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Stefano Fassina «Le abitazioni di maggior valore vanno tassate», di Luigina Venturelli

Un pungolo affinché l’azione dell’esecutivo Letta si prepari ad una legge di Stabilità più attenta alle forze produttive e meno a quelle della rendita. È quanto dovrebbe diventare il documento unitario delle parti sociali, non solo negli auspici dei suoi sottoscrittori, ma anche in quelli dell’anima democratica del governo stesso. A cominciare dal viceministro all’Economia Stefano Fassina. Come giudica l’iniziativa unitaria di Cgil Cisl, Uil e Confindustria per dettare al governo gli obiettivi da perseguire in vista della ripresa?
«Già nei mesi scorsi i sindacati confederali, l’associazione degli industriali e tutte le altre forze sociali avevano dimostrato piena consapevolezza della delicata fase che il nostro Paese sta affrontando. Ed oggi, dopo l’accordo sulla rappresentanza e democrazia nei luoghi di lavoro, hanno confermato di essere degli attori imprescindibili per riportare l’Italia sulla via della crescita e dello sviluppo economico. Da questo punto di vista mi sembra molto importante il riconoscimento della governabilità come valore da difendere».
Purché, si legge nel documento, la governabilità porti a soluzioni ai problemi reali del Paese.
«Certo senza stabilità non è possibile per la politica elaborare risposte efficaci alle esigenze degli italiani. Le parti sociali hanno dimostrato di saper svolgere quella funzione generale che guarda all’interesse di tutto il Paese e che va oltre la rappresentanza degli interessi specifici di categoria. Con buona pace di chi in questi anni li ha dipinti esclusivamente come soggetti corporativi».
Non le sarà sfuggita, però, la frecciata sull’ultimo decreto del governo e sulle risorse che sarebbero state meglio impiegate per il rilancio delle imprese e il sostegno dei lavoratori.
«Una frecciata corretta e meritata. Una frecciata inevitabile da parte di chi assume ad obiettivo della propria azione le vere priorità del Paese, senza sventolare bandierine propagandiste e classiste. Nel decreto siamo dovuti arrivare ad un compromesso politico complessivamente utile, ma che pure contiene parti sbagliate nel sottrarre risorse a investimenti e occupazione per cancellare l’Imu anche alle case di maggior valore. Spero che questo intervento di Cgil, Cisl, Uil e Confindustria aiuti il presidente Letta e il Partito democratico ad affermare con forza ciò che è davvero importante realizzare per il bene dell’Italia».
Da dove cominciare?
«Dalla revisione delle politiche fiscali di cui parla il documento delle parti sociali, per ridurre il carico sul lavoro e sulle imprese. Si potrebbe reintrodurre la deducibilit à dell’Imu per le imprese, finanziandola con il ripristino dell’Imu su quel 5% di abitazioni di maggior valore. Così si arriverebbe a risparmiare un miliardo di euro».
Ma come? Il dibattito intorno alla revisione dell’Imu si è appena concluso, e già si annunciano polemiche roventi per le coperture finanziarie al decreto che potrebbero arrivare anche da tagli ai fondi per l’occupazione.
«Per questo spero che l’impulso dato dalle parti sociali con questo documento unitario consenta di rimettere in ordine le priorità, che stanno tutte dalla parte dei fattori produttivi e non da quella delle rendite. Non a caso c’è anche Confindustria tra i firmatari del testo».
Industriali e Cgil, Cisl e Uil invocano anche una cabina di regia nazionale sulle crisi d’impresa.
«Mi sembra una proposta condivisibile. I segni di ripresa sono reali e innegabili, ma vanno sostenuti in modo adeguato. Non illudiamoci: senza una correzione delle politiche economiche a livello europeo che abbandoni l’obiettivo dell’austerità cieca perseguita finora, il mondo della produzione e dell’occupazione non riusciranno a recuperare il terreno perso e rimarranno invischiati nella spirale perversa della recessione».
Le parti sociali intervengono anche nel campo più propriamente politico, invocando la revisione degli assetti istituzionali e la messa in efficienza della spesa pubblica.
«Senza un meccanismo decisionale adeguato, del resto, è difficile adottare le buone politiche economiche di cui l’Italia ha estremo bisogno. Il che significa, tra l’altro perseguire il superamento del bicameralismo perfetto, la creazione di una Camera delle autonomie regionali, e il cambiamento della legge elettorale per restituire voce ai cittadini nella scelta dei loro rappresentanti». Sembra così che il documento delle parti sociali guardi anche oltre il governo Letta.
«Il documento guarda a tutte le priorità di questa fase, che non sono solo economiche e sociali, ma anche istituzionali e costituzionali ».

