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“Carrozza a caccia di 600 milioni”, di Alessandra Ricciardi

È lievitato a circa 600 milioni di euro, dai 400 iniziali, il pacchetto scuola messo a punto dal ministro dell’istruzione, Maria Chiara Carrozza. E nel conto non rientra l’università, le cui misure allo studio dovrebbero finire in un decreto ad hoc, e neanche il piano triennale per le assunzioni degli insegnanti, già annunciato ma i cui oneri non sono stati ancora quantificati.

In attesa di definire i costi, e soprattutto di avere un riscontro sulle coperture da parte del Tesoro, il decreto legge per la scuola salterà un giro, si parla come prossima data papabile del 9 settembre, alla vigilia della riapertura di tutte le scuole. Sempre che il confronto con il ministro dell’economia, Fabrizio Saccomanni, si chiuda positivamente. Un risultato, questo, sul quale sono scettici gli stessi tecnici del ministero dell’istruzione che hanno scritto buona parte delle misure oggetto di esame. «Vanno stabilite le priorità, che devono essere il più possibile ad ampio impatto», dicono da Viale Trastevere.

In pole la misura della stabilizzazione dei docenti di sostegno su tutti i posti di organico: altre 27 mila assunzioni, costo stimato 100 milioni. Una misura molto attesa nella scuola che servirebbe anche a risolvere il problema del contenzioso con le famiglie dei ragazzi che richiedono maggiore presenza di docenti specializzati. É in discesa invece la quotazione della norma che autorizza i docenti con i requisiti per il pensionamento preFornero al 31 agosto 2012, e non al 31 dicembre 2011, ad andarsene in pensione: troppi i 200 milioni necessari per la copertura. Anche perché ci sono i docenti inidonei per motivi di salute, che la legge vorrebbe siano trasferiti, al di là di competenze e stato di salute, di forza tra gli Ata, ai quali dare una risposta. E poi c’è l’organico di rete, che da solo assorbe un altro centinaio di milioni di euro.

Forte il pressing politico e sindacale per il sì a un nuovo piano triennale di assunzioni a tempo indeterminato: servirebbe a recuperare i 14 mila posti su cui non si sono fatte immissioni in ruolo questo settembre e a coprire il resto del turn over del triennio: ma i costi? Il via libera anuove assunzioni potrebbe calmare gli animi di una categoria che ha la prospettiva di avere gli stipendi bloccati per 7 anni e che vede un precariato record nel pubblico impiego: sono circa 107 mila i contratti di supplenza sottoscritti nel 2012/2013. E, al tempo stesso, darebbe una risposta di garanzia di continuità didattica a famiglie e studenti.

Trattavie in corso poi per i candidati al concorso a dirigente della Lombardia, a cui il Consiglio di stato ha imposto la ricorrezione degli scritti: il decreto potrebbe prevedere, per la copertura delle scuole prive di dirigente titolare, incarichi assegnati a chi ha superato le sole prove preselettive. Si creerebbe però una situazione di fatto di dirigenza che potrebbe dare luogo, è il timore dei tecnici, alla richiesta di regolarizzazione, a dispetto del responso finale del concorso. La revisione generale delle prove di accesso alla dirigenza a questo punto sembra però inevitabile, dopo la messe di sentenze della giustizia amministrativa che hanno sanzionato, in lungo e in largo, i concorsi regionali.

Spuntano nel pacchetto scuola anche proposte di più ampio interesse come il welfare per gli studenti, con interventi a sostegno del diritto allo studio, dai trasporti all’acquisto dei libri che potrebbe essere sostituito dal comodato d’uso. Per favorire la formazione dei prof, invece, è all’esame un’intesa con il dicastero dei beni culturale per l’accesso gratuito ai musei.

Ritorna in ballo la misura delle scuole aperte anche di pomeriggio per contrastare la dispersione scolastica. Una misura che deve fare i conti con il maggior impegno dei docenti e del personale di vigilanza che già in passato ne ha frenato la realizzazione causa carenza di risorse. Ecco perché si potrebbe optare, se la coperta finanziaria dovesse risultare corta, per una nuova sperimentazione che riguardi i territori a più alta esposizione mafiosa.

