’ambito territoriale ottimale sarà quello delle attuali province. Il pacchetto si aggancia così proprio al disegno di legge per l’abolizione delle Province presentato dallo stesso Delrio, che ieri ha lanciato il federalismo demaniale, con il trasferimento ai Comuni di 20 mila immobili dello Stato per un valore di 2,5 miliardi di euro. Non è una contraddizione. Perch é è vero che le Province non ci saranno più come organi politici, con elezioni, assessori e consiglieri. Ma è anche vero che il territorio della provincia consente di ridurre i costi di quei servizi che non possono seguire la regola dell’ognuno per sé.
Il Corriere della Sera 13.09.13
“Crescono gli alunni nelle scuole statali ma solo grazie ai figli degli immigrati”, di Salvo Intravaia
Gli alunni delle scuole statali italiane crescono ancora, ma soltanto grazie ai figli degli immigrati. Mentre dalle paritarie gli alunni fuggono. Il ministero dell’Istruzione, in occasione dell’avvio dell’anno scolastico, ha pubblicato un focus con una serie di dati relativi proprio all’anno scolastico al via nei giorni scorsi. Un dossier in grado di fornire a genitori, dirigenti scolastici e insegnanti le prime indicazioni su cosa è lecito aspettarsi quest’anno. In Italia, il numero di alunni è ormai in crescita da oltre un decennio, ma soltanto grazie all’apporto degli alunni con cittadinanza non italiana che crescono ancora.
Le scuole pubbliche ospiteranno quest’anno 7.878.661 alunni, quasi 20mila in più dello scorso anno. Ma l’aumento è da attribuire all’incremento degli alunni stranieri – 736.654 in tutto – che in due anni sono cresciuti di 57mila unità. Al contrario, gli iscritti nelle paritarie sono ancora in calo, fenomeno che si verifica ormai da qualche anno. E gli alunni si stanno pericolosamente avvicinando alla soglia psicologica del milione di alunni: 1.036.312 per il 2012/2013. E per la prima volta, dopo gli anni della Gelmini, le classi tornano leggermente ad aumentare: 366.838, più di mille in più rispetto a 12 mesi fa. Classi che restano comunque affollate se pensiamo che la media per classe tocca quota 21,5 alunni. Mentre nel 202/203 erano 20,4 gli alunni per classe.
Anche le scuole – intese come istituzioni dotate di autonomia – sono in calo. Dopo la cura dimagrante imposta alle regioni dal ministero dell’Economia, oggi in Italia si contano 8.644 istituti scolastici che governano 41.483 sedi scolastiche: tra succursali, plessi staccati ed altro quasi 5 a testa. La tipologia più diffusa è quella dell’istituto comprensivo (di materna, elementare e media), che oggi rappresentano il 56 per cento del totale. Mentre gli alunni disabili raggiungono la loro massima presenza da quanto esiste la loro integrazione nelle classi. Saranno 207.244 gli alunni con handicap nelle classi delle scuole statali italiane, quasi 10mila in più di de anni fa, seguiti da 101.391 docenti specializzati. Un numero che dovrebbe arrivare durante l’anno a 103mila: uno ogni due alunni disabili circa.
Al superiore, sono gli studenti liceali i più numerosi:
oltre un milione e 206mila ragazzi. Gli istituti tecnici ospiteranno 827mila studenti mentre i professionali si fermano a 546mila. Ma dai dati messi a disposizione dal ministero emerge la vera e propria mattanza di classi operata negli ultimi sei anni, dal 2007/2008 al 2013/2014, per consentire di tagliare il maggior numero possibile di cattedre. A fronte di un incremento degli alunni di oltre 127mila unità le classi si sono contratte di 10mila e 150 unità.
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“Sto dalla parte dei lavoratori la crisi può travolgere altre aziende”, di Roberto Mania
«La nostra prima preoccupazione sono i lavoratori », dice il ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato. La decisione dei Riva di mettere in libertà i 1.400 dipendenti degli impianti dell’acciaio non era affatto attesa. È arrivata improvvisa anche sul tavolo del governo. Appena tornato da L’Aquila, dove aveva partecipato ad un convegno, Zanonato si è chiuso nel suo ufficio in Via Veneto insieme al sottosegretario Claudio De Vincenti e al capo della task force per le crisi aziendali Giampiero Castano, per riaprire il dossier Ilva. Ha convocato i sindacati. Ha chiamato il presiedente dell’Ilva, Bruno Ferrante, e il commissario Enrico Bondi. Ha contattato il premier Enrico Letta, impegnato a Venezia nella trilaterale Italia, Slovenia e Croazia. Poi ha annullato il suo intervento alla festa della destra sociale di Atreju dove avrebbe dovuto parlare di crisi industriale. Il caso Riva è una nuova emergenza.
