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“La mobilitazione ha vinto. Niente asta per Suvignano”, di Silvia Gigli

Il grande pressing sul governo partito dalla Toscana all’indomani della decisione dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati di metterla all’asta (era il 21 agosto scorso) e culminato nella grande manifestazione di domenica scorsa, ha avuto l’esito sperato. Ieri il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico ha incontrato il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi e con lui si è impegnato a modificare nel più breve tempo possibile la norma a cui aveva fatto riferimento l’Agenzia nazionale per i beni confiscati prendendo la decisione di vendere la tenuta, e renderla quindi compatibile con il progetto regionale di valorizzazione. Un progetto elaborato con le associazioni antimafia e gli enti locali che punta alla produzione agricola di qualità unita ad una serie di importanti attività sociali.
«È un bellissimo risultato dice soddisfatto il presidente Rossi alla fine del lungo e proficuo incontro romano che conferma la sostenibilità e il valore sociale del progetto che abbiamo condiviso con gli enti locali interessati e con tante associazioni impegnate sul fronte antimafia. Vendere la tenuta avrebbe voluto dire correre il rischio di farla nuovamente cadere nelle mani sbagliate o esporla a rischio di speculazioni. Adesso ci mettiamo subito al lavoro per concretizzare il nostro sogno».
La storia della tenuta di Suvignano è lunga e tortuosa. Azienda agricola dal potenziale enorme, è da anni in amministrazione giudiziaria, il che rende particolarmente difficile anche la gestione quotidiana. Il banale acquisto di un trattore, per esempio, richiede almeno due anni di attesa. Ciò nonostante, la struttura non ha mai smesso di lavorare e produrre, seppure con strumenti ridotti. Centinaia di ettari coltivati a grano, foraggio, olivi, foreste e poi 1800 pecore, maiali di cinta senese, un agriturismo e molto altro. Il pericolo che questo patrimonio dallo straordinario valore economico e paesaggistico potesse passare in mano a qualche privato aveva sollevato una vera e propria ondata di proteste. Era stato per primo il presidente della Toscana a farsene interprete inviando una lettera al presidente del consiglio Enrico Letta e al ministro dell’Interno Angelino Alfano. Un primo passo seguito dalla decisione della Regione di ricorrere al Tar, infine la manifestazione di domenica scorsa che ha raccolto a Suvignano mille persone tra cittadini, volontari, politici insieme a Libera, Cgil, Coop, Legambiente, Arci, Avviso Pubblico e almeno altre 40 associazioni. In prima fila Franco La Torre, figlio di Pio, il parlamentare ucciso dalla mafia che trentuno anni fa firmò la legge sulla confisca dei beni ai mafiosi. Anche don Luigi Ciotti e Maria Falcone, sorella di Giovanni, avevano voluto partecipare inviando i loro messaggi. «Da questa gente arriva una richiesta alla quale il governo non può non rispondere» aveva detto il sindaco di Monteroni d’Arbia, Jacopo Armini. All’indomani del corteo, infatti, ci sono stati contatti telefonici tra Rossi e Bubbico culminati nella riunione di ieri alla quale hanno partecipato anche il sottosegretario all’Interno Domenico Manzione, il prefetto Giuseppe Caruso, direttore dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati, e il direttore generale della Regione Toscana Antonio Davide Barretta. «Il progetto regionale ha tenuto a sottolineare Rossi rispetta le finalità sociali previste dalla normativa, con il proseguimento dell’attività produttiva di un’azienda che occupa 12 dipendenti per un valore delle attività e dei beni di circa 30 milioni di euro. Questo territorio continuerà ad essere produttivo e nello stesso tempo attivo nella battaglia per la legalità».
L’azienda di Suvignano fu sequestrata nel 1996 a Vincenzo Piazza, imprenditore edile appartenente a Cosa Nostra, e confiscata in via definitiva nel 2007. La produzione agricola biologica, insieme alla filiera corta sono al centro del progetto di gestione della tenuta presentato dalla Regione.
Parte della produzione dovrà essere destinata al mercato locale (per esempio nelle mense pubbliche e private), e poi si punterà all’allevamento di bestiame, sulla fattoria didattica, sull’ospitalità rurale, l’uso delle fonti alternative e sostenibili, l’impegno sociale e la diffusione delle cultura della legalità.
Se Suvignano è un simbolo, sia per l’estensione territoriale che ne fa il bene più grande confiscato alla mafia nel centro nord Italia, sia per il legame con il nome di Falcone, in Toscana i beni confiscati alle organizzazioni criminali sono in tutto 57: 32 sono stati consegnati dall’Agenzia ai soggetti che dovranno gestirli (il tempo medio fra la confisca e l’assegnazione è di 5 anni e mezzo), mentre per 19 ancora non è stata definita la destinazione finale e quindi rimangono come patrimonio dello Stato in gestione dell’Agenzia.

L’Unità 12.09.13

“Quale dialogo sulle riforme”, di Massimo Luciani

L’articolo di Stefano Rodotà pubblicato su l’Unità invita a ricondurre al piano del confronto pacato e argomentato la discussione sulla revisione della Costituzione. È un dato positivo, perché non sempre è stato così, negli ultimi tempi. Lo dimostrano, fra l’altro, le oltre 400 mila adesioni all’appello di un noto quotidiano che proclama (nientemeno!) «non vogliamo la riforma della P2».