L’Unità 03.09.13

“Sorpresa, postcomunisti addio. Il Pd si scopre democristiano”, di Paolo Franchi

Se e quando Matteo Renzi ed Enrico Letta si affronteranno apertamente per la guida del Pd e (elettori permettendo) del Paese non è dato sapere. Sul fatto che il campo degli aspiranti cavalli di razza del Pd ormai lo occupino loro, invece, molti dubbi non ce ne sono. Sì, cavalli di razza, proprio come mezzo secolo fa, nel lessico democristiano d’epoca, furono definiti, si parva licet, Amintore Fanfani e Aldo Moro. Perché possiamo anche classificarli genericamente come postdemocristiani (siamo tutti post qualcosa), ma resta il fatto che entrambi nel movimento giovanile dell’ultima Dc, e poi nel Partito popolare, hanno mosso i primi passi e si sono formati. E non nascondono né, tanto meno, rinnegano le loro origini. Anzi. Cronisti frettolosi scomodano, per ricostruirne gli alberi genealogici, Giorgio La Pira e Beniamino Andreatta. Non ce ne sarebbe bisogno. Assai lontani per carattere, cultura, stile comunicativo, e prima ancora per concezione della politica, Renzi e Letta a modo loro incarnano, o per meglio dire reincarnano, due anime assai diverse, ma non per questo irrimediabilmente antagonistiche, di una storia che all’antagonismo ha sempre preferito la conciliazione, magari in extremis, anche tra gli opposti. La storia di un partito e di un mondo nei quali, fin quando è stato materialmente possibile, le divisioni politiche e personali più aspre e le mediazioni più sofisticate hanno convissuto e si sono inestricabilmente intrecciate. Lasciando sempre con un palmo di naso
chi scommetteva (a sinistra e non solo) sull’insanabilità delle contraddizioni democristiane, e sulla fine imminente dell’unità della Dc.
Il duello (nemmeno troppo a distanza) tra Renzi e Letta basta, o dovrebbe bastare, a dimostrare che politici e commentatori a diverso titolo «nuovisti», trattando in questi ultimi vent’anni la tradizione politica e culturale dei cattolici democratici come un cane morto, hanno preso un colossale abbaglio. Ma la tenuta e la vivacità di questa tradizione, la capacità dei suoi esponenti di ritrovarsi nei momenti che contano (proprio ieri Dario Franceschini ha annunciato il suo voto per Renzi), nonché l’indiscutibile appeal dei contendenti non spiegano davvero tutto. Di mezzo, colossale, c’è la questione della sinistra italiana. O meglio di quel che resta di quella parte (maggioritaria) dei dirigenti, dei militanti e degli elettori fedeli del vecchio Pci che, traversate le stazioni del Pds e dei Ds, ha dato vita da socia fondatrice e da azionista di maggioranza al Pd. Prima o poi bisognerà pure raccontare nei dettagli questa storia. Qui, è sufficiente ricordarne l’esito, a lungo ritardato, a dir poco infausto.
I postcomunisti, che, secondo l’interpretazione più diffusa a destra, nel Pd la avrebbero fatta da padroni, lasciando agli altri soci, postdemocristiani in testa, il ruolo degli indipendenti di sinistra del tempo che fu, hanno clamorosamente perso la partita. Riducendosi progressivamente al rango di forza di interdizione, votata quasi esclusivamente a mantenere nei limiti del possibile le proprie posizioni di potere e le proprie rendite. Come se, accertatisi di aver gettato via il bambino, gli ex ds si fossero preoccupati soprattutto di non lasciar disperdere nemmeno una goccia di acqua sporca del loro passato. Può anche darsi che questo sia, in una certa misura, un cliché che gli è stato incollato addosso. Ma di sicuro non hanno fatto niente per liberarsene, e molto, troppo, per avvalorarlo: da ultimo impiccandosi all’improbabile tesi secondo la quale Renzi potrebbe benissimo governare l’Italia, ma non sarebbe capace di guidare il partito.
Intervistato dalla Stampa, uno tra i più intelligenti e colti tra loro, Gianni Cuperlo, ha voluto polemicamente ricordare a Renzi, sospettato, in caso di vittoria, di voler mandare in soffitta la sinistra interna, che «senza sinistra il Pd semplicemente non c’è». Basterebbe tenere a mente la composizione dell’elettorato democratico per riconoscere a Cuperlo più ragioni di quante comunemente gliene attribuisca la maggioranza dei commentatori: conquistare una quota, anche rispettabile, degli elettori del campo avverso non basta a vincere se, per farlo, si lascia emigrare (verso Grillo, verso Sel, verso l’astensione) buona parte dei propri. Ma, fossimo in Cuperlo e in chi la pensa come lui, terremmo bene a mente che, a portare Renzi a un’imprevista vittoria nelle primarie per la candidatura a sindaco di Firenze, fu soprattutto l’ancora più imprevisto soccorso rosso di militanti ed elettori di antica appartenenza al Pci prima, al Pds e ai Ds poi: desiderosi di sparigliare i giochi, cominciando con il togliersi di torno i gruppi dirigenti tradizionali e i loro candidati. La stessa cosa è avvenuta (in primo luogo, e non è un caso, nelle cosiddette regioni rosse) nelle primarie per la candidatura a Palazzo Chigi. E niente lascia supporre che non si ripeterà ancora, e su scala allargata. Di «morire democristiani» questi elettori non hanno sicuramente alcuna voglia. Di morire d’inedia, facendo da guardiani a un tempio ormai vuoto da un pezzo, probabilmente ancor meno.

Il Corriere della Sera 03.09.13

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Gli ex Ds verso una sconfitta epocale. Popolari, patto per convergere sul sindaco E l’area post comunista resta spiazzata
di Fabio Martini

Ha chiesto di avere una stanza al piano nobile del partito, lo hanno accontentato, ma sottovoce hanno cominciato a chiamarlo il «segretario emerito». L’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani ieri non era nel suo nuovo ufficio nella sede del partito a Sant’Andrea delle Fratte e il piano dei dirigenti, a parte Guglielmo Epifani, era vuoto e silenzioso. Un quartier generale abbandonato non soltanto dal punto di vista fisico. Con lo squagliamento di quasi tutti i notabili ex Ppi, è iniziato ieri un fuggi-fuggi dalla plancia di comando che rende ancora più probabile una grossa novità al piano nobile del Pd: l’insediamento entro la fine dell’anno di Matteo Renzi, un personaggio che ha una formazione totalmente diversa dai leader finora eletti dalle primarie. Nei suoi primi sei anni, il Pd è stato guidato da personalità provenienti dal Pci-Ds e che hanno sempre considerato il partito come l’unico bastione da non cedere mai ad «estranei». Ma ora per la prima volta la «ditta» potrebbe andare in crisi, condannando tutta una storia ad una sconfitta epocale.
Tutto è precipitato nel giro di 48 ore per effetto di due mosse congiunte, una sorta di «patto dei non comunisti» del Pd. Due giorni fa Matteo Renzi si era esplicitamente candidato alla guida del partito, chiudendo ogni illusione del trio Epifani-Bersani-Letta di congelare le Primarie. A quel punto, tra domenica sera e lunedì mattina i tre ex ragazzi del Ppi – li chiamavano le «tre punte di Chianciano» – il presidente del Consiglio Enrico Letta, il ministro Dario Franceschini e l’ex ministro Beppe Fioroni – si sono consultati e, giocando d’anticipo, hanno convenuto: convergiamo su Renzi. Certo, lo faranno con modalità diverse. Fioroni e Franceschini sono usciti allo scoperto con dichiarazioni problematiche, mentre Letta fa sapere che è sua intenzione non addentrarsi nelle vicende congressuali, anche se presto la corrente lettiana sarà in campo. Spalleggiando Matteo Renzi, gli ex Ppi hanno ritrovato unità di intenti. Per dirla con Beppe Fioroni: «Siamo pronti a marciare “core a core” nella stessa direzione… ».
E infatti quella di ieri è stata una giornata di marasma nella plancia di comando del Pd. Fino a ieri il partito era stato guidato dalla triade Bersani-Franceschini-Epifani con l’«appoggio esterno» di Letta. Ieri l’improvviso smarcamento di Franceschini, personaggio protagonista di proverbiali e brusche inversioni di rotta, è lo stesso che appena 37 giorni fa aveva proposto alla Direzione di eleggere il segretario con i soli iscritti, quanto di più anti-renziano sia stato concepito. Uno smarcamento che ha lasciato soli gli ex Ds. Soli e divisi in due aree tra loro conflittuali: da una parte gli amici di Bersani che finora non hanno un candidato alla segreteria, dall’altra «giovani turchi» e amici di Massimo D’Alema, che da tempo sostengono Gianni Cuperlo. Ieri i bersaniani (tra i quali si segnala il «mal di pancia» di Vasco Errani) hanno cercato di aprire un file da tempo messo in sonno: «Perché non convergiamo tutti su Fassina? ». Ma fare del viceministro l’anti-Renzi non è impresa semplice. Fassina ha dato la sua disponibilità ma «a condizione che Gianni si convinca dell’utilità di una candidatura unitaria». Ma Cuperlo, che da tempo parla da candidato, non sembra affatto convinto di questo sacrificio.

