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“Bonus maturità verso l’abrogazione”, di Flavia Amabile

Sta per essere abrogato il bonus maturità per i test di ammissione alle lauree a numero chiuso. La cancellazione però non influirà sui test di quest’anno ma andrebbe in vigore dalle prove per l’accesso agli atenei nel 2014-15. Introdotto da Giuseppe Fioroni quando era ministro dell’Istruzione, è stato riformulato da Francesco Profumo e molto contestato perché creava troppe disparità di trattamento fra gli studenti. Quando Maria Chiara Carrozza ha sostituito Profumo al ministero è intervenuta con alcune modifiche, stabilendo una tabella di conversione unica dal voto di Maturità al punteggio bonus e variando la soglia di sbarramento per l’accesso al bonus. Ma non è bastato a placare le polemiche. Cifre alla mano, in molti hanno dimostrato dimostrare che il sistema ancora creava troppe penalizzazioni e disparità.

Si è deciso, quindi, di intervenire in modo diverso. Lunedì l’abrogazione dovrebbe essere proposta nel decreto «Misure urgenti in materia di istruzione, università e ricerca» che il ministero dell’Economia e il Miur stanno predisponendo in queste ore.

Il primo ad affermarlo all’Adnkronos Salute è Angelo Mastrillo, referente dell’Osservatorio Conferenza nazionale dei Corsi di Laurea delle Professioni sanitarie. Ma la conferma arriva in modo non ufficiale anche da fonti ministeriali.

L’abrogazione si riferirà però non al bonus per i test di quest’anno ma a quelli del prossimo anno. E dovrebbe essere seguita da un altro provvedimento che potrebbe prevedere il ritorno del bonus ma formulato in modo del tutto diverso.

La notizia dell’abrogazione è stata accolta con soddisfazione dalle associazioni degli studenti che da tempo stanno denunciando i problemi creati dal bonus. Secondo Alberto Campalla, protavoce di LinkCoordinamento Universitario -l’abrogazione sarebbe «un successo». Secondo Michele Orezzi, coordinatore nazionale dell’Udu, i test sono nel caos più totale. Si stanno registrando numerose irregolarità nei primi test che si sono tenuti in questi giorni per l’accesso alle professioni sanitarie «che potrebbero invalidare completamente i risultati finali».

«Ci aspettiamo – spiega Orezzi – che una forte presa di posizione sia presa già dal Consiglio dei Ministri di lunedì prossimo: è infatti l’ultima possibilità di abolire il bonus maturità che sta andando ad aggravare una situazione già drammatica e aprire finalmente a un percorso di superamento definitivo del numero chiuso. Abolire il bonus maturità non risolve ogni problema: l’obiettivo deve essere superare definitivamente il numero chiuso e questo ingiusto modo di selezione degli studenti all’ingresso».

Per Daniele Lanni, Portavoce della Rete degli Studenti Medi, «lo scenario che si apre agli occhi di uno studente medio non è davvero più sostenibile. Tra caos e ingiustizie ormai è veramente palese a tutti che il numero chiuso non è più sostenibile. L’unica prospettiva con cui possiamo guardare all’università deve essere il superamento del numero chiuso e degli sbarramenti all’accesso. È necessario abolire subito il bonus maturità ma non è assolutamente sufficiente. Questa volta non si può davvero più cercare di nascondere la polvere sotto il tappeto».

La Stampa 07.09.13

“Il realismo della speranza”, di Claudio Sardo

Con le conclusioni del G20 di San Pietroburgo siamo ripiombati tra gli spettri della guerra fredda. L’attacco americano contro la Siria pare ormai imminente. La Russia minaccia di reagire. Le parole di Obama e Putin somigliano drammaticamente a quelle della crisi di Cuba nel 1962. E nel teatro tragico del Medio Oriente tutto fa pensare che l’incendio divamperà più forte, più ingovernabile, più distruttivo per le persone, per le comunità, per le culture. L’intervento militare, con la sua scia di morte, non è mai «la» soluzione.
Come ha detto Romano Prodi a l’Unità, anche quando l’azione militare sembrava avere alle spalle una ragione etica e un più nitido obiettivo politico – in Iraq, in Afghanistan, in Libia – il bilancio finale è sempre stato spaventosa- mente negativo. Non solo per i costi umani, comunque inaccettabili. Ma persino per i costi politici. Figuriamoci ora a quali rischi andiamo incontro, vista la confusione delle prospettive che sono davanti all’annunciato raid in Siria.

La giornata di preghiera e di digiuno indetta da Papa Francesco è diventata così, oltre il suo significato religioso, il punto di raccolta dell’umanità che dice no alla guerra. Anzi, che vuole dire sì alla pace. Che vuole farsi costruttrice di pace. Nel mondo globalizzato la politica sta diventando sempre più impotente, sempre più sottomessa alle logiche di potenza, siano esse dettate dalla finanza, dai mercati, dalle forze militari e strategiche, dalle centrali terroristiche. È arrivato il tempo di invertire la rotta. Di ricostruire la sovranità degli uomini e delle comunità. Di spezzare la spirale della guerra. Solo il dialogo, la convivenza, il diritto, la soluzione politica sono compatibili con la vita e il futuro delle donne e degli uomini. Anche in Siria si deve imboccare la strada della soluzione politica, non quella militare.

Ciò non vuol dire, in alcun modo, tollerare o sottovalutare lo sterminio compiuto con i gas tossici. È stato un atto di barbarie. Un delitto contro l’umanità. Pensare alla morte di tanti innocenti è una ferita che sanguina in ciascuno di noi. Quell’atto va sanzionato, punito. Ma ripristinando il diritto internazionale, non sommando uno strappo a un altro strappo. Le Nazioni Unite restano la speranza di un governo mondiale. Non possono essere ridotte all’inerzia, svuotate, abbandonate ai margini della politica di potenza.