Ministro, come giudica la decisione dei Riva? Una ritorsione, un ricatto nei confronti dei lavoratori, cioè la parte più debole, oppure una scelta obbligata di fronte al sequestro dei beni imposto dalla Procura di Taranto?
«In questo momento non sono in grado di esprimere un giudizio. Questo è il seguito di una storia ormai piuttosto vecchiotta. È un cascame del sequestro dei beni dei Riva per circa 8,1 miliardi di euro già stabilito nel maggio scorso. Non c’è stato alcun nuovo atto da parte dei magistrati rispetto al decreto di luglio con il quale si precisavano i beni che dovevano essere sequestrati, salvaguardando quelli espressamente necessari alla produzione dell’impianto siderurgico di Taranto».
Perché, allora, i Riva hanno preso ora questa decisione?
«Non lo so perché. Le ripeto: non sono ancora in grado di fare questa valutazione. Ho sentito il presidente Ferrante. Devo capire».
Cosa può fare il governo?
«Sto studiano il dossier. Posso dire che non mi convince affatto che si fermi un’attività produttiva come quella dell’acciaio che costituisce un asset decisivo nel nostro sistema industriale. Nello stesso tempo ritengo che sia preferibile, in questi casi, sequestrare il patrimonio e non gli strumenti necessari allo svolgimento dell’attività produttiva. Lo dico per almeno due ragioni: perché in questo modo si svaluta il valore del patrimonio stesso, e perché, dall’altra parte, si danneggia anche il tessuto produttivo».
I Riva hanno deciso la messa in libertà dei lavoratori. Vuol dire che non andranno al lavoro, né riceveranno alcun reddito come la cassa integrazione. Pensa che sia possibile consentire ai 1.400 lavoratori coinvolti di ricevere almeno la cassa integrazione?
«Sì, penso di sì».
Dunque chiederete a Riva di utilizzare la cassa integrazione?
«La produzione di acciaio non è un’attività decotta. Gli impianti di cui parliamo sono competitivi, producono materiali necessari ad altre imprese. Dunque, in attesa di risolvere la
questa è una tipica situazione (c’è un fermo produttivo contingente legato ad una specifica ragione) è in cui è corretto far uso della cassa integrazione ».
Lei ha idea di quale possa essere l’effetto domino sulle aziende fornitrici, le subfornitrici e quelle dei trasporti legate al sistema Riva nelle regioni del nord? C’è chi sostiene che possano essere coinvolte circa 10 mila persone. È una stima realistica?
«Non sono in grado di fare una stima. Certo, ne ho parlato anche con il prefetto di Brescia dove c’è l’impianto più importante, con il sequestro dei conti correnti non vengono pagati i fornitori. E non c’è dubbio che questo possa determinare un effetto a catena, con altre aziende che possono entrare in difficoltà».
Vede il rischio di tensioni sociali, tanto più in un contesto ancora recessivo?
«Mi pare normalissimo che i lavoratori si mobilitino contro una decisione del genere. Ne va del loro lavoro. Davvero mi sorprenderebbe il contrario. È importante, però, che sappiano che il governo è impegnato a salvaguardare la loro occupazione e il mantenimento dell’industria dell’acciaio in Italia ».
C’è chi, anche tra i sindacati, chiede al governo di intervenire commissariando tutto il gruppo Riva non solo l’Ilva di Taranto. È un’ipotesi che avete preso in considerazione? Lo farete?
«Non sarei sincero se le dicessi che non ci ho pensato. È un’ipotesi, ma non so se sia una strada percorribile. Il decreto legge con cui il governo ha commissariato l’Ilva trovava la sua giustificazione nel disastro ambientale provocato dallo stabilimento siderurgico e dunque dalla necessità di utilizzare le risorse per rispettare i vincoli del risanamento prescritti dall’Aia, l’autorizzazione integrata ambientale. Quest’ultimo è oggettivamente un caso diverso».
