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“Il Governo e il nodo della ricerca”, di Tito Boeri

Da settimane l’attività del governo è paralizzata dal tentativo di spostare l’Imu e l’aumento dell’Iva un po’ più in là. In attesa di ogni compiuta decisione in merito, i sindaci, che non sanno su quali risorse potranno contare, hanno chiesto e ottenuto di avere più tempo a disposizione per decidere sulle tasse addizionali che possono attivare. I bilanci di previsione (!) 2013 verranno così presentati a fine novembre, un mese prima della chiusura dell’esercizio. L’incertezza regna sovrana anche tra imprese e famiglie: non sanno quali tasse e quale ammontare dovranno pagare. Circolano tanti acronimi, che iniziano immancabilmente con un Ta come tassa (Tari e Tasi tra i più gettonati), l’unica cosa certa è che il nuovo involucro avrà un nome inglese, forse più accattivante. Il decreto varato dal governo martedì scorso è stato riscritto prima di andare in Gazzetta ufficiale, introducendo, tra le altre cose, l’ennesima clausola di salvaguardia: se le fantasiose coperture trovate per abolire la prima rata dell’Imu 2013 non si rivelassero all’altezza, fra quattro mesi scatteranno aumenti automatici di Irap, Ires e accise. Per scongiurare questa eventualità bisognerà ovviamente che questo governo sia in carica. È forse questo il fine ultimo della clausola: serve a salvaguardare il governo, ad accordargli lunga vita nonostante un breve mandato.
Nel frattempo le energie più vitali del paese non vengono affatto salvaguardate. Anzi se ne vanno. L’ultimo episodio è quello di Wise srl, premiata lo scorso anno ad Aarhus come la migliore start up europea nelle innovazioni di grande sviluppo. Nata da uno spin-off della Statale di Milano, cercava mezzo milione di euro (un ottavo dello stipendio di base, tra l’altro più che dimezzato, di Kakà) di finanziamenti per proseguire le ricerche sull’uso di nanotecnologie nella cura di un’ampia gamma di patologie. Le banche italiane, prodighe nel concedere finanziamenti ben più consistenti a palazzinari inquisiti e finanzieri falliti, non l’hanno ritenuta meritoria di credito. Il Fondo Italiano di Investimento e il Fondo Strategico Italiano della Cassa Depositi e Prestiti non devono averla ritenuta un’italianità strategica. Così, alla fine è stato un fondo tedesco ad accordare il finanziamento, imponendo però che impresa, brevetti e ricercatori si trasferissero in Germania.
Difficile trovare qualcosa di più strategico per il nostro paese del capitale umano. Non possiamo farne a meno per tornare a crescere. Eppure non facciamo nulla per migliorare un bilancio disastroso: per ogni cervello che riusciamo ad attrarre, otto se ne sono andati. La posizione dell’Italia nella competizione mondiale per attrarre talenti è, per certi aspetti, ancora peggiore di 50 anni fa, quando il fisico Giovanni Piovani, allora presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, lanciava il campanello d’allarme: “Nei giovani sempre più si radicherà il desiderio di andare fuori dal Paese pur di trovare condizioni e mezzi scientifici adeguati alla loro ansia e alle loro necessità di ricerca”.
Allora, come oggi, chi faceva ricerca in Italia si trovava di fronte a vincoli di bilancio stringenti e alla miopia di una classe dirigente incapace di capire il valore dell’investimento in ricerca, un “bene di lusso” per De Gasperi. Allora, come oggi, la ricerca più avanzata veniva in gran parte finanziata dal-l’estero, da fondazioni private come la Rockfeller Foundation o agenzie come l’Atomic Energy Commission. Ma c’era comunque l’idea di un paese in forte crescita economica — che prima o poi avrebbe permesso anche a noi di acquisire “beni di lusso” — e di una rivoluzione culturale in atto, in grado in un tempo non troppo lontano di far capire a tutti il valore economico della ricerca scientifica, soprattutto di quella di base. Nascevano così, grazie al volontarismo di scienziati come Adriano Buzzati Traverso (il cui impegno instancabile viene ricostruito, passo per passo, in un bel libro di Francesco Cassata, “L’Italia Intelligente”) centri di eccellenza come il Laboratorio internazionale di genetica e biofisica di Napoli. Sarebbero durati poco perché la rivoluzione culturale non ci sarebbe poi stata e molti dei ricercatori che fornivano la massa critica a questi centri sarebbero emigrati in Svizzera e poi negli Stati Uniti. Ma quel che conta è che allora c’era una speranza di cambiamento, in grado di spingere molti nostri scienziati a investire sull’Italia, malgrado tutto.
