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“Prof inidonei, il Pdl li lascia al loro destino: diventino Ata!”, da La Tecnica della Scuola

Elena Centemero, responsabile Scuola del Partito delle Libertà: non si può rinunciare a 100 milioni di euro lasciando improduttive 3.500 persone. Replica Francesca Puglisi, capogruppo Pd in commissione Istruzione al Senato: stiamo parlando di una ‘norma vergogna’ sulla cui cancellazione c’è unanime condivisione delle VII Commissioni. E ancora: non sono “falsi invalidi”, ma persone con gravi patologie. Fatto sta che a poche ore dall’approvazione del decreto in CdM, l’esito rimane incerto.
Alla vigilia dell’approvazione in Consiglio dei ministri del “pacchetto” di norme urgenti sulla scuola, si accendo il dibattito sui docenti inidonei. I rumors delle ultime ore danno ancora per incerta la volontà del Governo sull’annullare la norma, introdotta dall’esecutivo Monti attraverso la spending review, che trasferirebbe almeno 3.500 insegnanti non più idonei all’insegnamento nei ruoli di assistenti amministrativi e tecnici dei laboratori scolastici.
Dal Pdl nelle ultime ore sono state spese delle critiche verso un’eventuale annullamento della norma. A schierarsi contro l’abrogazione della norma è stata, in particolare, Elena Centemero, responsabile nazionale Scuola, Università e Ricerca del Partito delle Libertà, che ha detto di avanzare “una motivata contrarietà rispetto alla proposta” nata per ottenere “un impiego comunque proficuo di risorse umane. Cancellare la norma Monti configurerebbe un costo di denaro pubblico di 100 milioni di euro e l’ennesima penalizzazione di tanti giovani precari, lasciando del tutto improduttive 3.500 persone”.
Per l’esattezza, il piano prevede il risparmio di circa 100 milioni di euro l’anno sino a tutto il 2017. E qui sta il vulnus della questione: dove reperire quei fondi? L’incertezza sulla copertura del risparmio è tale che il provvedimento a poche ore dall’approvazione del decreto rimane ancora in bilico.
Secondo Francesca Puglisi, capogruppo Pd in commissione Istruzione a Palazzo Madama, quei fondi vanno trovati. Sia perché si “punirebbero” migliaia di docenti afflitti da patologie varie. Sia perché si metterebbe in seria difficoltà il funzionamento delle amministrazioni scolastiche dove questi prof inidonei verrebbero forzatamente collocati. E dichiara: “l’onorevole Elena Centemero forse non conosce il contenuto della cosiddetta ‘norma vergogna’ della spending review che il ministro Maria Chiara Carrozza ha assicurato alle VII commissioni di Camera e Senato di voler cancellare, con la unanime condivisione delle commissioni stesse, Pdl incluso”.
La Puglisi ritiene che “non si tratta affatto di ‘impegnare risorse per favorire l’accesso di giovani nelle segreterie scolastiche’, nè di ‘impiegare utilmente persone altrimenti improduttive’. Si tratta piuttosto di ‘licenziare brutalmente 3.500 persone che con dedizione e merito stanno lavorando da decine di anni come precari delle segreterie scolastiche, occupandosi per esempio di ‘cose complesse’ come la rendicontazione dei fondi europei e tutto quel lavoro di contabilità e amministrazione che richiede la scuola dell’autonomia”. “Quel lavoro – sottolinea ancora – non può essere svolto da insegnanti “inidonei”, ossia non “falsi invalidi”, ma persone che hanno gravi patologie e che per questo stanno svolgendo utilmente altri compiti, come l’apertura delle biblioteche scolastiche, o che avrebbero tutto il diritto di andare in pensione con l’istituto della dispensa, se lo vogliono”.
Ancora una volta il Parlamento italiano, almeno quello in carica, dimostra di essere composto da “anime”ispirate a modelli e valori ben diversi. Tra poche ore sapremo come è andata a finire.

La Tecnica della Scuola 08.09.13

“La paralisi che peggiora i conti”, di Francesco Guerrera

Tra Manzoni e Clooney, Cernobbio è il posto perfetto per raccontare tragedie e commedie dell’Europa di oggi. La splendida Villa d’Este si affaccia sul ramo del Lago di Como tanto caro all’autore dei Promessi Sposi ed è a pochi minuti in barca dalla villa della star di Hollywood (dall’acqua non si vede quasi niente: George ama la privacy). Ma questo weekend, l’aristocratica dimora che ospita il summit annuale dell’Ambrosetti House è il palcoscenico di lusso per uno show che sta toccando milioni di cittadini ed imprenditori europei.

Lo si potrebbe chiamare: «OK, il prezzo non è giusto». Il prezzo è il costo della stasi politica ed istituzionale che sta attanagliando l’Unione Europea, facendo soffrire società ed individui, preoccupare gli investitori e innervosire partner commerciali come gli Usa. (C’è anche un’attrazione prettamente nazionale: il tormentone sul futuro del governo Letta).