La Stampa 03.09.13

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Congresso già «finito»: ma i bersaniani all’angolo sono tentati da Barca, di Maria Teresa Meli

«Dario, facce Tarzan»: l’ironia si spreca sul web e corre veloce nei corridoi della Camera, dove ieri, dopo la pausa estiva, si sono affacciati i primi parlamentari del Pd.
La propensione del ministro dei Rapporti con il Parlamento a cambiare cavallo e punto di riferimento (all’inizio fu Franco Marini, poi Massimo D’Alema, quindi Walter Veltroni, dopodiché ci fu Pier Luigi Bersani e per penultimo Enrico Letta) fa discutere sia i sostenitori del sindaco di Firenze che i suoi detrattori. I primi temono l’abbraccio mortale dell’apparato, anche se il primo cittadino li rassicura: «Tranquilli, non ci faremo fagocitare». Per questo i renziani incassano il sì di Franceschini, che rappresenta pur sempre la rottura definitiva della vecchia maggioranza che ha tenuto finora le leve del comando, ma lo fanno con prudenza. Spiega Paolo Gentiloni: «Ben vengano certe prese di posizione se possono servire a fortificare il centrosinistra e il Paese, però nessuno punti a una maggioranza interna finta o a fare giochini di potere interni». I secondi, cioè i bersaniani, masticano amaro. Stefano Fassina si lascia sfuggire con un amico un esasperato: «Ma che gli dice la testa a quello?». Mentre l’ex segretario non cela il malumore: «Questo giochino “Renzi sì, Renzi no”, fa male al partito e alla politica».
Del resto, per Bersani è un brutto colpo. È la certificazione che il congresso del Partito democratico è già bello che finito. I pd al governo ne avevano avuto un qualche sentore giorni fa, quando avevano capito che rischiavano di restare fuori da tutti i giochi. Già, Massimo D’Alema è in pole position per la trattativa con il sindaco di Firenze. L’ex premier è pronto anche a stare in minoranza, come ha fatto sapere agli emissari del primo cittadino di Firenze, però è in rapporti non malvagi con il sindaco, che, ovviamente, non potrà non scegliersi degli interlocutori tra gli avversari interni. Per non rischiare Franceschini si è mosso, avvertendo prima Enrico Letta, con cui ha avuto un colloquio sull’opportunità di uscire allo scoperto già adesso. È toccato a lui, perché il premier, per il ruolo che ricopre, non può certo entrare nel dibattito interno al Partito democratico. Ma non può nemmeno stare dalla parte dei perdenti. E visto che tali paiono ormai i bersaniani e gli esponenti della vecchia maggioranza pre-elezioni politiche, meglio defilarsi da quel gruppo e aprire uno spiraglio nei confronti di Renzi. E chi meglio di Franceschini poteva farlo? Il ministro per i Rapporti con il Parlamento rappresenta l’ala governativa del Pd, quella più vicina a Letta, ma le sue mosse non sono automaticamente ascrivibili al premier, il che toglie il presidente del Consiglio dall’imbarazzo di apparire come uno che mette bocca nella dialettica interna al Pd. «Mi raccomando, io non voglio stress sul governo», è la raccomandazione ormai quasi quotidiana dell’inquilino di palazzo Chigi.
I renziani sono sicuri che tra un po’ si affacceranno sulla stessa sponda anche i lettiani, benché non tutti, perché una parte dei sostenitori del capo del governo sembra nutrire una spiccata antipatia per il sindaco di Firenze. Il quale sindaco non sembra poi troppo stupito della piega che stanno prendendo gli eventi in casa democratica. Non dice, come qualcuno dei suoi, che «la festa del Pd si è chiusa domenica e il congresso si è chiuso il giorno dopo», ma ha tutta l’aria di uno che fiuta il clima a lui propenso. «Del resto — è il suo convincimento — loro sanno benissimo che non hanno il quorum per cambiare regole e norme». In effetti, lo sanno talmente bene che Franceschini ha fatto la sua mossa e Beppe Fioroni (fino a qualche tempo fa uno dei più acerrimi nemici del sindaco di Firenze) lascia intendere che potrebbe seguire anche lui l’esempio del ministro per i Rapporti con il Parlamento.
Dunque, il primo cittadino di Firenze ha aperto una breccia nel fronte della vecchia maggioranza del Pd. Eppure i bersaniani non si rassegnano ancora. Ora puntano sul fatto che attorno a Renzi ci sono (quasi) solo ex Dc, nella speranza di resuscitare l’orgoglio diessino. A questo scopo sarebbero disposti a sostenere la candidatura di Cuperlo con Massimo D’Alema. Con un retropensiero: contro Renzi e contro Letta, che sembra aver lasciato le sponde della vecchia maggioranza, gli ex Ds potrebbero trovare un candidato comune alle prossime primarie per il premier, Fabrizio Barca.

