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“Donne e lavoro per la crescita”, Silvia Bernardi

Ismey ha 35 anni, si è diplomata alla scuola internazionale di recitazione, guadagna 26mila euro all’anno come impiegata commerciale in un ufficio di Reykjavík dove l’affitto di una casa costa 700 euro al mese. Il suo Paese è al primo posto nella classifica del Global gender gap (differenza di genere) pubblicata dal World economic forum che confronta ruoli e stipendi maschili e femminili in 135 Paesi. In Islanda, negli ultimi cinquant’anni, ci sono state diciannove donne a capo del governo, con una percentuale di quote rosa in Parlamento del 40%; un ministero su due ha una guida femminile, lavora l’81% delle donne che, tra i professionisti, sono la maggioranza. Maria ha 29 anni, fa la cameriera a Cuba (al 19° posto della classifica) dove non si paga l’affitto per la casa ma un litro di latte costa 2 euro. Guadagna 8 euro in pesos convertibili e altrettanti in pesos non convertibili. Sull’isola il 35% dell’Assemblea Nazionale è in rosa e le donne che lavorano sono più del 50 per cento. Scorrendo la classifica bisogna scendere parecchio per trovare l’Italia, all’80° posto, più in basso del Ghana e del Bangladesh. Nel Belpaese nessuna donna è mai stata capo del Governo, le donne in Parlamento nelle ultime legislazioni non hanno superato il 22% e nel 2011, a parità di incarico, lo stipendio femminile è stato in media del 28,3% inferiore a quello maschile, con tasso di occupazione del 47 per cento. Se si raggiungesse il traguardo di Lisbona, un’occupazione femminile al 60%, il Prodotto interno lordo aumenterebbe del 7 per cento. Confartigianato e Bankitalia confermano che se si passasse dall’attuale occupazione femminile alla media dell’area Euro (58%), si produrrebbe un incremento della ricchezza nazionale pari a quella che abbiamo faticosamente accumulato in 12 anni.
Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, nel presentare il World’s Women 2010, la raccolta di dati più completa che documenta i progressi della condizione femminile in tutto il mondo ogni cinque anni, ha rilevato un generale miglioramento delle condizioni della donna nel mondo, a partire dall’aumento dei tassi di scolarizzazione, della salute e della partecipazione economica, ma al tempo stesso ha affermato che resta ancora molto da fare «in particolare per colmare il divario tra uomini e donne nella partecipazione alla vita pubblica e per combattere le molte forme di violenza a cui sono sottoposte».
Il binomio donna-lavoro è al centro di importanti riflessioni internazionali e sarà il tema di Women in Business and Society, la prima conferenza organizzata in Italia da Deutsche Bank in partnership con Eni nell’ambito del ciclo di conferenze internazionali “Women in Business”. Il 17 settembre, al Piccolo Teatro Strehler di Milano (ore 15), sette donne leader nei loro settori affronteranno il tema dello sviluppo sostenibile quale nuovo motore di crescita. Leymah Gbowee, Premio Nobel per la Pace nel 2011 e direttore dell’associazione Donne per la Pace e la Sicurezza in Africa, porterà la testimonianza del suo impegno speso a favore della partecipazione delle donne nei processi di democratizzazione. Esperanca Bias, ministro delle Risorse minerarie del Mozambico, parlerà della crescita del suo Paese, ponendo l’accento sullo sviluppo del sistema energetico e sulle partnership pubblico-private.
La prima conferenza di «Women in Business» si è tenuta a New York nel 1995, da allora è diventata un appuntamento molto atteso che si è diffuso in tutto il mondo passando da Francoforte, Londra, Singapore, Sydney, arrivando ora per la prima volta in Italia, a Milano. La logica di queste conferenze è arricchire il dibattito internazionale attraverso il punto di vista e l’esperienza diretta di donne che ne sono protagoniste, anche tramite il confronto con una prospettiva maschile. Le importanti figure femminili, chiamate a dare la loro testimonianza, «non parlano di donne tra donne» ma si confrontano su temi economici di grande attualità, portando la specificità e la ricchezza della diversità. Nel primo appuntamento italiano, Eni ha aggiunto a questo taglio particolarmente innovativo un altro tipo di prospettiva e di diversità, ovvero quella del continente africano, chiamato a raccontare le dinamiche della propria crescita, a cui un’Europa in fase di ripiegamento dovrebbe guardare. L’invito di «Women in Business» all’Europa è quello di ascoltare non solo la voce delle donne ma anche le «lezioni di vita» che le arrivano dall’Africa (e dalle donne africane in particolare), abbandonando l’immagine stereotipata di un continente solo destinatario di aiuti umanitari. All’intervento delle due ospiti internazionali seguirà quello dell’amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, che metterà in evidenza come il continente africano giovane e dinamico, pur avendo ancora al suo interno forti contraddizioni soprattutto in termini di violenza e difficoltà di accesso anche a beni di prima necessità, presenti elementi distintivi, compreso il ruolo delle donne, che determinano un tasso di crescita addirittura superiore a quello europeo.
La media delle donne elette nei parlamenti dell’Africa Sub-sahariana è del 22% (il Ruanda sfiora il 60%); gli Stati Uniti, la Francia, il Giappone sono al 19. Sedici Paesi africani hanno più parlamentari donne della Gran Bretagna, l’icona di questa rivoluzione gentile è Ellen Johnson Sirleaf, diventata, nel 2005, la prima presidente donna della Liberia. È anche grazie a queste women in business che la Banca Mondiale ha affermato che l’Africa sta per decollare, come capitò alla Cina 25 anni fa e all’India 15 anni fa.
Il dibattito milanese proseguirà quindi con un panel di ospiti tutte italiane che vede interrogarsi sullo sviluppo sostenibile in Europa, Ilaria Capua – direttore, Dipartimento di Scienze biomediche Izsve; Suor Giuliana Galli – membro del Consiglio Generale, Compagnia di San Paolo; Lucrezia Reichlin – direttore, Dipartimento di Economia London Business School; Paola Severino – professore di Diritto penale, già ministro della Giustizia; Veronica Squinzi – responsabile Internazionalizzazione e Sviluppo, Gruppo Mapei. Chiuderà i lavori moderati da Monica Maggioni, direttore di Rai News 24, Flavio Valeri, amministratore delegato, Deutsche Bank Italia.
«È fondamentale promuovere dibattiti e iniziative che favoriscano ambienti sociali ed economici che assicurino parità di trattamento tra donne e uomini», ha detto il Sottosegretario delle Nazioni Unite per gli Affari Economici e Sociali, Sha Zukang, nella prefazione al rapporto World’s Women.
L’obiettivo di Women in business è quindi quello di «superare i confini» come dice anche il titolo della conferenza: l’uguaglianza di genere, la parità nella partecipazione economica, il superamento del divario tra uomo e donna ma anche la promozione di azioni di sviluppo sostenibile e di collaborazione fattiva tra settori privati e società civile per favorire processi di crescita sono tra i doveri più importanti di una società che pensa al futuro.