Alcuni dei grandi del pianeta riuniti a Cernobbio l’hanno buttata sull’ottimismo. Nelle sale cinquecentesche, politici e banchieri centrali hanno sfoderato un sorriso vincente alla Clooney e ricordato che un anno fa stavamo peggio, con l’euro sul baratro e gli spread alle stelle.

Che bello – dicono – che alla riunione del Gruppo dei 20 di San Pietroburgo non si sia quasi parlato di Europa. Che «il sorvegliato speciale» – come ha detto il primo ministro italiano – non sia più l’Italia e nemmeno la moneta unica ma la catastrofe siriana, i dilemmi bellici degli Usa e i problemi economici dei Paesi emergenti. Che l’euro-crisi che ci portiamo dietro da almeno tre anni sia finita.

«Qui – scrisse Stendhal del Lago di Como – tutto è nobile e commovente, e tutto parla d’amore». Ma i numeri non parlano d’amore per l’economia europea. Sì, il peggio della crisi è passato – grazie soprattutto alle mosse coraggiose, e rischiose, della Banca Centrale Europea. Ma, come mi ha detto il dirigente di una multinazionale dell’industria, «il paziente è fuori dalla terapia intensiva ma sta ancora in ospedale».

Quest’anno, l’economia della zona-euro calerà dello 0.6%, secondo un sondaggio di economisti condotto dalla Ambrosetti. Nel 2014, se va bene, crescerà ma meno dell’ 1%. Persino il moribondo Giappone fara’ di meglio (1.7% quest’anno e 1.4% l’anno prossimo). Per non parlare degli Usa che nel 2014 dovrebbero essere a quota +2.8%, o la Cina che sta «rallentando» verso il 7.6%.

Nemmeno l’Azzeccagarbugli di Manzoni riuscirebbe a far passare questi dati come una buona notizia per l’Europa. Soprattutto perché ogni 8 abitanti della zona euro c’è un disoccupato. E quella è la media: in Spagna siamo a uno su quattro.

Fa bene Jean-Claude Trichet – anche lui a Villa d’Este – a prendere una posizione opposta a quella del connazionale Stendhal. «Questo non è il momento per compiacersi», ha detto il predecessore di Draghi ad un dibattito organizzato dalla Cnn. «Abbiamo molto lavoro da fare».

La diagnosi è giusta ma la prognosi è riservata. Dopo un triennio di crisi, le soluzioni più facili sono state prese – gli americani le chiamano «low-hanging fruits», i frutti alla base dell’albero. Ora bisogna fare sforzi molto più significativi per salire sui rami più alti.

Mario Draghi non sembra voglia fare la scaletta. Dopo aver utilizzato le politiche monetarie in maniera aggressiva e non ortodossa per mantenere l’euro intatto, gli uomini del presidente della Bce sono ai limiti dei loro poteri. Il presidente sarà anche stato ribattezzato «SuperMario» ma si sta scontrando con una kryptonite di interessi politici contrastanti.

I tedeschi – con un’elezione alle porte e gran parte dell’elettorato d’umore euroscettico – non vogliono che la banca di Francoforte faccia più granché. Per non fare un assist d’oro ai partiti di protesta, Angela Merkel e il resto dell’establishment teutonico devono cancellare l’impressione che la Germania paghera sempre e comunque il conto salato degli errori europei.

I governi di mezza Europa, dal canto loro, non hanno nessuna intenzione di proseguire con l’austerità che la cancelliera vorrebbe come quid pro quo per eventuali aiuti. Con la recessione ancora presente, solo politici masochisti vorrebbero infliggere dolore a corto termine ai propri cittadini nel nome di vaghi benefici a lungo termine.

L’Italia è un caso classico. Le imposte sulle imprese sono al 68% – il più alto tasso unione e 21 punti percentuali più che negli Usa. La pressione fiscale sui lavoratori è altrettanto pesante – 42%, il doppio dell’Inghilterra. Il risultato? Le imprese non assumono, le banche non prestano, i piccoli imprenditori soffrono e l’economia è ancora in recessione. Altri Paesi come la Spagna e il Portogallo sono in simili condizioni penose.

Il contesto non si presta ad un altro giro sulle montagne russe dell’austerità.

Né i politici né la commissione Europa, né la Bce sanno come uscirne e allora fanno l’imitazione del Manzoniano Ferrer. Circondato da una folla irata, il cancelliere spagnolo fa promesse populiste e chiede al cocchiere: «Pedro, adelante con juicio».

Ovvero la paralisi politica che aumenta i costi economici.

Il calendario non aiuta. Tra il ballottaggio tedesco, il voto per il Parlamento europeo – seguito dalla scelta di una nuova Commissione – e, chissà, forse elezioni e anatre zoppe in Italia, il momento ricorda il «Batman» di Clooney – un film d’azione senza tanta azione.