Il Corriere della Sera 03.09.13

“Non sedurre ma servire, questo il vero potere” di Mariapia Veladiano

Capita che un docente sia accusato di avere avuto rapporti di sesso, anche violento, con sue studentesse, anche minorenni. Più d’una. Capita che lo ammetta. Più tardi la giustizia dirà tutto quel che può, dopo un processo che deve essere giusto. E intanto per ò capita che compagni e compagne di classe e di scuola difendano il professore. Bravo dicono, appassionato, innamorato della materia. Innamorato? E allora ci si chiede qualcosa.
Nelle aule come nella vita può capitare che le emozioni diventino bufera che travolge. Nella scuola di più, non solo perché ci si passa un mare di tempo e i rapporti sono stretti stretti e le interazioni necessarie. Ma anche perché le aule sono affollate di portatori privilegiati dell’emozione più potente in noi, il desiderio. Da giovani il desiderio è moltitudine. Essere visti, riconosciuti come persona che vale, amati. Esistere.
Ed è bene che le emozioni attraversino le ore di lezione. Non si trova teoria pedagogica a sostenere che l’apprendimento e il rapporto educativo funzionino meglio in un contesto di gelo relazionale. Gli strumenti critici e le emozioni ci fanno sapere il nostro valore. E insieme viene la libertà. Di non farsi aggirare, di difenderci da soprusi sociali e personali, stereotipi, trappole che ci minacciano. Scuola sta con libertà, se il patto con l’adulto funziona.
Davvero però il rapporto può tracimare in ogni momento, e la letteratura è piena di queste storie con finale a volte chissà letterariamente felice, più spesso incerto. La cronaca invece conosce soprattutto finali drammatici. Il patto stabilisce che nel contesto d’aula il confine dei ruoli è tenuto dall’adulto, che conosce, e riconosce, anche in se stesso, il potere delle emozioni, e in virtù del suo essere adulto le sa governare, anche in sé stesso. E gioca d’anticipo ogni momento, non comprime la distanza con lo studente, che non è distanza di valore, ma di ruolo e di maturità. Non si confonde con lui. Ci sono i confini. Colleghi insegnanti hanno deciso che un confine è non essere amici sui social network fino a che rimane il rapporto di scuola. Niente telefono diretto, niente sms, niente post o tweet. Altri stanno anche su questi confini. Ma conoscono l’arte della misura che non ammicca.
E poi c’è il potere. Sia pure piccolo, corroso da una considerazione sociale in caduta libera e più ancora da una carsica crisi di indotta disistima, in aula il docente porta una forma di potere, quello di riconoscere lo studente oppure no appunto, ed è il potere più forte, aiutato dal potere del voto, la promozione. Credito fra gli amici e in famiglia.
L’unico potere d’aula buono è servizio alle persone che ci sono affidate. Lo è per legge e per deontologia professionale. E invece no. Può capitare che non sia così è diventi mezzo di seduzione, sopruso. Più facile se l’insegnante è bravo. Perché il seduttore ha sempre del buono in sé, altrimenti non sedurrebbe nessuno. Ha il buono di una passione. E quello del desiderio, come i ragazzi. Non coltivato in un sé adulto e appagato ma un desiderio malato di vita. Di tutte le vite. Bisogno di esistere attraverso le vite d’altri, possedute fino all’estremoconfine. Queste cose non capitano nel deserto. C’è sempre un mondo di adulti “sani”, ciechi sordi e muti, intorno. Non tutti colpevoli d’omissione, no. Perché un genitore che trova un professore pieno di entusiasmo, generoso del suo tempo e del suo sapere, amato dai ragazzi, che vanno a scuola volentieri e sono felici, è contento, semplicemente. Certo che deve essere attento, e magari lo è, eppure non vede. Perché il seduttore seduce a trecentosessanta gradi, i genitori anche, e i ragazzi hanno il diritto di non capire la tempesta che li abita, e sono sgomenti e contenti nello stesso momento: un’attenzione malata è pur sempre un’attenzione, un insegnante sedotto è un frammento di onnipotenza nelle loro mani giovani. In un gioco di rovesciamenti che la psicoanalisi sa chiamare per nome e raccontare. Forse è per questo che i ragazzi con ostinazione difendono il docente che esce dal suo ruolo fino all’offesa dei loro corpi e della loro libertà. Perché difendono il loro essere esistiti, assoluti, unici e importanti, per un attimo a volte lungo, perché condannare il seduttore vuol dire riconoscere che l’ingresso travolgente nell’età adulta, vissuto come un posto ricevuto e riconosciuto, non c’è stato. Vuol dire precipitare di nuovo nella paura di non valere.
Però all’appello delle colpe qualcuno può ben essere chiamato. Tutti quelli che per convenienza, piaggeria, quieto vivere, ammiccante connivenza, hanno taciuto. E quelli che sulla scuola non sorvegliano. Che affidano un compito straordinario a persone la cui inadeguatezza, o malattia, colpevolmente non sanno riconoscere.

La Repubblica 03.09.13

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Quando il maestro ti conquista Il fascino del professore
di Vera Schiavazzi