E lo dimostrano il tono e il contenuto di alcune delle critiche rivolte al percorso di revisione che la Camera ha appena approvato. È stato detto, ad esempio, che oggi una revisione della Costituzione non sarebbe possibile perché dovrebbe costruirla un Parlamento delegittimato dall’essere stato eletto con una legge elettorale non solo impopolare, ma anche incostituzionale. Un ragionamento di questo tipo, però, deve essere conseguente: se legittimazione non c’è, non c’è per nessuna delle decisioni dell’attuale Parlamento, nemmeno per quelle – che so – in tema di imposizione fiscale o di ordine pubblico. Che facciamo, allora? Invitiamo gli italiani a non tenerne conto?
Si è anche detto che una revisione concordata da Pd e Pdl sarebbe assurda, perché questi due partiti non avrebbero nulla in comune, sicché il loro accordo potrebbe partorire solo un infante deforme. Anche qui c’è ragione di sorprendersi: forse la Costituzione del 1948 è stata scritta da forze politiche armoniosamente omogenee? E chi tiene alla logica del parlamentarismo non ha sempre pensato e detto che il bello di quella forma istituzionale è la ricerca del dialogo e del compromesso con l’avversario, entro un percorso di dibattito democratico? Dire pregiudizialmente no a qualunque confronto perché l’avversario non piace è proprio quello che chi ha a cuore il Parlamento e la rappresentanza politica non deve fare.
Ora, Rodotà prospetta due obiezioni di ben altro peso e serietà: che il procedimento previsto dal disegno di legge di revisione, visto che deroga all’art. 138 della Costituzione, sarebbe rischioso e illegittimo; che quel procedimento preluderebbe non alla «manutenzione», ma alla «manomissione» della Carta. Vediamole.
Sulla prima obiezione c’è poco da aggiungere a quanto già si sa: noi costituzionalisti siamo divisi fra chi sostiene che l’art. 138 non possa essere derogato e chi – come me – la pensa all’opposto. Qui, insisto, il punto essenziale è che la deroga deve lasciare intatta l’essenza di valore del procedimento di revisione, in particolare la garanzia delle minoranze e quella del voto popolare. Poiché il disegno di legge di revisione prevede che il referendum approvativo si tenga anche se la riforma della Costituzione è approvata con una maggioranza dei due terzi, a me pare che le garanzie costituzionali, sia per le attuali minoranze che per il corpo elettorale, siano state addirittura aumentate.
Quanto alla seconda obiezione, va detto che Rodotà ha perfettamente ragione quando distingue fra manutenzione e manomissione della Costituzione. Il problema, però, è identificare con precisione il confine fra le due. Lo stesso Rodotà riconosce che sono essenziali «la riduzione del numero dei parlamentari e l’abbandono del bicameralismo perfetto». È giusto. Ma non è forse vero che intervenire sui rapporti fra Camera, Senato e potere esecutivo significa incidere anche sulla forma di governo? E non è necessario, a questo punto, affrontarla direttamente, la questione della forma di governo, favorendo, senza indulgere ad eccessi plebiscitari, quella stabilità dell’esecutivo che è il vero problema della nostra esperienza costituzionale? E, visto che il Senato dovrebbe trasformarsi in camera di rappresentanza delle autonomie territoriali, non sarebbe necessario intervenire anche sull’attuale Titolo V della Costituzione, improvvidamente modificato nel 2001 da una legge di revisione (che seguì il procedimento dell’art. 138!) che ha creato innumerevoli problemi di funzionamento al nostro regionalismo?
Insomma: chi ama la Costituzione non può non cogliere l’emergere di alcuni punti di sofferenza e non può non agire per migliorare le cose. Rodotà chiede che si riconosca agli oppositori (in buona fede) dell’attuale tentativo di revisione di non essere ciechi conservatori. Anche qui ha ragione. Ma anche a coloro che (in buona fede) quel tentativo sostengono si deve riconoscere di non essere degli occulti eversori. Se faremo questo, il dialogo potrà riprendere sul saldo terreno della ragione. Anche perché è paradossale che si sia interrotto proprio fra chi tiene esattamente alla stessa cosa: la difesa dei valori della Costituzione repubblicana.