Può una giornata di digiuno invertire la rotta? Può avere tanto valore? Il realismo dice di no. Ma è la speranza che porta a dire di sì. Spes contra spem, ripeteva Giorgio La Pira. La politica degli uomini è orientata al cambiamento. E la politica è possibile solo sperando contro le aspettative realistiche. La verità è che la politica contiene in sé una trascendenza. Uno sguardo al futuro migliore che si vuole costruire, ad un domani che non riguarda solo noi stessi, ma i nostri figli e nipoti. Dobbiamo costruire la pace. E vigilare su di essa. Ricostruirla quando va in crisi. E mettere in gioco noi stessi, il nostro essere popolo, e nazione, ed Europa quando la pace è a rischio.

L’appello del Papa, al quale hanno aderito donne e uomini di tutte le fedi, credenti e non credenti, sarà oggi un atto di riscossa per fermare le guerre. Per dare voce ai sentimenti più profondi. Per gridare la pace. Per cominciare un cambiamento da noi stessi. C’è una dimensione spirituale del digiuno – preghiera comune di tante religioni – ma c’è anche una dimensione civile, laica, anch’essa molto forte nelle società democratiche. È più di una protesta. È un modo per dire: io ci sto, io voglio contare, io sono disposto a cambiare, io lavorerò per tessere una rete di solidarietà, di fraternità, di uguaglianza. Enrico Berlinguer scriveva nel 1979 che «la pace è il bene supremo» e ad essa va orientata la stessa battaglia per la giustizia e per un nuovo ordine economico. La pace non è assenza di conflitto. È il senso di marcia della giustizia sociale.

La guerra passa dalle religioni, dagli Stati, da odi antichi e da interessi moderni: vogliamo liberarci da questa schiavitù che umilia e uccide le persone. Per farlo c’è bisogno di politica, di ordinamenti nazionali e internazionali, di diplomazia, di giustizia. Non è vero che la pace va difesa solo dentro la fortezza dell’Occidente. Anzi, questo non è più neppure possibile. Il mondo sta cambiando gerarchie e pesi. Rapidamente e drasticamente. Il Medio Oriente non può essere lasciato tra guerre dilanianti. Perché è una polveriera. Che può far saltare il mondo. Troppi errori sono stati compiuti. Troppi sono i morti. Troppe le sofferenze, le ingiustizie, le povertà. Troppi gli odi.

Dobbiamo chiedere alla politica un cambiamento profondo. Ma dobbiamo anche essere pronti a cominciare da noi, dalle nostre responsabilità. L’indifferenza è il male del nostro tempo. Ci dà l’illusione di tenerci fuori dal pericolo, in realtà ci rende ancor più sudditi. L’egoismo individualista è l’altro male, ingigantito della globalizzazione. È arrivata l’ora di ribellarsi.

Oggi si riempirà piazza San Pietro. E tanti altri, milioni di persone, saranno vicine a chi andrà nella piazza. Sono i popoli che dicono no alla guerra. I Grandi li ascoltino. La strada della soluzione politica, anche in Siria, è possibile. Deve comprendere la sanzione per chi ha usato armi chimiche. Ma deve dare una prospettiva di convivenza a un popolo sofferente, diviso e impoverito, che rischia di disperdersi nella fuga più disperata. Sarebbe un’inversione di rotta in Medio Oriente. La regione dove nacquero le religioni monoteiste. E dove oggi la guerra e il terrorismo ve- stono panni di fanatismo religioso. Ma la pace e la convivenza sono irrinunciabili. Questo è il grido che oggi può accomunarci. Insieme alla bandiera della pace che torneremo a sventolare.

L’Unità 07.09.13

“Il pasticcio dei test per l’università da Pavia a Messina prove da rifare”, di Corrado Zunino

Ci sono già quattro test per l’ingresso nelle facoltà a numero chiuso sospesi al quarto giorno di prove. Il ministero per l’Istruzione ormai da anni non riesce più a organizzare un concorso pubblico senza errori, contestazioni, ricorsi (spesso persi). E, in particolare, dopo i 250 esposti ai Tar d’Italia inviati nella scorsa stagione sulle prove d’accesso alle università (sempre più facoltà utilizzano selezioni basate su test a risposta multipla), la stagione 2013-2014 si apre nuovamente nel caos. Ieri la Facoltà di professioni sanitarie di Pavia, ventiquattr’ore dopo l’esame, ha comunicato: “Prova annullata”. L’azienda esterna a cui l’ateneo aveva commissionato la produzione dei test aveva confezionato un clamoroso errore: le risposte possibili (tra cui il candidato avrebbe dovuto sceglierne una) erano quattro invece che cinque (come richiesto dal bando pubblico). L’università non poteva che appallottolare i test di 1464 studenti e buttarli nel cestino.
Il giorno prima, 4 settembre, un altro sfondone era stato offerto – sempre da una azienda esterna non controllata dai funzionari accademici – alla facoltà di professioni sanitarie dell’Università di Parma. Sui fogli consegnati agli studenti ad alcune domande non corrispondevano le risposte possibili: non c’era la minima congruenza tra il quesito e le sue soluzioni. “Impaginazione errata”, ha messo a verbale il preside di facoltà e altri 1316 aspiranti infermieri e logopedisti hanno visto annullare i loro compiti. La prova si dovrà ripetere. Così a Messina, Farmacia e Chimica: errori nella somministrazione dei test. Alla Sapienza di Roma in due aule le domande delle prove di ammissione a Biologia erano state scambiate con quelle di Psicologia, la prova non è stata rimandata ma ritardata di un’ora. La novità di questo settembre è che le università si fermano autonomamente, scottate dalle precedenti esperienze in cui erano state fermate da un Tribunale amministrativo.
Non è finita, però. All’Unione degli Universitari, syndicate studentesco che si è specializzato nella vigilanza sui test d’ingresso, stanno piovendo decine di segnalazioni. A Brescia, a Pisa, a Perugia e a Napoli gli esaminatori avrebbero violato l’obbligo di anonimato delle schede spalancando le carte d’identità sui tavoli a fianco dei codici assegnati alle singole buste (che contengono i test). Compiti riconoscibili, causa troppe volte di concorsi truccati. Con una motivazione del genere l’anno scorso, su ricorso dell’Udu, tutta la graduatoria di Medicina per il Molise venne annullata.
Gli errori marchiani offrono nuove armi a chi chiede l’abolizione dei test d’ingresso. Michele Orezzi, vicino alla laurea in Farmacia a Pavia, è il portavoce dell’Udu e dice: «Visto il moltiplicarsi dei ricorsi e la statistica sui loro esiti, quest’anno molte facoltà italiane rischiano di dover far entrare al primo anno tutti i candidati: scoppierebbero. Se anche per Medicina ci saranno prove invalidate, potrebbe essere messa in discussione l’intera classifica nazionale, unica da quest’anno. Stiamo rompendo il sistema del numero chiuso in Italia, ma il ministero su questo non apre».
Lunedì parte la prova più complessa: sono 84.165 gli iscritti al test di Medicina-Chirurgia e Odontoiatria, quindicimila in più dell’anno scorso per 10.157 posti a disposizione. Il giorno dopo, prova ad Architettura.