Il SOle 24 Ore 09.09.13

“Se la grande industria diventa piccola”, di Maurizio Ricci

C’era una volta la grande industria. Oggi, il destino della Fiat rimane una scommessa. L’Ilva è piena asfissia. L’Alcoa se ne è andata. La Finmeccanica traballa. L’Indesit è mezza andata all’estero. L’Alitalia affonda. Auto, siderurgia, chimica, farmaceutica, elettronica sono tutti settori in cui, sul mercato mondiale, l’Italia occupa ormai una posizione marginale, relegata a primeggiare solo in alcune nicchie (come la Ferrari e le auto di superlusso). La ripresa, quando arriverà, sarà ancora fatta di industria e esportazioni, ma partirà da molto più in basso, dallo spolverìo di aziende medie, piccole e, soprattutto, piccolissime, che sono la struttura portante della nostra economia: la media degli addetti, nelle industrie italiane, è dieci. Chi ritiene che questo predominio delle microaziende sia una zavorra, che renderà la ripresa meno solida e robusta deve registrare che il “nanismo” delle aziende italiane non si sta riducendo, ma sta aumentando. Nella crisi, la grande impresa è affondata a velocità doppia, rispetto all’insieme delle industrie. L’economia che ripartirà rischia di aggirarla e lasciarla indietro, chiamando in causa il modello di sviluppo a cui affidare il paese. Secondo i calcoli — su dati Inps — del Registro Imprese delle Camere di Commercio, nel giugno scorso le imprese italiane con più di 500 dipendenti erano, in tutto, 1.585. In un solo anno, il totale è sceso — o perché hanno chiuso o perché hanno ridotto i dipendenti sotto la soglia di 500.La metà — oltre 60 — sono state perse nell’industria (edilizia esclusa), dove ne risultano oggi solo 522: di fatto, più di un’azienda su dieci, negli ultimi dodici mesi, ha smesso di essere una grande industria, o perché non c’è più, o perché non è più grande. Naturalmente, la soglia di 500 dipendenti è una pura convenzione statistica: se la media degli addetti, nel totale dell’industria italiana è dieci, nel caso delle grandi imprese la media, riferisce l’Istat, è quasi 1.500. Tuttavia, anche se si scende di dimensione, alle aziende oltre i 250 dipendenti — quelle med io-grandi che, in altri paesi, sono il nerbo dell’economia — i risultati non sono troppo diversi. Le industrie con più di 250 addetti, riferisce l’Istat, erano 1.534 nel 2003. Dieci anni dopo erano scese a 1.466. Il totale di tutti i settori, però, è in aumento. Vuol dire che l’Italia sta seguendo la via dell’Inghilterra dove, dalla Thatcher in poi, le fabbriche chiudono e si moltiplicano gli agenti di borsa? Niente affatto. Il terziario avanzato (informazione, comunicazioni, finanza, assicurazioni), negli stessi dieci anni, ha visto ridursi le sue aziende medio-grandi da 1.316 a 1.254. Quello che è aumentato è il terziario tradizionale: commercio, turismo, trasporti. Qui, le aziende con più di 250 dipendenti sono raddoppiate, arrivando a sfiorare il migliaio.
Rimpiccioliscono le fabbriche e proliferano i supermercati. La crisi, d’altra parte, ha falciato selvaggiamente i settori in cui la grande industria italiana è, storicamente, più forte. La produzione di auto è crollata del 45 per cento, quella tessile del 35, frigoriferi e lavatrici del 50-60 per cento. Poiché un operaio su cinque, in Italia, lavora in una grande impresa, gli effetti sull’occupazione sono stati pesanti. Se la crisi ha esacerbato la stretta, tuttavia, lo sfarinamento della grande impresa era iniziato già prima. Lo dicono i dati Istat sull’occupazione. Sono dati che escludono dagli addetti i cassintegrati: chiamiamola l’occupazione sostenibile. Nel 2000, gli addetti alle grandi imprese manifatturiere erano 735 mila. Nel 2005 erano scesi a 669 mila. Nel 2010 erano precipitati a 602 mila. E oggi?
Elaborando i dati Istat, si può stimare quanto è accaduto in questi anni, almeno per il complesso dell’industria (edilizia compresa). Fra il gennaio 2005 e il dicembre 2012, la grande industria ha perso un addetto su sei, oltre il 15 per cento, mentre l’insieme delle imprese industriali non è andato oltre il 7 per cento. I dipendenti delle grandi imprese sono, insomma, quelli che hanno subito i contraccolpi più pesanti della crisi, ma, in realtà, i dati mostrano che lo sfarinamento delle grandi fabbriche era iniziato già prima. Fra l’inizio del 2005 e la fine del 2012, le grandi industrie hanno perso circa 120 mila dipendenti. Ma più di metà era già uscito dalla fabbrica prima dell’inizio del 2009, prima, cioè, che esplodesse la recessione.
L’Italia resta tuttora la seconda potenza manifatturiera d’Europa, dopo la Germania, ma si potrebbe quasi dire che non è un paese per grandi, almeno in materia di industrie. Per molti economisti è un grave handicap. Ai politici, le grandi fabbriche piacciono perché consentono, con un solo scenografico taglio di nastro, di creare duemila posti di lavoro e altrettanti nell’indotto di servizi e forniture, quando, per avere lo stesso risultato ci vorrebbero
400 piccole imprese. Ma la grande industria non è soltanto, quando c’è, un moltiplicatore più rapido di occupazione. Dipende meno dalle banche e, dunque, dal ciclo del credito bancario, quello che, oggi, sta inasprendo la recessione italiana. E’ in grado di mantenere una rete di assistenza e supporto ai propri clienti che, nel mondo globalizzato, è sempre più un valore aggiunto. Soprattutto, dedica assai più energie e investimenti — dicono i dati — alla ricerca e sviluppo, a caccia di quell’innovazione che, oggi, è la leva dello sviluppo. Dobbiamo dunque attendere il ritorno della grande industria? Difficile che si materializzi. I grandi industriali italiani, oggi, pensano soprattutto di trasferirsi all’estero e i grandi industriali esteri pensano assai poco all’Italia. Le multinazionali sono convinte che i mercati europei abbiano poco da dare e concentrano gli investimenti nei paesi emergenti dove si aspettano l’esplosione della domanda.
Il risultato è che, quando partirà la ripresa, bisognerà cercare di cavalcarla in modo diverso dal passato. Inventarsi un nuovo modello di sviluppo non sarà facile, ma, forse, il problema più che dimensioni aziendali è di settori. Uscire dal tradizionale recinto di auto, mobili, moda, agroalimentare per premere sul pedale delle novità che, anche in Italia, ci sono. A cominciare dal mondo digitale, che vive e prolifera intorno al web. Non è più una realtà residuale. Una ricerca di Assintel, l’associazione del settore, stima in 54 miliardi di euro il contributo che le aziende digitali danno all’economia nazionale: è quasi il 4 per cento del Pil. E una cifra non distante da quanto producono i grandi settori tradizionali. E, mentre la grande industria implodeva, le aziende web fiorivano: ce ne sono ormai 173 mila, per un totale di 900 mila addetti. Se non si guarda troppo per il sottile alle distinzioni fra tempo pieno, part time, collaboratori, 900 mila è una volta e mezza il numero degli addetti della grande
industria manifatturiera.