L’Unità 12.09.13

“Chi ha paura delle riforme”, di Michele Ainis

Il finimondo è un numero a tre cifre: 138. Scritto con un pennarello nero sulle mani sventolanti dei grillini, agitato come un altolà da quanti s’oppongono al disegno di riforma, o al contrario usato a mo’ di grimaldello per forzare la serratura della Costituzione. Sicché è guerra sulle regole, tanto per cambiare. Però stavolta la guerra investe il «come», non il «cosa». Perché l’articolo 138 detta le procedure per correggere la Carta. E perché in questo caso il Parlamento sta applicando il 138 per introdurre una procedura in deroga al medesimo 138. Da questa seconda procedura nascerà (forse) la riforma. Ma c’è già chi la reputa illegittima, al di là dei suoi eventuali contenuti. Per il metodo, prima ancora che nel merito. Cominciamo bene.
Messa così, verrebbe da dire: lasciate perdere. Tornate alla via maestra del 138, senza cercare scorciatoie. E guardate alla sostanza, piuttosto che alla forma. Tanto più se la forma diventa un elemento divisivo, quando ogni riforma costituzionale andrebbe viceversa condivisa. D’altronde non è forse vero che l’articolo 138 incarna la sentinella della Costituzione? Vero, al punto che un celebre paradosso (quello di Alf Ross) lo dichiara immodificabile. Ma sta di fatto che noi italiani abbiamo già sfidato un paio di volte il paradosso: nel 1993 e nel 1997, quando due leggi costituzionali battezzarono altrettante Bicamerali, e dunque un procedimento specialissimo per rovesciare come un calzino usato la Carta del 1947. Senza barricate in Parlamento, né tumulti nelle piazze. Però magari a quel tempo eravamo un po’ distratti.
E allora esaminiamo la forma della riforma, non foss’altro che per vederci chiaro. Primo: stavolta non è alle viste una rivoluzione, bensì una semplice manutenzione della Carta. Difatti ne rimane fuori il sistema delle garanzie (dalla magistratura ordinaria alla Consulta), su cui aveva invece carta bianca la Bicamerale presieduta da D’Alema. Secondo: non c’è nemmeno un ordine di sfratto per le assemblee parlamentari, come sarebbe accaduto viceversa con la Convenzione (aperta a membri esterni) evocata dal presidente Letta nelle sue dichiarazioni programmatiche. Terzo: la nuova procedura rafforza il potere di controllo degli elettori sugli eletti, e perciò rafforza la rigidità costituzionale. Giacché permette un referendum conclusivo, anche se la riforma fosse approvata a maggioranza dei due terzi. E in secondo luogo perché i referendum saranno tanti quanti i capitoli costituzionali riformati (bicameralismo, forma di governo, Regioni e via elencando). Mentre l’articolo 138 può aprire la strada a un plebiscito, a un prendere o lasciare, com’è avvenuto nel 2006 con la maxiriforma (55 articoli) cucinata dal centrodestra.
Dov’è quindi la ferita alla legalità costituzionale? In una modesta compressione dei tempi del dibattito, nonché del potere d’emendamento dei singoli parlamentari. Ampiamente compensata, tuttavia, dai referendum, in cui s’esprime la sovranità popolare. Sicché alla fine della giostra fa capolino un sospetto, un punto di dubbio, una domanda: non è che dietro lo schermo delle procedure c’è dopotutto una volontà conservatrice, l’idea che la Costituzione sia una mummia imbalsamata? Idea rispettabile, per carità; ma allora vorrà dire che i suoi nuovi paladini sono diventati dei necrofili.

Il Corriere della Sera 12.09.13

“Berlusconi si decida”, di Claudio Sardo

Non ne possiamo più di giuristi improvvisati, di parlamentari travestiti da avvocati, di procedure ormai elevate a surrogato della politica. Davvero qualcuno pensa che le sorti del governo Letta siano legate alle pregiudiziali del senatore Augello, poi trasformate in «preliminari»? O che la scelta di staccare o meno la spina da parte di Berlusconi dipenda dalla data del voto in Giunta sulla decadenza?
Tutto ciò è ridicolo, benché sia drammatico per un Paese che soffre di crescenti esclusioni sociali, che ha perso competitività, che deve riformare le proprie istituzioni, che non può assolutamente permettersi una crisi di governo al buio.
Eppure la crisi è minacciata. Anzi, sembra essere l’obiettivo del leader Pdl, la sua risposta politica alla condanna penale definitiva che lo esclude da ogni funzione pubblica. La crisi invece delle dimissioni (come avverrebbe in ogni altra parte del mondo). Non è detto che Berlusconi riesca a fare ciò che ha in mente. Ha tante resistenze anche nel suo campo, persino nelle sue aziende. Ma lui vuole rompere. E non certo perché il Pd non consente tre giorni in più ai lavori della Giunta, o perché un comma del regolamento del Senato è stato male interpretato. Berlusconi vuole la crisi per contrapporre la legittimazione elettorale alla legge, vuole la crisi per impostare la campagna elettorale contro il giudizio «ingiusto» proprio mentre la pena inflittagli avrà la sua esecuzione. Non sarà ovviamente il rispetto del galateo parlamentare – che, sia chiaro, è giusto assicurare, tanto più da parte della sinistra che non può rinunciare al primato del diritto – a far cambiare idea al Cavaliere. Semmai possono farlo i rapporti di forza, o la paura di Berlusconi nell’assumersi da solo una responsabilità così grave, che potrebbe spingere il Paese in una deriva pericolosissima, verso un commissariamento di tipo greco. Stiamo parlando di una questione politica cruciale per l’Italia. Altro che procedure. Berlusconi, in seguito alla sentenza, non può più svolgere una funzione pubblica. Non può essere parlamentare, né componente di un governo. La decadenza sulla base della legge Severino è di fatto inevitabile. E, pure se fosse evitabile, scatterebbe a stretto giro l’interdizione dai pubblici uffici. Nessuno può immaginare che Berlusconi riesca a fare slalom tra queste norme e trovare chissà dove un salvacondotto. E infatti nessuno lo immagina, neppure nel Pdl. Chi di loro chiede al Pd di sostituirsi ai magistrati e di emettere un quarto grado di giudizio favorevole al Cavaliere, lo fa per pura propaganda.