Mentre la storia triste di un professore di liceo agli arresti per avere intrattenuto lunghe relazioni sessuali con due studentesse è ancora lontana dalla parola fine, migliaia di professori e di ragazzi stanno per tornare sui banchi e cominciare da capo quella che dovrebbe essere anche e forse soprattutto una relazione tra persone.
Un rapporto capace di orientare una vita, di far scegliere certi studi piuttosto che altri, di salvare dalla disperazione adolescenziale nutrendola di versi, numeri, letture. O al contrario di cancellare innocenza e fiducia. A studiare il problema è stato George Steiner. Con un approccio assai pi ù rigoroso di due film di culto come “L’attimo fuggente” di Peter Weir, interpretato da Robin Williams e ambientato nel bigotto Vermont del 1959, o de “La classe” del francese Laurent Cantet, Palma d’Oro a Cannes nel 2008. È stato lui a riconoscere la “corrente magnetica” che passa tra la cattedra e i banchi, tra il maestro e i suoi allievi. E ne vedeva i pericoli e le deviazioni, da Abelardo e Eloisa fino a Martin Heidegger e Hannah Arendt. Le sue storie sono raccolte ne “La lezione dei maestri” (Garzanti, 2004). Forse non è il caso di scomodare Socrate e Platone, Sant’Agostino o Shakespeare per raccontare in che modo il professore di Saluzzo scambiava centinaia di sms con le sue due presunte vittime.Ma il problema esiste e agita le menti dei docenti migliori in tutti i licei d’Italia.
«Per creare relazioni personali e gestirle dall’inizio alla fine occorre un livello straordinario di responsabilità e professionalità — dice Pier Cesare Rivoltella, docente di Didattica alla Cattolica di Milano, alla guida del Cermit, il centro che si occupa di insegnamento e nuove tecnologie — Il sistema scolastico italiano non è in grado di garantire questa premessa in modo generale, ma c’è una sensibilità crescente e nascono molti progetti interessanti capaci di far rinascere un dialogo corretto, anche attraverso i social network. Con l’attenzione del caso, perché questi strumenti presuppongono una relazione paritetica che non è quella propria dell’insegnamento».
«Docente e studente sono due parole bruttissime, io preferisco maestro e allievo — dice Chiesa — Il professore non dev’essere l’amicone dei ragazzi, ma deve conquistarsi la stima sul campo, partendo da tre regole-chiave: ascolto reciproco e reale, rispetto dell’altro per quello che è, fiducia con la quale ci si deve rivolgere al maestro perché le cose che ti chiede, compiti compresi, sono davvero utili. Fatte queste tre cose si può iniziare davvero a insegnare ». La carenza di relazione, il ripiegare su se stessi facendo ilminimo indispensabile da una parte e dall’altra sono, per Chiesa, il vero male delle scuole superiori italiane. «E certo — si rammarica — vicende come quella di Saluzzo non aiutano, anzi, possono intimorire molti insegnanti spingendoli a spersonalizzare ancora di più il loro lavoro».
Le regole non sono soltanto un problema nostrano: «Non si devono confondere norme culturali con altre che invece sono etiche – dice Bruce Weinstein, autore di un manuale sul tema rivolto ai ragazzi in uscita per il Castoro nell’edizione italiana, “E se nessuno mi becca?” – Esistono principi relativi, mutevoli da paese a paese, per esempio come ci si deve vestire a scuola, e altri universalmente inviolabili. Uno di questi è il sesso tra insegnante e alunno. È un limite che non va mai travalicato ». Non solo: «Nella relazione adulto/ragazzo c’è sempre in gioco la gestione del potere. E l’adulto non deve mai abusare di questo potere, anche semplicemente nel modo in cui si rivolge, parla, insegna o punisce un suo studente », osserva Weinstein, mettendo (involontariamente) il dito nella piaga. «Un allievo non è tuo figlio, e tuttavia di lui ti devi far carico a 360 gradi – riflette Fabio Fiore, professore di storia e filosofia al “Newton” di Chivasso dove è in corso una sperimentazione che punta sulle famiglie e sui nuovi media per ricucire lo strappo – Il carisma? Se è troppo può essere un pericolo che sbilancia la relazione. Il fatto è che sono saltati i rapporti tra generazioni, i confini dell’autorità non sono più chiari, la relazione rischia di essere opaca. Per salire in cattedra servirebbe un lungo tirocinio psicologico, inclusa qualche lezione sulla sessualità. Ma ci sono confini che non si possono scavalcare».
Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra, docente, uno tra i più autorevoli esperti italiani a occuparsi di adolescenza, ora lavora al progetto Campus, undici scuole superiori di Trento che si sono unite per formare i professori a essere tutor e a seguire individualmente cinque studenti a testa anche fuori dall’aula. «I ragazzi che hanno carenze affettive possono cercare sicurezza e modelli nel professore più facilmente di altri — sostiene Pietropolli Charmet — Ma la scuola comincia a porsi seriamente l’o-biettivo di dilatare la relazione, andando al di là della semplice lezione. I ragazzi di oggi non hanno paura del professore e non si sentono in colpa, portano in aula il corpo, la disperazione, la solitudine, la violenza, tutto. Chi è in cattedra deve mediare tra loro e un sistema di regole scolastiche che senza relazione umana non ha senso». È possibile farlo senza troppi rischi? «La scuola — risponde lo psichiatra — è organizzata nel senso opposto, per impedire i rapporti personali, e guarda con sospetto a chi parla troppo con gli studenti, a tu per tu. È un tabù che deve cadere. I tutor lavorano con l’aiuto di una scheda, annotanoogni colloquio e poi lo condividono con gli altri, sapendo che entrare nella relazione a due significa aprire un coperchio, e che spesso è l’adolescente per primo a proporsi, a chiedere il numero di telefono, a scrivere lettere e messaggi».
Paolo Mattana, docente di Filosofia dell’educazione alla Bicocca e autore di “Caro Insegnante” per Franco Angeli è la voce dissonante nel dibattito. «La scuola è oggi un luogo di reclusione per bambini e ragazzi — sostiene — come spiegava già Foucault. Si potrebbe anche tollerare, ma il fatto è che non funziona e produce giovani del tutto disinteressati alla cultura e all’etica.Possiamo tornare a appassionarli e a appassionarci all’insegnamento se c’è un interesse autentico, un piacere, un eros che non può venire negato proprio nel rapporto con ragazzi che scoprono la sessualità che si vorrebbe cancellare. Lo chiamo eros, e non “affettività” perché sarebbe ipocrita. E penso che si più rischioso negarlo e nasconderlo che dichiararlo. Il vero scandalo è l’assenza di un’educazione alla sessualit à nella scuola italiana di oggi. Se insegniamo senza passione rubiamo la loro vita, li rendiamo catatonici e non dobbiamo stupirci se finita la scuola bruciano o stracciano i libri».
Non solo libri, appunti, compiti a casa, voti in pagella. Ma anche i gesti, la voce, la fascinazione, la capacità di creare un transfert tra allievo e maestro che somiglia da vicino a quello tra lo psicoanalista e il suo paziente. «Ogni mattina entrando in una classe di liceo mi devo chiedere come si conquista la stima degli studenti, che non è scontata come quella che i bambini ti regalano alle elementari. Ma naturalmente se affascini puoi sbagliare, ci vuole capacità e responsabilità per costruire una vera relazione tra persone, al di là della cattedra». Domenico Chiesa è un professore di lungo corso, tra i leader nazionali del Cidi, il Centro di iniziativa democratica degli insegnanti. Pochi mesi fa era al “Soleri” di Saluzzo nei panni di formatore, per parlare proprio di rapporti umani tra adulti e ragazzi, tra chi insegna e chi deve imparare. Con tutti i rischi del caso.

