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“Calano gli aborti aumentano gli obiettori”, di Pino Stoppan

È stata trasmessa ieri al Parlamento la relazione annua- le sull’attuazione della legge 194/78, sulla tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg), che presenta i dati preliminari relativi al 2012 e quelli definitivi del 2011. Nella relazione ancora una volta viene confermato il trend de- gli anni precedenti: una diminuzione delle interruzioni volontarie di gravi- danza secondo tutti gli indicatori. I dati preliminari indicano che nel 2012 sono state effettuate 105.968 Ivg, con un calo del 4,9% rispetto al dato definitivo del 2011 (111.415 casi) e un decremento del 54.9% rispetto al 1982, anno in cui si è registrato il più alto ricorso all’Ivg: allora furono 234.801 casi. Il tasso di abortività (numero delle Ivg per 1000 donne in età feconda tra 15-49 anni), l’indicatore più accurato per una corretta valutazione del- la tendenza al ricorso all’Igv, nel 2012 è risultato pari a 7,8 per 1.000, con un decrementi simili al dato generale.

«Per la prima volta – ha commentato il ministro della Salute Beatrice Lorenzin – è stato avviato un monitoraggio articolato sul territorio relativa- mente ad alcuni aspetti dell’applicazione della 194, quelli più specifica- mente legati all’obiezione di coscienza, che arriva fino ad ogni singola struttura e ad ogni singolo consultorio. I dati della relazione indicano che relativamente all’obiezione di coscienza e all’accesso ai servizi la legge ha avuto complessivamente una applicazione efficace. Stiamo lavorando per verificare, insieme alle Regioni, la pre- senza di eventuali criticità locali per giungere al più presto al loro superamento».

Dal 1983 il tasso di abortività è diminuito in tutti i gruppi di età, più marcatamente in quelli centrali. Tra le minorenni, nel 2011 è risultato pari a 4,5 per 1000 (stesso valore del 2010), con livelli più elevati nell’Italia settentrionale e centrale. Come negli anni precedenti, si conferma il minore ricorso all’aborto tra le giovani in Italia rispetto a quanto registrato negli altri Paesi dell’Europa Occidentale, così come minore è la percentuale di aborti ripetuti e di quelli dopo novanta giorni di gravidanza. Rimane elevato il ricorso all’Ivg da parte delle donne straniere, a carico delle quali si registra un terzo delle Ivg totali in Italia: un contributo che è andato crescendo negli anni e che si sta stabilizzando.

Nella relazione si osserva anche come l’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza abbia riguardato elevate percentuali di ginecologi fin dall’inizio dell’applicazione della Legge 194, con un aumento percentuale del 17,3% in trenta anni, a fronte – come si è visto – di un dimezzamento delle Ivg nello stesso periodo. In particolare, una stima della variazione negli anni degli interventi di Ivg a carico dei ginecologi non obiettori mostra che dal 1983 al 2011 gli aborti eseguiti mediamente ogni anno da ciascun non obiettore si sono dimezzati, passando da un valore di 145,6 Ivg nel 1983 (pari a 3,3 ivg a settimana, ipotizzando 44 settimane lavorative annuali, valore utilizzato come standard nei progetti di ricerca europei) a 73,9 ivg nel 2011 (pari a 1,7 aborti a settimana, sempre in 44 settimane lavorative in un anno).

I numeri complessivi del personale non obiettore appaiono congrui al numero complessivo degli interventi d’interruzione di gravidanza.

Eventuali difficoltà nell’accesso a questi «percorsi» sembrano quindi dovuti ad una distribuzione inadeguata del personale fra le strutture sanitarie all’interno di ciascuna regione. In collaborazione con le Regioni, il Ministero delle Salute ha avviato un monitoraggio a livello di singole strutture ospedaliere e consultori per verificare meglio le criticità e vigilare, attraverso le Regioni, affinché vi sia una piena applicazione della Legge su tutto il territorio nazionale, in particola- re garantendo l’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza dei singoli operatori sanitari che ne facciano richiesta e, al tempo stesso, il pieno acesso ai percorsi di Ivg, come previsto dalla Legge, per le donne che scelgano di farvi ricorso.

l’Unità 14.09.13

Fossoli, Bray ha offerto maggiore presenza dello Stato nel campo

On. Ghizzoni “Una visita interessata e con prescrizioni operative per il futuro del campo”. Una visita interessata e operativa. Il ministro per i Beni e le attività culturali Massimo Bray, in mattinata, ha fatto tappa all’ex campo di transito e smistamento di Fossoli e ha preso con i vertici della Fondazione una serie di impegni. “E’ stato lui stesso a suggerire una maggiore presenza dello Stato nella gestione del campo – racconta la parlamentare Pd Manuela Ghizzoni – e si è mostrato molto interessato a conoscere gli esiti di una ricerca scientifica che stiamo portando avanti con le Università di Bologna e Venezia su come preservare luoghi simbolici, ma ammalorati e su quale siano le migliori modalità per “fare memoria” nel nostro Paese”. Bray tornerà a Carpi già l’8 dicembre prossimo in occasione della fine dei lavori di ristrutturazione del Museo monumento al deportato.