Il dilemma politico è per intero nel campo della destra italiana, sin dalla sera della sentenza della Cassazione. La scelta di far cadere Letta produrrebbe un conflitto politico-istituzionale, che Berlusconi a questo punto non avrebbe più neppure interesse a governare o limitare. La scelta invece di sostenere Letta fino alla fine del semestre di presidenza italiana dell’Ue implicherebbe, da parte del Cavaliere, l’accettazione della sentenza e il varo di un nuovo centrodestra. Questo è il dilemma, non la data del voto in Giunta. Il Pd può dire la sua in questa partita politica? Ovviamente, non stiamo parlando di impossibili accordi sottobanco o di irrilevanti intese sul calendario. Il centrosinistra non può concedere salvacondotti, né può rimangiarsi la legge Severino, pena la perdita totale di credibilità. Il Pd può invece prendere un impegno solenne di sostenere il governo fino alla fine del 2014. Un impegno non scontato (perché anche nel Pd c’è chi non disdegna le elezioni a breve) che comprende alcuni cambiamenti strutturali: una politica economica orientata sui contenuti del documento Confindustria-sindacati; un cambio del sistema politico con nuovi attori a sinistra come a destra; una fuoriuscita dalla seconda Repubblica, con riforme nel senso di un governo parlamentare rafforzato. Berlusconi accetterà la sfida? Dovrebbe dimettersi da senatore anziché impegnare il Parlamento in questa delirante contesa di azzeccagarbugli. Giuliano Ferrara gli ha suggerito di impugnare i referendum radicali per rilanciare nei fatti la propria leadership, anche da una posizione extra-parlamentare. Già Grillo è un leader extra-parlamentare, ed evidentemente la via della normalità è ancora lunga da percorrere. Comunque, il Pdl si decida. E la smetta di parlare come un collegio di avvocati, peraltro in disaccordo tra loro. Dica se vuole andare avanti con il governo oppure no. Lo dica subito, perché l’attesa sta producendo danni agli italiani, anzitutto ai più deboli.

L’Unità 12.09.13

Alla scuola serve un progetto non solo qualche computer”, di Benedetto Vertecchi

Si può dire ciò che si vuole (certo, gli argomenti non mancano) sugli indirizzi della politica scolastica italiana dopo la Seconda Guerra Mondiale fino agli ultimi decenni del 900. Su un punto, tuttavia, si dovrebbe concordare, e cioè sul carattere espansivo delle scelte effettuate. Se si pensa qual era la condizione di partenza, e come fruire di educazione scolastica fosse ancora il segno dell’appartenenza a strati favoriti della popolazione (tanto più favoriti se l’educazione dal livello primario si estendeva a quello secondario) è evidente il cambiamento intervenuto nei modi di vita dei bambini e degli adolescenti, ma anche delle loro famiglie. Fruire di educazione formale per un numero consistente di anni è diventata con gli anni la condizione normale di esistenza. Ciò non significa che non vi siano ancora sacche di deprivazione, ma il fenomeno ha cambiato di caratteristiche. La deprivazione di educazione scolastica va considerata più un fenomeno di patologia sociale (conseguente ad altre manifestazioni negative nel comportamento di strati della popolazione, come l’accettazione della cultura di gruppi criminali) che l’espressione di un condizionamento sociale negativo conseguente alla deprivazione culturale o al disagio economico delle famiglie.
Se, di per sé, le scelte espansive hanno interpretato una linea di
progresso, non si può dire lo stesso per le politiche di contorno, che avrebbero dovuto qualificare la crescita dell’offerta di educazione. Era del tutto evidente che le proposte di apprendimento adatte a frazioni limitate della popolazione avrebbero dovuto esse- re ripensate e riprogettate per incontrare le esigenze di bambini e ragazzi che, nel loro ambito familiare, per primi superavano le barriere che in precedenza avevano escluso dalla scuola altri membri delle loro famiglie. Sarebbe stato necessario avere a disposizione i riferimenti conoscitivi e operativi necessari per organizzare proposte didattiche che non si limitassero a riproporre con qualche aggiustamento quelle preesistenti. Aggiustamenti più sostanziali avrebbero richiesto che le scuole potessero fare affidamento su nuovi profili professionali e su una diversa organizzazione del lavoro. Ma, ed è questo il quesito che col tempo ha assunto un rilievo centrale, per fare che cosa? Quali traguardi avrebbero dovuto impegnare i nuovi insegnanti e quali attività si sarebbero dovute assicurare attraverso una diversa organizzazione del lavoro?