La Repubblica 07.09.13

“La strategia del ricatto per blindare il porcellum”, di Gianluigi Pellegrino

Senza il Porcellum, il caimano non avrebbe il pantano dove minacciare il suo ultimo disperato colpo di coda. L’estorsione istituzionale di Berlusconi (salvacondotto personale o niente governo) una quintessenza della concussione, già sin troppo tollerata, sarebbe un’arma del tutto spuntata. Un’arma inefficace se non ci fosse la legge porcata da lui del resto a suo tempo voluta e approvata. Con un qualsiasi decente sistema di voto, il Paese avrebbe poco da temere dalla restituzione della parola ai cittadini, e già solo per questo il Cavaliere e la sua corte avrebbero altrettanto poco da minacciare.
Invece tornando al voto con il Porcellum non solo tutto il peggio è possibile ma bene che vada il caos è garantito e il risultato incostituzionale pure. Per non dire che tra gli obbrobri di quella legge c’è anche che un condannato, interdetto dai pubblici uffici e da ogni incarico di governo, parlamentare decaduto e incandidabile, possa ugualmente figurare al centro della scheda nel ruolo a quel punto sovversivo di capo e padrone della sua squadriglia.
Berlusconi tutto questo lo sa e quindi brandeggia la sua ultima disperata minaccia di provocare immediate elezioni ancora deturpate dal Porcellum se Pd e capo dello Stato non gli abbuonano sentenze e reati.
Da qui due immediate e stringenti conclusioni. La prima è quanto miopi siano state le titubanze e le ipocrisie con cui anche il governo e i democratici hanno fatto melina sulla riforma elettorale che pure avevano promesso come primo improcrastinabile impegno. Lo hanno fatto nella malcelata paura, quasi il terrore, che cambiare il sistema di voto avrebbe accelerato la fine di esecutivo e legislatura che evidentemente si volevano tenere in piedi a prescindere dalla loro utilità per il Paese, secondo l’immarcescibile comandamento del “tirare a campare che è sempre meglio che tirare le cuoia”. E così fingendo confronti e approfondimenti si rinviava tutto nel tempo, giungendo persino ad inserire in un disegno di legge costituzionale la blindatura del Porcellum sino alle calende greche di riforme che non hanno le condizioni minime per essere varate. Questo giornale aveva più volte evidenziato quanto la scelta di rinvio fosse sleale nei confronti del Paese ed ingiusta sul versante istituzionale. Le direttive europee ammoniscono come il tempo migliore per approvare nuove regole elettorali sia l’immediato
inizio della legislatura, perché più avanti si va, più il merito della riforma viene inquinato dalle necessità di posizionamento delle forze politiche in vista del ritorno alle urne.
E comunque la presenza di una praticabile legge elettorale costituisce ogni giorno il polmone essenziale per l’agibilità democratica di una repubblica costituzionale.
Oggi quelle ipocrisie che imploravamo di abbandonare, si ritorcono contro chi l’ha praticate perché è proprio il Porcellum l’ultima arma disperata che consente a Berlusconi il suo estremo ricatto contro governo e Paese, per le incognite che aprirebbe un ritorno alle urne inquinato dalla legge porcata. E così la nemesi si con l’esecutivo e le larghe intese che speravano di blindarsi dietro alla sopravvivenza del Porcellum e invece rischiano di finirne fagocitati. Come apprendisti stregoni di una scellerata politica del rinvio.
Allora, ed è qui la seconda conclusione, oggi sono proprio Pd e governo che devono rompere gli indugi e varare una legge di urgenza di riforma elettorale. Adottando nel merito una soluzione che nessuno può contestare: primo turno di collegio come vogliono Pd e cittadini, ma ballottaggio nazionale di coalizione come preferisce il centrodestra. Con un quota proporzionale per le piccole formazioni e il diritto di tribuna. Si garantirebbe così in un colpo solo governabilità, rappresentanza e restituzione della scelta ai cittadini. Chi potrebbe credibilmente protestare?
I democratici quando su questo tema (rigettando la mozione Giacchetti) hanno affermato un sorprendente principio di “solidarietà” con il Pdl, hanno rischiato di cambiare natura alla cosiddette larghe intese: da convergenza su un esecutivo di necessità, a un patto di complicità tra i gruppi dirigenti che è quanto di più paludoso e nefasto per il Paese. Complicità che non a caso oggi Berlusconi richiama nel pretendere i voti per un eversivo salvacondotto.
Si spezzi quindi il circuito vizioso non solo votando la decadenza come impone la legge e la Costituzione, ma anche paralizzando il ricatto ritorsivo del Cavaliere, proponendo subito la riforma elettorale con procedura di urgenza e sulla sua approvazione se del caso mettendo anche la fiducia. A quel punto sì il re sarà nudo e chiare le responsabilità di ciascuno; Cinquestelle compresi.