La Repubblica 13.09.13
“Carrozza ha un’idea: aggiornamento obbligatorio per tutti i prof”, di Alessandro Giuliani
L’impressione, però, è che dopo le 24 ore d’insegnamento obbligatorio e l’orientamento post medie e superiori inserito tra le attività funzionali, ci ritroviamo di fronte alla terza proposta di incremento di lavoro a costo zero. Per il Ministro tra il corpo docente c’è già questa volontà: so che non ci sono opportunità, lo stipendio è molto basso e quindi sembra chiedere troppo, ma c’è l’esigenza. Per farlo servono strumenti accessibili a tutti e adeguati al sistema. L’impressione, però, è che dopo le 24 ore d’insegnamento obbligatorio e l’orientamento post medie e superiori inserito tra le attivit à funzionali, ci ritroviamo di fronte alla terza proposta di incremento di lavoro a costo zero.
Cambiano i governi, ma continuano a fioccare le proposte di incremento degli impegni dei docenti a costo zero. Solo per rimanere agli ultimi mesi, nello scorso autunno ci aveva provato l’entourage dell’ex ministro Profumo con l’originale idea di portare orario d’insegnamento a 24 ore settimanali per tutti. Qualche settimana fa è toccato all’attuale responsabile del Miur, Maria Chiara Carrozza, impegnarsi a favore della necessità di avviare un orientamento sistematico per il post medie e superiori (provvedimento peraltro già inserito nel decreto sulla scuola): un’attività rilevante, anche ai fini della prevenzione dell’abbandono scolastico e universitario, inserita però forzatamente nel “pacchetto” delle attività funzionali all’insegnamento. Proprio per non prevedere costi.
Il 12 settembre, nel corso delle tante interviste rilasciate in avvio di anno scolastico, lo stesso Ministro ha introdotto una new entry per la categoria dei docenti italiani: l’aggiornamento obbligatorio. Sollecitata da ‘Radio Anch’io’ sull’opportunità di favorire l’aggiornamento per gli insegnanti che dovranno affrontare registri elettronici e lavagne multimediali, Carrozza ha prima detto di essere convinta del fatto che “ gli insegnanti vogliono aggiornarsi. Il problema – ha aggiunto il Ministro – è che non ci sono opportunità, già lo stipendio è molto basso e quindi sembra chiedere troppo ”.
Idea da scartare quindi? Nemmeno per sogno. “ Dovremo offrire strumenti per l’aggiornamento accessibili a tutti e compatibili con la vita degli insegnanti ”, sottolinea Carrozza. Per poi concludere con una frase che non far à sicuramente piacere alla categoria: “ secondo me si andrà verso un aggiornamento obbligatorio, però deve essere fatto nel modo opportuno e adeguato al sistema scolastico ”.
Insomma, se questa è l’intenzione se ne riparlerà presto. L’occasione potrebbe essere il confronto con i sindacati per il rinnovo della parte normativa del contratto collettivo nazionale di lavoro. L’impressione, però, è che da parte dell’amministrazione si continui a marciare verso un processo di rinnovamento della professione (e delle professionalità) senza aver la minima volontà di fare, nel contempo, adeguati investimenti.
L’idea dell’amministrazione di impegnare la giornata lavorativa dei docenti con più ore di insegnamento, maggiori attività funzionali e ora anche di aggiornamenti obbligatori potrebbe anche avere un fondamento. Ma pensare di realizzare questo programma mantenendo sempre gli stipendi bloccati, mediamente a 1.300 euro al mese, e senza incentivi consistenti, trasforma il tutto in una proposta davvero poco gradita.