Star fermi, in questo caso, non fa guadagnare tempo, ma lo fa perdere. Prima o poi, le riforme (delle pensioni, della sanità, del settore pubblico, delle tasse etc.) dovranno essere fatte. Decisioni difficili e impopolari, soprattutto da parte della Germania, dovranno essere prese.

Purtroppo, come disse Don Abbondio di se stesso: «Il coraggio uno non se lo può dare».

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.

La Stampa 08.09.13

“Il legno storto che vorremmo raddrizzare”, di Eugenio Scalfari

Il legno con il quale siamo costruiti è storto, lo disse Kant e lo riprese Isaiah Berlin titolandoci un suo libro. Il legno è storto ma guai a tentare di raddrizzarlo perché è impossibile, bisognerebbe cambiare la natura stessa della nostra specie che sta a metà strada tra l’animale che vive di soli istinti e l’uomo animato da istinti ma anche da pensieri.
Di qui, da questa duplice natura di scimmia pensante nascono le nostre contraddizioni, le storture del nostro legno, ineliminabili perché connaturate, nostra disperazione e insieme nostra ricchezza. Le storture connaturate sono ineliminabili, ma spesso impongono una scelta e quindi una sfida perch é ogni scelta comporta una sfida e noi, cittadini di questo mondo gremito di contraddizioni, viviamo a tal punto incalzati dalla necessità di scegliere che sempre più spesso precipitiamo nell’indifferenza, vedendo soltanto il nostro interesse immediato e particolare. Farò qui l’elenco di alcune di queste contraddizioni che ci riguardano da lontano, da vicino e da vicinissimo. Julia Kristeva, intervistata ieri da Franco Marcoaldi, ha ricordato che la radice dalla quale sono germinate negli ultimi due secoli sta nell’Illuminismo e nel suo confronto con la cultura dell’assoluto, il potere assoluto, la verità assoluta, cui l’Illuminismo oppone il soggetto individuale, la verità soggettiva e quindi relativa.
Di qui nascono le contraddizioni moderne, la prima delle quali, che ha dominato l’attualità dei giorni scorsi e di quelli che verranno, sta nel dramma siriano e nei due contrastanti modi di risolverlo.
Ovvero la punizione di Assad per le stragi delle quali è imputato e il pacifismo invocato e promosso da papa Francesco che ha toccato il culmine con la giornata di preghiera e digiuno in cui il capo della cristianità cattolica ha coinvolto le religioni di tutto il mondo e i laici non credenti che non condividono “la guerra che chiama la guerra”.
Papa Francesco non ignora ed anzi censura con la massima severità le stragi di civili e di bambini innocenti, attribuite al regime siriano, addirittura con bombe al gas nervino vietato da convenzioni internazionali, ma esclude, il Papa, che la forza delle armi sia lo strumento idoneo; spera che la pressione del pacifismo da lui promosso induca le parti a cercare un compromesso e che il regime siriano dal canto suo cessi ogni repressione e convochi le parti in contrasto a discutere e a provare il passaggio dalla dittatura tribale ad un regime di libertà e di pacifica convivenza controllato da osservatori internazionali.
Se questa iniziativa avesse successo, le sue ripercussioni potrebbero servire di esempio per altri Paesi del Medio Oriente a cominciare dall’Iran, dall’Egitto, dall’ormai secolare conflitto tra Israele e Palestina, dal Kurdistan, dal Libano.
La visione del Papa è altissima e non utopica, potrebbe funzionare qui e ora, ma deve misurarsi con interessi di potere difficilmente permeabili.
Obama, che sogna anche lui la pacificazione del Medio Oriente e la convivenza pacifica dell’Occidente con l’Islam, ritiene però che per demolire le posizioni di potere tribale e fondamentalistico in Siria sia necessaria una prova di forza. La visione pacifista non è utopica ma è o può essere velleitaria. Perché il pacifismo abbia successo ci vorrebbe una mobilitazione tenace e duratura di tutte le piazze siriane, un rifiuto delle truppe di Assad a sparare sui cittadini dissidenti, un disarmo controllato bilaterale e totale, che lascerebbe però campo libero ai terroristi di Al Qaeda.
Insomma l’iniziativa ‘francescana’ non basta, può contribuire ma va rafforzata da una punizione esemplare.
Quanto all’Onu, essa non autorizza l’operazione di forza perché il veto russo e cinese blocca il Consiglio di sicurezza. Questa è un’altra intollerabile stortura: i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza non rappresentano più il mondo di oggi e si sono collocati al di sopra di ogni principio democratico. In un organo mondiale dove l’Europa, l’India, il Brasile, l’Africa non sono rappresentati e il diritto di veto supera ogni maggioranza alternativa, la stortura è evidente.
Come si vede, queste diverse posizioni sono molto difficilmente conciliabili. «Tra un giorno, una settimana, un mese» vedremo col fiato in gola che cosa accadrà. Se debbo esprimere un’opinione personale dico: non sono affatto indifferente, mi sento coinvolto nel dilemma, temo una guerra che chiama la guerra, ma credo anche che l’incolumità e i diritti dei cittadini siriani vadano difesi. Conclusione: non so scegliere tra Francesco e Obama.