da ItaliaOggi 03.09.13

“Marchionne si arrende. Delegati Fiom in fabbrica”, di Laura Matteucci

Bocciata dalla Corte Costituzionale, la Fiat è costretta a fare retromarcia, e ad accettare la nomina dei rappresentanti sindacali aziendali Fiom Cgil. Incassa e subito rilancia, però, passando la palla al governo, con la solita minaccia di andarsene dall’Italia con produzione al seguito. Stavolta, sul piatto della bilancia c’è quella nuova legge sulla rappresentanza sindacale che la stessa Cgil chiede da almeno un decennio. Condizione necessaria, dice una nota del Lingotto, per la continuità dell’impegno industriale in Italia primi fra tutti gli investimenti per Mirafiori, dove la cassa integrazione scadrà a fine mese, e per Cassino. Il leader Fiom Maurizio Landini canta vittoria: «A tre anni dalla firma dell’accordo che l’aveva esclusa, la Fiom rientra in fabbrica dalla porta principale. Ora ci aspettiamo anche il riconoscimento dei diritti sindacali, a partire dalla possibilità di convocare le assemblee, alla riapertura delle salette sindacali, fino al riconoscimento delle ore di permesso sindacale. Cosa non scontata visto che l’azienda, anche laddove costretta dai Tribunali a riconoscere il ruolo delle Rsa Fiom, le ha comunque discriminate non concedendo le stesse agibilità delle altre organizzazioni sindacali». Ma subito dopo Landini sottolinea che «la Fiat non può, per l’ennesima volta, vincolare le istituzioni democratiche del nostro Paese legando il mantenimento della produzione in Italia ad una legge che le aggrada». «Torniamo a chiedere aggiunge quello che già abbiamo chiesto durante l’incontro di agosto: che in tutto il gruppo vengano ripristinate corrette relazioni industriali e che già a settembre si tenga un incontro che affronti il nodo del futuro industriale e occupazionale della Fiat in Italia».

NOTIZIA TARDIVA Con ordine: Fiat ha comunicato ieri alla Fiom che accetterà la nomina dei suoi rappresentanti sindacali aziendali a seguito della sentenza della Corte Costituzionale del 23 luglio. La Consulta aveva dichiarato infatti che consentire la rappresentanza sindacale ai soli firmatari del contratto applicato in azienda, è anticostituzionale, in quanto non rispetta la libertà dell’organizzazione sindacale. Una mossa che da parte di Fiat è dunque un atto dovuto, con cui «intende rispondere in maniera definitiva dice una nota aziendale a ogni ulteriore strumentale polemica in relazione all’applicazione della decisione della Suprema Corte». Poi, in conclusione di nota, l’affondo del Lingotto, che riprendendo la stessa sentenza della Consulta considera un intervento legislativo «ineludibile»: «La certezza del diritto in una materia così delicata come quella della rappresentanza sindacale e dell’esigibilità dei contratti si legge è una conditio sine qua non per la continuità stessa dell’impegno industriale di Fiat in Italia». Commenta la leader Cgil Susanna Camusso: «Questa non può essere che una notizia, seppur tardiva, positiva, perché la Fiat ha finalmente deciso una cosa che se avesse deciso qualche tempo fa, rispettando la Costituzione, avrebbe risparmiato lunghi conflitti». «Rispetto alle altre questioni che Fiat ha posto aggiunge poi credo che questa azienda debba smettere di fare la vittima. Noi non abbiamo mai apprezzato l’idea di leggi adpersonam né adaziendam. Esiste l’accordo del 31 maggio che regola la rappresentanza: venga preso ad esempio per avere tutte le regole necessarie». Tra l’altro, come ricorda il parlamentare Pd Cesare Damiano, «la richiesta di una legge sulla rappresentanza sindacale è un obiettivo rapidamente raggiungibile». «Vorrei ricordare prosegue che nella Commissione Lavoro della Camera è già in corso dal mese di luglio una discussione sulle proposte di legge presentate, su questo tema, da tutti i partiti. A questo punto arrivare ad una sintesi non dovrebbe essere difficile, anche considerando l’accordo raggiunto dalle parti sociali». Quello che però non piace è legare il varo di una legge agli investimenti in Italia. Non è solo al Cgil a vederlo come un ricatto, anche la Uil chiede il rispetto degli impegni già presi: «Per noi gli investimenti vanno rispettati dice il segretario generale Uilm, Rocco Palombella non possono essere subordinati a un intervento legislativo pur importante e necessario. Per gli investimenti c’è stata con la Fiat una fase di confronto molto sofferta. Chiediamo il rispetto degli impegni assunti dall’azienda in Italia». E per il Fismic «la situazione sta diventando intollerabile dice il segretario Roberto Di Maulo La Fiat approfitta del silenzio del governo per allungare ancora i tempi sugli investimenti. Questo rende più preoccupante il quadro a Mirafiori e, in prospettiva, a Cassino». Anche perché «tra qualche giorno scade la cassa integrazione nello stabilimento torinese ricorda Di Maulo e fino ad oggi non c’è stato un segnale, neanche minimo, di apertura e di confronto».