La Tecnica della scuola 13.09.13
“Povera Italia: così muore il lavoro”, di Rinaldo Gianola
All’improvviso sembra tutto inutile, banale, superfluo. Diventa fastidiosa la questione della decadenza di un senatore condannato, ci appare noiosa la diatriba democratica sull’ascesa di un giovane sindaco ai cieli della politica, risulta totalmente fuori luogo la vivace discussione sulla ripresa, le tasse e le ultime balle di Marchionne. All’improvviso la cronaca ci impone le vere emergenze di un Paese impoverito e sofferente: gli operai muoiono per l’ennesima esplosione di un silos e vengono buttati fuori dalla fabbrica per la vendetta di un famoso industriale, inquinatore e sfruttatore. È come se non cambiasse mai nulla. Quante volte abbiamo raccontato di operai dilaniati da un’esplosione, come è accaduto ieri ai due poveri lavoratori di Lamezia Terme? Quante volte ci siamo indignati e abbiano ascoltato le promesse di istituzioni e politici che non sarebbe più successo, che la strage sul lavoro sarebbe finita? Si muore in fabbrica e si perde il posto, tutto si tiene in un dramma silenzioso che continua, senza interruzioni, quasi che il destino dei lavoratori sia tragicamente segnato come ci hanno insegnato questi ultimi anni di crisi. Non si può alzare la testa, non si può più rivendicare lealmente e giustamente i propri diritti, altrimenti rischi di passare per un conservatore, un ostacolo alla ripresa, alla modernizzazione inevitabile del Paese. Il padrone dell’acciaio, il Riva dell’Ilva, ieri ha chiuso le sue fabbriche, persino quella familiare di Caronno Pertusella dove tutto iniziò nel dopoguerra, come ritorsione alla decisione del sequestro di beni, attività, patrimoni deciso dalla Procura di Taranto nell’ambito dell’inchiesta sull’avvelenamento, il disastro ambientale provocato dall’imprenditore siderurgico. La logica è questa: se la giustizia mi persegue allora chiudo le fabbriche e caccio gli operai. Ma come sorprendersi, il clima è questo. Altri in parlamento fanno lo stesso ragionamento: se mi condannano faccio cadere il governo. Di fronte a questa minaccia concreta gli operai del gruppo Riva hanno manifestato, protestato, continueranno a farlo in attesa del solito tavolo a Roma che possa produrre una soluzione. Ma, anche questa vicenda, l’ennesimo caso di chiusure ed esuberi improvvisi, testimonia della debolezza del lavoro, come valore sociale, politico, ideale. È come se tutto il nostro mondo, quel sistema democratico di impegno, amicizia, anche militanza, fosse colto da un’afasia improvvisa. Ci mancano le parole vere, oltre che i gesti. Non si riesce a rimettere in moto un vero disegno solidale, costruttivo, come se la moltitudine dei soggetti in politica, nell’impresa, nel sindacato, nel lavoro, giocassero una propria partita, per interessi individuali, di parte. È ovvio che il destino di in grande gruppo industriale come Riva o la sicurezza dei lavoratori sono molto più importanti del futuro politico di Berlusconi e della scelta del leader del pd. Eppure… Domani l’Italia tutta se ne sarà dimenticata, saremo tornati tutti quanti al solito tran tran consolatorio e rassicurante della nostra ammirevole partecipazione per le tragedie umane e alla denuncia dei padroni cattivi, e poi, dopo il solito teatrino televisivo, riprenderemo a parlare della governabilità, dell’Imu e ci interrogheremo perplessi se Letta si alleerà con Renzi. Tutto come sempre. Fino ai prossimi morti, fino alle prossime inevitabili tragedie italiane.
L’Unità 13.09.13
“La pelle degli operai”, di Adriano Sofri
“Se fossi il papa” – chi non comincia così, oggi. Se fossi il papa, visiterei le discariche dell’Ilva. Ma andiamo per ordine. Nel 2008, in cambio di qualcosa, i Riva padroni dell’Ilva diventarono, versando
120 milioni, il secondo azionista dell’Alitalia rattoppata,
dopo Air France. Settantuno di quei milioni sono stati ora sequestrati dalla Guardia di Finanza, insieme al patrimonio che i Riva avevano scorporato dall’Ilva, per metterlo al riparo: il totale di questo secondo sequestro (il primo superava di poco il miliardo) è di 916 milioni di euro. Sono porzioni pazientemente stanate dalle proprietà Riva per coprire la cifra di 8,1 miliardi, fissata dalla magistratura come l’equivalente di quanto i Riva avevano sottratto al risanamento ambientale.
“Riva Acciaio” ha annunciato ieri la chiusura di sette stabilimenti, Verona, Caronno Pertusella (Varese), Lesegno (Cuneo), Malegno, Sellero, Cerveno (Brescia) e Annone Brianza (Lecco), e due di servizi e trasporti (Riva Energia e Muzzana Trasporti), per un complesso di 1500 lavoratori. Ritorsione che vuol mettere questi lavoratori contro quelli dell’Ilva tarantina, e gli uni e gli altri contro Procura e Gip di Taranto, Patrizia Todisco. Curiosamente, all’elenco di fabbriche serrate (su cui si è equivocato, scambiando Ilva Acciaio, restata della famiglia Riva, con l’Ilva commissariata di Taranto, Genova ecc.: del resto il garbuglio societario era fatto apposta per confondere le acque) si sono aggiunti i 114 lavoratori tarantini della centrale elettrica, la cui chiusura è impensabile se non progettando un’eruzione vulcanica del siderurgico: ai 114 è però stato annunziato che non ci sono soldi per pagarli. Perché i Riva credano che appartenga ancora a loro l’alimentazione elettrica della fabbrica commissariata è difficile capire: e se una distrazione ci fosse stata, sarebbe bene che il governo si sbrigasse a rimediare con un decreto aggiuntivo, e tanto meglio se vi comprendesse anche gli stabilimenti chiusi per ritorsione.