***
Il tema siriano è al tempo stesso lontano e vicino, ma ce n’è un altro che è vicinissimo, è in casa nostra anche se le sue ripercussioni possono estendersi a tutta l’Europa.
Si chiama Berlusconi, la sua condanna, il suo partito, il governo Letta, il Partito democratico, il Movimento 5Stelle, la magistratura, il capo dello Stato. Insomma l’Italia e le sorti della democrazia italiana la cui fragilità sta attraversando una delle fasi più inquietanti della sua tormentata storia.
Se Berlusconi seguisse il consiglio che alcuni dei suoi collaboratori e familiari gli hanno dato e gli danno, dovrebbe dimettersi da senatore.
Guadagnerebbe un merito, agirebbe per il bene di un Paese che lui ha amato soltanto perché un vasto settore di opinione pubblica lo ha appoggiato e ancora l’appoggia da quasi vent’anni.
Le dimissioni da senatore e l’accettazione della condanna, l’abbandono della vita politica sarebbero il primo e solo merito, tutti gli altri vantati da lui e dai suoi fedeli sono assolute bugie. Questo però sarebbe un merito notevole e denso di conseguenze positive: renderebbe necessaria la costruzione di una destra moderata e liberale rafforzando la democrazia; assicurerebbe il percorso del governo per il tempo necessario per l’adempimento del compito ricevuto a suo tempo dal capo dello Stato che l’ha nominato e dal Parlamento che l’ha fiduciato.
Penso, ma ovviamente esprimo anche in questo caso un’opinione personale, che se a quel punto e nelle forme dovute chiedesse un provvedimento di clemenza, forse l’otterrebbe. Temo però che le cose non andranno in questo modo. Temo che i suoi legulei tentino di sollevare un processo di revisione della sentenza della Cassazione interpellando la Corte d’appello di Brescia.
Per guadagnare tempo, giorni o settimane o mesi qualora il ricorso fosse accettato.
C’è poi la tentazione della sinistra movimentista e para-grillina di buttar giù il governo e andare alle elezioni.
Perfino, come vorrebbe Grillo, col “Porcellum”.
Tentazione molto pericolosa, che troverebbe però, come da lui più volte dichiarato, l’opposizione di Napolitano che non scioglierà mai le Camere se il “Porcellum” non sarà abolito e non prima comunque che sia approvata la legge finanziaria. Cioè non prima del febbraiomarzo 2014.
Se questo fosse l’esito, la “tentazione movimentista” avrebbe come risultato quello di riprecipitare l’Italia nel girone dei dannati, dei sorvegliati speciali, dei peccatori congeniti. Ho apprezzato i nobili intenti espressi dall’amico Vittorio Sermonti nella lettera aperta dai noi pubblicata, ma vedo anche lì una mancanza di realismo estremamente pericolosa. Se Berlusconi riuscisse a non andare in galera, dobbiamo rispondere nei prossimi giorni buttando giù il governo Letta. Questa è la tesi di Sermonti, che mi consentirà però di ricordare le vicende di Abelardo ed Eloisa che immagino lui conosca benissimo.
Questo discorso, inutile dirlo, vale anche per il Partito democratico nelle sue varie componenti, correnti, fazioni.
Il Congresso va certamente fatto, ma la questione preliminare è se l’appoggio al governo Letta si limiti a “qualche cosuccia” cui deve provvedere nel giro di pochi mesi, oppure alla durata almeno fino al semestre europeo con presidenza italiana, cioè il tempo minimo per la realizzazione degli obiettivi che gli sono stati affidati.
Se il Congresso non risolverà preliminarmente questo problema, sarà certo importante per ricostruire l’identità d’un partito ancora molto ammaccato e scegliere un leader che la impersoni nel quadro d’una nuova ed efficiente struttura organizzativa, ma affiderà al prescelto una cambiale in bianco su un tema che condiziona la posizione internazionale, sociale ed economica del Paese. Non mi sembra il momento delle cambiali in bianco quando si percorre un sentiero accidentato che attraversa precipizi nei quali si pu ò cadere. Ci pensino bene le componenti, le correnti, le fazioni del Pd e chi le rappresenta. La scelta che sono chiamati a fare li rende corresponsabili di cambiali in bianco rilasciate senza aver chiarito la questione preliminare ed essenziale.
***
C’è un’ultima contraddizione, attuale ma storica perché vecchia di secoli: come mai gran parte degli italiani è politicamente indifferente e perché un quarto almeno dei non indifferenti vota da vent’anni per Berlusconi? La risposta l’abbiamo data già molte volte ma è bene ripeterla in un Paese di corta memoria: indifferenti o berlusconiani o grillini, odiano lo Stato, le istituzioni, la politica. Per secoli hanno visto la loro terra governata da Stati stranieri e tirannici, Signorie, altrettanto tiranniche, una borghesia inesistente, una cultura ristretta a ceti privilegiati, un’economia di rapina.
Di qui il ritrarsi nel proprio interesse particolare, il disprezzo dell’interesse pubblico, la fragilità d’ogni tentativo di modernizzazione affidato ad élite presto trasformatisi in caste.
Questa è stata la storia del Paese e di questa paghiamo il prezzo, sperando in una svolta che ci consenta di uscirne.
Talvolta queste svolte ci sono state, ma sono durate poco e il vecchio andazzo è ricominciato. Speriamo che il buon momento stia arrivando anche se i presagi sono ancora tempesta.