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“Campanili, clan e politica l’Italia è da sempre allergica ai grandi gruppi”, di Gad Lerner

Bisognerà infine prenderne atto. Così come la democrazia non si esporta con la guerra, neanche il modello della grande impresa capitalistica attecchisce facilmente in una nazione come l’Italia: disarticolata nelle sue centinaia di campanili, sotto i quali la piccola impresa ha dato luogo alla fusione, nel bene e nel male, fra economia e famiglia. Talvolta con le virtù della cooperazione ma altrove con i vizi dei clan. Sviluppandosi col talento creativo delle arti e dei mestieri, ma sempre con la tentazione della chiusura protezionistica. Marxisti e capitalisti confidavano di risolvere nella forma superiore della grande impresa tale caratteristica mo-lecolare, indicata come una tara di arretratezza sociale. Ma il panorama desolante delle fabbriche che chiudono scompagina il loro schema: davvero non esiste un futuro italiano pensabile senza imprese con migliaia di dipendenti?
Basta uno sguardo d’insieme sui registri delle Camere di Commercio per mettersi alle spalle la controversia che divide gli economisti e i sociologi fin da quando, alla fine degli anni Ottanta, Giuseppe De Rita lanciò la provocazione del “piccolo è bello”. Alla quale gli industrialisti replicarono osservando che la seconda economia manifatturiera d’Europa non può certo reggersi senza uno scheletro di grandi industrie, pena ritrovarsi afflosciata su se stessa.
Da qui l’accusa a De Rita di celebrare un anacronismo sociale, con l’aggravante di assecondare una spinta individualistica ormai inadeguata a forgiare un moderno senso civico. Acqua passata. Le cifre rivelano che la grande industria oggi in Italia dà lavoro a una percentuale ultraminoritaria degli occupati: meno di mezzo milione di dipendenti. E che per giunta le imprese con più di 250 dipendenti vanno in liquidazione già da un decennio a un ritmo doppio rispetto alle piccole imprese. Dunque c’è poco da discutere su“piccoloèbello”,“no,grandeèmeglio”.Stiamovivendonon un riassetto, per quanto doloroso, della grande industria italiana del ventesimo secolo, ma piuttosto la sua dissoluzione strutturale. La scelta della famiglia Agnelli di investire all’estero i suoi capitali è solo l’epifenomeno più vistoso di una tendenza allo smantellamento della grande impresa che la recessione degli ultimi cinque anni ha accelerato ma che difficilmente un’eventuale ripresa economica arresterebbe.
Forse allora è meglio ricordare che lo sviluppo della grande industria in Italia nel corso di poco più di un secolo è stato contraddistinto da un forte sostegno venuto dalla mano pubblica al capitale di rischio privato. E anzi una quota significativa delle nostre grandi industrie sono nate su diretta iniziativa dello Stato. Ancora oggi Eni, Enel, Finmeccanica, Ferrovie dello Stato, restano fra le poche grandi industrie nazionali. Mentre le privatizzazioni di Ilva, Telecom e Alitalia hanno contribuito a rendere incerto il futuro di questi gruppi. Se dunque è ragionevole pensare che anche in futuro la nostra economia manifatturiera non possa reggere invertebrata, cioè senza lo scheletro della grande industria, un ritorno in nuove forme al capitalismo di Stato diviene un orizzonte plausibile: in Italia il modello del capitalismo anglo-sassone si è manifestato come ideologia nefasta piuttosto che come prassi virtuosa. La politica industriale ritorna a essere un imperativo strategico dei governi, anche se reperire nuove fonti di finanziamento pubblico delle imprese è sempre più problematico.
Oggi la moria delle imprese, chiusure e fallimenti, fughe all’estero e capannoni svuotati, sono la cronaca quotidiana di una vera e propria mutazione antropologica. Il teorico del capitalismo molecolare all’italiana, Aldo Bonomi, nel suo ultimo saggio (“Il capitalismo in-finito”, Einaudi) si spinge a parlare di apocalisse culturale determinata dalla rottura della simbiosi fra impresa e vita. Ma se questo vale soprattutto per i piccoli, cioè le imprese mai cresciute oltre il limite dei 15 dipendenti, resta pur sempre questo il tessuto connettivo del futuro. Le aziendine muoiono e rinascono: la media dei dipendenti per impresa resta fissa a quota dieci. Le grandi aziende invece da un decennio muoiono e basta.
E allora forse bisognerà fare di necessità virtù, considerando anche che gli unici segnali di vitalità registrati dagli osservatori economici riguardano un sensibile incremento di cooperative per lo più fondate da giovani altrimenti esclusi dal mercato del lavoro.
Non avranno le spalle, un tempo robuste, delle grandi industrie. Dovranno cercare in una formazione cosmopolita quel raccordo con un’economia internazionalizzata senza cui il domani gli è precluso. Nel sistema italiano manifestano buona tenuta, semmai, circa quattromila medie imprese già addestrate alla competizione planetaria, ben oltre i confini angusti del loro territorio. Non sarà più il “piccolo è bello”. Ma è nella storia dell’economia sociale italiana, dai liberi Comuni al Rinascimento fino alla rivoluzione dei distretti industriali e ai “miracoli” delle loro eccellenze, che ritroviamo l’impresa dal volto umano, quella che nobilita il lavoro riunendo il profitto alla cooperazione. Forse anche la grande impresa multinazionale potrà recuperare la sua forza perduta imparando che i territori
non si calpestano ma si valorizzano.