L’Unità 03.09.13

“La scommessa del Liceo classico”, di Maurizio Bettini

Il liceo classico è in crisi? Visto il modo in cui trattiamo in Italia la cultura umanistica, mi stupirei del contrario. Pompei si sgretola, i laureati in discipline umanistiche lavorano nei call center e i dottori di ricerca, se va bene, emigrano: perché mai un giovane dovrebbe iscriversi al liceo classico? Nella percezione comune, peraltro largamente alimentata da governanti e gestori di media televisivi, l’immagine di ciò che chiamavamo “cultura” si è trasformata in una sorta di hobby al netto di oneri per lo stato, capace di suscitare interesse solo se i “beni culturali” si comportano da veri “beni”, ossia producono ricchezza: e pazienza per l’aggettivo “culturali”.
Certo è molto triste trovarsi nella condizione di dover giustificare la pratica della cultura umanistica proprio in Italia. Come minimo uno si domanda che fine faranno i suddetti “beni” in un paese che sta perdendo la sola dimensione all’interno della quale essi acquistano senso, ossia la relativa “memoria” culturale. A che serve restaurare il Colosseo se l’unica cosa culturale vagamente nota a chi lo visita sarà Il gladiatore di Ridley Scott? Peraltro non credo che il Rinascimento a Firenze, con relativi Uffizi, o il Medio Evo a Siena staranno molto meglio dei monumenti classici. L’ignoranza è ignoranza, e non riguarda solo Roma antica. Dato però che continuare a ripetere queste cose è avvilente, è meglio voltare pagina e affrontare il problema da un altro punto di vista.
Il liceo classico, ossia una fra le migliori istituzioni di trasmissione culturale che possediamo, sconta al momento un doppio handicap. Da un lato quello che grava in generale sulla cultura umanistica, dall’altro un modo di insegnare le proprie materie più “classiche”, il latino e il greco, che spesso scoraggia i giovani dall’iscrizione. Perché mai un ragazzo in età da ginnasio dovrebbe volontariamente sottoporsi alla tortura delle declinazioni o della sintassi, senza vedere qual è lo scopo di tutto ciò? Non basta certo dirgli: così alla maturità, fra cinque anni, sarai in grado di fare bene la versione, perché perfino un quattordicenne si accorge del circolo vizioso. In altre parole, il paradosso del liceo classico sta nel fatto che, troppo spesso, non produce studenti che conoscono davvero la cultura classica, ossia quell’affascinante mondo in cui Odisseo incontra Ciclopi e Sirene o Socrate discute dell’amore. Un mondo tanto in continuità con la nostra cultura quanto
diverso dall’esperienza contemporanea: e i giovani, checché se ne pensi, sono molto affascinati dalla diversità, anche quella degli antichi. L’elenco delle orazioni di Cicerone ha scarse probabilità di interessare un ragazzo di oggi (peraltro all’epoca interessava poco anche me), mentre so per esperienza che il discorso cambia se gli si fa ascoltare il racconto della morte di Didone. E soprattutto se lo si mette di fronte al paradosso di un eroe, Enea, che Virgilio chiama “pio” proprio perché abbandona la donna che ama per fondare la Città. Che cosa era dunque la “pietà” per i Romani? Erano così diversi da noi?
Per fortuna ci sono oggi licei classici in cui gli insegnanti, con la loro vivacità, riescono addirittura a far crescere le iscrizioni, fanno rappresentare ai ragazzi Euripide e Plauto, utilizzano i dizionari digitali o comunicano con gli studenti via Facebook. E posso testimoniare che gli oltre sessanta docenti di materie classiche che si sono riuniti a Siena in Agosto (!) per una Summer school, organizzata dal Centro Antropologia e Mondo Antico dell’Università con il sostegno (non solo economico) del Miur, sono stati capaci di suscitare un vero e proprio tornado di idee e di entusiasmi. Beati i loro studenti, viene da dire. Perché non è affatto detto che l’Italia sia esclusivamente il paese di Sanremo, del calcio e
della mala politica culturale.

La Repubblica 03.08.13

“Non siamo gli sceriffi del mondo l’America è stanca della guerra”, di Antonio Monda