Oggi questa speranza non c’è più. Difficile farsi illusioni in un paese in cui non si fa nulla per tornare a crescere, destinato solo fra 10 anni a raggiungere i livelli di reddito pro capite del 2007. Un paese poi in cui non si tiene in alcun conto la ricerca scientifica. L’ultimo
esempio lo abbiamo avuto con il voto di Camera e Senato di qualche settimana fa che impone vincoli irrazionali alla sperimentazione biomedica sugli animali, portandoci fuori dall’Europa e dalla comunità scientifica internazionale. Quel che è più indicativo è il fatto che il Parlamento abbia deciso senza neanche sentire la necessità di consultare chi fa ricerca biomedica in Italia: nessuna audizione, nessun parere richiesto. Al contrario, a Silvio Garattini, uno dei più grandi scienziati italiani, viene chiesto di non parlare in pubblico del problema per non urtare le suscettibilità degli animalisti. Ci si condanna così a non poter sperimentare terapie per malattie oggi incurabili, fra cui il cancro e le patologie da dipendenza. Lesley Rochat, la ragazza sudafricana che nuota con gli squali tigre per convincere tutti che non sono pericolosi, può decidere di correre il rischio di morire in nome della difesa di quella specie animale. Qualcuno può ammirarla, altri considerarla dissennata.
Ma perché mettere un intero Paese nella sua condizione?
Il segno più evidente della perdita di speranza nella ricerca è nelle scelte dei giovani ricercatori italiani che hanno ottenuto, nel luglio scorso, un finanziamento dell’European Research Council. Il finanziamento è legato a un particolare ricercatore, che può decidere dove utilizzarlo anche spostandosi da una istituzione a un’altra nel corso dei quattro anni in cui fruisce dei fondi. Tra i 287 vincitori, solo 8 ricercatori (meno del 3 per cento) hanno scelto l’Italia come sede dove svolgere la propria ricerca. Tra questi, un solo straniero mentre tra i 17 italiani che hanno vinto il grant, ben 10 hanno deciso di utilizzarlo in altri paesi. Il messaggio è forte e chiaro: l’Italia non è un paese per chi fa ricerca.
Il governo Letta può continuare nel solco delle classi dirigenti che hanno guidato il Paese nel Dopoguerra, mettendo la testa sotto sabbie e cemento e prestando attenzione quasi solo a chi ha rendite immobiliari da proteggere. Se, invece, vuole dedicare nella sua agenda anche un minimo di attenzione al futuro, deve prendersi la responsabilità di discernere ciò che ha potenziale di ricerca da ciò che è mero presidio di potere locale, distinguere chi vive per la ricerca, prima ancora che della ricerca, dalle baronie, evitando nel modo più assoluto di spargere a pioggia le poche risorse disponibili. La valutazione della ricerca completata dall’Anvur nel luglio scorso fornisce al governo il supporto per interventi selettivi di questo tipo. Il fatto importante è che la quota di finanziamenti attribuiti sulla base di queste valutazioni deve aumentare significativamente perché, con le regole attuali, si rischia di premiare proprio quegli atenei in cui un terzo dei docenti non ha pubblicato un saggio che sia uno nel giro di 7 anni. Bene anche concedere ai dipartimenti che dimostrano di fare davvero ricerca maggiore autonomia nel reclutamento, ad esempio permettendo loro di offrire abilitazioni con procedure d’ateneo, senza dover necessariamente passare attraverso i concorsi nazionali. Un segnale importante di svolta si avrebbe anche emettendo un bando nazionale per assumere i migliori ricercatori (italiani o stranieri) che decidono di trasferirsi in Italia, con profili di eccellenza. Numeri piccoli, ma molto influenti per creare valore e lavoro. Le candidature dovranno essere proposte dalle università, e le decisioni prese da commissioni di settore cui partecipino scienziati di tutto il mondo, tranne quelli operanti in istituzioni universitarie italiane, per ovvi conflitti di interesse. È il modello delle Canada excellence chairs, replicato con successo in Catalogna con l’Icrea (www. icrea. cat). Anche nel mezzo della crisi, nel 2012, sono riusciti a reclutare 13 ricercatori di livello internazionale. Per cambiare registro dobbiamo rafforzare le aree in cui abbiamo già un ruolo non secondario nella ricerca mondiale. Una parte poco commentata del rapporto Anvur mostra che, nei confronti internazionali, soprattutto le scienze mediche, la fisica teorica e l’ingegneria industriale non sfigurano. Altrove bisogna ancora costruire quella massa critica che da noi non c’è. Ci vuole tempo per farlo. Se i rinvii per il governo sono una forma di assicurazione, per la ricerca hanno il sapore acro dell’addio.