La Repubblica 07.09.13

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“QUAL È IL PREZZO DELLA GOVERNABILITÀ”, di VITTORIO SERMONTI

Caro Presidente Napolitano ma che cosa sta succedendo in Italia? Possibile mai che a un cittadino della Repubblica sia permesso (come è stato permesso ai primi di agosto) di additare con le lacrime agli occhi allo scherno di un migliaio o due di cittadini adoranti che brandiscono bandieroni stampati in serie e cartelli girati all’indietro per essere ripresi dalle telecamere, i giudici della Corte di Cassazione, colpevoli di averlo condannato per frode fiscale? Possibile che gli sia consentito (come gli è stato consentito) di ridicolizzare magistrati del più alto ordine giudiziario come «impiegati che hanno fatto un compitino vincendo un concorso», lui unto dal popolo, cioè presidente-padrone di un partito che ha riscosso parecchi consensi, comunque meno di un quarto del corpo elettorale, e che personalmente è disprezzato da quasi tutti gli altri elettori, e irriso nel resto d’Europa e del mondo? Possibile che quella bella manifestazione di
strada, diffusa in diretta tv, e introdotta dall’inno nazionale, si sia insediata protervamente al centro dell’informazione televisiva e della vita politica e civile della nazione da settimane e settimane? E che le parole del cittadino con le lacrime agli occhi siano poi state citate impunemente dal suo staff a esempio di responsabilità istituzionale e di moderazione politica? E che Lei, signor Presidente, davanti alla nazione che la Sua persona ha onorato nel mondo con tanta fermezza e tanto equilibrio sia scandalosamente convocato ogni giorno che passa a tamponare una ininterrotta serie di ricatti per evitare il collasso dell’esecutivo, mentre il Paese intero arranca per sopravvivere e il Mediterraneo è spazzato da venti di guerra?
Presidente, mio Presidente, Lei sa molto meglio di me come una comunità tessuta di parole che non hanno più peso né senso perché ogni affermazione vale la sua smentita, e in cui l’iniquità si perfeziona nel cavillo, non è un Paese decente,
certo non è un Paese per giovani. Una accettabile stabilità di governo in una fase di estrema labilità economica e di grande turbamento sociale entro un quadro internazionale minacciosissimo va accanitamente difesa (chi non se ne rende conto?): ma forse non a qualsiasi prezzo. E se il prezzo è l’ossatura morale del Paese, l’onore della sua lingua, cioè della sua identità profonda, la povera faccia di ciascuno di noi, io penso disperatamente che quel prezzo non vada pagato.
La politica svolga il suo compito; le istituzioni, il loro. Ma è arrivato il momento che ogni singolo cittadino – in democrazia il solo soggetto che dia corpo e legittimità alla maggioranza e, in casi estremi, l’unico contrappeso alla maggioranza – si metta in piazza per dire chiaro che non sopporta più di vivere ostaggio dell’egolatria eversiva di un frodatore del fisco, e tanto meno (è un problema di noi vecchi), di morirci.

La Repubblica 07.09.13

“I misteri della terra che trema”, di Fabio Tonacci

Qualcosa sta cambiando nelle profondità della terra, proprio sotto la penisola. L’Italia trema di più, trema più forte. Quest’estate, dal 21 giugno al 4 settembre, i sismografi hanno registrato ben 7116 terremoti. Un record, più del doppio rispetto allo stesso periodo del 2012. Vuol dire che ogni giorno ci sono state in media quasi cento scosse: 94,88 a voler essere precisi. E questo rende l’estate del 2013 la più “movimentata” degli ultimi dieci anni, anche più di quella del 2009 che si portava dietro gli effetti del tremendo sisma dell’Aquila del 6 aprile. Non è un caso, è una tendenza. I piccoli terremoti crescono, aumentano di numero e di intensità. Perché qualcosa sta cambiando nella crosta terrestre sotto di noi. Sì, ma cosa?
La rete di osservazione dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, che ha strumenti piazzati in trecento punti sul territorio, rileva ogni movimento di placche, dai più piccoli spostamenti di magnitudo 0.4, impercettibili per gli esseri umani, ai grandi eventi superiori al quarto grado della scala Richter.