Paul Auster vive con angoscia l’intenzione di Obama di attaccare la Siria, e segue giornalmente l’evoluzione di una situazione ancora molto incerta, nella quale sembra che ogni soluzione possa portare elementi negativi e anche tragici. «Non avrei mai pensato di vivere nuovamente, una situazione del genere» racconta con tono amaro e disilluso. «Sembra che l’America, e con essa il mondo intero, sia condannato alla violenza».
Come si sente un liberal di fronte ad un presidente democratico che scatena la guerra?
«Mi sento male, e vivo questo momento con grande disagio. Capisco l’angoscia del presidente ».
Ritiene che Obama sia titubante o ragionevole?
«Mi sembra tormentato. Io personalmente sono fermamente contrario, ma voglio dire che quella di Obama non è una vera dichiarazione di guerra. Non capisco dove possa portare un conflitto di questo tipo, se non a nuove tragedie. Non mi sfuggono gli elementi coinvolti in questa situazione: le stragi di civili, la repressione, la dittatura, gli interessi e le pressioni opposte di Iran e Israele».
Obama è anche premio Nobel per la pace…
«Questo è il mondo in cui viviamo: anche chi è animato da buone intenzioni, una volta che assume ruoli di questa responsabilità, deve prendere decisioni tragiche e violente. La situazione generale è assolutamente precaria, e ogni giorno più rischiosa: non mi sento di attaccarlo».
Non si tratta della prima scelta in questa direzione: ha bombardato la Libia senza voto del Congresso, per prevenire un massacro di civili. E poi, con i droni, il Pakistan, la Somalia e lo Yemen.
«Questa ovviamente è una tragedia, e spero che proprio queste esperienze possano convincerlo a rinunciare ad attaccare, anche se ci sono molti elementi che invocano risposta e fanno capire che in Siria la situazione è tragica».
Kerry ha paragonato Assad a Hitler, ma, paradossalmente, per tutte le logiche implicazioni fa maggiore impressione il paragone con Saddam.
«È un altro elemento che mi ha riempito di angoscia, e non mi sfuggono le implicazioni logiche. Credo tuttavia che al di là della retorica politica, utilizzata per convincere il Congresso e l’opinione pubblica, il motivo di quel paragone sia dovuto all’uso dei gas, utilizzati in passato da Saddam. E per quanto riguarda Hitler, i gas
evocano i campi di sterminio. Detto ciò, c’è da riflettere sul fatto che uccidere con bombe o fucili non è moralmente meno grave che utilizzare i gas».
L’America sembra sola: Bush aveva con sé la “coalizione dei
volenterosi”, Obama ha solo la Francia, l’Australia e la Turchia.
«L’America è stanca della guerra, e il mondo rischia di stancarsi dell’America. Aggiungo che, considerato quello che è successo nel Parlamento inglese, anche la Gran Bretagna appare stanca e disillusa».
Secondo lei cosa succederà al Congresso?
«Io penso che sarà un voto estremamente incerto, e comunque vada a finire, per Obama sarà un momento difficile, forse anche tragico».
La risoluzione per l’intervento in Iraq fu approvata dal 61%
dei Democratici della Camera e dal 58% al Senato. Tra i sì ci furono Clinton e Kerry.
«Il mondo politico, nei momenti tragici, tende a stringersi attorno al comandante in capo: anche i presidenti più discussi o odiati, ricevono applausi ad esempio nel giorno del discorso allo Stato dell’Unione. Credo che la votazione del Congresso mostrerà molti voti trasversali, con democratici a favore della guerra e repubblicani contro. Gli interessi lotteranno, come sempre, con gli ideali».
In cosa differisce la guerra di Obama da quella di Bush?
«Continuo a pensare che questa non sia ancora guerra, e spero non lo sarà mai, ma in Siria sono morte decine di migliaia di persone e l’attacco con il gas di pochi giorni fa ha fatto strage di civili e anche di bambini: si tratta di una vera guerra civile. All’epoca di Bush, in Iraq, la situazione era estremamente diversa, e il presidente sabotò le prove dell’esistenza di armi di sterminio».
Rimane il fatto che il presidente che doveva cambiare atteggiamento riguardo al Medio Oriente, oggi continua a bombardare.
«È una situazione tragica, degenerata, dal quale è quasi impossibile uscire senza far danni. Non me la sento di esprimere un giudizio politico, ma solo un auspicio».
Qual è la sua opinione riguardo al concetto degli americani poliziotti del mondo?
«Si tratta di un’enorme questione morale. Da quando ero giovane ho visto il mio paese andare in guerra in posti non doveva andare: il Vietnam, Grenada, l’Iraq. Mi chiedo anche se sia stato giusto intervenire in Kosovo, e in ognuno di questi casi mi sono sempre opposto con forza. Tuttavia, ritornando a quello che mi chiedeva prima, esistono dei casi in cui il problema etico esige una risposta: penso ad esempio al Ruanda. Qual è il limite oltre il quale l’intervento umanitario diventa abuso e sopruso?»