La Repubblica 08.09.13

Epifani: «Tutti uguali davanti alla legge»

Nella sala «Sandro Pertini», manifestazione di chiusura della Festa Democratica nazionale di Genova. Il segretario nazionale del PD, Guglielmo Epifani intervistato da Lucia Annunziata.
BERLUSCONI, EPIFANI: STA A LUI DECIDERE, IN TEMPI NON INFINITI
Tocca a Silvio Berlusconi e al Pdl decidere se confermare o no la fiducia al governo e la scelta non può essere fatta in «tempi infiniti». Lo ha detto il segretario democratico Guglielmo Epifani parlando alla festa di Genova: «Lo dico con rispetto, si avvicina il tempo in cui sarà Silvio Berlusconi e il Pdl a dovere decidere una volta per tutte di fronte a questa vicenda che cosa intende fare e quale risposta chiaramente intende assumere di fronte all’opinione pubblica e a tutto il paese». Quando gli viene chiesto cosa dovrebbe fare Berlusconi «Naturalmente ho una mia idea, ma non so se dicendola aiuto o non aiuto. Mi limito a dire che credo tocchi a lui e al Pdl decidere e trovo giusto che questa scelta la possano prendere in tempi che non sono infiniti».

EPIFANI: LAVOREREMO PER TEMPI GIUSTI MA NO DILAZIONI
Il Pd agirà in modo che la Giunta per le elezioni decida nei tempi giusti su Silvio Berlusconi, in modo da rispettare le garanzie di ogni stato di diritto, ma evitando un «allungamento» indebito dei tempi. Lo ha detto il segretario democratico Guglielmo Epifani parlando alla festa Pd a Genova: «La giunta è una sede formale paragiurisdizionale, si esamineranno tutte le questioni E nel tempo dovuto e giusto si deciderà». «Noi – ha precisato – non vogliamo apparire come coloro che fanno uso politico della giustizia, ma anche il tempo necessario non può essere tempo che si allunga per questioni che non attengono a questioni di correttezza. Questo credo sarà l’orientamento che prenderanno i membri della giunta del nostro partito e tutti coloro che condividono questa idea dello stato di diritto».

EPIFANI: DIFENDEREMO LO STATO DI DIRITTO
Il Pd difenderà lo stato di diritto, nel valutare la decadenza di Silvio Berlusconi. Lo ha detto il segretario Pd Guglielmo Epifani parlando alla festa di Genova: «Ce la faremo a difendere lo stato di diritto ed il principio in base al quale tutti siamo uguali di fronte alla legge».

EPIFANI AL PAPA: CI SIAMO PER INTERO
SENZA PACE NON C’È GIUSTIZIA
«Noi ci siamo per intero e in tutto. Senza pace non c’è giustizia, non c’è sicurezza e non c’è vera libertà». Lo ha detto il segretario Pd Guglielmo Epifani, nel suo intervento conclusivo della festa del partito a Genova, parlando dell’iniziativa lanciata da Papa Francesco.

EPIFANI: DEPUTATI SU TETTO? SIETE NELLE ISTITUZIONI…
Chi fa il parlamentare rappresenta le istituzioni e non dovrebbe fare gesti come quello dei grillini sul tetto della Camera. Lo ha detto il segretario democratico Guglielmo Epifani, intervistato da Lucia Annunziata a Genova: »Oggi i parlamentari M5S erano sul tetto della camera, come fanno gli operaio per protestare. C’è un piccolo problema, che gli operai vanno sul tetto per richiamare l’attenzione delle istituzioni, chi stava sul tetto rappresenta le istituzioni«.

EPIFANI: NON HO SENTITO GRILLO SU ATTACCHI A KYENGE…
Da Beppe Grillo non è arrivata nessuna parola di solidarietà per il ministro Cecile Kyenge. Lo ha detto il segretari Pd Guglielmo Epifani, parlando alla festa di Genova: «Non ho visto ancora oggi una frase di Grillo su minacce a Cecile Kyenge. Sono cose che segnano grande differenza».