Come i tre che hanno terrorizzato la Lunigiana a metà giugno, il peggiore dei quali ha raggiunto magnitudo 5.2. Di terremoti di questa scala ne sono stati registrati 12 negli ultimi tre mesi: due a Minucciano in Toscana (entrambi di magnitudo 4.4), tre nel mar Adriatico a largo di Ancona (4.9, 4.0, 4.4), due a Patti (4.1 e 4.2) e uno a Pachino (4.0) in Sicilia. L’ultimo il 2 settembre scorso con epicentro a qualche chilometro da Belvedere Marittimo, nel mar Tirreno. Nello stesso periodo di un anno fa ce n’erano stati solo 5 della stessa potenza. Più che raddoppiati, dunque.
«È aumentato il tasso di “sismicità di fondo” dell’Italia», spiega Claudio Chiarabba, il direttore del dipartimento terremoti dell’Istituto, mentre sullo schermo del suo computer appare la mappa dell’estate del record: una cartina martoriata da più di settemila puntini colorati di varie dimensioni a seconda della magnitudo. La maggior parte dei quali sull’Appennino tosco-emiliano, tra l’Umbria e le Marche, in Irpinia, sulla costa tirrenica della Calabria, nella parte nord orientale della Sicilia. Con una inquietante stella sopra la Lunigiana, che ha subìto il terremoto più forte. «Il tasso è cresciuto notevolmente. Vuol dire che se prima l’Italia tremava in media 50 volte al giorno, oggi registriamo quasi il doppio delle scosse». La mappa sismica non è cambiata, le zone ad alta pericolosità sono sempre le stesse. Solo che tremano di più.
La variazione è avvenuta nel 2009, proprio a ridosso del terremoto dell’Aquila. «Non sappiamo ancora se quell’evento, di magnitudo 6.3, che ha provocato la morte di più di trecento persone e ha distrutto gran parte della città — dice Chiarabba — sia stato la causa della variazione della sismicità di fondo, o il suo primo effetto». I numeri che escono dal sistema Iside, il grande database dell’Ingv, disegnano inquietanti curve verso l’alto. Progressioni a salire, per cui i terremoti superiori al grado 2 rilevati in Italia nella medesima finestra temporale, dal 21 giugno al 4 settembre, passano dai 348 del 2008 ai 793 di quest’estate. Quelli superiori al grado 3 crescono da 32 a 80. E la ricerca, che sarà presto pubblicata su alcune riviste scientifiche internazionali, è stata condotta su dati omogenei, eliminando cioè ogni possibile distorsione dovuta alla sensibilità migliorata dei sismografi.
«La sismicità di un territorio non è sempre costante, segue dei cicli storici», prova a spiegare Alessandro Amato, uno dei più autorevoli ricercatori in materia. Esistono le tempeste sismiche, per esempio. «L’ultima c’è stata a cavallo tra il 1600 e il 1700, con una serie di eventi devastanti in l’Irpinia, Benevento, Nocera, Norcia. E in Sicilia orientale». Il terremoto della Val di Noto, nel 1693, è ricordato come il peggiore della storia d’Italia
ed è classificato al ventitreesimo posto tra i più disastrosi dell’umanità: si stima che una scossa di 7,4 gradi provocò 60.000 vittime e rase al suolo tutta una parte dell’isola, tra cui le città di Ragusa, Lentini, Catania. Che poi risorsero, in stile barocco. Non proprio un precedente confortante.
Siamo all’inizio di una nuova tempesta? «Non possiamo saperlo », dice Amato. Anche perché al momento, quando si cercano le cause di questa “frenesia” tellurica, non si va oltre il muro delle ipotesi. Potrebbe essere dovuta a un aumento dei gas imprigionati nella crosta terrestre, che rende meno solide le faglie e dunque più mobili le placche pressate l’una contro l’altra. Oppure potrebbe essere una conseguenza dell’attività dell’uomo. In Oklahoma, in Texas e in Ohio un incremento del tasso di sismicità simile a quello rilevato dall’Ingv in questi giorni è stato collegato all’attività di trivellamento delle compagnie petrolifere e all’estrazione degli idrocarburi. «Ma da noi — osserva Chiarabba — sarebbe difficile provarlo, visto che tutto il nostro territorio è su faglie attive ». L’Italia infatti si ritrova se-
duta su una roccia schiacciata da un lato dalla zolla africana, dall’altro dalla placca europea. Col risultato che la sua “schiena dorsale”, gli Appennini, ne subisce di continuo gli effetti.
Scagionato anche il vulcano Marsili, il bestione sottomarino alto 3000 metri, che si trova a 150 km a nord delle coste della Sicilia, inabissato nel Tirreno. In rete sono spuntate ricerche, o pseudo tali, che dimostrerebbero un legame tra l’attività del vulcano e i terremoti di agosto e settembre che hanno colpito quella zona. «Non ci sono prove scientifiche a sostegno di questa tesi», sostiene il direttore del-l’Ingv, «non è quella la causa dell’aumento della sismicità dell’Italia ».
Per rispondere alla domanda che a questo punto ogni profano si fa, e cioè se l’aumento dei piccoli terremoti comporterà anche un incremento di quelli più potenti, Chiarabba si affida all’immagine del sacchetto di palline bianche e nere. «È chiaro che più estrazioni si fanno, e più alta sarà la probabilità di pescare una pallina nera, cioè un sisma importante, in mezzo a tante palline bianche, cioè le scosse deboli e innocue. Anche se in sismologia l’argomento statistico è controverso, ci sono varie scuole di pensiero e non sempre è riconosciuto come valido». I dati, al momento, raccontano di un’attività crescente anche dei terremoti superiori al terzo e quarto grado.
Gian Vito Graziano, presidente dei geologi, rovescia l’ottica del problema: «Fino a quando la scienza non sarà in grado di prevederli con esattezza, non dobbiamo puntare sulla previsione, ma sulla prevenzione. L’aumento della sismicità rilevato dall’Ingv deve servire a scuotere le coscienze dei cittadini e a indirizzare la classe dirigente. Non è possibile che sia ancora in vigore una legge urbanistica datata 1942: va cambiata al più presto ». Tradotto: bisogna costruire meno e investire di più sull’adeguamento dei centri storici alle più recenti norme antisismiche. «In questo modo — dice Graziano — avremo case più sicure senza deprimere l’industria edile».

La Repubblica 06.09.13

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“LA MANO DELL’UOMO CONTRO LE CALAMITÀ”, di GIOVANNI VALENTINI

I terremoti, d’accordo, sono calamità naturali. Non si possono prevedere, se non in termini ristretti di tempo. Ma, senza arrendersi alla fatalità, se ne posso prevenire gli effetti e contenere le conseguenze più disastrose. E lo dimostrano già diversi casi, anche in Italia, dalle Marche all’Umbria: come per esempio l’ultimo evento sismico di magnitudo 5 che il 21 luglio scorso ha colpito l’Anconetano, senza provocare vittime e rovine. Dopo il precedente terremoto del 1972 — ha ricordato il geologo Enzo Boschi — fu il sindaco democristiano Trifogli a utilizzare addirittura leggi straordinarie del tempo di guerra, per mettere in sicurezza gli edifici pubblici e privati.
Sta proprio qui il problema. Si sa che la Penisola, protesa nel mar Mediterraneo come un pontile galleggiante, è sempre stata sismica e sempre lo sarà. Questa è la legge della natura o se si preferisce della geografia. La mano dell’uomo non può evidentemente modificare la situazione, ma può adottare senz’altro misure di prevenzione per ridurre o azzerare i danni. Tanto più in un Paese instabile come il nostro, e non solo politicamente, dove i terremoti — fisici o metaforici — sono all’ordine del giorno.
È dunque la messa in sicurezza degli edifici, a cominciare ovviamente da scuole e ospedali, l’antidoto più efficace contro il rischio sismico. Quanto alla pericolosità sismica, invece, quella attiene alla probabilità di registrare scosse in un tempo determinato ed è prevista da una mappa dell’intero territorio italiano. Su questa base, spetta poi ai singoli Comuni predisporre un Piano di Protezione civile secondo norme che risalgono addirittura agli anni Ottanta.
Ma, oltre a salvaguardare innanzitutto la sicurezza della popolazione, gli interventi di ristrutturazione anti-sismica e di riqualificazione energetica possono contribuire anche a rilanciare un settore portante dell’economia nazionale come quello dell’edilizia, nella prospettiva della Green Economy e dello “sviluppo sostenibile”. A maggior ragione, naturalmente, gli stessi criteri tecnologici devono valere per le nuove costruzioni.
I terremoti, insomma, non sono una maledizione biblica. Quando purtroppo si verificano, al pari delle frane o delle alluvioni, è già troppo tardi per rimediare. Ecco perché bisogna provvedere per tempo, a tutela dei cittadini, del territorio e dell’ambiente: anche qui è meglio prevenire piuttosto che curare.