La Repubblica 03.09.13

“La barzelletta del lampione spiega la crisi”, di Jean-Paul Fitoussi

Viviamo in tempi irragionevoli, nei quali la più grande miseria vive accanto alla più grande ricchezza e ciascun Paese è un modello in scala del mondo, diviso in diversi livelli di povertà. Una parte della popolazione dei Paesi sviluppati, ancora piccola ma crescente, è in pericolo. Trova difficile accedere alla sanità e dipende dalla carità altrui per nutrirsi, vestirsi o dormire. Il numero di lavoratori poveri continua ad aumentare: vivono in auto, oppure occupano alloggi malsani. Significa che i nostri sistemi non sono più in grado di garantire la sopravvivenza di tutta la popolazione? […] È dunque tutto irragionevole quel che accade al mondo oggi: il livello di disuguaglianza e quello di disoccupazione, la massa delle carriere interrotte, il numero incredibile di persone che non riescono nemmeno ad avviarne una o di quanti si arenano a qualche anno dalla pensione, l’enormità delle fortune accumulate, l’oscenità di alcune remunerazioni, l’insicurezza generalizzata che regna nei Paesi ricchi. Siamo diventati più egoisti, o ci siamo abituati a questa evoluzione del nostro ambiente avendo perso la speranza di poterlo cambiare? Ci sono un po’ tutte e due le cose nel nostro nuovo contratto sociale. Ma se oggi accettiamo quel che ieri ci sembrava inaccettabile, è anche perché ci viene ripetuto all’infinito che non esiste altra strada possibile.
Il culmine dell’irragionevolezza è la razionalizzazione di questi avvenimenti. […] Da dove viene questa irragionevolezza, e perché l’accettiamo? Forse non si vuole vedere niente di ciò che si trama lontano dalle luci dei luoghi di potere. Quasi tutti conoscono la storia del tizio che cercava le chiavi sotto un lampione non perché le avesse perse lì, ma perché quello era l’unico punto illuminato della strada. Di solito le barzellette non sono immediatamente comprensibili ovunque. È raro che l’umorismo attraverso le frontiere e in genere resta connotato a livello nazionale. Ma in questo caso potrebbe avere a che fare con una caratteristica inerente alla natura umana: cercare di vederci chiaro, che si parli di vista o di riflessione. […] «Più la scienza progredisce, meglio comprende perché non può venire a capo dei problemi», scriveva Claude Lévi-Strauss. Perché la penombra rimane confusa e l’oscurità è impenetrabile. Siamo noi a scegliere cosa occorre illuminare, i fenomeni da analizzare, i sistemi
di misurazione che conviene utilizzare, gli obiettivi da perseguire. Ma se compaiono fenomeni nuovi, o se ne riemergono altri che pensavamo appartenere al passato e i nostri sistemi non sono più adatti a misurarli, allora perdiamo qualunque possibilità di vederci chiaro. Ed è quando non capiamo più cosa succede che le nostre decisioni sono più spesso errate.
Se gli obiettivi che la politica economica porta sotto i riflettori non sono davvero importanti per le società, non avremo alcuna possibilità di comprendere perché il fatto di averli raggiunti non risolva in alcun modo il problema iniziale. Quello che chiamo teorema del lampione esprime esattamente questo tipo di impossibilità. Ma il teorema va un po’ oltre: possiamo scegliere cosa vogliamo illuminare, siamo noi che decidiamo il posizionamento dei lampioni. E se le nostre scelte non sono pertinenti, le nostre ricerche saranno infruttuose. Nell’ambito dell’agire politico questo può avere conseguenze gravi, perché gli errori possono accumularsi: errori nella definizione dell’obiettivo, nella sua valutazione, nella scelta degli strumenti utilizzati in funzione dei fini ricercati, vale a dire nella teoria o dottrina che presiederà all’azione.
Da tempo, seguendo il pensiero dominante, i poteri pubblici hanno puntato i riflettori sulla stabilità dei prezzi quale obiettivo della politica economica — che dovrebbe anche consentire la massima crescita del Pil — e sulla teoria dei mercati concorrenziali per legittimare la propria azione. Si sa quel che è accaduto. La stabilità dei prezzi si è rivelata compatibile con la massima instabilità economica e finanziaria. La crescita del Pil si è accompagnata a una profonda miseria sociale e la deregolamentazione dei mercati è stata
il preludio al loro peggior funzionamento dai tempi della crisi degli anni Trenta. Non erano stati accesi i lampioni giusti e si è cercato di agire a partire da una rappresentazione teorica del mondo che non aveva molto a che fare con il mondo reale, fissando obiettivi relativamente mal misurati (il Pil, per esempio) e non veramente importanti per le società. Come la luce delle stelle morte ci arriva ancora molto tempo dopo la loro fine, quella di teorie invalidate a più riprese dai fatti continua a espandersi. Una società composta di folli razionali sarebbe una società spietata, di diffidenza generalizzata e di continua paura. […]
Le crisi europee sono un’allegoria dei problemi che fatichiamo a risolvere quando collochiamo i lampioni nei posti sbagliati. Si può risolvere un problema politico — di tipo costituzionale — per mezzo di misure essenzialmente economiche? Una moneta può rimanere a lungo senza sovrano? L’Europa è figlia dell’economia, ma è orfana della politica; da qui il suo smarrimento. Bisogna perseguire la sostenibilità del debito pubblico a spese della sostenibilità dello sviluppo, e in particolare dello sviluppo dell’uomo? Un’unione monetaria può reggere a lungo strategie di svalutazione (reale) competitiva?
Un’allegoria, dicevo, che mette in evidenza tutte le azioni che si possono intraprendere, che sono state intraprese e che si continuano a intraprendere alla luce di una stella morta. John Quiggin parla di «teoria economica zombie» per descrivere questo strano insieme di idee morte che vagano sempre tra noi. Ma esiste qualcosa di più profondo che ci impedisce di sbarazzarcene per esporle al museo delle scienze, qualcosa di fondamentalmente politico che continua ad animare implicitamente tutti i nostri dibattiti: la diffidenza verso la democrazia, la paura che il suffragio universale porti a un’uguaglianza troppo grande. Se il pensiero dominante è convinto che l’autoregolamentazione dei mercati sia sempre superiore alla regolamentazione dello Stato, è proprio in ragione di questa diffidenza. Altrimenti, come spiegare perché continuiamo ad affidarci alle virtù del mercato anche quando veniamo edotti delle sue debolezze? La crisi finanziaria avrebbe dovuto farci comprendere a quali sventure possono condurci le sue disfunzioni. Non abbiamo imparato niente, per continuare ad affermare che l’unica cosa importante è la concorrenza e che mercati più liberi faranno il resto? […] Se non abbiamo colto la misura di questi cambiamenti, forse è perché manchiamo… di adeguati sistemi di misurazione. È fondata l’estrema attenzione che dedichiamo alla crescita del Pil per abitante quale misura di ogni cosa? Le cifre della crescita non ci dicono nulla di quel che accade alle società, se non altro perché si tratta di una media che non riflette la sorte dei più. Il nostro fine ultimo dovrebbe essere il benessere e non è perché non sappiamo ancora misurarlo correttamente che dobbiamo sacrificarlo agli obiettivi che crediamo di saper misurare.
È assolutamente evidente che quel che noi misuriamo, o scegliamo di misurare, esercita un’influenza decisiva sulle nostre azioni. L’aritmetica è politica, come diceva William Petty tanto tempo fa. […] È giunto il momento di valutare le conseguenze delle politiche che i nostri governi portano avanti riguardo a questi due obiettivi maggiori: il benessere e la sostenibilità. […] Mi sembra che le politiche di austerità condotte attualmente in Europa influiscano negativamente sia sul benessere sia sulla sostenibilità. L’irragionevolezza e la cecità hanno progressivamente costruito il mondo poco ospitale nel quale viviamo oggi. Tranne qualche eccezione, continuiamo ciò nonostante ad agire come se ci trovassimo nel mondo di prima, come se le crisi che abbiamo attraversato una dopo l’altra non fossero che parentesi destinate a richiudersi al piú presto. Onestamente, possiamo ancora credere a questa chimera?
Traduzione di Maria Lorenza Chiesara
Anticipiamo un brano del nuovo libro di Il Teorema del Lampione o come mettere fine alla sofferenza sociale