La Repubblica 03.09.13

“Il Pd che serve dopo Berlusconi”, di Alfredo Reichlin

Che congresso vogliamo fare? Intanto alla faccia di un mondo politico e giornalistico che vive solo solo scagliando fango contro il Pd, si deve riconoscere che questo partito esiste. Eccome se esiste. Basta guardare alla vitalità e alle speranze che si esprimono nelle nostre assemblee. Pongo però un problema. Qual è la realtà da cui partire? Parlo di quello stato di cose che, al di là delle persone, ci mette alla prova e interroga quel grumo di cultura politica, di storia e di passioni che si chiama un partito.

E che ridefinisce il suo ruolo reale, non in astratto e non solo tatticamente ma di fronte all’oggi, cioè a una situazione che è ben più di una crisi, è un passaggio davvero cruciale della storia repubblicana. Stiamo attenti a non sbagliare sulla realtà che ci sfida, essendoci solo un esile crinale che separa una crisi politica dall’esplosione di una crisi di regime. Basta immaginare che Berlusconi, per sopravvivere, riesca a trascinare il Paese in una elezione anticipata giocata ancora col «porcellum». Non è una fantasia, è l’ipotesi verso cui spingono metà dei suoi cortigiani. La campagna elettorale sarebbe feroce, ben più che uno scontro tra destra e sinistra. Sarebbe inevitabilmente una scelta di regime politico. La vittoria del Cavaliere in nome del suo rifiuto della legge sarebbe la tragica sanzione del fatto che l’Italia non è più una democrazia rappresentativa basata sulla legge e sui diritti uguali ma uno strano regime populista di tipo «salazariano», (che poi non sarebbe una assoluta novità nella storia italiana).

Spero, naturalmente che ciò non avverrà. Ma squadernata davanti ai nostri occhi c’è la questione delle questioni, cioè il fatto che la lunga crisi, da anni irrisolta, del sistema politico, aggravata da un assetto sociale sempre me- no sostenibile e da fenomeni di degrado anche morale e intellettuale, si sta trasformando in una vera e propria crisi di regime. Questa è la posta in gioco. È molto alta. Per affrontarla occorrono uomini forti non ossessionati del giorno per giorno, molto determinati, capaci di chiamare il nostro popolo alla lotta, anche dura, per una ricostruzione della democrazia italiana. Perciò detto – tra parentesi – a me sembra molto importante la tenuta del governo Letta. Ha subito anche dei compromessi, ma ha impedito che l’Italia venga buttata fuori dall’Europa e che finisca ai margini del mondo. Non è poco. Trovo perciò non solo ingiusta ma ridicola l’accusa al Pd di voler perpetuare le «larghe intese» con Berlusconi. Ma dove sono queste «larghe intese»? Su che cosa si stanno facendo se siamo a un passo da una guerra civile? Per piacere, c’è un limite alla mala fede e alla demagogia.

Ma se vogliamo che il Pd rialzi la testa, bisogna uscire da questo singolare paradosso. Da un lato questo partito è tuttora il maggiore deposito di storia e di valori che esiste a sinistra. Dall’altro lato sembra una specie di spazio vuoto occupato da fazioni in lotta tra loro. Il Pd non è terra di conquista. È vero, ha molto sbagliato ma se si guarda alla realtà, si scopre che questo partito, di fatto, è più che mai il perno dello scontro cruciale in atto per la tenuta o meno del sistema. Piaccio o no, è il maggiore ostacolo rispetto alla disperata tentazione di Berlusconi di rompere l’ordine costituzionale e di sopravvivere a costo di una catastrofe. Altro che «inciuci». Bisogna smetterla di confondere la politica con la propaganda ed è l’ora di ridare alla nostra gente l’orgoglio del combattente che sa a che gioco sta giocando.

Detto questo credo anch’io che sia giunto il tempo di guardare avanti e di tornare a dare la parola alla politica e non solo ai magistrati e ai giuristi. Tenere fermo sui principi, non nascondersi i pericoli che incombono ma vedere anche le nuove possibilità e i nuovi scenari che si aprono. L’Italia sta cambiando e Berlusconi è ormai azzoppato irrimediabilmente. Quali che siano le sue reazioni e la fedeltà dei suoi dipendenti, quale che sia quel tanto di consenso popolare che conserva, nonché il potere enorme del denaro, il controllo delle tv e dei giornali, le sue relazioni con certi grandi interessi, nulla potrà impedire una crisi di quello strano blocco quale è stata finora la destra ita-iana: un coacervo di moderati e di reazionari, di culture conservatrice di ispirazione liberale che convivono con tutti i populismi, anche quelle di matrice sovversiva, addirittura razzisti e fascisti, accanto a uomini di Comunione e Liberazione. Un coacervo che è stato finora tenuto insieme da che cosa? Dall’abilità di Berlusconi certamente ma, al fondo, dal fatto che la borghesia italiana non esiste, almeno nel senso che non ha un volto nazionale, vive nella paura che qualcuno tocchi quella che Verga chiamava «la roba». Ma soprattutto non ha e da tempo una sua visione dell’Italia, non è capace di dare a questo Paese una identità. Al fondo, a me sembra questo il grande problema storico-politico che il tramonto di Berlusconi ha riaperto. Il problema dell’egemonia. Si è spalancata una autostrada davanti al Pd ma alla condizione che esso riesca a ricostruirsi come partito del lavoro e della nazione, e non una stanca riedizione delle vecchie sinistre laiche e cattoliche. Ecco cosa intendo dire quando auspico un ritorno alla grande politica. Non solo chiedere al governo di fare «qualcosa di sinistra» ma pensare la nostra prospettiva di partito.