Si sbaglierebbe a vedere nella serrata dei Riva un gioco delle parti col gi à loro Enrico Bondi, che il governo ha lasciato dov’era nominandolo, da amministratore delegato, commissario. Quasi ottantenne, Bondi non è stanco di rottamare e riparare. È probabile che non tenga in conto i Riva, e ne sia detestato. Non li ha traditi: era andato lì per offrire il suo curriculum alle banche, e raddrizzare un naufragio che nemmeno la Concordia. Se è vero, come sostiene la Guardia di Finanza, che intendeva continuare a servirsi dei “fiduciari”, la gerarchia ombra coloniale, dai vertici ai capireparto, cui i Riva si affidavano per il lavoro sporco, ora finita nelle indagini (e in galera), è un bruttissimo scivolone. Il fatto è, spiegano, che per lui – aretino, mordace, suo padre fabbricava casse da morto, non sta lì per i soldi ma per la sfida, e lavora sedici ore al giorno – raddrizzare significa tagliare, ridimensionare, produrre. Ridimensionare quanto? Fino a sette milioni di tonnellate. Tagliare quanto? 5, 6 mila teste. Dei posti di lavoro, e anche dell’ambiente, ammesso che gli importi – non so – comunque non pensa che sia propriamente affar suo. I tagli (prepensionamenti, certo, ma il grosso saranno licenziamenti) sono questione di un paio di mesi. I 1500 di ieri sono un anticipo e un sovrappiù. Per i tagli dovrebbero esserci i sindacati, per l’ambiente e la salute il vicecommissario Ronchi. I sindacati confederali l’altro giorno, quando un operaio è stato vendicativamente licenziato, ed è andato sui tetti con altri compagni a discutere se convenisse buttarsi giù o scendere (sono scesi: evviva), hanno fatto finta che non li riguardasse: avevano un’altra sigla sindacale.
Con un solo operaio alla manovra ferroviaria c’è più sicurezza, dicono. Claudio Marsella, schiacciato, soccorso con un ritardo sul quale si pronuncerà la magistratura, e morto, è un tragico incidente, dicono. Ci sono decine di km di binari, locomotori da guidare, carri da agganciare, basta sentirsi male (a dicembre è successo di nuovo: un operaio è restato svenuto a lungo; un altro si è fratturato un braccio, ma almeno poteva chiamare) e non c’è nessuno a soccorrere e chiedere aiuto. Più operai si intralciano, dicono! Ma basta che uno accompagni l’altro, e intervenga solo alla bisogna. Ebbene: il consiglio comunale di Taranto, all’unanimità (più unica che rara) ha chiesto che si ripristini la libertà sindacale all’Ilva, condiviso le ragioni del licenziato, e chiesto l’immediato reintegro. L’arcivescovo Santoro, che non viene dall’Argentina ma ha fatto un suo tirocinio in Brasile, ha comunicato la sua “vicinanza e solidarietà a Marco Zanframundo – l’operaio licenziato – e ai suoi amici”. Segni dei tempi, che i sindacati dovrebbero leggere: ai cancelli dell’Ilva e nelle strade dei Tamburi si aggira uno spettro, e anche negli altri posti lasciati sguarniti. Lo spettro, l’avete capito, è papa Francesco. Ci mancava lui, penserà qualcuno. Fatto sta che qualcuno ci mancava.