La Repubblica 02.09.13

“Il male italiano: la disoccupazione di lunga durata”, di Carlo Buttaroni

Dall’inizio della crisi finanziaria, solo la Germania, tra le grandi economie europee, è riuscita a recuperare il ritardo accumulato nelle fasi peggiori della recessione. Per l’Italia, la variazione cumulata del Pil è particolarmente negativa (tre volte peggiore della media europea) e la ripresa che si preannuncia con il miglioramento di alcuni parametri appare troppo debole per far sperare in un recupero, in tempi brevi, dei livelli economici precedenti alla crisi. È come se la recessione avesse fatto fare al nostro Paese un salto indietro di dieci anni e servirebbe una dinamicità che, al momento, non abbiamo per tornare ai livelli pre-crisi. Nonostante il forte impatto sull’economia reale e le scarse capacità di recupero nelle fasi successive ai picchi recessivi, gli effetti dei cicli economici sui livelli occupazionali sono stati più contenuti rispetto a quanto fosse lecito attendersi, soprattutto nella prima fase della crisi. Se il ciclo dell’occupazione, infatti, avesse seguito le variazioni del PIL, tra il 2009 e il 2010 avremmo avuto uno shock negativo peggiore, con una perdita tre volte superiore a quella che in realtà c’è stata. Al contrario, abbiamo assistito a una riduzione piuttosto lenta ma costante dello stock di occupati, grazie anche all’intenso ricorso agli ammortizzatori sociali. Per quanto riguarda specificatamente le dinamiche occupazionali, l’Italia nella prima fase ha registrato un andamento più simile a quello della Germania, con cui ha condiviso la strategia basata sul potenziamento dei regimi di contrazione oraria. Nella seconda fase recessiva si è registrata, invece, un’accelerazione della crescita dei tassi di disoccupazione determinata soprattutto dal congelamento della domanda e dall’aumento di quanti hanno perso il posto di lavoro. Il persistere dell’incertezza ha frenato le assunzioni, ampliando progressivamente la platea degli outsider, costituita prevalentemente da giovani in cerca del primo impiego.