La Repubblica 06.09.13

“Compito in classe dalla A alla Z: l’alfabeto del nuovo anno scolastico”, di Salvo Intravaia

A come ATA. Il personale Ata (amministrativo, tecnico e ausiliario) precario, da un anno a questa parte, sta vivendo in una sorta di purgatorio: le loro assunzioni vengono bloccate o dilazionate nel tempo perché il loro destino è legato a quello degli insegnanti Inidonei per motivi di salute. Il governo Monti, con la Spending review, ha declassato questi ultimi al rango di Ata, ma la cosa non è andata giù ai 3mila insegnanti che, dopo decenni di onorata carriera, si sono ritrovati fuori dalla classe perché la loro salute non li accompagna più. Adesso, il governo delle larghe intese sta cercando di trovare una soluzione al declassamento degli inidonei. In questo caso, si sbloccherebbero alcune migliaia di posti accantonati per accogliere gli inidonei. Ma, in attesa di trovare la copertura finanziaria per riportare al ruolo di insegnante maestri e prof in difficoltà, è tutto bloccato.

B come Bes. Bes sta per Bisogni educativi speciali ed è l’ennesimo acronimo che ritroveremo nelle discussioni scolastiche nei prossimi anni. L’anno scorso, il ministro dell’Istruzione pubblicò due documenti che spiegavano alle scuole come si dovessero fare in quattro per supportare, non solo gli alunni disabili con tanto di certificazione medica, ma anche tutti gli alunni che si trovassero in difficoltà – anche momentanea – economica e con problemi di tipo sociale e psicologico. Gli istituti avrebbero dovuto predisporre, entro lo scorso 30 giugno, un apposito piano per programmare tutti gli interventi a supporto degli alunni meno fortunati. Ma, senza nessuna informazione specifica, le scuole brancolavano nel buio. E qualche settimana fa è arrivata la più classica delle risposte: nessuno obbligo per quest’anno. Rinvio al prossimo anno e attuazione, in fase sperimentale, per quest’anno.

C come Concorsi. Il papocchio creato dal concorso a cattedra bandito dopo 13 anni dall’ex ministro Francesco Profumo ci costringe a ripeterci e a dedicare la C ai concorsi, iniziati male e finiti allo stesso modo. Gli ultimi giorni di agosto, le commissioni giudicatrici hanno ingaggiato una vera corsa contro il tempo per consegnare le liste definitive dei vincitori entro il 31 agosto: ultima data utile per assumere coloro che ce l’hanno fatta. Ma la fretta, si sa, è cattiva consigliera e gli errori sono stati a decine. Ma la cosa più sorprendente è un’altra. Le migliaia di futuri docenti che si sono sobbarcati una lunghissima preparazione e un iter concorsuale lungo e complesso avranno una sgradita sorpresa: soltanto una piccola parte dei vincitori di concorso saranno assunti quest’anno, perché il ministero ha assegnato un numero di posti insufficiente. Per assumere il 26° in lizza in Molise nella graduatoria della scuola primaria occorrerà aspettare – al ritmo di un’assunzione all’anno – ben 26 anni.

D come Dispersione scolastica. Sarà una delle emergenze scolastiche anche per il prossimo anno, visto che non si riesce ad abbatterla in maniera consistente. L’ultimo dato – relativo al 2012 – reso noto da Eurostat colloca l’Italia tra le nazioni con il più alto tasso di alunni “che abbandonano prematuramente gli studi”: il 17,6 per cento. Soltanto dopo Spagna, Portogallo e Malta e distante 6 o 7 punti percentuali da nazioni come Francia e Germania. La scuola italiana e in primis la politica non riescono a rendere l’istruzione appetibile. Un neo che ci rimprovera anche l’Ue: l’Italia dovrebbe raggiungere entro il 2020 un livello di dispersione almeno del 15 per cento.

E come Edilizia scolastica. Il patrimonio edilizio delle scuole italiane è vecchio e obsoleto. Lo ha fatto capire il ministro Maria Chiara Carrozza presentando le linee guida del suo dicastero a deputati e senatori. I 42mila plessi scolastici italiani sono stati per oltre 3 quarti costruiti prima del 1980 e spesso per finalità diverse rispetto a quelle scolastiche. Con 10 istituti su cento presi in affitto da privati. Per rendere sicuri tutti i plessi scolastici sparsi sul territorio nazionale occorrerebbero oltre 10 miliardi di euro. Ma sarà difficile che, in un momento di crisi come quello che il nostro paese sta attraversando, si riescano a trovare tutte queste risorse.

F come Fornero. Per i docenti italiani la riforma Fornero delle pensioni è arrivata come un fulmine a ciel sereno. L’idea di non potere lasciare l’insegnamento prima sei 67 anni, e forse anche dopo, ha gettato l’intera categoria nello sconforto. Perché, stando a studi abbastanza recenti sul Burnout, i docenti sono tra i più esposti alle malattie di tipo psichiatrico.