Il ministro per i Beni e le attività culturali Massimo Bray, nella mattinata di sabato 14 settembre, ha visitato l’ex campo di transito e smistamento di Fossoli, insieme al sindaco di Carpi Enrico Campedelli, al presidente della Fondazione Campo di Fossoli Lorenzo Bertucelli e alla parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni, vicepresidente della Commissione Cultura della Camera dei deputati e componente del consiglio di amministrazione della Fondazione Campo di Fossoli. “Abbiamo accolto con grande soddisfazione la visita del ministro Bray – spiega l’on. Ghizzoni – che, dopo aver parlato, venerdì sera, alla Festa provinciale del Pd, della ricostruzione dei beni culturali, non ha voluto mancare l’appuntamento con uno dei più importanti luoghi della memoria italiani, patrimonio di tutto il Paese”. Bray, dopo aver percorso tutti i camminamenti, si è soffermato alla baracca ristrutturata, ora in attesa dei lavori di consolidamento post-sisma. “Il suo interesse si è rivelato non formale – racconta Manuela Ghizzoni – tanto che ci siamo lasciati con alcuni impegni da verificare già nella sua prossima visita a Carpi. Innanzitutto ha proposto una maggiore presenza dello Stato nella gestione del campo. Pur nel rispetto delle prerogative della Fondazione e del Comune, ha suggerito che un rappresentante dello Stato potrebbe sedere nel consiglio di amministrazione del campo anche in vista di un futuro sviluppo della gestione della struttura monumentale e della preservazione dei temi della memoria più in generale. Su quest’ultimo aspetto, la Fondazione sta lavorando da tempo insieme alle Università di Bologna e di Venezia. Si sta indagando, dal punto di vista scientifico, su come rendere più fruibile un luogo così simbolico, ma effettivamente ammalorato e, nel contempo, su quale sia il modo migliore per “fare memoria” nel nostro Paese”. Il ministro Bray ha lasciato Fossoli, diretto nel cratere sismico, dando già un appuntamento ai vertici della Fondazione e del Comune: sarà a Carpi l’8 dicembre prossimo per la fine dei lavori di ristrutturazione del Museo monumento al deportato, nel quarantennale della sua edificazione. Quello sarà il momento per una prima verifica su questi due temi: maggiore presenza dello Stato nella gestione dell’ex campo di Fossoli e progettazione scientifica su come promuovere e preservare i luoghi della memoria.

“Sostenibilità e innovazione, lo Stato difenda la siderurgia ” di Enrico Ceccotti

L’annunciata chiusura degli impianti siderurgici del gruppo Riva pone ancora una volta il problema della mancanza di una visione strategica di politica industriale. Si continua a procedere, con una certa timidezza da parte della sinistra, a interventi pubblici caso per caso senza una visione unitaria. È duro a morire il concetto che l’intervento pubblico va fatto solo in mancanza della capacità di autoregolamentazione del mercato. Non si può continuare ad avere un Paese industrializzato senza avere un’adeguata filiera siderurgica. La siderurgia lasciata solo al mercato e ai processi di globalizzazione determinerà le allocazioni produttive fuori del nostro Paese e dell’Europa. È sempre più necessario un intervento per evitare che ciò avvenga. Se non si risolvono i problemi di sostenibilità finanziaria e ambientale, con adeguati investimenti in ricerca, innovazione e favorendo sinergie tra le varie fasi del ciclo di produzione e gli operatori presenti in Italia, inevitabilmente assisteremo alla progressiva scomparsa della nostra siderurgia. Sarebbe un notevole danno strategico e economico per l’Italia. Gli altri Stati stanno intervenendo per difendere e sviluppare le loro industrie di base modificando le tendenze del mercato e della globalizzazione.