LE CONSEGUENZE L’inevitabile conseguenza è stata la crescita della disoccupazione di lungo periodo, all’interno di un mercato sempre più rigido e meno capace di riassorbire le quote di lavoro in uscita. Accentuando un problema non nuovo per l’Italia. Nel nostro Paese, infatti, le probabilità di entrare – o rientrare – nel mercato del lavoro sono storicamente più basse rispetto alle altre grandi economie europee. Nel 2008, i disoccupati di lungo periodo rappresentavano il 45,6% del totale dei disoccupati, una percentuale nettamente superiore a quella degli altri Paesi e che è cresciuta ulteriormente in questi ultimi anni per effetto della crisi. La disoccupazione di lunga durata è quella che presenta, per l’Italia, il fattore di rischio più elevato, che può compromettere gravemente i tempi di uscita dalla crisi. Una sua elevata e prolungata incidenza può far aumentare la componente strutturale, slegata cioè dalla congiuntura economica del momento, un rischio reso concreto dalla forte connotazione settoriale e territoriale della disoccupazione, particolarmente elevata nel mezzogiorno, tra i giovani e tra chi è stato espulso dal mercato del lavoro in età avanzata e con professionalità legate a settori economici in declino. Se una quota prevalente degli attuali livelli di disoccupazione diventasse strutturale e quindi non riassorbibile, si registrerebbe una contrazione considerevole del contributo del fattore lavoro alla crescita economica, contributo tra l’altro già limitato per effetto di tendenze endogene di carattere demografico, come l’invecchiamento della popolazione. Questo significa che le conseguenze della peggior crisi dal dopoguerra si potrebbero far sentire per molti anni, probabilmente decenni. La disoccupazione rappresenta, quindi, il primo dei problemi e il principale ostacolo al ritorno ai livelli pre-crisi. È impensabile recuperare il terreno perduto senza politiche volte al reinserimento nel mercato del lavoro dei disoccupati e senza l’integrazione dell’occupazione e delle politiche sociali con le strategie di politica macroeconomica. Un passaggio di questo tipo richiede, però, uno spostamento significativo verso un modello di crescita centrata sul lavoro e sull’incremento della domanda aggregata, soprattutto nella sua componente essenziale che sono i consumi. Occorre, quindi, la consapevolezza di come un’ampia gamma di strumenti politici possa favorire una crescita economica accompagnata da elementi di qualità sociale evitando che le ricette per sostenere la ripresa diventino una riformulazione post-crisi della supremazia della deregolamentazione dei mercati come strumento prioritario di politica economica. Oltretutto le politiche per l’occupazione e la protezione sociale, sostengono comunque le politiche fiscali, ampliando il bacino di finanziamento della spesa pubblica. Durante le fasi più acute di recessione sono stati proprio i sistemi di protezione sociale a rappresentare la prima linea di difesa per le famiglie e per le intere economie, dimostrando come una buona spesa pubblica tende a pagarsi da sola e a stimolare processi economici virtuosi. È questo il principale insegnamento della crisi, che segna anche il percorso per uscirne. Un percorso che deve portare a una riconsiderazione delle politiche per il lavoro e di protezione sociale, accompagnate da efficienti politiche salariali. Per quanto riguarda queste ultime, moltissimi studi hanno dimostrato che non solo servono a ridurre la povertà, ma contribuiscono alla crescita economica, trainandola dal lato della domanda interna. Politiche del lavoro, politiche sociali e politiche salariali possono dare un contributo essenziale anche nel far crescere la fiducia dei cittadini che, in un’economia matura è quasi più importante di quella dei mercati finanziari. Anche perché una ripresa talmente debole da essere percepita come un proseguimento della recessione rischia di rendere sterili i miglioramenti di alcuni parametri economici. Le politiche, quindi, non solo devono essere eque, ma devono essere comprese in maniera corretta e positiva dai cittadini, considerando che il costo della crisi finanziaria è ricaduto esclusivamente su coloro che non hanno responsabilità per le decisioni disastrose che hanno affondato l’economia reale. Ecco perché in molti sono arrabbiati e hanno ragione nel chiedere alla politica una cambio di passo e di direzione.