A questi quesiti si può rispondere solo se l’educazione scolastica è considerata parte di un disegno culturale più ampio, che investe non solo l’infanzia e l’adolescenza, ma la popolazione nel suo complesso. È un disegno culturale che deve comprendere la lingua, i comportamenti, le relazioni interpersonali, i sistemi di comunicazione, i valori, i rapporti tra aspetti differenti della vita sociale.

Ed è proprio ciò che è mancato. In mancanza di un disegno culturale si sono utilizzati gli aloni del disegno preesistente, o si sono assunti prestiti da altri settori della vita sociale che, a torto o a ragione, siano stati considerati più dinamici, meglio in grado di interpretare i cambiamenti in corso. Da un lato si sono ostentati apprezzamenti positivi per esiti educativi che non erano tali, dall’altro si è accolta come innovativa una cultura mediocre, costituita per lo più da cascami di cultura organizzativa di derivazione aziendale.

Da troppi anni non si sente enunciare da parte dei responsabili del sistema educativo un intento che possa interpretarsi come l’inizio di un nuovo disegno culturale (e, quindi, anche educativo). Il sistema di volta in volta mostra un volto arcigno (come quando accetta i dati delle rilevazioni comparative senza essere in grado di interpretarli) oppure ostenta bonomia, esortando in modi più o meno espliciti a distribuire certificati che non valgono la carta sui quali sono stampati. Non dovrebbe sorprendere nessuno che all’in- determinatezza dei traguardi corrisponda lo scollamento progressivo dei diversi elementi del sistema. Sono scontenti gli insegnanti, sono demotivati gli allievi, sono in allarme le famiglie, è critica l’opinione pubblica. Il dibattito si schiaccia su aspetti parziali, anche se in sé importanti, del funzionamento della scuola. Si è persa la sensibilità per la dimensione d’insieme, per un impegno interpretativo che definisca obiettivi di lungo periodo.

Non si può seriamente affermare che introdurre nelle scuole qualche ammennicolo tecnologico equivalga a promuovere l’innovazione della quale la scuola ha bisogno. È innovativo ciò che segna la struttura del percorso, che è in grado di accompagnare gli allievi per un buon tratto della loro esperienza di vita e pone le premesse perché possano adattarsi a realtà che al momento non siamo neanche in grado di immaginare. Gli interpreti più zelanti di un’innovazione solo strumentale trovano orecchie disposte ad ascoltarli quando affermano che la disponibilità di computer per allievo in Italia è inferiore che in altri Paesi. Il problema è che altre e più gravi condizioni di svantaggio non sono neanche prese in considerazione. Che dire delle biblioteche scolastiche? Dei laboratori di scienze? E di quelli per la realizzazione di progetti che com- portino la manipolazione di materiali grezzi? Delle collezioni naturalistiche? E via seguitando. Qualcuno si è preso la briga di vedere quale sia lo svantaggio dei nostri allievi in ciascuno dei punti elencati?