La siderurgia italiana non può fare a meno di mantenere la sua dimensione nell’ambito dei Paesi industrializzati. Occorrono i cicli integrali (di Taranto e Piombino-Trieste) per fornire acciaio di qualità. Occorrono i forni elettrici più competitivi con un minor costo dell’energia per dare adeguate flessibilità alla fluttuazione della domanda. Occorrono acciai speciali per applicazioni nei settori più innovativi. Occorrono i piccoli produttori per soddisfare le nicchie di mercato della nostra piccole e media impresa. Occorre una strategia pubblico-privata per migliorare la qualità e innovare gli impianti rendendoli meno energivori e sostenibili dal punto di vista ambientale. Di una siderurgia innovata non ne può fare a meno una moderna economia a bassa emissioni di carbonio. La siderurgia è indispensabile per produzioni manifatturiere. Di acciaio, di prodotti siderurgici tradizionali e di nuovi prodotti con caratteristiche innovative (acciai speciali, nuove leghe ferrose e non ferrose, ecc.) ce ne sarà molto bisogno proprio per sostenere un modello di sviluppo più sostenibile. Non si può affermare che è indispensabile un sostegno alla manifattura se non c’è un’industria di base. L’industria di base deve essere vista come un’opportunità per lo sviluppo del Paese e quindi il sostegno pubblico deve essere previsto non in termini di aiuti di Stato, ma come supporto alla competitività del sistema.

Questa battaglia non può essere fatta solo caso per caso: lasciare le scelte strategiche esclusivamente in mano alle aziende, ormai in buona parte multinazionali, porterebbe a delocalizzazioni e il settore verrebbe fortemente ridimensionato. Bisogna pensare a un nuovo intervento pubblico che veda la siderurgia come una «commodity» per lo sviluppo industriale complessivo del Paese. Sono disponibili tecnologie pulite applicate ai cicli siderurgici, in particolare basate sulla cattura e il confinamento dell’anidride carbonica. Oltre l’altoforno è possibile produrre ghisa con nuovi impianti come il Corex e il Finex più vantaggiosi dal punto di vista energetico e ambientale. Occorre, insomma, una politica industriale, promossa a livello pubblico, che armonizzi le necessita dei produttori con quelle dei consumatori, entrambi attori fondamentali nel campo dei settori utilizzatori di acciaio. Solo così è possibile far convivere produzioni di base e vivibilità dei territori.

In conseguenza della crisi, gli investimenti di parecchie aziende per l’efficienza energetica e l’attenuazione degli impatti ambientali o per sperimentazioni sulla riduzione delle emissioni, sono stati ridotti o bloccati. Non può valere il criterio che nella crisi la ricerca e gli investimenti per l’innovazione vengono abbandonati. Vorrebbe dire abbandonare qualsiasi prospettiva di competitività futura. Va incentivato il rapporto tra centri di ricerca, università e imprese.

Uno strumento particolarmente critico è il credito. Occorre un adeguato sistema bancario, per il credito alla fornitura e per garantire pagamenti più regolari al sistema delle imprese della filiera. In particolare sono necessari crediti agevolati per imprese che fanno investimenti a redditività differita e per interventi che diminuiscono l’impatto ambientale. Se non si fanno queste scelte strategiche sarà difficile per l’Italia difendere uno dei settori più importanti per la sua industria.

L’Unità 14.09.13

“Le parole della democrazia”, di Michele Ciliberto

Esiste, come è noto, quella che si potrebbe chiamare una superstizione delle parole. Delio Cantimori, uno dei maggiori storici italiani, parlava addirittura di un «bonapartismo» delle parole, per indicare l’uso eccessivo e improprio di termini che hanno senso solo se sono usati nel loro ambito di riferimento.

In questo caso intendo però alludere alla moda, oggi diffusissima, di usare alcune parole come una sorta di totem, quasi «figure» religiose rispetto alle quali l’unico atteggiamento possibile è quello dell’accettazione incondizionata e della condivisione reverente. È una sorta di monolinguismo autoritario, accentuato e propagandato dai media, su cui varrebbe la pena di fare una riflessione perché ha a che fare con la democrazia, come sempre accade quando si tratta di questioni di parole, di linguaggio.

Fino a poco tempo fa la parola-totem era «necessità», quando si parlava della situazione italiana e del governo di «larghe intese». In Italia non erano possibili altre strade: questo e solo questo richiedeva la crisi, questo e solo questo richiedeva l’Europa. Aprire il campo ad altre opzioni sarebbe stato solo segno di irresponsabilità e mancanza di senso della realtà.