L’Unità 02.09.13

La meritocrazia delle “mezze maniche”, di Bruno Ugolini

C’è stata una discreta discussione attorno alle recenti decisioni del Governo sull’annoso tema dei precari pubblici. Ovverosia di quella miriade di donne e uomini che ogni giorno, magari da anni, vestono i panni di chi sta dietro uno sportello facendo i conti con l’ira quotidiana dell’anti-Stato, oppure con chi veste la divisa del vigile del fuoco o dell’infermiere o dell’insegnante. I prestatori di servizi essenziali chiamati dallo Stato imprenditore ad agevolare le nostre vite stressate. Ma lasciati alla balia degli eventi, senza un contratto stabile. Ora sarebbe suonata la campana dell’addio a tale condizione ingiusta che a volte può anche riflettersi nella prestazione di lavoro, con danni per i cittadini. Ma è stata davvero una svolta quella promossa dal «governo di necessità»? Intanto i dati apparsi dicono che gli interessati al grande rientro nella normalità saranno una minoranza. La segretaria della Cgil, Susanna Camusso, ha spiegato come per diverse ragioni non si tratti di una soluzione capace di coinvolgere i 150mila precari pubblici. C’è però anche chi grida allo scandalo per le concessioni fatte almeno a una parte dei precari. La bandiera di questa contestazione è quella del cosiddetto «merito». Un merito da misurare attraverso appositi concorsi, senza assegnare alcun valore alle esperienze fatte dai precari nel corso di lunghi anni. Avete spento incendi, soccorso malati, affrontato file di collerici cittadini? Non conta nulla. Sarà il concorso a decidere se siete degni di un contratto stabile. Non solo. Ha scritto lavoce. info che «la stabilizzazione finisce per essere una sanatoria per comportamenti illegittimi ». Le amministrazioni che li hanno assunti con contratti a termine «hanno violato proprio le disposizioni già vigenti». Così «i contratti si dovrebbero considerare nulli e i dirigenti che hanno effettuato le assunzioni dovrebbero risponderne come danno all’erario ». Sembra rispondere alle varie critiche il ministro della Funzione pubblica, Gíanpiero D’Alia, che addirittura dichiara: «Non faremo stabilizzazioni. Abbiamo disegnato un percorso per affrontare, gradualmente, il nodo del precariato… ». Per poi garantire che saranno selezioni che «garantiranno la meritocrazia ». Meritocrazia, ecco la parolona che gonfia le gote di tante persone. E allora sarebbe il caso di entrare nel merito. Come fare in modo, ad esempio, che un concorso misuri le capacità, i saperi, i «meriti» di una donna o di un uomo? Quali quesiti porre, a quali indagini sottoporre un vigile del fuoco, un infermiere, un insegnante, un impiegato? Quesiti eguali per tutti o differenziati? Attestare le sue conoscenze di testi e decreti legislativi, o di strumenti informativi innovativi sfornati da Apple o Microsoft? Vien da sospettare, come forse possano valere molto di più, le esperienze fatte sul campo, le osservazioni scaturite osservando le prestazioni d’opera di chi per anni ha lavorato nel servizio pubblico. E a questo proposito torna bene l’osservazione dei sindacati quando dicono che occorre un esame attento della realtà. «Agli impegni pubblici devono seguire risultati. Non vorremmo trovarci per l’ennesima volta di fronte a proclami tanto seducenti quanto effimeri. Il rischio è di creare aspettative per poi disattenderle, come già successo in passato». Insomma occorrerà discutere la partita nel dettaglio. Come ha aggiunto il segretario confederale Cisl, Fulvio Giacomassi, occorrerà attivare «i dovuti meccanismi di controllo e gli interventi sulla spesa incoerente di beni e servizi e rendere disponibili le risorse economiche e le strumentazioni contrattuali necessarie per accompagnare tali cambiamenti, coinvolgendo i lavoratori e le loro rappresentanze ». Questo è il punto, anche per verificare le meritocrazie più o meno presunte. Non mirava forse a questo quella «privatizzazione » del rapporto di lavoro pubblico tanto cara a un leader sindacale come Bruno Trentin, a un fine giurista come Massimo D’Antona, fatta propria da un ministro come Franco Bassanini? Era una riforma che doveva appunto creare anche nel lavoro pubblico, controparti, dialettiche, reparto per reparto, settore per settore, abbandonando l’antica strada dei clientelismi e delle inefficiente.

L’Unità 02.09.13