EPIFANI: PAGHIAMO IL COMPROMESSO SU IMU MA NON 20MILA
Il Pd ha già accettato il compromesso sull’Imu e ora chiede che il governo accolga le sue richieste su economia e temi sociali. Lo ha detto il segretario democratico Guglielmo Epifani intervistato da Lucia Annunziata alla festa del Pd a Genova: «Un compromesso lo paghiamo (l’Imu, ndr)… ma uno, non ventimila. Un compromesso verso le posizioni degli altri è giusto averlo ma a condizione che il resto delle scelte vada nella direzione giusta verso chi ne ha bisogno: le imprese, i lavoratori, il sociale». Non è accettabile che si dica che «non ci sono più risorse per chi è in stato di necessità perché sono state date a chi non ne aveva bisogno per non pagare la rata dell’Imu».

EPIFANI: SEGRETARIO NON AUTOMATICAMENTE CANDIDATO PREMIER
Guglielmo Epifani insiste, qualche modifica allo statuto Pd va apportata, innanzitutto per evitare che il segretario sia automaticamente candidato premier. Intervistato da Lucia Annunziata alla festa di Genova ha spiegato: «Io penso che dovremo avere un candidato che può essere candidato alle primarie per il candidato premier, ma senza automatismi. Non lo dico per indebolire la figura del segretario, ma abbiamo uno strumento in più se ci diamo una flessibilità in più». Inoltre, «è bene che si parta dal basso», ovvero con i congressi locali.

www.partitodemocratico.it

“Atenei e classifiche, il gioco inutile”, di Marino Regini*

Immaginiamo per un momento che gli inglesi, quando hanno reinventato il gioco del calcio, non avessero stabilito che una squadra può vincere, perdere o pareggiare in base alla differenza reti. In fondo lo scopo del calcio era far divertire gli spettatori, e quindi avrebbero potuto accontentarsi del fatto che le squadre giocassero bene. Facile però immaginare che dopo un pò i tifosi avrebbero detto che la propria giocava meglio delle altre, e quindi sarebbero nate le classifiche. Ma senza criteri universalmente accettati (come la differenza reti) ognuno avrebbe proposto classifiche diverse. Ad esempio, perché non basarsi per il 50 per cento sul possesso palla e per il resto sui calci d’angolo battuti? Ma altri avrebbero detto che solo gli esperti di calcio sanno quanto valgono le varie squadre, quindi meglio basarsi per il 50 per cento sulla loro opinione. E altri ancora avrebbero sostenuto che bisogna basarsi invece sul numero di palloni d’oro o di altri premi vinti dai giocatori delle varie squadre.
Ecco, questo è ciò che succede con i ranking internazionali delle università (e peggio ancora con le classifiche nazionali). Quello di Qs, i cui risultati verranno presentati il 10 settembre, si basa per il 50 per cento sull’opinione di accademici e datori di lavoro (l’equivalente degli esperti di calcio) e per il resto su criteri disparati, quali il rapporto numerico fra docenti e studenti, la percentuale di stranieri, eccetera. Quello di Shanghai, che ha presentato i suoi risultati a metà agosto, utilizza indicatori ancora più arbitrari, quali il numero di docenti o ex allievi che hanno vinto un premio Nobel (l’equivalente del pallone d’oro) o il numero di articoli pubblicati su Nature o Science. Il ranking del Times, invece, si basa soprattutto sulla quantità di ricerca svolta dai docenti e sulle entrate e la reputazione che ne derivano all’ateneo. Non c’è da stupirsi se i risultati presentati da ciascuna classifica sono molto differenti fra loro. Ma soprattutto, che senso ha mettere insieme criteri così eterogenei, basati su indicatori così discutibili, a ciascuno dei quali viene attribuito un peso del tutto arbitrario? Nessuno, se non il fatto che purtroppo sia il grande pubblico, sia i decisori politici non chiedono analisi accurate di pregi e difetti di ciascun ateneo, ma una classifica semplice che, come nel campionato di calcio, dica solo chi vince e chi perde.
Il punto è però che, a differenza delle squadre di calcio, le università non sono nate per giocare l’una contro l’altra e vincere un campionato. Sono nate invece per svolgere molte funzioni diverse: formare il «capitale umano» necessario allo sviluppo di un Paese, trasmettere il patrimonio culturale, produrre nuova conoscenza mediante la ricerca, aiutare lo sviluppo del loro territorio. Possono svolgerle bene o male, e per questo è giusto valutarle — e quindi premiarle o penalizzarle — su ciascuna di queste funzioni tenendo conto degli obiettivi che si sono date, delle risorse che hanno a disposizione, del contesto in cui operano. Ma non ha alcun senso dire chi sta in cima e chi sta in fondo a un’immaginaria classifica complessiva che mette insieme tutte queste funzioni differenti, misurandole per di più con un metro arbitrario.
Perciò, quando si leggono le classifiche di un «campionato internazionale di università», è bene ricordare che questo campionato non esiste. E che, se esistesse, sarebbe formato da squadre con tanti obiettivi diversi, non riconducibili semplicemente a vincere delle partite. E infine che, chi invece cerca di creare artificialmente un campionato formato da squadre che vincono o perdono, si scontra comunque con il problema che non esistono criteri condivisi per stabilire a chi assegnare la vittoria. La valutazione degli atenei, se condotta in modo rigoroso, è uno strumento di conoscenza utile e necessario. Le classifiche sono invece un gioco futile, che rappresenta un affare per chi lo guida ma un possibile danno per le università. Perché dal desiderio di vincere un campionato inesistente, queste sono spinte a uniformare le proprie caratteristiche a quelle che vengono premiate, anche se non sono le più importanti rispetto ai loro obiettivi specifici.
* Ordinario Università
Statale di Milano