Mai dire, poi, che Berlusconi si era deciso a sostenere questo tipo di governo perché aveva perso le elezioni e, soprattutto, per questioni puramente personali, non essendo mai stato animato da alcun interesse per il bene pubblico che non coincidesse con i suoi affari privati: un «fatto», non una «opinione», testimoniato da tanti anni di governo, e dalle innumerevoli leggi ad personam da lui varate a suo esclusivo vantaggio. Certo, Berlusconi era Berlusconi, chi poteva negarlo? Ci sarebbe stato perciò qualche prevedibile scarto, qualche sorpresa, ma era un rischio calcolato, che bisognava correre: le cose si sarebbero aggiustate. È un primo paradosso su cui vorrei richiamare l’attenzione: in una curiosa sarabanda, in Italia più si è accentuata la crisi, più si è affermata una sorta di provvidenzialismo icasticamente rappresentato dalle parole-totem più diffuse: «necessità», «responsabilità», «unità»…

Le cose sono andate diversamente, come vediamo anche in questi giorni: Berlusconi non è riuscito, come contava, a evitare la condanna e sta facendo ballare il Paese e il governo per trovare una via di fuga, mostrando a tutti, anche ai più esperti, quali erano i suoi obiettivi concreti quando è nato il gabinetto Letta. E per riuscire a salvare se stesso e il patrimonio ha iniziato una vera e propria azione di guerriglia, delle cui conseguenze dovrà assumersi la responsabilità se arriverà fino al punto di far cadere il governo.

In questa situazione si è verificata una vera e propria conversione linguistica: alla paro- la-totem «necessità» si è affiancata, fino a sopraffarla, la parola-totem «stabilità». Dovunque – in tv come sui giornali più autorevoli e più convinti della propria missione pedagogica – risuona come una sorta di refrain la stessa musica inserita nella medesima costellazione linguistica: l’Italia ha bisogno di stabilità; senza stabilità il Paese va a fondo…

«Stabilità» è una parola neutra: cosa signifi- ca oggi, concretamente, fare l’apologia della «stabilità»? Che rapporto effettivo può esserci fra una crisi sociale come quella che attraversiamo e la stabilità? Nessuno, penso, se ci si mette dal punto di vista di quelle che una volta si chiamavano le «classi subalterne». Ma posto pure che fossimo in una situazione ordinaria e di relativo equilibrio sociale, dove è mai scritto che la «stabilità», la quiete, è indice di una con- dizione positiva per uno Stato, una società? Certo, per le ideologie di carattere conservatore la «stabilità» è il principale pilastro di riferimento. Nei primi decenni del Seicento, per fare un esempio, parole come «mutamento» erano una bestemmia ed erano espulse dal vocabolario politico; mentre il lemma e il concetto di «stabilità» campeggiava in varie forme nei trattati sulla Ragion di Stato. Ma questo si capisce: la «stabilità» è l’obiettivo primario quando si tratta di ideologie conservatrici.

Come stanno invece le cose per una prospettiva e un pensiero democratico, anche in una condizione di emergenza come quella che stiamo vivendo? Vorrei partire da una affermazione fatta da un grande Papa a proposito di una nobile parola. Pace, spiegò una volta Papa Montini, non significa quiete, staticità, stagnazione: ha senso se implica movimento, trasformazione, dinamicità. È una posizione che coincide con i momenti più alti del pensiero laico e democratico: la «stabilità» e la «quiete» generano stagnazione, corruzione e infine decadenza. Gli Stati, come le chiese, non si sviluppano e progrediscono attraverso la «stabilità»: hanno bisogno di trasformazione, di mutamenti; il contrario di quello che pensano i teorici della Ragion di Stato tornati oggi di moda.

Certo, nel pieno della tempesta la «stabilità» può essere un obiettivo da conseguire e il governo Letta sta svolgendo un lavoro assai serio, specie a livello internazionale, che va difeso e sostenuto. Ma qui sto ponendo un altro problema, di ordine strategico: per una cultura politica democratica la stabilità deve restare un mezzo, non può essere trasformata in un fine come rischia di accadere in questo periodo in Italia, in nome della Realpolitik.

C’è qualcosa, oggi, che turba e inquieta e su cui occorre riflettere: si stanno imponendo ideologie che privilegiano l’esistente, il presente, inteso come spazio uniforme e unilineare, senza alternative che non siano quelle dettate da parole-totem come «necessità» e «stabilità» alle quali si rischia di sacrificare molte cose importanti, compreso il rispetto delle norme e delle regole che sono l’anima della democrazia. Si diffondono sensi comuni che tendono a escludere il «mutamento» dall’orizzonte delle possibilità, proprio mentre la società italiana, nel profondo, ribolle e chiede in modi inequivocabili mutamenti radicali e trasformazioni. Con la conseguenza di approfondire ulteriormente il divario, già assai ampio, tra mondo delle istituzioni e della politica e i cerchi sempre più complessi e sofferenti della vita sociale, con il rischio di potenziare i movimenti che si escludono volutamente dalla ordinaria vita parlamentare. Simmetricamente, si diffonde un lessico che toglie spazio alla dimensione del mutamento, della trasformazione, della libertà individuale e collettiva.
Uno dei pochi che oggi, rispetto a tutto questo, ha scelto di muoversi in controtendenza con nettezza e intransigenza è il nuovo Papa che sta mostrando a tutti i livelli – compresa la politica internazionale – come si possa avere un differente punto di vista sulla realtà e ottenere risultati concreti. E lo fa utilizzando un nuovo lessico imperniato sulla critica dell’esistente e sull’apertura alla speranza, rigettando i totem della «necessità» e della «stabilità».