La Repubblica 04.09.13

“Dove porta la rottura di Marchionne. Da fabbrica Italia a fabbriche ferme”, di Rinaldo Gianola

Anche nel 2013 la Nissan di Sunderland in Inghilterra, prima fabbrica «cacciavite» dei giapponesi in Europa, produrrà un numero di auto, oltre mezzo milione, probabilmente più elevato dell’intera produzione di tutti gli impianti Fiat in Italia. La nostra amata Mirafiori, la storica cattedrale dell’industria dell’auto italiana, nel 2012 ha prodotto meno di 50mila auto. I numeri del 2013 è meglio non conoscerli. È vero che Sergio Marchionne non vuole più sentir parlare del piano Fabbrica Italia, quello da venti miliardi di euro di investimenti in quattro anni rimasto solo un’illusione mediatici, però non si può proprio fare a meno di ricordare che secondo quel documento, tanto apprezzato dalla politica, dalle istituzioni, da una parte del sindacato, prima di essere negato dal manager, Mirafiori avrebbe dovuto produrre 300mila auto nel 2014. Invece alle Carrozzerie i 5500 dipendenti vedono la fine della cassa integrazione straordinaria a settembre e non sanno nulla, non hanno notizie di cosa succederà, di quando finalmente arriveranno le nuove produzioni promesse.

TIMORI E INCERTEZZE SUL LAVORO La paura, l’incertezza del futuro dei lavoratori torinesi sono sensazioni che vivono anche i loro colleghi delle altre fabbriche Fiat, come Cassino, Pomigliano, Melfi. Ed emerge, sempre più, la delusione dei dipendenti della Fiat per aver accettato nel 2010 le condizioni organizzative, contrattuali, le “rotture” imposte di Marchionne, perchè pensavano di poter ottenere un posto sicuro, un futuro sereno, seppur con una compressione dei diritti in fabbrica. Invece, niente. Non ci sono certezze. La strategia di Marchionne in Italia ha prodotto spaccature e tensioni, ha spostato altrove produzioni annunciate e promesse, ha chiuso fabbriche e interrotto produzioni (Termini Imerese, Irisbus, CNH di Imola) senza che i diversi governi, le istituzioni locali, la politica ponessero dei limiti all’azione di Marchionne. È comprensibile che la missione americana, il controllo di Chrysler, la dura partita coi sindacati Usa per ottenere le loro azioni, l’attenzione e gli investimenti in mercati forti come il Brasile abbiano ridotto l’interesse per l’Italia e l’Europa, anche se le dichiarazioni ufficiali sono sempre state di segno contrario. Ma la strategia del manager del Lingotto in Italia oggi appare più debole, la sua ricetta «innovativa» delle relazioni industriali e dei contratti appare perdente, per non parlare delle quote di mercato in Italia e in Europa. Marchionne non immaginava certo di dover fare i conti con la forza della legge, con le sentenze della Corte Costituzionale che gli hanno imposto di far rientrare in fabbrica i delegati Fiom, discriminati, licenziati, penalizzati per la loro adesione al sindacato dei metalmeccanici della Cgil come avveniva negli anni Cinquanta. Ora, dopo essersi arreso alla legge, Marchionne rilancia con la solita minaccia di andarsene, di produrre altrove, se non ci sarà una nuova legge sulla rappresentanza, sull’esigibilità dei contratti. I colpi di coda della Fiat determinati dalla sconfitta, davanti alla legge e all’opinione pubblica, potrebbero essere pericolosi. Per la verità un accordo sulla rappresentanza è già stato definito a maggio da Confindustria e sindacati confederali, ma Marchionne non può accettarlo senza fare un’altra retromarcia clamorosa perché la Fiat, convinta della bontà del suo progetto, ha abbandonato l’organizzazione dell’industria privata e si è costruita un suo modello contrattuale, tutto particolare, che però, alla prova dei fatti, non funziona. Se la «formula Marchionne» avesse fatto ripartire la produzione delle fabbriche Fiat, se avesse rilanciato l’industria dell’auto italiana (una volta tra le prime nel mondo), magari i lavoratori avrebbero chiuso un occhio. Ma la situazione delle fabbriche italiane è difficile, rimane sull’orlo dell’emergenza, gli investimenti sono insufficienti, non si vedono nuovi modelli e gli ultimi successi, come la 500 e la 500L, arrivano dalla Polonia e dalla Serbia e di quella quota del 30% del mercato italiano dell’auto detenuto dal Lingotto solo una piccola parte, circa un quinto, è rappresentata da auto prodotte realmente in Italia. C’è la Nuova Panda a Pomigliano d’Arco, ma occupa una sola linea mentre prima per la produzione Alfa Romeo erano attive due linee. Così a Pomigliano, il primo impianto a sperimentare la «formula Marchionne», sono occupati circa 2200 dipendenti, ma altri 2000 restano fuori e non si sa bene che fine faranno con questi chiari di luna. C’è poi la nuova Maserati a Grugliasco, con un migliaio di addetti. Ma mancano nuovi modelli di successo, di massa, da produrre nelle fabbriche italiane, per rinnovare la storia Fiat.