Corriere della Sera 06.09.13

“Tasse più alte sull’alcol per i fondi all’istruzione”, di Lorenzo Salvia

La tassa sul vizio o il vizio delle tasse? In attesa di trovare una risposta, l’elenco di quello che gli americani chiamano soft paternalism, paternalismo moderato, si allunga anche da noi. L’ultima idea, almeno per il momento, è quella di aumentare le accise sull’alcol per trovare i soldi da mettere nel decreto per la scuola che il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare lunedì. Il governo è diviso tra favorevoli e contrari. Non si sa ancora se gli euro necessari verranno proprio da birra e liquori, lasciando stare il vino perché va bene il paternalism, ma siamo pur sempre il primo produttore al mondo. In ogni caso la proposta è sul tavolo. A dimostrazione che quando lo Stato va a caccia di nuove entrate, c’è sempre più spesso la tentazione di spostare il mirino dal contribuente semplice al contribuente vizioso. Alcol, sigarette, slot machine: una battaglia per la salute pubblica, certo. Ma anche un modo per far cassa subito, e senza troppe proteste, in un momento di ristrettezze.
Le sigarette elettroniche hanno resistito a vari assalti. Ma alla fine hanno ceduto pure loro: dal primo gennaio scatterà quell’addizionale del 58,5% che secondo i produttori ucciderà un settore che aveva appena conosciuto il suo boom. In pratica è un inseguimento. Dopo aver aumentato per anni le accise sui tabacchi, lo Stato stava incassando meno proprio perché molti fumatori erano emigrati in massa verso la nicotina elettronica, sostanzialmente tax free. Da gennaio il fisco riacciufferà anche quel milione e mezzo di convertiti, e magari qualcuno di loro tornerà al tabacco tradizionale. Stato etico, e in qualche caso dietetico. Il governo Monti aveva pensato a una tassa sulle bibite gassate, come già fatto in Francia e in alcuni Stati degli Usa, dall’Arkansas alla Virginia. E sul modello delle cosiddette fat tax, le tasse sui ciccioni, che vanno dall’imposta sulle patatine in Ungheria a quella sui dolci in Finlandia. Non è solo il frutto della fantasia di chi deve far quadrare i conti pubblici, operazione sempre più difficile in tempo di crisi. Ma una vera e propria moda internazionale. Tutti i governi del mondo sanno che aumentare le tasse non è mai popolare. Ma sanno anche che l’operazione può essere un po’ meno impopolare se ci si concentra su quei comportamenti che, a torto o a ragione, vengono considerati vizi. Con buona pace dei tecnici e delle loro obiezioni: la tassa sui vizi non è equa né verticalmente, perché pesa più sui poveri che sui ricchi, né orizzontalmente, perché discrimina alcuni prodotti.
Stesso discorso per i giochi e le scommesse, un filone d’oro non solo per le aziende del ramo ma anche per le casse pubbliche. E vero bancomat usato per finanziare gli interventi di soccorso di ogni sciagura nazionale. Di un aumento delle tasse a loro carico si era parlato anche per compensare la cancellazione della prima rata dell’ Imu. Poi è finita in un altro modo, con l’accordo sulle vecchie multe che fa scendere da 2,5 miliardi a 620 milioni di euro la somma che devono pagare le società che gestivano le slot. Ma il settore resta osservato speciale, nel mirino ogni volta che si devono trovare le famose coperture. In fondo anche il più innocente dei vizi è stato tartassato. La stangata arriverà persino sulla pausa caffè, quella da Fantozzi, con i colleghi d’ufficio davanti alla macchinetta nel corridoio. Da gennaio l’Iva sui distributori automatici passerà dal 4 al 10%. E il vizio meno innocente? Anche se a lungo inapplicata, la porno tax esiste in Italia dal 2002. Riguarda film e video con «scene contenenti atti sessuali espliciti e non simulati». La pagano i produttori, il consumo per il momento resta esentasse. Anzi no. Era il 1997 quando venne alzata dal 10 al 20% l’Iva sulle riviste pornografiche. Non bastò la protesta del Codacons: «Basta. È’ una vera e propria tassa sulla masturbazione».