Dunque, che congresso vogliamo fare? Il compito nostro non è quello di essere una appendice subalterna e passiva del governo. La tenuta del governo è fondamentale, ma è vero anche che il governo non tiene a lungo se il sistema Paese non si rinnova e se non viene in campo una visione del futuro, una diversa idea di società. La domanda che mi inquieta è con che tipo di partito usciamo da questa assise. Io credo che la società di oggi, esattamente la società degli individui chiede di essere governata non più soltanto dai mercati ma da nuove strutture politiche. Il nuovo non è il ritorno al liberismo (fallito) o la formazione di una ennesima organizzazione elettorale costruita intorno alla popolarità di un capo. È certamente il bisogno di un partito diverso da quello del passato ma nel senso – io penso – che si organizzi meno come strumento di potere e più come fattore guida, anche morale della comunità. Un partito più unitario e più largo, diverso dal passato ma non meno radicale, se è vero che siamo in presenza di società che certamente sono molto più di prima società di individui ma nella quale il capitale che alimenta lo sviluppo non può essere più costituito dalle rendite finanziarie ma dalle capacità umane e quindi dall’insieme dei rapporti personali e di vita. Una cosa è certa. È giunto il tempo di ridefinire i beni comuni e le linee di evoluzione della società a fronte di fatti enormi (l’immenso potere di ristrette oligarchie, la irrilevanza del cittadino e dei diritti democratici, il ruolo della scienza e l’uso delle risorse naturali) i quali rimettono in gioco non solo i governi ma la società. Si tratta di ridefinire i principi etici sulla cui base stare insieme e le nuove responsabilità verso la comunità.

È sulla base di queste considerazioni che io mi chiedo se basta un «uomo solo al coman- do» oppure se occorre favorire soprattutto la formazione di un nuovo gruppo dirigente di alto livello. Questo dovrà esistere in ogni caso.

L’Unità 03.09.13

“Università, l’Italia alla lotteria dei test”, di Nadia Ferrigo

Chi c’è già passato, descrive il giorno del sempre temuto test d’ingresso peggio di una maratona. Sveglia all’alba, centinaia di concorrenti disposti a tutto e una gran paura di non riuscire a tagliare il traguardo. Dopo un’estate passata a sudare più sui libri che sotto l’ombrellone, è arrivato il momento della verità per più di 115 mila neodiplomati, pronti a sfidare le odiate domande a crocette. Si parte oggi con la facoltà di Veterinaria, domani toccherà ad aspiranti fisioterapisti e infermieri, lunedì prossimo si tenta la sorte con la facoltà di Medicina – gettonatissima, quest’anno più che mai e Odontoiatria, per concludere il dieci settembre con la prova di Architettura.

Vita dura, durissima per chi sogna il camice bianco: gli iscritti ai test d’ingresso sono balzati da 68 mila a 84 mila, ma i posti disponibili sono sempre poco più di 11 mila. Risultato: solo uno su otto riuscirà nell’eroica impresa. Peggio di loro, solo i veterinari. Per prendersi cura di cani, gatti e simili, una preparazione rigorosa non basta. L’immatricolazione è quasi un terno al lotto: se l’anno scorso solo uno su nove poteva sperare di sfangarla, con quasi 11 mila iscritti e appena 832 posti a disposizione le possibilità per il prossimo anno accademico sono appena una su tredici. Non molto incoraggiante. Va decisamente meglio per gli aspiranti architetti: le richieste, anche se di poco, sono in calo e i posti disponibili sempre gli stessi, così uno su due riuscirà a conquistare l’immatricolazione.

Per la prima volta, la graduatoria sarà su base nazionale e il test identico per tutti gli atenei: 60 domande a risposta multipla da affrontare in 100 minuti, dieci in più degli anni passati. Come deciso dal ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, ci saranno meno domande di cultura generale e più su altre materie scientifiche. «Meno male – commenta Giulia Marasi, 21 anni, di Roma -. Devo ridare l’esame di Veterinaria, l’anno scorso mi è capitata una domanda sulle figure retoriche. Erano anni che non ne sentivo parlare, mi ha mandato nel pallone. Forse con un po’ più di tranquillità…». Per vincere alla lotteria ci vogliono anche sangue freddo e pancia piena: le decine di blog e forum a tema consigliano di restare calmi e portare con sé una bottiglietta d’acqua e qualche cosa da sgranocchiare. «Ho tentato la prima volta un anno fa, senza successo – racconta Lodovica Magri, 23 anni, di Milano -. Ero in aula dalle nove, la prova è iniziata solo a mezzogiorno. Appena lette le prime domande, mi sentivo svenire. Questa volta mi sveglierò all’alba, ma con una bella colazione».

Le graduatorie saranno pubblicate sul sito del Miur il 30 settembre. Accanto al nome di ogni aspirante matricola, il verdetto: chi è «assegnato» potrà iscriversi all’università indicata come prima scelta, mentre chi è «prenotato» dovrà accontentarsi dei posti rimasti scoperti in un altro ateneo. Al banco di prova anche il chiacchierato «bonus maturità». Oltre al punteggio ottenuto con i test, si calcolaanche il voto del diploma, rivalutato con il meccanismo dei percentili: se il voto non supera gli ottanta centesimi e non è nel 20 per cento dei voti migliori della commissione di maturità, niente bonus. «I percentili non funzionano – commenta Mario Nobile, portavoce del coordinamento universitario Link -. A parità di media, gli studenti della stessa scuola potrebbero essere giudicati diversamente: in genere ogni commissione segue l’esame di maturità di una o due classi, come si può assicurare l’uniformità del giudizio?».