L’Unità 12.09.13

“L’ipotesi di un bis se il Pdl si spacca”, di Goffredo De Marchis

Il Letta bis, per lo stesso premier, è un’ipotesi lontana e condizionata da molti paletti. Lo si capisce dalle parole pronunciate alla Camera per riferire degli esiti del G20: «Il riconoscimento positivo possiamo gettarlo via in un attimo: se buttiamo la fiducia e la stabilità che abbiamo raggiunto, torniamo in grandissima difficoltà». Letta parla dei costi di una crisi. «Pesanti per lo Stato e per i cittadini. L’instabilità ci potrebbe sottrarre un miliardo, un miliardo e mezzo» solo per l’aumento dei tassi di interesse sul debito. Ma nei colloqui privati, il premier affronta anche le strade alternative, nel caso di uno strappo di Berlusconi. «Non accetterò accordi al ribasso o peggio ancora accordicchi. A me interessa la stabilità del Paese, non quella della mia poltrona».
Il premier sta esaminando gli scenari possibili. «Sarebbe inaccettabile una crisi pilotata con i ministri del Pdl che escono e poi rientrano. Nessuno la capirebbe e il governo ne uscirebbe più debole. Non è questa la via». Tantomeno un Letta bis non potrebbe nascere sulla base di un nuovo “contratto” con il Pdl che preveda l’appoggio esterno: niente ministri nella squadra ma un sostegno alla maggioranza delle larghe intese. «Non avrebbe alcun senso e soprattutto alcun futuro. Non riusciremmo a combinare nulla. L’Italia ha bisogno di riforme ed è già molto difficile governare così. Figuriamoci con l’appoggio esterno».
L’idea che alcuni transfughi del Pdl e un pugno di grillini siano in grado di dare vita a un esecutivo ancora più provvisorio di quello attuale viene scartata dal premier. E dal Pd. Letta e il suo partito, in questo caso, parlano la stessa lingua. «Un altro governo potrebbe vedere la luce solo in presenza di un fatto politico — è il ragionamento comune —. Cioè se nel Pdl si crea uno smottamento, una spaccatura concreta e nasce una cosa diversa dalla creatura berlusconiana che è oggi. Se l’operazione è fatta in grande con l’obiettivo di far nascere la costola del Ppe in Italia, allora…». Ma è uno scenario realistico? È immaginabile che in pochi giorni possano saldarsi Scelta civica, l’Udc di Casini e la scissione pidiellina in un fantomatico centro? I dubbi superano di gran lunga le certezze. Berlusconi resta il capo indiscusso
del centrodestra, difficile pensare che si possa avviare una diversa stagione politica in quel campo senza di lui o sulla sua pelle di condannato.
Ecco perché il discorso di ieri alla Camera illumina la vera strada maestra perseguita da Letta e da Giorgio Napolitano, con il sostegno di Gugliemo Epifani: continuare la legislatura con il governo in carica, senza toccare alcuna casella. Salvare le larghe intese così come sono: l’unico modo per raggiungere i traguardi che Letta ha in mente. Ieri ne ha indicato uno fondamentale, ridurre il cuneo fiscale: «Con il piano d’azione l’Italia ha assunto impegni netti per tagliare il costo del lavoro. È il cuore della politica di crescita».
Ma la partita si gioca sul corto respiro, sul giorno per giorno, sugli umori del Cavaliere per la sua sorte nella giunta del Senato. Lo scontro “tecnico” del voto per la decadenza e del suoi tempi ha di nuovo allargato il solco tra i due principali alleati di governo. Ieri Luigi Zanda, con un certo allarme, ha fatto sapere a Largo del Nazareno e Palazzo Chigi che il Pd non può più accettare la tattica dilatoria del Pdl. Anche se fosse di uno o due giorni. «Basta vedere la reazione della nostra gente — ha spiegato il capogruppo al Senato — dopo l’accelerazione di lunedì notte e quella successiva alla tregua e al rinvio che pure rientra nella normalità. È andata molto meglio lunedì. Non accettano l’idea che noi si faccia da sponda alle paturnie di Berlusconi. È vero che non dobbiamo forzare e non
possiamo offrire pretesti. Ma è inaccettabile tirarla per le lunghe». Letta da giorni è convinto che dilazionare il voto della giunta sia un falso problema: «Prima o poi la resa dei conti arriva». Nessun patema dunque a Palazzo Chigi per la scelta di domani sulla data del voto nella commissione. Non si andrà oltre lunedì o martedì e al premier va bene così. Anche se nel giro stretto dei collaboratori di Letta sanno che è cominciato il count down, che il voto, a meno di dimissioni di Berlusconi, sarà lo spartiacque della legislatura. Perché quel giorno Pd e Pdl, i due pilastri della maggioranza, voteranno in maniera opposta. E lo faranno sul destino del protagonista della Seconda repubblica.