LA LEGGENDA DEL RILANCIO Il rilancio dell’Alfa Romeo, promesso fin dalle prime mosse di Marchionne al Lingotto, è rimasto solo sulla carta, rinviato di anno in anno, di piano in piano, ma naturalmente sempre con l’obiettivo dichiarato di conquistare l’America come ai tempi della Duetto de Il Laureato. L’interesse della Volkswagen per la casa del Biscione è stato sempre respinto da Marchionne, ma forse si potrebbe almeno verificare se i tedeschi hanno qualche solido progetto per rilanciare un pezzo storico dell’industria dell’auto tricolore. In conclusione l’offensiva di Marchionne per modernizzare l’industria italiana non è riuscita per ora ad assicurare lavoro e produzione, in tre anni siamo passati dal sogno di Fabbrica Italia all’incubo delle fabbriche chiuse. Marchionne e gli eredi Agnelli, i cui interessi sono sempre più lontani dall’Italia e dall’Europa come dimostra il bilancio Exor, non hanno però rinunciato a investire nel Corriere della Sera dove solo saliti fino al 20%. Meglio battere Diego Della Valle in via Solferino piuttosto che privilegiare le vecchie fabbriche di auto. Marchionne, a ben vedere, non è poi così diverso dagli altri epigoni dei salotti.