La Stampa 03.09.13

“Un lungo applauso ai sindaci coraggiosi”, da gazzetta di Modena

Antonella Baldini è il primo sindaco rivotato dopo il terremoto. Davanti a lei ci sono altri cinque anni di sfide. «Ho accettato perché amo il mio paese – dice – avrei anche potuto chiamarmi fuori perché gli ultimi mesi sono stati davvero duri, ma ha prevalso la voglia di dare a Camposanto un futuro certo». Intanto domani arriveranno, accompagnati da una delegazione del Comune di Bella, 15 ragazzi dal Comune terremotato dell’Irpinia con cui Camposanto si gemellerà durante il consiglio comunale straordinario che si terrà in piazza Gramsci giovedì alle 20,30. E arriveranno per concludere l’esperienza vissuta dai ragazzi delle terze medie di Camposanto che in aprile sono stati ospitati dalle famiglie e dalla scuola di Bella per alcuni giorni. La delegazione, guidata dal sindaco Michele Celentano e dall’assessore all’Istruzione Vito Leone saranno accolti in sala Ariston da Luca Gherardi, dalle famiglie che li ospiteranno, dagli insegnanti e dal nuovo dirigente scolastico Rossella Rossi. Durante la loro permanenza visiteranno il Museo Casa Natale Enzo Ferrari di Modena, Bologna e avranno occasione di conoscere la storia di Camposanto, i danni causati dal terremoto e le tante azioni messe in campo per ricostruire.
Quindici mesi dopo hanno incassato quell’applauso che, insieme, non avevano mai ricevuto. Due, tre minuti di onore con una standing ovation spontanea che ha anche fatto commuovere qualcuno. E peccato che alla serata con i sindaci terremotati, la prima dedicata totalmente al sisma alla festa del Pd, fossero presenti poche persone: massimo un centinaio, fatta eccezione per i volti noti del partito modenese. Nessuno lo dice esplicitamente, ma anche da questi momenti si capisce come il terremoto stia finendo rapidamente nel dimenticatoio di chi non è più in prima linea a gestire l’emergenza o non vive sulla propria pelle i problemi (tanti) della quotidianità nella ricostruzione. Ed ecco perché gli applausi sono davvero sentiti. Sbaglieranno, certo, ma come dice Filippo Molinari, sindaco di Medolla, «non credo alle polemiche sul web, noi siamo tutti i giorni ad ascoltare tutti, a prendere decisioni pensando al futuro, qualche volta anche a dire dei no visto che in alcune occasioni serve coraggio». Ci pensa Palma Costi, presidente dell’assemblea regionale, a scaldare la serata: «Mi fido di questi sindaci, sono orgogliosa di loro. I problemi ci sono, ma credo che ci sia una priorità: dare risposte sul lavoro perché creare posti e sostenere le aziende è indispensabile per trascinare l’intera ricostruzione». Le stoccate arrivano forti da Enrico Campedelli, primo cittadino di Carpi e dal collega di Soliera, Giuseppe Schena. «Il mio mandato è ormai terminato – dice Campedelli – auguro al mio successore di avere più certezze nell’elaborazione dei bilanci. Confrontarsi ogni giorno con la precarietà è complesso soprattutto per dei sindaci che vivono nell’emergenza continua. La mia città è cresciuta di circa mille abitanti in pochi mesi, questi sono gli effetti del terremoto: la gente lascia le proprie case e vorrebbe risposte e invece qualcuno a Roma continua a parlare di Berlusconi. Viviamo in realtà diverse». «Tre mesi fa a Passau, in Germania – ricorda Schena – c’è stata un’alluvione con tre metri d’acqua che ha distrutto tutto. Bene, oggi là è tornata la normalità: uffici, case, scuole, negozi sono operativi. Sembra non sia accaduto nulla. Ecco, la speranza è che anche l’Italia possa diventare un Paese normale dove, quando c’è un’emergenza, c’è un piano operativo per ripristinare in fretta tutto e non dover improvvisare come abbiamo purtroppo dovuto fare noi. E nonostante ciò qualcosa di buono abbiamo fatto, penso alle scuole e ai servizi sociali: il welfare della nostra terra ha le promesse per poter migliorare ulteriormente. Siamo solo all’inizio di un lungo cammino ».

La Gazzetta di Modena 03.09.13

“Inidonei al palo e gli Ata pagano”, di Nicola Mondelli

Disco rosso anche per l’anno scolastico 2013/2014 per il conferimento di incarichi a tempo indeterminato agli aspiranti assistenti amministrativi e assistenti tecnici inclusi nelle graduatorie provinciali permanenti. Il ministro dell’economia e delle finanze non ha infatti autorizzato le immissioni in ruolo degli assistenti amministrativi e tecnici sui posti vacanti negli organici di diritto delle istituzioni scolastiche sempre a causa della mancata definizione delle problematiche relative al passaggio del personale docente inidoneo nei ruolo del personale Ata, così come previsto dai commi 13, 14 e 15 dell’art. 14 del decreto legge n. 95/2012, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n.135. Fonti ministeriali parlano di una platea di circa 3350 docenti inidonei.

Pertanto anche per l’anno scolastico 2013/2014, come avvenuto per l’anno scolastico precedente, i posti vacanti e disponibili di assistente amministrativo e assistente tecnico potranno essere coperti solo mediante il ricorso all’istituto della supplenza, nei termini e con le modalità espressamente previsti dall’art. 40 della legge 449/97. A tale fine, si legge nella nota ministeriale n. 8468 del 26 agosto 2013, gli uffici scolastici territoriali dovranno individuare, in base allo scorrimento delle graduatorie permanenti della provincia, gli aspiranti o gli aventi titolo che stipuleranno presso le istituzioni scolastiche il relativo contratto a tempo determinato fino alla nomina dell’avente diritto, ai sensi appunto del citato art. 40. In tal modo, si legge sempre nella nota ministeriale, i contratti così stipulati potranno essere convertiti in supplenze annuali o fino al termine delle attività didattiche, allorché si risolvano le problematiche relative al personale inidoneo.

L’unica soluzione delle problematiche relative al personale inidoneo, che potrebbe consentire al ministro dell’economia e delle finanze di autorizzare la copertura dei posti vacanti e disponibili mediante il conferimento di incarichi a tempo indeterminato, sarebbe quella di modificare, se non addirittura abrogare, le disposizioni contenute nei predetti commi dell’art. 14 del decreto legge n. 95/2012. Modifica o abrogazione, che potrebbero essere disposte o dal Parlamento con specifica legge o dal consiglio dei ministri con un decreto legge, dovrebbero riguardare in particolare le disposizioni contenute nel comma 13 che, come è noto, prevedono in prima battuta il transito del personale docente dichiarato permanentemente inidoneo alla propria funzione per motivi di salute, ma idoneo ad altri compiti, esclusivamente nei ruoli del personale amministrativo e tecnico.

In ogni caso, una eventuale modifica o una parziale abrogazione delle disposizioni contenute nei commi 13, 14 e 15 del citato decreto legge n. 95/2012 potrebbe eliminare i molti problemi creati al personale Ata (blocco delle nomine in ruolo, incertezze nelle supplenze, difficoltà per il personale di ruolo di potere accettare incarichi a tempo determinato di durata annuale), ma non potrebbe tuttavia risolvere di per sé la precaria situazione personale e professionale nella quale continuano ad operare i docenti inidonei già collocati fuori ruolo ed utilizzati in altri compiti.

da ItaliaOggi 03.09.13