La Repubblica 09.09.13

“Voglia di politica in tempo di crisi dei partiti”, di Carlo Buttaroni

Attenti e informati, consapevoli che bisogna interessarsi di politi- ca per scegliere rappresentanti onesti e competenti. Eccoli gli italiani che non ti aspetti. Persino convinti che «destra», «centro», «sinistra» siano coordinate che hanno ancora corrispondenze nel modo di interpretare la società e i suoi bisogni. Anche se, quando si parla di partiti, le sfumature si attenuano e prevale un’atmosfera rarefatta che rivela la perdita di quelle identità e di quei riferimenti che, a lungo, hanno costituito i punti d’orientamento per masse di cittadini. Una perdita che si trasforma in crescente diffidenza nei confronti delle forze politiche, nel momento in cui le ambizioni e gli interessi dei singoli hanno preso il sopravvento sui fini generali. Perché la politica è un invito costante ad agire in pubblico e a scegliere delle destinazioni per affermare il bene comune.
È proprio l’allontanamento da questa missione a far defluire la grande attesa riposta nelle leader-ship in un disincanto che assume le forme dell’abbandono e del sentimento tradito. Un tradimento che non si traduce, però, nell’abbandono della politica, ma segna il suo ritorno sotto altre forme, insieme al desiderio di partecipare per cambiare il corso degli eventi. Non prevale l’ineluttabilità ma il suo contrario, perché la politica resta comunque lo strumento di governo della società. E farne a meno significherebbe rinunciare a una delle più grandi conquiste dell’umanità: la consapevolezza che nessun individuo può bastare a se stesso ma ha bisogno di convivere insieme ai suoi simili con- dividendo un patto di solidarietà. Ed è in questa dimensione che la politica diventa fondamento della convivenza, rendendola non solo possibile ma anche profittevole.
RITORNO AI VALORI FONDANTI
È un’Italia diversa quella che emerge dai dati della ricerca di Tecnè. Sicuramente migliore della sua rappresentazione superficiale. Un profilo che anticipa qualcosa che ancora non è un progetto, ma sembra somigliargli molto: quello di un riscatto, di un ritorno ai valori fondanti e al primato della buona politica che guarda agli interessi generali. Anche quando l’attesa si abbandona a un nichilismo che sembra avvelenare l’aria, non c’è la rinuncia all’aspirazione di una società più giusta, governata da una politica capace di far convivere gli interessi di ciascuno con quelli di tutti. Un senti-mento che si rivela anche in un’altra constatazione: la democrazia ha bisogno dei partiti. Anzi, è proprio la loro crisi a rilevare il nesso tra lo stato di salute dei partiti e quello della democrazia. Per- ché la natura della democrazia assegna un ruolo fondamentale alle organizzazioni politiche, e pur nell’irrisolta alternativa fra il partito forte degli iscritti e il partito debole degli elettori, ridefinire il loro ruolo significa individuare più chiaramente gli obiettivi della politica e i percorsi democratici per raggiungerli. E se la democrazia, oggi, appare una quotidiana faticosa conquista, le ragioni sono da ricercare proprio nella crisi dei partiti stessi.
L’Italia uscita dalla guerra non è mai stata una democrazia perfetta, anzi. Ma la vita politica ave- va, se non altro, una certa dimensione etica di rispetto, quantomeno formale, delle istituzioni. Furono proprio l’etica repubblicana dei leader dei grandi partiti di massa e il sentimento popolare, negativo a facili suggestioni, a rendere possibile l’avvio di una fase di crescita del paese che non fu solo economica, ma anche democratica, sociale, culturale.
La fase politica che prende l’avvio all’inizio degli anni 90 é la figlia minore della precedente. Da quel momento, si è assistito alla progressiva eclissi della responsabilità politica e al venir meno dell’etica istituzionale. La democrazia formale è stata via via considerata un impaccio caro ai giuristi e la democrazia sostanziale, che solo un autentico Stato sociale può realizzare, si è deteriorata con il progressivo smantellamento degli apparati di protezione. Nel frattempo, si è affermato un populismo fuori tempo, alimentato dalla strumentale convinzione che bisogna sintonizzarsi sulle pulsioni delle persone anziché rafforzare i diritti dei cittadini. Il Paese ha così scoperto che l’uscita dal tunnel ha significato ritrovarsi in un cunicolo, e mentre si annunciava una nuova stagione di valori, è sembrato lecito praticarne l’ipocrisia.
Nel momento in cui non vi è unità nei principi e solidarietà tra tutte le parti, quando non c’è la stessa percezione del rispetto delle regole formali della democrazia, ecco che allora viene a mancare un terreno fertile in cui i valori possono esistere e consolidarsi fino a divenire regole stabili ed indiscusse. La crisi dei partiti nasce anche da qui, dal- la mancanza di unità politica perché manca l’unità nella Costituzione e nei valori che essa esprime. È la mancata condivisione dei principi costituzionali che rende la crisi attuale più profonda di altre vissute in passato.
L’accentuazione personalistica degli ultimi anni ha fatto crescere l’autoreferenzialità dei partiti, ha logorato idee, svuotato valori e progetti. E i leader, prigionieri delle loro icone, hanno perso progressivamente, agli occhi dei cittadini, ogni residuo spirito pubblico.
Nell’indagine, tra le righe, si afferma la domanda di un nuovo patto che è qualcosa di più di un desiderio astratto. È la speranza di rifondare la società intorno ai valori condivisi di un ethos civile, la voglia di esserci in prima persona, di non essere più lontani ed estranei da ciò che accade, di uscire dall’angolo dell’ individualismo autoreferenziale per guardare, con maggiore attenzione, ai legami e alle responsabilità di ciascuno verso i propri simili, considerati non più soltanto come limite, ma anche come condizione irrinunciabile della libertà individuale. La riscoperta dell’etica pubblica invita ogni individuo alla migliore espressione della propria natura e costringe la politica a misurarsi con se stessa, con i suoi modi di fare e di essere, nelle scelte che com- pie e nei modi in cui le realizza. È il messaggio di speranza di un Paese che da troppo tempo vive in apnea e che adesso vuole tornare a prendere in
mano le redini del proprio futuro.