È un fatto importante e positivo, che dà alla Chiesa cattolica una nuova voce. Ma il pensiero laico e democratico, e il partito che si è dato questo nome, non dovrebbero anche loro dire una parola su questa ideologia della «stabilità», cercando di ricostituire un nesso – tanto essenziale quanto precario – fra democrazia e linguaggio? Sarebbe bene ricordarsene ogni tanto: quella degli uomini, almeno fino ad ora, è stata una storia materiale di mutamenti e di trasformazioni da cui sono nate, faticosamente, le nostre libertà. E di questa «storia delle libertà» il linguaggio è stato e resta, oltre che un indice importante, uno strumento decisivo

L’Unità 14.09.13

“Giornali e potere nell’era di internet”, di Giovanni Valentini

Non solo il giornale di carta ha attraversato con poche modifiche le varie “svolte di sistema” che si sono susseguite dagli anni novanta dell’Ottocento in poi, ma ha prestato forme, professionalità, stili, a cinema e radio, fotografia e televisione; e anche a Internet.
(da “Il secolo dei media” di Peppino Ortoleva – Il Saggiatore, 2009 – pag. 264)
Nel suo anatema mediatico contro i giornali, il guru del Movimento 5 Stelle, Gianroberto Casaleggio, è arrivato a definirli in blocco “strumenti del potere”, come ha sentenziato recentemente al workshop Ambrosetti di Cernobbio. Tutti i giornali, senza distinzioni? E sempre, senza alcuna eccezione?
Si tratta, evidentemente, di una generalizzazione tanto grossolana quanto inaccettabile. Non c’è dubbio che spesso, in Italia e nel resto del mondo, i giornali si lasciano strumentalizzare — inconsapevolmente o meno — dal potere politico, economico, pubblicitario. E a volte, anzi, diventano essi stessi strumenti di potere, nel senso che vengono utilizzati dagli editori o anche dai giornalisti a fini personali o di parte.
Ma condannare tutta insieme la carta stampata significa fare torto all’intelligenza dei cittadini lettori, oltre che alla verità e alla realtà dei fatti. Al fondo di questa visione distorta, c’è un fanatismo ideologico che sconfina nell’idolatria tecnologica a favore della Rete e dell’informazione online. Quasi che i blog, i social network o il cosiddetto “citizen journalism” possano sopprimere e sostituire completamente l’editoria come industria dell’informazione, indipendentemente dai mezzi di diffusione che utilizza.
Chi riflette da anni su questi temi, sa bene che l’avvento di Internet ha modificato non solo le categorie di spazio e di tempo, ma anche il rapporto fra chi produce le notizie e chi le riceve. E sa che la Rete, superando l’esclusività della mediazione giornalistica, tende a sostituire l’informazione “verticale”, dall’alto verso il basso, con una “orizzontale”, circolare, assembleare. Tutto ciò è senz’altro un bene perché favorisce un maggiore pluralismo nella circolazione delle idee e delle opinioni.
Quali sono, però, le differenze fondamentali tra l’informazione professionale e quella spontanea, diffusa, random, dei blog o dei social network? La continuità, la regolarità, l’affidabilità, l’attendibilità e magari l’autorevolezza degli articoli, delle corrispondenze, delle inchieste, dei commenti. Con tutti i loro limiti e difetti, i giornali selezionano le notizie nel flusso quotidiano dell’attualità, le organizzano e le gerarchizzano sotto il proprio brand, con un “marchio di fabbrica”, di qualità e di garanzia. Ed è così che, in nome e per conto della pubblica opinione, possono esercitare quella funzione di “contropotere” che non è opposizione pregiudiziale ai poteri costituiti, bensì controllo del potere nelle sue varie articolazioni ed espressioni.
Ecco perché, contro le profezie ricorrenti, si può prevedere che i giornali non scompariranno mai definitivamente: ovvero non scomparirà quello che il massmediologo Peppino Ortoleva nel libro citato all’inizio chiama il “modello giornale” e la “forma-notizia”, quale che sia il supporto — cartaceo o digitale — su cui i contenuti vengono diffusi. Certo, anche per effetto del turn over generazionale, l’informazione online è destinata nel tempo a prevalere su quella tradizionale. Ma verosimilmente i “quality papers” e i “local papers”, cioè i giornali d’opinione e quelli territoriali, sopravviveranno più a lungo degli altri.