G come governance. Negli ultimi anni, si parla sempre più spesso di governance della scuola. Da quando, cioè, è stata lanciata l’Autonomia scolastica si pone il problema di un nuovo modello di governo della scuola affidata, con ampi margini di discrezionalità, ai dirigenti scolastici e agli organi collegiali della scuola. Ma spesso negli istituti mancano le risorse adeguate e anche qualche idea. Così, una governance che consenta alle scuole di affacciarsi nel terzo millennio rischia di realizzarsi soltanto a metà.

H come Handicap. E’ forse l’anno in cui l’organico di diritto di sostegno verrà ampliato dagli attuali 63mila a 90mila posti. Una buona notizia per genitori e alunni disabili, oltre che per gli insegnanti che potranno essere assunti a tempo indeterminato nei prossimi anni, perché aumenteranno gli alunni che manterranno lo stesso docente per più anni. Una continuità didattica che per gli alunni affetti da disabilità è ancora più importante che per gli alunni normodotati.

I come Inidonei. Dopo anni di dibattito, dal prossimo settembre, i docenti inidonei, quasi sempre per motivi di salute, passeranno nelle segreterie scolastiche o nei laboratori per essere utilizzati come assistenti amministrativi o tecnici di laboratorio. Di questo declassamento, che non dovrebbe comunque portare a riduzioni stipendiali, si lamentano ovviamente gli interessati. Ma, in questo modo, le casse dello stato verranno alleggerite di circa 3 mila e 800 stipendi di personale Ata: quasi 100 milioni per anno.

L come Libri di testo. Digitali o cartacei? In questi anni si sta consumando una vera e propria guerra tra i sostenitori del digitale spinto al massimo anche tra i libri e coloro che preferiscono andare avanti con gradualità. Lo stesso ministro dell’Istruzione Francesco Profumo ha spinto al massimo per la digitalizzazione dei libri, ma il suo successore ha dovuto fare marcia indietro. Su questo aspetto si gioca anche la spesa per i libri che, nonostante le tante promesse, non è mai calata.

M come Merito. Mai come in questi anni di crisi si parla di merito a scuola. L’albo delle eccellenze è stato istituito nel 2007 dall’allora ministro della Pubblica istruzione Giuseppe Fioroni e adesso è arrivato il bonus-maturità, che dovrebbe premiare gli studenti più bravi che intraprendono la carriera universitaria. Ma il meccanismo va ancora perfezionato e non vale per tutte le facoltà.

N come Novità. Ogni volta che i docenti sentono parlare di novità per la scuola, tremano. Le novità annunciate dai diversi ministri, spesso, si traducono in tagli e aggravio di lavoro per gli insegnanti. Quando il cambiamento non si traduce in normative difficilmente applicabili nell’immediato, come il registro online o l’attenzione verso gli alunni con Bisogni educativi speciali.

O come Organi collegiali. Da ormai oltre un decennio si parla di riforma degli organi collegiali, che hanno visto la luce nel 1974, quasi 40 anni f. E per questa ragione ormai superati. La stessa partecipazione dei genitori alla rappresentanza scolastica è sempre più scarsa e c’è chi spinge per fare entrare nel governo delle istituzioni scolastiche, oltre che le famiglie, anche i soggetti che operano nel territorio e

P come Prove Invalsi. Il prossimo anno, le prove Invalsi – che misurano le competenze in Italiano e Matematica degli alunni italiani – arriveranno all’ultimo anno delle superiori. E completeranno tutto il ciclo dell’istruzione italiana. Sarà così possibile osservare l’evoluzione dei saperi degli alunni italiani nelle diverse aree del paese, soprattutto dove il gap con la media nazionale e le nazioni europee è forte.

Q come Quota 96. E’ diventata una vera e propria telenovela che non riesce a trovare un finale decente. La riforma Maroni delle pensioni prevedeva le “quote” per lasciare il lavoro: somma tra età e anni di servizio. Due anni fa si poteva andare in pensione con 61 anni e 35 di servizio, che sommati fanno proprio 96. Ma la riforma Fornero cambiò tutto e gli insegnanti che nel 2011 – l’anno si conclude il 31 agosto per la scuola – avevano già maturato la quota 96 vennero bloccati dalla nuova riforma, creando un pasticcio simile a quello degli esodati. Circa 9mila docenti che avevano chiesto di andare in pensione sono rimasti congelati a scuola. E adesso si cerca una soluzione e, soprattutto, una copertura finanziaria per lasciare liberi coloro che avevano maturato i requisiti per andare in pensione.

R come Reti di scuole. Quella delle reti di scuole sembra la strada maestra per ottimizzare le risorse – non solo materiali – che sono presenti all’interno degli istituti italiani. Progetti in rete sono già stati avviati da alcuni anni dal ministro ma occorre che cambi anche la mentalità degli insegnanti per operare in rete con i colleghi delle altre scuole.

S come Scatti stipendiali. Per il quarto anno consecutivo gli scatti automatici sugli stipendi degli insegnanti sono stati bloccati dal governo attuale e da quelli precedenti. Un provvedimento, che oltre a determinare la perdita del potere d’acquisto delle retribuzioni pari ad almeno il 15 per cento, peserà nelle tasche degli insegnanti per decine di migliaia di euro fino alla pensione. Sul web circolano applicazioni che in automatico calcolano quanto perderanno i lavoratori pubblici con il blocco dei contratti: non meno di 30mila euro per un docente al di sotto dei cinquant’anni con 20 di servizio alle spalle.

T come Tecnologie. L’ultimo dossier dell’Ocse sulla digitalizzazione delle scuole italiane fa emergere tre aspetti: pochi strumenti, poche risorse economiche e docenti poco inclini al cambiamento. Nelle scuole italiane ci sono pochi computer – 42 computer ogni cento studenti in prima superiore, contro gli 83 della Danimarca e i 51 della Germania – e spesso sono affollatissimi di alunni: solo il 20 per cento dei computer in quarta elementare lavorano con meno di tre scolari davanti. In Spagna la percentuale sale al sono 50 percento.