L’Unità 9.09.13

“Chi non vuole le riforme”, di Carlo Galli

La riforma della Costituzione sta cominciando a muovere vivacemente le acque della politica. Ma in direzioni ben diverse. Da una parte, c’è la gazzarra del Movimento 5 Stelle, con quanto di goliardico, di provocatorio, di consapevolmente propagandistico vi è connesso. L’occupazione del tetto del Parlamento – con i deputati virtuosi vicini al Sole, mentre l’Aula soffoca, laggiù, nella palude partitica – è uno scadente gesto di dannunzianesimo in ritardo. La lotta politica si può svolgere – durissima – dentro le istituzioni; si può anche svolgere fuori dalle istituzioni, nelle piazze e nelle fabbriche; ma non si può svolgere contro le istituzioni. Non può ridicolizzare né offendere il Parlamento, nel quale, piaccia o no, proprio a norma di Costituzione si rappresenta la sovranità del popolo – con il corollario conseguente del mandato libero -. L’amore per la nostra Carta (anche se professato da una forza politica che si dichiara esterna al moderno principio di rappresentanza), è certamente lodevole; ma si richiederebbe un po’ più di coerenza: il Parlamento è parte integrante della democrazia repubblicana disegnata dalla Costituzione. Mentre la forma di certe proteste – spettacolare, allarmistica, disperata come se Annibale fosse alle porte – vuol far passare l’idea falsa che nell’Aula non si possa parlare liberamente, o l’idea sbagliata che sia stia assassinando la Carta. Con il risultato di accreditare ulteriormente la sciagurata opinione – tanto lungamente ribadita dai poteri forti di questo Paese, e tanto prontamente ripresa da alcuni giornali – che la politica sia nel suo complesso una pagliacciata, degna di essere abolita. Il velleitario rivoluzionarismo populistico e anti-istituzionale è, come sempre, funzionale a disegni non democratici. Tutt’altra cosa, e di ben diverso spessore è invece il Manifesto dell’Assemblea per la Costituzione, in cui alcuni illustri costituzionalisti democratici, insieme ad alcune personalità di primo piano nella società civile, richiamano con forza il valore simbolico e politico della Costituzione – in particolare dei Principi fondamentali – e invitano il Parlamento a pensare di attuarla piuttosto che di riformarla.

C’è da essere d’accordo con loro quasi su tutto: la cultura, l’impegno, la passione che esprimono non possono non essere condivisi da una forza di sinistra democratica. C’è semmai da ricordare che i Principi e la Prima parte della Costituzione non sono coinvolti in nessuna revisione; e che le revisioni che si faranno saranno funzionali al programma di meglio realizzare, appunto, lo spirito della Costituzione. Si può polemizzare sulle deroghe all’art. 138 che dovrebbero rendere più spedito, ma certo non facilissimo, l’iter di revisione: ma non si tratta di un vulnus drammatico, perché l’essenza dell’articolo – la sede parlamentare della revisione, e la piena tutela delle minoranze – non è toccata. Si può temere, legittimamente, il semipresidenzialismo e battersi contro di esso: ma finora non si è entrati nel merito, e gli argomenti su questo punto vanno tenuti per quel momento. Si può sostenere, giustamente, che il primo problema del nostro Paese è la riforma del sistema politico (ridare vita ai partiti, insomma, per renderli più forti rispetto ai nuclei di interessi opachi che da molto tempo hanno il sopravvento) più che la riforma della Costituzione. Ma non si negherà che interventi volti a eliminare il bicameralismo perfetto e a semplificare i livelli amministrativi – all’interno del modello parlamentare, e senza che si preveda un drammatico rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio – possano dare alla politica maggiore speditezza. La quale non è un male in sé, e non risponde necessariamente a un disegno aziendalista ed efficientista; anzi serve proprio a rilegittimarla agli occhi dei cittadini, a far vedere che la politica è un’attività importante, e quindi, sia pur indirettamente, aiuta anche i partiti a ri-costituirsi, a prendere sul serio la propria insostituibile azione politica. Per non parlare della legge elettorale – di per sé estranea alla materia costituzionale – che è da riformare subito, per motivi che è perfino inutile elencare. La Costituzione va amata di un amore sincero, non superstizioso né strumentale; e va responsabilmente riformata perché sviluppi appieno il proprio potenziale democratico. Con la consapevolezza che la riforma della politica è, certo, un obiettivo più impegnativo; e che, nondimeno, la sinistra riformista non può sottrarsi al compito di iniziare col mettere in sicurezza le istituzioni dalla marea populista che le sta per sommergere. E con l’auspicio – la certezza – che le forze migliori e più appassionate della società civile non faranno mancare a quest’opera il loro sostegno critico.