La Repubblica 14.09.13

“Il prezzo della cattiva politica”, di Franco Bruni

Anche chi giudica positiva l’azione del governo ne vede i limiti e le precarietà, per le frequenti minacce, di pessima qualità, con cui i partiti ne ostacolano l’azione. Lo ha detto lo stesso Letta ieri a Torino: non è vero «che non stiamo facendo niente», facciamo la «fatica di tenere insieme le istituzioni», prendiamo decisioni che «non sono elementi rivoluzionari ma cambiamenti di tendenza». Se vogliamo un governo che cambi alla radice il Paese, come sarebbe necessario, deve mutare il terreno politico che supporta l’esecutivo.

Di solito in democrazia questo si fa andando a elezioni. Molti si domandano perché non ci andiamo, magari fra qualche mese per fare la Legge di Stabilità e ritentare una riforma elettorale. La domanda fa capolino anche fra chi tifa per Letta e digerisce bene l’idea di «larghe intese». Ma sembra che l’economia, con le sue urgenze nazionali e internazionali, non ci permetta crisi di governo e urne. Per affrontare il problema politico pagheremmo un eccessivo costo economico. Come economista mi chiedo se questo è vero.

Al momento mi rispondo che lo è, ma che è importante capire in che senso. Anche perché, come cittadino, non mi piace l’idea che l’economia ricatti la democrazia politica e congeli il suo funzionamento.

Se potessimo riaprire a breve la competizione elettorale fra partiti dotati di vera consistenza e chiare linee programmatiche, penso che, nonostante tutto, l’economia ce lo permetterebbe. L’economia italiana ha ancora «dati non buoni», come ha detto Rehn, ma ha fatto una correzione sostanziale della finanza pubblica, ha grandi potenzialità ampiamente riconosciute, alcuni punti di eccellenza, un’importanza essenziale per l’equilibrio europeo. Sia i mercati che Bruxelles ci darebbero il tempo necessario per fare le scelte politiche che servono per governare anche con qualche decisione che Letta chiamerebbe «rivoluzionaria». L’economia non guarderebbe tanto a chi le vince. Il panorama internazionale è ricco di esempi di come la fiducia economica possa benedire governi di destra o di sinistra, maggioritari o di coalizione, basta che siano politicamente ben sostenuti, anche da compromessi, purché chiari. Se potessimo sperare in elezioni risolutive non ci sarebbe ragione economica per rimandarle.

Il vero problema è che non c’è l’offerta politica per fare elezioni risolutive. La carenza di offerta politica è più grave dell’orrore della legge elettorale. Nell’editoriale di ieri Elisabetta Gualmini ha usato l’espressione giusta: «la politica è in default». Quando un’impresa è in default non si può chiederle di produrre senza ristrutturarla. Chiedere alla politica italiana di affrontare oggi crisi di governo ed eventualità di elezioni a breve significa sostenere costi economici enormi, nel breve e nel lungo periodo. Anche perché è proprio il terreno economico, più banalmente concreto di altri, dove spicca l’inconsistenza dell’offerta politica. Forse che fra Vendola, Fassina e Renzi, presi uno per uno o comunque raggruppati, sta spuntando un programma economico della sinistra? E forse che a destra, dove i leader del futuro sono ancor meno individuabili, si va molto più in là del solito abbassar le tasse, che ovviamente piace a tutti? Tutti vogliono vincere il rigorismo dell’Europa, semplificare le leggi, eccetera, ma soprattutto semplificare velleitariamente i problemi. Se si accorgono di dir troppo le stesse cose si affrettano a trovar pretesti per litigare e distinguersi. Se qualcuno ha una proposta precisa gli manca la credibilità per venderla. E’ un clima dove una campagna elettorale lascerebbe spazi sconfinati al populismo più spregiudicato, che sporcherebbe la propaganda di tutti i partiti e inciterebbe all’astensione o a voti di protesta pericolosi per il funzionamento del Parlamento.

E’ a questo spettacolo, non al tentativo in sé di risolvere con nuove elezioni l’inghippo politico prodotto dalle precedenti, che l’economia reagirebbe male, dall’interno e dall’estero. L’economia non sta ricattando la politica ma non le perdonerebbe di far finta di non essere in default.