L’Unità 04.09.13

“Sindacati e imprese, quel patto che serve alla ripresa”, di Paolo Guerrieri

Il patto per la ripresa siglato alla Festa Democratica di Genova da sindacati e Confindustria costituisce una lista di priorità economiche davvero preziosa in vista dell’appuntamento decisivo di quest’autunno della legge di Stabilità. Allo stesso tempo, il fatto che sia stato presentato proprio alla Festa Democratica potrebbe offrire un’occasione unica per rimettere al centro del confronto precongressuale del Pd, ancora troppo concentrato su nomi e schieramenti, una serie di temi di fondamentale importanza per far uscire l’Italia dalla gravissima crisi in cui è tuttora immersa. Il documento delle parti sociali denota, innanzi tutto, una piena consapevolezza della fase per certi versi eccezionale che stiamo attraversando. È una crisi che ha assunto contorni addirittura più gravi di quella degli anni 30, proprio perché l’economia italiana è stata una delle più colpite in Europa e il suo stato di salute era già debole prima della crisi. Altrettanto condivisibile è l’enfasi posta nel documento sulla necessità di tornare a crescere per il nostro Paese, visto come una sorta di imperativo categorico, non solo per smaltire l’elevato stock di debito pubblico accumulato, ma per cercare di sanare le forti disuguaglianze sedimentatesi in questi anni. Sul che fare, il primo obiettivo immediato resta quello di sostenere i timidi segnali di ripresa che si stanno profilando. L’altro è intervenire sui problemi strutturali che ci affliggono da tempo e che sono sintetizzati dal prolungato ristagno della produttività italiana, un fondamentale indicatore dell’efficienza di un sistema economico. E questo d’altra parte l’unico modo per difendere e migliorare i livelli di reddito e benessere del nostro Paese. Ora, tra la crescita della produttività e quella del sistema industriale esiste una correlazione positiva molto stretta nel nostro Paese, con due implicazioni forti sottolineate dalle parti sociali: la prima è la necessità di fermare la profonda erosione in corso della nostra base industriale. La seconda è che solo il rilancio nei prossimi anni dell’industria e delle politiche ad essa collegate potrà consentire di innalzare la dinamica futura della crescita italiana. Ciò comporta mettere in campo una molteplicità di interventi che interessano due ambiti ugualmente rilevanti e strettamente intrecciati. Da un lato le politiche volte a rendere più efficiente e modernizzare l’ambiente esterno in cui il sistema produttivo e le imprese operano (sistema fiscale, infrastrutture materiali e immateriali, intermediazione finanziaria, e così via). Dall’altro, quelle volte a incidere direttamente sulla vita delle imprese per superare le debolezze esistenti (ridotta dimensione, diversificazione tecnologico-produttiva, organizzazione e innovazione, internazionalizzazione, mercato del lavoro). Il documento, in realtà, si sofferma molto di più sul primo insieme di temi, elencando molti suggerimenti e proposte, assai meno sul resto. Del tutto condivisibile, viceversa, è l’indicazione sia di interventi utili a sostenere la domanda sia di politiche cosiddette d’offerta, compresi investimenti a medio e lungo termine, pubblici e privati, in tutta una serie di comparti che potrebbero trasformarsi in nuovi motori della crescita della nostra economia. Più specificatamente, ai fini di un aggancio della ripresa, tra le proposte avanzate due appaiono fondamentali. Il primo è una riduzione significativa dell’onere fiscale oggi per lo più gravante sul lavoro e sull’attività di impresa, attraverso un intervento sul cuneo fiscale. Si potrebbe così ottenere sia un aumento dei redditi da lavoro sia una riduzione dei costi produttivi delle imprese, due provvedimenti che oltre a rispondere a sacrosante ragioni di equità appaiono in grado di contrastare la forte contrazione tuttora in corso della domanda interna. L’altro è cercare di assicurare maggiore liquidità e credito alle imprese – vessate in questa fase da una stretta creditizia (credit crunch) molto forte e che non accenna ad attenuarsi – riattivando sia i canali bancari sia, soprattutto, canali di finanziamento alternativi. È richiesta per questo un’attenta regia del governo. Se c’è una critica da muovere, infine, al documento di Genova è quella di aver trascurato il ruolo dell’Europa. È evidente che l’azione di risanamento dei singoli Stati è condizione necessaria ma non sufficiente per la ripresa: senza una spinta collettiva dei Paesi europei verso la crescita non vi sono molte possibilità di un positivo rilancio dei Paesi in difficoltà, come il nostro, a prescindere dai compiti a casa che verranno svolti. Ed è un terreno quest’ultimo in cui le forze sociali devono riuscire a trovare forme di più stretto e efficace coordinamento a livello europeo, per poter sperare di incidere assai di più di quanto – molto