L’Unità 08.09.13

“Il coraggio di fermarsi”, di Carlo Sini

Manifestazioni, marce, digiuni, cortei per la pace: ognuno di noi quanti non ne ricorda e ne ha visti nel corso degli anni? L’esperienza insegna che della loro efficacia pratica possiamo dubitare con ragione, ma questo non significa che le iniziative pacifiste siano inutili e che non abbiano alla lunga un peso non soltanto morale. Ben pochi, però, credono davvero che le campagne pacifiste cancelleranno, in un futuro prevedibile o ragionevole, la guerra dalle vicende mondiali e mi metto anch’io tra gli scettici e tra i più. Le guerre accompagnano la storia umana da tempo immemorabile e ogni spiegazione economica, psicologica, antropologica, biologica o altro, sembra sempre e da sempre insufficiente a darcene una comprensione definitiva ed efficace. Forse, se ne fossimo capaci, le nostre sensatissime aspirazioni pacifiste ne troverebbero conforto e magari qualche suggerimento più efficace. Intanto però tutti sappiamo che i conflitti presentano sempre ragioni di facciata e ragioni più profonde e nascoste delle quali ben pochi sono in grado di sapere davvero qualcosa. Le ragioni di facciata servono appunto a salvare, con l’impiego di molta retorica, la faccia pubblica dei contendenti: solo gli ingenui se ne fidano totalmente. Qui tutti sembrano avere ragione ed è spontaneo pensare che abbiano invece ognuno una parte, sia pure non uguale, di torto. Poi ci sono le ragioni nascoste, quelle che conoscono solo i servizi segreti, le agenzie militari, i consiglieri politici ufficiali e non, in una parola i governi nella loro azione mai apertamente dichiarata e per niente pubblica. Tutti facciamo in proposito molte supposizioni: sarà il petrolio, sarà lo scacchiere medio-orientale, sarà il problema delle armi atomiche, sarà la questione palestinese e così via: tutti ci improvvisiamo strateghi della storia mondiale, con scarsa fortuna e ancor minore competenza. Nel caso attuale, chi solo legge e si informa un po’ più a fondo, misura poi i limiti della sua ignoranza circa la complessità del mondo arabo e delle sue interne divisioni. Una cosa però credo che sia chiara a molti per non dire ai più: la fragilità della posizione americana relativamente alle ragioni di un intervento bellico in Siria e la sostanziale inutilità pratica di tale eventuale attacco, unitamente alla sicura pericolosità delle conseguenze su scala mondiale che potrebbero derivarne. E allora l’opinione pubblica davvero non capisce. Si può accettare, sia pur senza condividere, la cinica necessità delle azioni di forza nello scacchiere internazionale: è parte della politica «reale», che di certo non è modificabile dalle nobili e sagge ragioni delle cosiddette «anime belle». Ma non si può accettare che l’uso della forza appaia addirittura e persino sprovvisto di ogni razionalità coerente ed efficace. Si dice: gli Stati Uniti, il loro Presidente, devono intervenire per una ragione di prestigio, per tener fermi i propositi a suo tempo annunciati e perché bisogna creare un deterrente all’uso delle armi chimiche, che tutti condannano. Si può rispondere che non si salva il prestigio con azioni inutilmente distruttive, non sorrette dal diritto internazionale e dall’Onu e con esiti contrari agli scopi stessi che si proclamano, poiché il riaprirsi degli scenari della guerra fredda reca minacce, pericoli e costi di ogni genere che nessun cosiddetto prestigio potrebbe giustificare. Da tempo il prestigio mondiale degli Stati Uniti d’America è in serio declino; tutti poi ricordano le menzogne relative alle armi di distruzione di massa di Saddam (un precedente sul quale la Russia e i suoi alleati possono oggi giocare abilmente). D’altra parte,l’amministrazione Obama non è quella di Bush (anche questo lo sanno tutti). E allora chiedo se un gesto capace di rigenerare almeno in parte il prestigio internazionale perduto non potrebbe essere quello di ammettere francamente la ragionevolezza quanto meno di sospendere l’attacco, in attesa di più ampie consultazioni, di ulteriori prove, di ulteriori tentativi diplomatici. Io credo che non sia del tutto ingenuo pensare che un gesto di franca consapevolezza e di sottesa e sia pur sommessa autocritica aumenterebbe immensamente quel prestigio personale e mondiale che si dice Obama vorrebbe difendere. Se è così, avanti a tutta forza, certo, con le iniziative e le manifestazioni pacifiste in ogni paese e sede pubblica; ma nel contempo si continui a rivolgere un invito pressante alla diplomazia europea (e italiana in particolare) perché trovi i canali efficaci al fine di convincere gli Stati Uniti che al momento attuale un rinvio nessuno lo avvertirebbe davvero come una sconfitta, ma anzi come un prova di maturità e di reale forza nella condivisione e nella conduzione della vita politica sul pianeta.