Perciò, come sembrava esser stato pattuito fin dall’inizio del governo Monti, bisogna che mentre questi governi di emergenza tamponano le catastrofi e accennano a «cambiamenti di tendenza», la politica risolva il suo default, i partiti si diano una struttura e leadership convincenti, decidano i punti dove divergono e chiedono agli elettori di scegliere e quelli dove convergono e non fanno sceneggiate per divergere. Per risolvere questo default non bastano tre mesi. Occorre almeno tutto il prossimo anno, come hanno chiesto Napolitano e Letta sperando addirittura di vedere alcuni aggiustamenti della Carta. E’ un periodo che va usato bene, mantenendo una distanza di braccio fra l’azione di governo, molto concentrata sulla politica economica, e quella delle forze politiche che si riorganizzano e riordinano le regole del gioco. E’ una distanza di braccio che non viola la democrazia, perché il Parlamento rimane sovrano e il governo sa di non poter far rivoluzioni. Ma è una distanza che chiede di non strumentalizzare la politica economica più delicata e difficile, interferendo con proposte approssimative e ricatti illusionistici, per far demagogia in assenza di idee su come animare una vera competizione democratica. La quale ricomincerà quando il default sarà risolto.

Nel frattempo la fiducia dei mercati e il giudizio dell’economia guarderanno di più, paradossalmente, alla qualità della ristrutturazione politica che a quella delle misure economiche che il governo di emergenza, approfittando del fatto che lo tengono fuori dai bisticci partitici e correntizi, riuscirà a far approvare. Sarà un anno economicamente delicatissimo, fra i tassi che risalgono anche in Germania, la congiuntura che stenta anche in Cina, le banche da risanare, la Legge di Stabilità, la Presidenza italiana dell’Ue. Ma se la destra, la sinistra e il centro capiscono che debbono chiarirsi prima di tornare a litigare, il governo che abbiamo è in grado di manovrare con competenza e buon senso nelle acque difficili dei prossimi due o tre semestri.