Il Corriere della Sera 07.09.13

“Sindacati, lo scontento cresce: la mobilitazione è dietro l’angolo”, di Alessandro Giuliani

I leader di Flc Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola, Snals e Gilda si sono incontrati per fare il punto sui tanti disagi per i lavoratori del settore. Tante urgenze: dal prolungamento del blocco del contratto all’imminente approvazione di un decreto sulla scuola ritenuto poco incisivo sulle problematiche che contano. Come il nuovo piano di assunzioni, la stabilizzazione dei precari, l’immissione in ruolo degli Ata per il 2013, la tutela dei diritti, le questioni inidonei e Quota 96, la valorizzazione della professionalità. Ma poiché il D.L. conterrà solo un piccola parte di tutto ciò, appare inevitabile che le proteste si spostino in piazza.
Sul fronte della scuola l’impressione è che si stia procedendo davvero verso un autunno “caldo”. Con i sindacati più rappresentativi che prima ancora di leggere i contenuti del decreto legge sul comparto in approvazione, fissato per il 9 settembre in Consiglio dei ministri, già ipotizzano una mobilitazione dei lavoratori da attuare a partire dal mese di ottobre. Un’azione che, tra l’altro, potrebbe unirsi alle proteste spontanee di questi giorni. Ma anche ai presidi sostenuti dai Cobas, soprattutto per tenere alta l’attenzione su inidonei e Quota96.
Le motivazioni perché ciò avvenga sono diverse. La prima è nella “doccia fredda”, arrivata a cavallo di Ferragosto, sul blocco stipendiale: mentre, infatti, gli stessi sindacati della scuola continuavano la loro opera di mediazione per recuperare gli scatti di anzianità del personale del triennio 2010-2012, che vale la pena ricordare rappresenta anche l’unica forma di carriera possibile per il 90 per cento di docenti e Ata, il Governo pensava bene di prorogare di un ulteriore anno lo stop al rinnovo contrattuale. La decisione è stata mal digerita da tutti i rappresentanti dei lavoratori, tanto da ricompattarsi (almeno su questo argomento) dopo un lungo periodo di dissidi (soprattutto tra Cgil e Cisl).
Fatto sta che il 6 settembre i leader dei sindacati Flc Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola, Snals e Gilda si sono riuniti a Roma. E al termine dell’incontro hanno espresso un netto dissenso proprio rispetto ai provvedimenti che bloccano il rinnovo dei contratti e gli scatti di anzianità: secondo quanto riportato, attraverso un documento unitario, hanno tenuto a precisare che lo stop all’adeguamento degli stipendi rappresenta “di fatto un’intollerabile doppia penalizzazione per i lavoratori del comparto”. La contrarietà verso l’operato del Governo è alta: “non c’è inoltre alcuna disponibilità – affermano Domenico Pantaleo, Francesco Scrima, Massimo Di Menna, Marco Paolo Nigi e Rino Di Meglio – all’ipotesi ventilata dal Governo di un negoziato per il rinnovo contrattuale che riguardi la sola parte normativa; è infatti possibile negoziare anche la parte economica, tenendo conto delle condizioni finanziarie previste per il 2014, considerando che il contratto è triennale”.
I sindacalisti tengono poi a sottolineare che “ridare centralità alla contrattazione nazionale, sia sulla parte economica che normativa, contribuirebbe a rasserenare un clima pervaso da tempo da forti tensioni, valorizzando il protagonismo e la professionalità del personale con un contratto di lavoro di segno innovativo”.
La richiesta dei sindacati è allora quella di una convocazione in tempi rapidi da parte del Governo: se ad ottobre, quando si svolgerà un’assemblea nazionale, alla quale prenderanno parte congiuntamente gli organismi nazionali dei sindacati scuola, non dovessero esservi delle novità positive, sarà praticamente inevitabile “l’avvio di eventuali iniziative sindacali di mobilitazione”.
A far tornare i sindacati sui loro passi potrebbe essere l’approvazione di un soddisfacente decreto sulla scuola. Ma anche questo “binario” sembra che non porti da nessuna parte: Flc Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola, Snals e Gilda chiedono infatti di “rafforzare e assicurare stabilità agli organici e al rapporto di lavoro attraverso un nuovo piano triennale, la stabilizzazione dei precari, l’immissione in ruolo del personale Ata, la tutela dei diritti, questione inidonei e quota 96, il sostegno e valorizzazione della professionalità, tutti elementi necessari per rafforzare la qualità del nostro sistema di istruzione”. A quanto ci risulta, saranno pochi i punti auspicati che il dl dovrebbe contenere.
In ogni caso, “subito dopo l’approvazione del decreto, i segretari generali ritengono necessario un incontro con il ministro nel quale affrontare tutte le questioni aperte, e tra queste la certificazione da parte dei ministeri dell’Istruzione e dell’Economia delle risorse da destinare al pagamento, per il terzo anno, degli scatti di anzianità”.
L’impressione è che le richieste fatte dai sindacati (seppure plausibili) siano troppo ambiziose per le possibilità del Governo. Per questo, probabilmente, la mobilitazione diventerà presto più di una minaccia.

La Tecnica della Scuola 07.09.13