U come Università. Mai come quest’anno il percorso scolastico e quello universitario sono legati a filo doppio. Il bonus-maturità – contestato da studenti e famiglie, ma mantenuto dal ministero nonostante le evidenti disparità che crea fra gli studenti – crea un ponte tra scuola e università. Ma il meccanismo verrà certamente rivisto perché nel 2014 i test di ammissione alle facoltà a numero programmato nazionale si svolgerà ad aprile e sembra difficile che si possa legare l’ammissione al voto di maturità.

V come Valutazione. Ormai quasi tutti – insegnanti compresi – si sono rassegnati all’ingresso della valutazione nella scuola. Sembra che non sia possibile in nessun modo prescindere da qualche meccanismo di valutazione se si vuole migliorare la performance complessiva del sistema scolastico italiano. Al momento, la valutazione è riservata agli apprendimenti fondamentali degli alunni di sei classi dei tre ordini di scuola. Per docenti e dirigenti scolastici la valutazione è ancora lontana.

W come Week end. La settimana corta nelle scuole italiane si sta estendendo e non solo per esigenze didattiche. Le amministrazioni cali e provinciali pressano gli organi collegiali delle istituzioni scolastiche perché adottino questa soluzione al fine di risparmiare sulle spese energetiche. Tenere per due giorni a settimana migliaia di plessi scolastici potrebbe fare risparmiare infatti sulle bollette di luce e riscaldamento.

Z come Zaini. Anche quest’anno, essendo abortita ogni norma che limiti le dimensioni dei libri scolastici,gli alunni di tutte le età saranno costretti a trascinarsi pesanti zaini colmi di libri e tutto quanto serve per una normale giornata scolastica. Tutte le proposte avanzate o annunciate in passato dai diversi esponenti politici – armadietti per lasciare a scuola parte del corredo scolastico o volumi più leggeri – si sono sempre scontrati con insormontabili difficoltà, soprattutto di tipo economico. E la questione è passata nel dimenticatoio.

www.repubblica.it

Ghizzoni: “L’esclusione dei docenti ‘Quota 96’ è uno schiaffo al riconoscimento di un diritto”, di Silvia Colangeli

L`esclusione della ‘Quota 96’ dal Decreto Scuola rappresenta un vulnus per la credibilità del Pd che alla soluzione del problema ha dato pieno avvallo politico. Un anno e mezzo di battaglia vanificato. Questa decisione è uno schiaffo per chi chiedeva il riconoscimento di un diritto». La delusione di Manuela Ghizzoni, Vice-presidente Pd della Commissione Cultura alla Camera, è ancora viva ventiquattr`ore dopo la notizia dell`esclusione dei 9 mila insegnanti (stima dell`Inps) che non potranno andare in pensione a causa della Riforma Pomero. «Questa riforma – continua non ha riconosciuto le specificità del mondo della scuola, l`unico comparto in cui si va in pensione solo il primo settembre, non ci sono altre finestre d`uscita. L`altro errore è stato l`approvazione dello scalone enorme che non ha tenuto conto delle persone che avrebbero risentito dei suoi effetti. La correzione era contenuta nel programma di questo governo. Il pensionamento di queste persone avrebbe certamente aiutato l`operazione tentata dal, ministro dell`Istruzione Carrozza di ringiovanire il corpo docente».

Gli insegnanti protesteranno lunedì a Roma davanti alla sede del suo partito. Come intende spiegare al suo partito questa sua critica?

«Ho usato parole dure perché credo rappresentino un sentimento comune che va al di là di questa vicenda. Io credo sia un errore anteporre alla scuola altre emergenze. Non riusciremo ad agganciare nessun tipo di ripresa economica, e soprattutto sociale, se non metteremo al centro il problema della conoscenza. Su questo lavoro da sei anni e non posso nascondere che i miei risultati siano discontinui. Nonostante i cambi di governo. Anche se qualcuno in rete ieri ha chiesto le mie dimissioni, secondo me dovrebbero dimettersi altri condannati in via definitiva. Spero che al congresso del Pd si discutano le linee programmatiche per orientare in maniera diversa alcune scelte rispetto a quanto fatto fin`ora».

Perché il governo non è riuscito a trovare i 200 milioni necessari per mandare in pensione questi docenti?

«È chiaro che la scelta di drenare le risorse per cancellare a tutti i costi l`Imu, anche a coloro che hanno un reddito alto, ha significato sacrificare altre questioni, come la ‘Quota 96’. Oppure il costo del lavoro o l`aumento di un punto dell`Iva. Stiamo parlando di diversi miliardi che l`esecutivo ha orientato direttamente a questa scelta. Un`operazione come quella attuata da Prodi nel 2007, che aveva cancellato questa tassa solo per i redditi medio-bassi, sarebbe stata più opportuna.

Quali sono le conguenze che avrà questa decisione sugli studenti?

«Il problema della ‘Quota 96’ è cruciale perché non riguarda solo il riconoscimento di un diritto dei docenti, ma anche il diritto dei ragazzi alla continuità didattica. Vorrei rivolgermi alle famiglie sgravate dall`Imu e che hanno iscritto i figli alle primarie. Pensano che insegnanti di 63, 64, 65 anni possano reggere la sfida di un`intera classe di bambini dai 3 ai 5 anni? Con tutto il rispetto, dopo quarant`anni di servizio, meritano di andare in pensione e di fare le nonne. Abbiamo il corpo docente più vecchio d`Europa ed è ovvio che la sua permanenza in servizio non risolverà il problema dei precari».

Ci sono speranze di risolvere i problemi dei «docenti inidonei» e dei precari del sostegno?

«Stando alle informazioni in mio possesso, per loro il Decreto scuola dovrebbe trovare una soluzione. Fino al giorno del consiglio dei ministri (9 settembre, ndr.) le cose potrebbero cambiare, anche in meglio. Verranno inserite norme sul diritto allo studio. Credo che avremmo dovuto fare altrettanto per i docenti di ‘Quota 96’ com`era scritto nel programma del Pd».

Il Manifesto 06.09.13