Fossi papa, visiterei le discariche. Dentro l’Ilva hanno una lunga storia da raccontare. Il fatto è, scuote la testa qualcuno, che perfino i suoli e gli argini che dovrebbero contenerle sono fatti di strati di rifiuti speciali, di quelli che la legge dichiara non conferibili. Accanto all’Ilva, la Cementir sta chiudendo la sua area a caldo, il cuore della produzione e dell’occupazione; non smaltirà più la loppa d’altoforno, lo scarto della ghisa dell’Ilva altamente inquinante, che da qualche parte dovrà andare – a cementare il mare, come a Trieste o a Bagnoli? … Del piano che metta insieme la sbaragliata siderurgia italiana si sa poco o niente. La cokeria di Taranto potrebbe esser sostituita da quella meglio governata di Piombino, che potrebbe compensare la chiusura dell’altoforno con il forno elettrico, e guadagnarsi con la Concordia e il porto riattrezzato il credito per le rottamazioni navali a venire, che la legge europea non farà più andare a impestare il terzo e quarto mondo… Altrettanti naufragi di cui fare virtù, se si sapesse. C’è un ministro dell’ambiente giovane e, per così dire, impregiudicato. Ci crede, Andrea Orlando, alla copertura dei parchi minerali (950 milioni, se arrivano), discariche a norma secondo le migliori tecnologie disponibili, controllate da Ispra e Arpa… Non è un papa, solo un ministro, e di un governo tramortito – ma anche i papi sono diventati a scadenza. Governo, e suoi commissari, hanno un piano che si aggira sui 2 miliardi, o poco più. Magistratura di Taranto e suoi esperti avevano calcolato 8 miliardi, e ordinato un sequestro equivalente: arrivato a poco più di due, finora. Poi c’è quel problema dei tumori, e quell’altro problema dei posti di lavoro.
La Repubblica 13.09.13
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“ACCIAIO BUSINESS STRATEGICO L’ITALIA È SECONDA IN EUROPA”, di Diodato Pirone
Per una volta fra gli economisti di ogni fede l’opinione è unanime: il caso Ilva sta ricordando agli italiani quanto sia importante l’industria per il nostro futuro. Accantonati dagli anni della grande abbuffata della finanza, ora operai, tecnici e imprenditori metallurgici riaffiorano sulle prime pagine dei giornali risalendo le radici profonde del sistema industriale italiano.
Prima del drammatico caso Ilva chi si ricordava che l’Italia è il secondo produttore europeo d’acciaio (senza sfigurare con la Germania) e l’undicesimo nel mondo? Lo abbiamo dimenticato perché negli anni Ottanta, quando gli americani abbandonarono le loro acciaierie arrendendosi ai costi bassi degli asiatici che sfornavano immense petroliere come panini, l’acciaio italiano come quello delle ”economie avanzate” ha finito per perdere la sua strategicità. In fondo, la prima e la seconda guerra mondiale altro non erano state che tragiche contese per spartirsi le fonti di energia (carbone) e dei prodotti industrial-militari (l’acciaio). Tanto che nel secondo dopoguerra, senza perdere un minuto, italiani, francesi e tedeschi diedero vita al primo embrione di Europa pacifica proprio partendo dalla Ceca (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio).
Con leggerezza gli italiani hanno finito per gettare nel dimenticatoio una delle più belle pagine della loro storia economica: l’epopea delle nostre acciaierie, giganteschi trampolini del miracolo economico degli anni Cinquanta e Sessanta. Allora un grandissimo manager pubblico come Oscar Sinigaglia, con enormi investimenti di Iri e Finsider, assicurò all’Italia le complesse acciaierie a ciclo integrale. Vicine al mare (e dunque ai porti) le fabbriche di Cornigliano, di Bagnoli e più tardi di Taranto producevano l’acciaio fondendo a temperature altissime i minerali ferrosi importati via nave da tutto il mondo.
L’EPOPEA
Così le catene di montaggio della Fiat ebbero la possibilità di sfornare tutte le 500 e le 600 che gli italiani ordinavano. Cos ì ben presto si allargò la schiera di industriali privati del Nord che lavoravano l’acciaio grezzo con i loro forni elettrici per trasformarlo nei tondini per le case popolari e l’espansione delle città, in lamiere di vario genere alla base del boom del made in Italy meccanico, nei profilati famosi in tutto il mondo. I loro nomi hanno segnato un’epoca: Steno Marcegaglia (un ex sindacalista Cgil) scomparso in questi giorni, Giovanni Arvedi, i Falck, i Pasini, Luigi Lucchini (anch’egli morto due settimane fa), Emilio Riva.
LA STRATEGIA
Ma ai nostri giorni qual è la morale economica che si pu ò ricavare dal «caso acciaio»? «Non è vero che lo sviluppo dipende solo dall’alta tecnologia – risponde il professor Patrizio Bianchi, una vita dedicata all’economia industriale – E’ strategica anche la tecnologia media. E’ fondamentale per l’Italia evitare il cosiddetto unbundling produttivo, ovvero la separazione fra produzioni a maggior valore aggiunto e lavorazioni più povere. L’intera filiera dell’acciaio va salvata». Perché professore? «Semplicemente perché non possiamo permetterci di perderla».
Il Messaggero 13.09.13