L’Unità 08.09.13

“Troppi stranieri, ritiriamo i nostri figli” la rivolta dei genitori nella scuola multietnica, di Sandro De Riccardis

«Fino a luglio, i genitori mi assicuravano che avrebbero iscritto i bambini, poi a uno a uno le famiglie hanno cambiato idea. Sono tornata a scuola e ho visto che se ne sono andati tutti». Per Marinella Bertoni Ducoli, 57 anni, dirigente di plesso alla scuola elementare di Corti, frazione di Costa Volpino, Bergamo, gli italiani hanno ritirato i loro figli dalla prima elementare a maggioranza di bimbi stranieri, «per una scelta basata su piccole cose, come ad esempio la paura di non poter festeggiare il Natale. È stato un alone di dubbio che si è diffuso lentamente e ha fatto cambiare idea anche a chi aveva avuto, per cinque anni, altri figli da noi». Ora nell’unica prima di Corti, ci saranno 14 alunni stranieri: tanti romeni, un gruppo di marocchini, poi bosniaci, croati, albanesi. I sette italiani, uno dopo l’altro, sono finiti negli istituti delle altre sei frazioni di Costa Volpino. Tra queste, Corti è quella con la più alta percentuale di residenti stranieri, con oltre cento iscritti alla scuola primaria. Una tendenza in aumento, se si considera che nella quinta dello scorso anno erano solo sette, mentre nella nuova prima avrebbero doppiato gli italiani. Perché a Corti le case, spesso vecchie e senza manutenzione, costano di meno, e vengono affittate ai tanti extracomunitari che lavorano nelle campagne o nelle fabbriche come la Tenaris di Dalmine.
«Nelle ultime settimane tanti genitori sono venuti a chiedere: «Ma è vero che sono tutti extracomunitari?” — racconta la maestra Ducoli — È nata così una specie di preoccupazione, con le famiglie che si sono parlate e hanno ritirato i figli. Non credo si possa parlare di razzismo. In questi anni non c’è mai stato in aula un problema per le feste delle diverse religioni. Anche le famiglie arabe non sono mai venute a protestare se si parlava del Natale, capiscono che a scuola c’è un approccio culturale, non religioso. Piuttosto, abbiamo avuto problemi con i Testimoni di Geova, italiani, che chiedevano di cancellare Halloween».
Eppure da nord a sud, la maggioranza di bambini stranieri nelle classi agita le famiglie italiane. Che protestano, ritirano i figli dagli istituti vicini e li iscrivono da un’altra parte. È già successo a Roma, all’istituto “Carlo Pisacane”, dove le mamme hanno scritto all’ex ministro Gelmini: con un italiano su 23 «siamo costrette a migrare da qualche altra parte. Non per razzismo, ma perché l’integrazione è impossibile». A Ragusa, nel 2009, sono stati invece i professori a scrivere al sindaco per denunciare «il razzismo strisciante» al comprensivo “Giovanni Pascoli”. «Troppi genitori i cui figli stanno completando il percorso delle elementari — affermavano — non li stanno iscrivendo alla media e siamo indignati». E a Milano, c’è la storia dell’elementare di via Paravia, al quartiere San Siro. Dopo la decisione del ministero di cancellare, nel 2012, le nuove prime perché avevano troppi figli di immigrati, scelta che avrebbe condannato l’istituto a morte certa, quest’anno si riparte con due nuove prime: sette bimbi italiani e 27 stranieri, il numero più alto di figli di immigrati tra le scuole milanesi.

La Repubblica 08.09.13

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Kyenge: “No alle classi ghetto tutti insieme si studia meglio”, di VLADIMIRO POLCHI

«Sbaglia chi rifiuta la convivenza con alunni d’origine straniera». Cécile Kyenge, rispondendo all’appello di papa Francesco per la pace in Siria, ha passato la giornata digiunando. Alla lettura della notizia che arriva da Bergamo, il ministro dell’Integrazione è cauto: «Non è facile giudicare, ma la scuola non può rinunciare al suo ruolo di laboratorio d’integrazione».
Eppure non è il primo caso di “fuga” di italiani dalle classi multietniche.
«Per questo è necessario un percorso all’interno della scuola, che coinvolga insegnanti, presidi, genitori. Bisogna far capire che molti bambini definiti stranieri, in verità stranieri non sono. Anche per questo è urgente una riflessione, a tutti i livelli, che ridisegni il concetto di cittadinanza».
Per il ministero dell’Istruzione, il tetto indicativo del 30 per cento di alunni stranieri per scuola, introdotto con la circolare Gelmini dell’8 gennaio 2010, è ancora in vigore.
Che ne pensa?
«È un’indicazione discussa e spesso non applicata dalle scuole. Ripeto: ci sono tanti alunni figli di immigrati, ma nati e cresciuti in Italia. Come possiamo definirli ancora stranieri e costringerli dentro quella quota del 30 per cento?».
Non crede sia comprensibile che un genitore possa essere preoccupato che il percorso scolastico del figlio sia rallentato dall’eccessiva presenza di alunni d’origine straniera in classe?
«Sta alla scuola la responsabilità di far capire e di promettere ai genitori che la didattica non sarà rallentata dal carattere multietnico della classe e anzi che questo potrà essere una ricchezza».
Ma anche per i bambini stranieri non è meglio stare in classi più equilibrate, in mezzo ai compagni italiani?
«Certo, vanno evitati i ghetti. Mettere tutti i bimbi nati da genitori stranieri in una classe sarebbe una discriminazione».
Lei continua a essere oggetto di attacchi. Come precede il suo lavoro?
«Agli attacchi diretti si sono ora aggiunti quelli indiretti, che mirano a screditare il mio impegno. Mi si attribuiscono affermazioni che non ho mai pronunciato, come quella di obbligare gli italiani a dare le seconde case sfitte ai rom. E si fanno girare su internet. In tal modo si prova a delegittimarmi, a ostacolare il lavoro del mio ministero. Invece molto abbiamo fatto in poco più di cento giorni: dal nuovo bando per il servizio civile, all’impegno sul territorio per le buone pratiche d’integrazione. Pratiche che passano senz’altro anche dalla scuola».