L’Unità 04.09.13

“I confini della linea rossa”, di Adriano Sofri

Fra i danni collaterali della tragedia siriana c’è il rischio di una precipitosa perdita di distinzioni costruite attraverso i decenni. Ian Buruma (“La moralità delle bombe” pubblicato ieri) raccoglie un argomento che sembra di buon senso a tanti nell’angustia di questi giorni: che senso ha stabilire “linee rosse” sulle armi chimiche? Forse che gli ammazzati a colpi di proiettili e bombe convenzionali sono meno morti? Dalla Convenzione di Ginevra del 1925 a quella del 1993 è cresciuto l’orrore per le armi chimiche, da Ypres 1917 alla nostra Eritrea, alla guerra Iraq-Iran, alla curda Halabja 1988 e ai sobborghi di Damasco.
Orrore per gli effetti, per i bersagli indiscriminati, e disgusto per la slealtà estrema, erede dell’avvelenamento dei pozzi. In gara con l’orrore cresceva l’avidità di potenze grosse e piccole per il possesso di armi chimiche e biologiche che ne autorizzassero la prepotenza e promettessero, se non l’espansione vittoriosa, la rappresaglia dopo la sconfitta. Gli Stati Uniti ora segnano il passo davanti alle linea rossa che hanno voluto tracciare: può darsi che Obama avesse pronunciato l’intimazione come un esorcismo, per avere un alibi all’inerzia, e contando che Assad non ardisse di oltrepassarla. Ma le armi chimiche, con l’aggravante di colpire i civili, sono per la civiltà internazionale — cioè per la riduzione della barbarie planetaria — una cosa diversa e più grave delle armi convenzionali. Fa impressione vedere come l’argomento apparentemente di buon senso, in realtà fra qualunquista e cinico, sull’indistinzione delle armi mortifere, faccia dimenticare, perfino a tanti che vi si sono impegnati, battaglie come quella per il bando alle cluster bombs, le bombe a grappolo, o le mine antiuomo cosiddette, che uccidono squartano e mutilano come un bombardamento “normale” — ma con un di più di inganno e adescamento di inermi. O per il bando all’uranio impoverito. Vogliamo passare dallo scandalo della manipolazione sull’esistenza di armi di distruzione di massa, alla dichiarazione della loro irrilevanza? Per far culminare questa liquidazione alla leggera di distinzioni sulle quali si costruisce pietra su pietra, frana dietro frana, riparazione dopo riparazione, la storia della civiltà — della riduzione della barbarie, delle unghie tagliate agli artigli — si chiamano in causa anche l’arma atomica e la nozione di genocidio. “Esiste davvero una grande distinzione morale tra uccidere circa centomila persone sganciando una bomba atomica su Hiroshima e ammazzarne un numero addirittura superiore provocando una pioggia di bombe incendiarie lanciate in una sola notte sul cielo di Tokyo?” Le vittime di Tokyo furono più numerose, certo. E i bombardamenti al napalm e ai defolianti sul Vietnam non furono meno infami, e Dresda, e… Ma a Hiroshima e Nagasaki gli umani emularono per la prima volta Dio nell’unico modo in cui potevano, mostrandosi capaci di distruggere la terra di colpo, in una creazione alla rovescia. Per la prima volta e per l’ultima, finora: l’unico caso in cui hanno rinunciato a ripetersi. Finora, insisto: perché custodiscono decine di migliaia di ordigni nucleari, e decine di paesi sono pronti a dotarsene. L’ipocrisia e l’inadeguatezza del Trattato di non proliferazione nucleare saranno una ragione per liberarcene — tanto si muore comunque ammazzati? Infine, il genocidio. “Tollerare il genocidio è intollerabile… A che punto esatto, però, occorre tracciare una linea? Quanti omicidi costituiscono un genocidio? Migliaia? Centinaia di migliaia? Milioni?”. Che sia Buruma a proporre simili interrogativi mi lascia interdetto. Riformulateli a proposito di Auschwitz. Fatto? Non occorre altro, se non ricordare che il genocidio — la parola, e poi la tormentata definizione, e la Convenzione delle Nazioni Unite, insoddisfacente quanto si voglia — venne dopo, dopo che nessuno volle tracciare quella linea rossa.