La Stampa 14.09.13

“La stanchezza dell’America”, di Timothy Garton Ash

Si è mai visto nella storia americana un discorso alla nazione più insolito di questo ultimo? Il presidente Obama ha informato gli americani che il voto del Congresso sull’intervento militare in
Siria è rinviato. Con il tono maestoso e solenne adeguato ad una dichiarazione di guerra, Obama ha motivato la sua decisione con il fatto che la Russia sta portando avanti un’iniziativa diplomatica che potrebbe — il condizionale è d’obbligo — porre le armi chimiche siriane sotto il controllo della comunità internazionale. Non è stato esattamente un discorso a livello di quello di Lincoln a Gettysburg. La via di Damasco sarà ancora costellata di svolte ma le vicende politiche delle ultime settimane dopo l’uso criminale di armi chimiche in Siria il 21 agosto sono già molto rivelatrici. Innanzitutto ci dicono quello che lo stesso Obama ha riconosciuto nel suo discorso in tv, citando le parole di un veterano che gli ha scritto: “Questa nazione è stanca e nauseata dalla guerra”.
È vero, negli Stati Uniti, come in Europa, sul dibattito circa l’intervento in Siria pesa l’ombra dell’imbroglio di Colin Powell (nientemeno), quello dei falsi rapporti di intelligence sull’esistenza delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Ma per la maggioranza degli americani non è quello il problema. Stando ad un recentissimo sondaggio targato New York Times/Cbs,
il 75% degli americani è dell’opinione che il governo siriano probabilmente abbia fatto uso di armi chimiche contro i civili — e ciò nonostante resta prevalentemente contraria alla reazione militare di cui Obama è fautore. Ho visto in tv innumerevoli interviste ai membri del Congresso e tutti, repubblicani e democratici, favorevoli o contrari all’intervento, sono consapevoli di questa realtà. Su almeno un migliaio di elettori solo “tre o quattro” si sono detti favorevoli all’azione militare, comunica Elijah Cummings, parlamentare democratico nonché sostenitore di Obama. Il senatore Rand Paul (figlio di Ron), astro nascente del partito repubblicano, afferma che in base ai suoi sondaggi telefonici solo un intervistato su 100 è favorevole all’intervento.
Gli americani sono “stanchi e nauseati” e non pensano che l’intervento armato abbia avuto effetti positivi in Medio Oriente. È costato migliaia di miliardi mentre la gente in America ha perso il posto di lavoro e la casa, si arrabatta per campare, vede il degrado di ospedali e scuole. E, paradossalmente, questo è proprio il ritornello di Obama. È lui il presidente che ha assunto l’incarico per porre fine a “un decennio di guerra” (sua tipica espressione, utilizzata nuovamente nell’ultimo discorso) e concentrarsi sul “nation- building in patria”. Quindi Obama è stato specchio di questo sentimento popolare e lo ha rafforzato. E, paradosso su paradosso, se il miglior nemico di Obama, il presidente russo Vladimir Putin, non fosse giunto in soccorso all’ultimo minuto, interessatamente, quello stesso sentimento avrebbe probabilmente inferto un colpo destruente alla presidenza Obama. Sembrava che il presidente americano fosse di fronte a una sconfitta, se non nel voto al Senato, quanto meno alla camera dei rappresentanti.
L’atteggiamento che ultimamente vede accomunati democratici e repubblicani viene definito, con scarsa fantasia, “isolazionismo”. È vero che gli Usa in passato si sono ritirati in una ampia indifferenza continentale, come dopo la Prima guerra mondiale. Ma
stavolta è diverso. Seppure l’attuale tendenza a ripiegare senza dubbio attinga a qualche fonte tradizionale, percorre un paese che non si sta affacciando baldanzoso al palcoscenico mondiale, ma è timoroso e consapevole del proprio relativo declino.
Negli anni Venti gli americani non erano angosciati all’idea che una Cina in ascesa potesse togliergli l’hamburger di bocca e comprarsi poi tutto il chiosco. Ora lo sono.
Vale la pena di citare ancora qualche ingrediente tipico di questa classica torta di mele americana. Uno è Israele. Difficile sovrastimare l’impatto della considerazione di Israele sulla politica estera americana in generale e quella mediorientale in particolare. Alcune delle analisi più agghiaccianti che ho letto nelle ultime settimane individuano una realpolitik israeliana secondo cui il male minore per Israele è che i due schieramenti dei suoi arcinemici, l’Iran e il regime di Assad sostenuto da Hezbollah e i ribelli sempre più composti da estremisti islamisti sunniti e parzialmente filo Al-Qaeda, si ammazzino tra loro. “Per noi il ‘migliore dei casi’ è che continuino a combattersi l’un l’altro senza badare a noi”, scrive un anonimo funzionario di intelligence su buzzfeed. com.
“Lasciamo che si dissanguino: è questo il pensiero strategico qui”, dice Alon Pinkas, ex console generale di Israele a New York. Machiavelli a confronto sembra il Mahatma Gandhi. Poi ci sono i falchi interventisti, come John McCain e Paul Wolfowitz, convinti che sia opportuna un’azione più risoluta da parte degli Usa, così da permettere ai ribelli più moderati di rovesciare Assad. Non saranno affatto soddisfatti di una soluzione che si limiti a contenere le armi chimiche grazie ad un accordo con Assad mediato dalla Russia. Accanto a loro abbiamo i politici repubblicani incurabilmente di parte, ai quali preme di più umiliare Obama che fermare Assad. E ci sono poi i cosiddetti strateghi — tantissimi a dire la verità, non da ultimo membri delle forze armate statunitensi o ad esse collegati — che riflettono sulle conseguenze strategiche per gli Stati Uniti e la regione. Nella stragrande maggioranza dei casi raccomandano
cautela.
Non da ultimo c’è ancora chi appoggia l’intervento su basi progressiste e umanitarie, stile anni Novanta, alla luce delle esperienze in Bosnia, Rwanda e Kosovo. Obama ha nominato ambasciatrice alle Nazioni Unite una sorta di icona di questo orientamento, Samantha Power, autrice nel 2002 di un libro intitolato
Voci dall’inferno, l’America e l’era del genocidio.
Il titolo originale inglese è A Problem from Hell: America and the Age of Genocide.
Beh, la Siria è davvero un problema infernale. Questi interventisti progressisti e umanitari non sono la voce predominante in una amministrazione caratterizzata da un cauto pragmatismo, che mette la sicurezza al primo posto, ma esistono comunque.
È da pochi giorni passato il dodicesimo anniversario degli attacchi terroristici dell’11 settembre che diedero il via al famoso decennio di guerra — giustificabile, quanto alla immediata reazione contro Al Qaeda in Afghanistan, ingiustificabile e disastroso in Iraq. Quella di oggi è un’America molto diversa. Forse, dopo qualche anno trascorso a mettere in ordine in casa propria, tornerà ad essere — nonostante le molte pecche e ipocrisie — l’indispensabile punto di riferimento di un qualche ordine internazionale liberale. Ma in considerazione non solo dei suoi problemi interni strutturali, ma soprattutto del mutare del panorama del potere globale al suo esterno, in qualche modo dubito che sia così. Ai tanti critici e nemici giurati dell’America, in Europa e nel mondo dico solo questo: se non vi piace il vecchio mondo in cui gli Stati Uniti intervenivano regolarmente, guardate un po’ se vi piace quello nuovo, in cui non lo fanno.
(Traduzione di Emilia Benghi)

La Repubblica 14.09.13