La Repubblica 08.09.13

“Ma il Cavaliere serve a Mediaset?”, di Massimo Muchetti

In questi giorni Silvio Berlusconi si chiede se, per Mediaset, sia meglio che lui ritiri la fiducia al Governo Letta puntando a ottenere elezioni anticipate, e poi a vincerle almeno alla Camera, prospettive entrambe incerte, o se sia meglio che lui, alla fine dell’azione dei suoi avvocati, accetti la sentenza, e dunque sostenga ancora l’inquilino di Palazzo Chigi e guidi il Pdl da casa, dato che nessuno potrà comunque impedirgli di fare politica. Che l’ex premier si occupi della «sua» azienda è umanamente comprensibile. Certo, prova una volta di più l’esistenza del conflitto d’interessi che da vent’anni inquina la politica e l’industria della comunicazione in Italia.

Ma è anche vero che, per l’elettorato del centro-destra, non si tratta di un gran problema; del resto, è solo in questa legislatura che si è formata una maggioranza parlamentare teoricamente in grado di risolvere la questione dei conflitti d’interesse (e purtroppo assai meno in grado di risolvere tante altre, non meno rilevanti questioni).

Berlusconi ha ragione di preoccuparsi per il futuro dell’azienda. Mediaset è una grande impresa italiana. Magari non darà lavoro a 40mila persone come l’ex premier vanta per impressionare gli elettori. I dipendenti del Biscione sono un sesto. E tuttavia Mediaset, con Mondadori, costituisce il principale gruppo dell’industria culturale di questo Paese. Ci sarà qualche sopracciò che storcerà il naso nel sentire associate le parole cultura e Mediaset, ritenendo cultura solo i libri dell’Adelphi, e neanche tutti. Ma nella sua storia millenaria la cultura ha sempre compreso l’alto e il basso. Ora, di una tale intrapresa imprenditoriale, nonostante le osservazioni critiche che si possono fare sulle modalità dell’esordio e sui rapporti con la politica, peraltro comuni a tanti altri grandi gruppi privati italiani ed esteri, Berlusconi può essere orgoglioso. Ma una tale intrapresa carica il suo fondatore, che resta ancora il maggior azionista, di una responsabilità speciale e totale. Il premier Berlusconi può tentare di giustificare le delusioni prodotte nel suo stesso elettorato dicendo che «gli altri» gli impediscono di governare. Sua Emittenza, invece, in Mediaset era ed è il sovrano assoluto. Dunque…

Nel 1993, quanto la scoperta di Tangentopoli stava travolgendo gli antichi protettori politici della Fininvest, Berlusconi cominciò a prospettare ai suoi più stretti collaboratori, nelle sedute del Comitato Corporate, l’idea dell’impegno politico diretto per evitare quelle che riteneva probabili e letali ritorsioni sull’azienda da parte della gioiosa macchina da guerra di Occhetto. Un anno dopo fu Forza Italia, cui seguirono il salvataggio del gruppo dai debiti e la quotazione di Mediaset in Borsa. Per vent’anni, come ha ricordato ieri su l’Unità, Rinaldo Gianola, la forza politica di Berlusconi ha offerto uno scudo contro misure regolatorie, che magari avrebbero fatto bene al Paese ma non alla sua azienda, almeno nell’immediato, e un sostegno al fatturato pubblicitario, due carte che sono sempre state ben considerate dagli analisti finanziari.

Dal 2011 il gioco è cambiato. Il politico Berlusconi può anche raccontare di una congiura demoplutogiudaica ai suoi danni. Non sarebbe il primo e, facendolo, rischia anche lui esiti sfortunati. Ma l’imprenditore misura sempre i dati di fatto e i rapporti di forza, non vive di narrazioni. E in questi due anni la Borsa ha fatto capire oltre ogni ragionevole dubbio che Berlusconi, una volta indebolita la propria reputazione internazionale, non può mettere in crisi i governi per ragioni personali senza pa- gare lo scotto sulle quotazioni di Mediaset. Il rapporto con la politica, in quest’ultima fase di Berlusconi, che tale sarebbe comunque per ragioni di anagrafe, sta diventando un handicap, dal vantaggio che era.

Berlusconi sa bene come la televisione commerciale debba fronteggiare sfide nuove e pesanti: la possibile privatizzazione di una parte almeno della Rai; l’invasione certa degli Over the top votati alle nuove piattaforme tecnologiche; i morsi di una recessione infinita che costringono a tagliare i costi, e dunque la qualità; la transizione dalla cultura televisiva dei padri fondatori, un tempo modernizzante e oggi conservatrice, a una cultura televisiva più contemporanea; il trapasso generazionale nella proprietà, tema che Berlusconi sostiene di aver risolto con i figli, ma che, come insegna l’esperienza, si verifica solo dopo il passaggio reale delle consegne, e sul campo. Se queste sono le sfide, la domanda di fondo è se Silvio Berlusconi aspirante premier possa essere ancora l’azionista adatto per l’impresa Mediaset. La mia opinione, dopo averne seguito le mosse da giornalista per quasi trent’anni, è che non lo sia più. Lo è stato, e non da impresario, come lo ha definito il più grande giornalista-editore italiano della seconda metà del Novecento, ma da imprenditore arciitaliano. Nell’autunno del 2013, se pensa al futuro, Berlusconi dovrebbe mettersi nelle condizioni politiche utili per poter pilotare la sua creatura verso assetti che ne salvino la radice industriale in autonomia, senza più le guarentigie offerte da chi, volta a volta, è stato capo del governo o dell’opposizione. Le condizioni politiche utili sono fatte di moderazione programmatica e di riposizionamento personale. È una sentenza definitiva che oggi glielo suggerisce. Domani sarà l’anagrafe. Vale per l’azienda, ma vale anche, e in chiusura lo si può dire, per la rappresentanza politica del centro-destra.

L’Unità 08.09.13