La Repubblica 04.09.13

“La solitudine dell’Italia: unico paese in recessione”, di Laura Matteucci

L’Ocse gela le attese di ripresa e incorona l’Italia maglia nera tra i Paesi ad economia avanzata. Nel G7 è l’unico Paese ancora in recessione, e le stime aggiornate indicano un Pil 2013 in flessione dell’1,8%. Con contrazioni finali nel quarto trimestre dello 0,3% e nel terzo dello 0,4%. Decisamente meglio gli altri Paesi europei, con la Francia che registrerà a fine anno una crescita dello 0,3% (+1,4% nel terzo trimestre, +1,6% nel quarto), la Germania dello 0,7% (+2,3% e +2,4%), la Gran Bretagna dell’1,5% (+3,7% e +3,2%). Mentre oltreoceano, gli Stati Uniti arriveranno a +1,7%, come frutto di notevoli accelerazioni finali (+2,5% e +2,7%). Per l’Organizzazione economica parigina la situazione italiana è comunque in pur lieve miglioramento: «Gli indicatori suggeriscono che l’Italia sta uscendo, lentamente ma sta uscendo, dalla recessione in cui era caduta», dice il vicecapo economista dell’Ocse, Jorgen Elmeskov. In questo scenario però, aggiunge, «ci sono una serie di cose che potrebbero succedere » e di cui non si può rendere conto nelle cifre, come «il rischio politico» legato all’attuale instabilità e «un rischio eurozona, più ampio, che potrebbe avere un impatto». Un quadro, insomma, estremamente fragile. Anche perché sulla ripresa «moderata» dell’eurozona, che proseguirà nella seconda parte dell’anno, continuano ad aleggiare rischi elevati. In primis, l’alto livello della disoccupazione: c’è il rischio possa diventare «strutturale» anche in presenza della ripresa e aumenti la possibilità di tensioni sociali.

MANCANZA DI LAVORO Nelle economie avanzate, dunque, prosegue una moderata ripresa con la crescita che dovrebbe mantenersi stabile nella seconda metà dell’anno. I miglioramenti maggiori si stanno registrando negli Stati Uniti, in Giappone e in Gran Bretagna mentre l’eurozona nel suo insieme non è più in recessione. Tuttavia, aggiunge l’Ocse, «una ripresa sostenibile non è ancora consolidata e permangono rischi elevati» in particolare per l’area euro. Intanto perché rimane «vulnerabile » alle «rinnovate tensioni finanziarie, bancarie e del debito sovrano, con «molte banche non sufficientemente capitalizzate e gravate da cattivi prestiti ». Ma soprattutto per l’occupazione debole, la crescita lenta e i persistenti squilibri globali, che sottolineano «la necessità di politiche strutturali, in aggiunta a quelle di sostegno della domanda, per creare posti di lavoro, aumentare la crescita, rendere più leggera la pressione fiscale e ridurre in modo permanente gli squilibri esterni». Alta disoccupazione e bassa crescita infatti «possono portare ad aumentare le tensioni sociali nelle economie avanzate ed emergenti ». Tutto questo «evidenzia la necessità di una politica macroeconomica che fornisca supporto sufficiente alla domanda, mentre sono intraprese le riforme necessarie». Secondo l’Ocse «affrontare la disoccupazione è fondamentale e deve essere un obiettivo fondamentale dell’azione di governo. I tassi di disoccupazione sono circa il 12 per cento nella zona euro e 7,5 per cento negli Stati Uniti, molto al di sopra dei livelli pre-crisi’>, e per evitare il permanere di alti tassi anche quando la «ripresa sarà consolidata i governi devono implementare» la politiche di formazione e di attivazione, insieme a un sostegno alla domanda più forte. «Riformare i sistemi fiscali e previdenziali – spiega l’Ocse – dovrebbe incentivare il lavoro, mentre sono necessarie misure mirate per i soggetti vulnerabili, come i giovani senza lavoro al di fuori del sistema di istruzione e formazione». Un aiuto potrebbe arrivare anche dalle riforme istituzionali, che «possono anche affrontare direttamente le ineguaglianze, come ad esempio migliorando l’accesso all’istruzione e l’orientamento ai trasferimenti per chi ne ha più bisogno ». E di certo le politiche di consolidamento fiscale devono continuare. Non solo. «Devono essere meglio progettate per proteggere i più vulnerabili nella società – spiega l’Organizzazione – per costruire il sostegno pubblico per le necessarie riforme strutturali e per dare priorità alla spesa per incentivare l’occupazione ». Quanto all’inflazione, i prezzi al consumo nella zona Ocse sono saliti, a luglio, dell’1,9% tendenziale (+1,8% a giugno), spinti dalle componenti energetica (+4,5% su anno) e alimentare (+2,2%). Al netto di energia e cibo il tasso tendenziale d’inflazione è rimasto stabile all’1,5% in luglio. Su base congiunturale, è aumentato dello 0,1% a luglio.