La Repubblica 12.09.13

“Viaggio nelle scuole della discordia”, di Vladimiro Polchi

Così ora l’istituto rischia la chiusura. E la cronaca di questi giorni racconta di tanti altri focolai. Eppure la multietnicità è da anni un carattere consolidato della nostra scuola. Stando alle ultime previsioni del ministero dell’Istruzione, nell’anno 2013/2014 gli alunni di cittadinanza straniera sono ben 736.654, su un totale di 7.878.661 studenti previsti sui banchi delle scuole statali. Gli alunni non italiani restano concentrati per lo più nella scuola primaria (dove sono 271.857). E ancora: il loro record di presenze si registra in Lombardia (178.475 stranieri iscritti), seguita dall’Emilia Romagna (86.697). Ma attenzione: molti studenti figli
di immigrati sono nati in Italia (quasi il 50 per cento, con punte dell’80 per cento nella scuola dell’infanzia). Tradotto: se nel nostro Paese vigesse lo ius soli, l’incidenza degli alunni stranieri sul totale sarebbe molto più bassa e le discussioni in corso sulle “quote multietniche” a scuola perderebbero in gran parte la loro ragion d’essere.
Arcangela Mastromarco, docente referente del polo Start 1 (Struttura territoriale per l’integrazione) di Milano, si occupa dell’inserimento degli studenti stranieri in 56 scuole elementari e medie del capoluogo lombardo: «Fare un tutt’uno degli studenti di cittadinanza non italiana è sbagliato – sostiene – perché c’è un’enorme differenza tra chi è nato qui e chi ci è arrivato a una certa età. Bisognerebbe allora trovare definizioni diverse, come distinguere tra studenti italofoni e non. E questo andrebbe spiegato con chiarezza ai genitori italiani per rassicurarli. Per esempio a Milano il 60-70 per cento degli studenti stranieri iscritti alle elementari è di seconda generazione e dunque non costituisce solitamente un intralcio che rallenta il percorso scolastico». Questo non vuol dire nascondere eventuali difficoltà: «Chi pensa che un bimbo straniero alle elementari impari l’italiano solo ascoltando la lezione in classe, sbaglia. Ci devono essere insegnanti specializzati, altrimenti i problemi arrivano eccome, e poi le difficoltà dai ragazzi passano agli insegnanti, fino ad arrivare ai genitori».
La questione è allora quella delle risorse. «A Milano e provincia – spiega la Mastromarco – nell’anno scolastico 1999/2000 c’erano 700 docenti facilitatori, destinati all’insegnamento dell’italiano ai neoarrivati, lo scorso anno erano solo 40. Se mancano le risorse, allora si giustifica il malcontento. Insomma, se hai in classe due o tre studenti neoarrivati (cioè arrivati in Italia nel corso dell’anno scolastico) e non del tutto italofoni, ti va in crisi l’insegnamento, ne risente tutta la classe e il rallentamento della didattica è inevitabile».
Forse è giusto allora distribuire sul territorio gli studenti stranieri. Il limite del 30 per cento di alunni non italiani per scuola (introdotto con la discussa circolare Gelmini dell’8 gennaio 2010, su cui influirono le spinte leghiste che avevano anche proposto le classi ponte per gli immigrati) è infatti ancora valido. Anche se va oggi considerato un “tetto” solo indicativo e non obbligatorio. Lo ha chiarito, il 7 agosto scorso, il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, rispondendo ad un’interrogazione alla Camera: «Il diritto allo studio, nella mia visione, prescinde dall’origine geografica, dalla razza e dalla nazionalità. Conseguentemente il limite del 30 per cento degli alunni con cittadinanza non italiana sul totale degli iscritti è un criterio tendenziale e indicativo, che in base alla circolare può ben tollerare eccezioni, giustificate dalla presenza di alunni stranieri in possesso di adeguate competenze linguistiche, dalla disponibilità di risorse professionali e strutture di supporto, anche esterne alla scuola, da ragioni di
continuità didattica per classi costituite negli anni precedenti o da stati di necessità provocati dall’oggettiva assenza di soluzioni alternative».
Un tetto, quello del 30 per cento, già disapplicato da molte scuole italiane (circa un terzo). «Un limite che non distinguendo tra nati in Italia e neoarrivati – commenta la Mastromarco – non ha senso. E poi l’unico modo per non far “fuggire” gli italiani è potenziare le scuole dove ci sono tanti bimbi d’origine straniera, con un’offerta formativa, fatta di inglese, musica, informatica, che sia invitante per gli autoctoni. Come abbiamo fatto qui a Milano con la scuola di via Paravia».
Accanto alle storie di convivenza difficile, non mancano infatti casi di buon funzionamento delle classi multietniche. Un esempio? Nel quartiere di Torpignattara, a Roma, c’è una scuola elementare con 176 studenti, di cui solo 40 con la cittadinanza italiana. È la scuola Carlo Pisacane, spesso citata come modello di integrazione, per la sua offerta formativa all’avanguardia. Anche se va detto che pure qui negli ultimi tempi gli italiani iscrivono sempre meno i propri figli.
A misurarsi concretamente con la multietnicità tra i banchi è Luciana Zou, presidente del Cidi di Roma (Centro di iniziativa democratica degli insegnanti) e docente di informatica all’istituto tecnico Armellini della capitale: «Lo scorso anno avevo una terza con il 40 per cento di studenti d’origine straniera. Accade sempre più spesso, infatti, che questi ragazzi scelgano gli istituti tecnici invece del liceo, perché pensano siano più facili e perché dirottati qui dai loro insegnanti delle medie». Anche per la Zou, «non ha senso parlare di studenti stranieri senza distinguere tra chi è nato in Italia o ci vive da tanti anni e chi è arrivato da poco». Ciò detto, «è indubbio che una classe multietnica comporta un maggiore impegno e richiede una preparazione estremamente solida da parte degli insegnati, che invece troppo spesso vengono abbandonati. Ma va chiarito – aggiunge – che non sempre gli studenti stranieri rallentano la didattica. Anzi a me è accaduto più volte di verificare tra loro una più forte motivazione allo studio rispetto agli italiani, così da diventare addirittura un traino per l’intera classe ».
Eppure le prove Invalsi del 2012 hanno evidenziato che «lo scarto medio tra studenti stranieri di prima generazione e studenti italiani è di 23 punti in meno in italiano e di 16 punti in meno in matematica, mentre fra studenti stranieri nati in Italia e
studenti italiani il gap si riduce, rispettivamente, a 16 punti in meno nella prova di italiano e 12 punti in meno nella prova di matematica. Tutte differenze – sottolinea l’Invalsi – che sono in ogni caso significative».
Differenze che per Arcangela Mastromarco restano «il vero problema. Il gap riscontrabile anche tra le seconde generazioni e gli stessi insuccessi scolastici sono infatti dovuti a una sopravvalutazione del loro italiano di base e al conseguente mancato sviluppo di un italiano adatto allo studio. Questo è un errore che sta facendo sempre più spesso la scuola nel nostro Paese ».
E gli studenti stranieri cosa ne pensano? Mihai Popescu, romeno, ha vent’anni ed è in Italia dal 2003. Oggi studia Scienze politiche alla Sapienza ed è responsabile nazionale della Rete degli
studenti medi: «Sono arrivato in Italia durante le elementari. Ero iscritto a una scuola in provincia di Frosinone. Non mi sono mai sentito discriminato, anzi molti compagni italiani mi hanno aiutato. Forse sono stato facilitato dal fatto che vivevo in una piccola realtà. Nelle classi che ho frequentato anche dopo, c’era sempre qualche altro studente straniero assieme a me».
Mihai è contrario alle classi ghetto, ma tende comunque a ridimensionare il problema: «Non credo – afferma – che siamo noi stranieri a minacciare il rallentamento della didattica, semmai lo sono stati i tagli all’istruzione degli anni scorsi, che hanno impedito alla scuola di stare dietro alle nuove sfide e a trasformare la diversità in ricchezza. Perché una cosa è certa – conclude Mihai – la multietnicità tra i banchi è ormai la normalità e la scuola non può chiamarsi fuori da questa sfida».

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“Abbiamo alunni di 25 Paesi essere diversi qui è un valore”, di ZITA DAZZI

Said, otto anni, ha i genitori tunisini e alla scuola elementare di via Dolci frequenta il corso di arabo per bambini. Così riuscirà a scambiare quattro chiacchiere con i nonni di Hammamet, quando andrà a trovarli, a Natale. Sarà la sua prima volta in Africa perché lui è nato a Milano, nelle case popolari di piazzale Brescia. E da lì non si è mai spostato. Dumitra, 30 anni, viene dall’Ucraina e allatta ancora. In classe ci entra al pomeriggio, per imparare l’italiano, assieme alle altre mamme immigrate del corso di alfabetizzazione, mentre due puericultrici tengono a bada i bebè multicolor in “aula psicomotricità”. Intanto, nel cortile di quest’elementare con le facciate gialle, a pochi metri dalla circonvallazione esterna di Milano, zona San Siro, un gruppo di padri cinesi e sudamericani aiuta i bidelli a scaricare le cassette di verdura da un camion della Coldiretti per il mercato a chilometro zero aperto solo alle famiglie degli alunni.
Hanno tutti da fare alla scuola primaria di via Dolci 5, quartiere della prima periferia milanese, zona di grande traffico e poco verde, dove la percentuale di stranieri residenti arriva al 18 per cento, anche se sui registri di scuola la quota di cognomi non italiani sale fino al 40-45 per cento. Una scuola multietnica, come si suol dire. Anche se preferisce chiamarla «scuola che si confronta con l’intercultura », il preside Giovanni Del Bene, 67 anni, una vita spesa a insegnare Pedagogia all’università Statale, prima di diventare dirigente dell’Istituto comprensivo Cadorna e del vicino Calasanzio, in tutto 2.300 bambini e ragazzi, dai 3 ai 13 anni, divisi fra sette diversi plessi di scuola materna, elementare e media, con una quota di alunni di origine straniera che oscilla fra il 40 e il 60 per cento per classe. Con punte del 90 per cento in alcune sezioni della primaria di via Paravia, la scuola «di frontiera » che il Provveditore gli ha accollato da quest’anno.
«Forse hanno pensato che solo io potevo “reggere” una situazione così complessa», scherza Del Bene, dalla sua scrivania affacciata sul cortile di via Dolci, da dove arrivano le chiacchiere di due madri in jeans e hijab.
Del Bene è un preside che a Milano tutti conoscono perché riesce a far funzionare una scuola dove sono presenti bambini di 25 nazionalità e sette religioni diverse. Una “scuola modello”: anche istituzioni importanti come la Fondazione Cariplo e il ministero degli Interni hanno deciso di premiarla con due diversi finanziamenti, per un totale di 500mila euro, assegnati con regolare bando, per portare avanti i tanti progetti sull’integrazione avviati negli ultimi anni.
«I bambini hanno diritto all’istruzione, come dice la Costituzione. Io accetto tutte le domande di iscrizione e non guardo al passaporto quando mi vengono a chiedere di prendere un nuovo alunno — spiega il preside sgranando gli occhi azzurri — Qui abbiamo classi dove si parla l’hurdu e l’inglese, l’arabo e lo spagnolo, ma non è mai stato un problema. Non ho genitori che ritirano i figli per paura degli stranieri. Non vorrei apparire retorico, ma qui, davvero, la diversità è accolta come una ricchezza».
La forza del modello Cadorna sta nella collaborazione fra una potente associazione dei genitori e un consapevole corpo insegnanti, oltre che nell’apporto continuo di idee ed energie esterne, con stimoli che vengono dal Politecnico e dalle università Statale e Bicocca, oltre che da una pletora di associazioni ed enti, dal privato sociale fino al Movimento consumatori. «La scuola è sempre aperta, anche a Natale e fuori dall’orario di lezione. Al sabato abbiamo i volontari per aiutare i bambini a fare i compiti e al pomeriggio abbiamo i corsi di sport, arte e creatività quasi gratuiti per tutti gli alunni — elenca il preside — La sera organizziamo incontri e spettacoli, il venerdì abbiamo il mercato della verdura biologica. E poi le feste, le mostre, le manifestazioni sportive, i laboratori per adulti e bambini». E la religione? «Il crocefisso c’è in ogni aula, ma sulla mia scrivania ci sono i simboli cari a tutte le culture. Il prete viene a fare la benedizione natalizia fuori dall’orario scolastico, nella palestra aperta a tutti quelli che sono interessati a partecipare. E ogni anno, alla celebrazione, vengono anche molti alunni musulmani».

La Repubblica 12.09.13