L’Unità 04.09.13

“La Germania pallida madre”, di Barbara Spinelli

Una potenza egemone, ma timorosa di dominare perché memore della propria storia. Volitiva, ma temporeggiatrice fino all’abulia. Difficile afferrare la Germania, alla vigilia delle elezioni, e per questo abbondano i luoghi comuni, le definizioni elusive. Sono i tentativi di psicologizzare un potere evidente, invadente, che Berlino dissimula con cura e che nelle capitali dell’Unione non si sa come contrastare. L’Europa intera si nutre di questi stereotipi, da quando la crisi l’ha assalita, e aspetta ammaliata, inerte, l’esito del voto. Spera che tutto cambierà dopo il 22 settembre, ma il tutto che promette lo affida a Berlino. Il rinnovo del Parlamento tedesco precede di pochi mesi le elezioni europee. Nell’Unione è vissuto come il primo atto di un dramma che concerne il continente, e che ha per protagonista la malata democrazia d’Europa.
Grazie ai luoghi comuni il dramma si tramuta in fiaba, che i tedeschi stessi coltivano in parte per capire dove vanno, in parte per giustificarsi. La fiaba narra una Germania – pallida madre ancora e sempre, come nella poesia di Brecht – ansiosa di non esser più, «in mezzo ai popoli, derisione o spavento ». Devota all’Europa con lucido raziocinio, ma ostacolata dal nazionalismo dei paesi vicini, Francia in testa. Il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble fa parte della generazione europeista del dopoguerra, e in un lungo articolo del 19 luglio sul
Guardianha
avvalorato l’immaginario racconto: «L’idea che i tedeschi ambiscano a un ruolo speciale in Europa è un malinteso. Noi non vogliamo un’Europa tedesca. Noi non chiediamo agli altri di essere come noi».Invece i tedeschi hanno volontà forti, molto pi ù di quanto dicano. E chiedono, con l’impeto di chi difende non solo dottrine economiche, ma solenni visioni morali (il debito come colpa). Schäuble invita i partner a non usare stereotipi nazionali, ma anche il suo ragionare, minimizzare, sta divenendo uno stereotipo, un sintagma cristallizzato che la realtà smentisce ogni giorno. L’attesa inerte del voto tedesco – attesa addirittura miracolista in Italia – suggella un potere egemonico dato per immutabile, senza alternative: come immutabili, indiscutibili, sono le politiche di austerità che Berlino impone parlando, da sola, in nome di tutti i popoli dell’Unione.
I più lucidi sono gli intellettuali di lingua tedesca – i filosofi Jürgen Habermas e Ulrich Beck, lo scrittore Robert Menasse, l’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer. Dagli esordi della crisi, denunciano con severa insofferenza l’involuzione nazionalista del proprio paese. Fra i partiti, solo i Verdi fanno proprie le loro diagnosi. Fischer, che è un loro dirigente, accusa il governo di aver riacceso dopo più di sessant’anni l’antico assillo della questione tedesca.
Stessi toni in Jürgen Trittin, ex ministro dell’ecologia: «C’è una divisione netta fra quel che i Verdi vogliono e quel che Berlino sta facendo. Il Cancelliere ha sempre desiderato un’Europa intergovernativa, mentre noi vogliamo rafforzare le istituzioni europee, dunque i poteri della Commissione e del Parlamento europeo ». La Merkel è sospettata di voler tornare a un’Europa degli Stati sovrani: quella stessa Europa fondata sull’equilibrio-competizione fra potenze ( la balance of power), che si squassò nelle guerre dei secoli scorsi e contro cui fu alzato, negli anni ’50, il baluardo della Comunità europea.
Non sono sospetti infondati. Piano piano, il capo del governo ha abbandonato l’europeismo che aveva professato nel febbraio 2012, e le porte che aveva socchiuso le ha per ora chiuse. Ha sentito crescere attorno a sé i neo-nazionalisti (l’appena nato partito Alternativa per la Germania recluta a destra e sinistra) e rapida s’è adeguata. Nei suoi discorsi come nei suoi atti «manca qualsiasi nocciolo normativo», dice Habermas. Per questo s’è alleata all’Inghilterra, quando Cameron ha messo un veto a qualsiasi aumento del bilancio comunitario: assieme, hanno detto no a politiche europee che
controbilancino le austerità nazionali. E ha benignamente taciuto, quando il Premier olandese Mark Rutte ha decretato, lo scorso febbraio: «L’era dell’Unione sempre più stretta è finita». Il 13 agosto, alla Tv tedesca, s’è come liberata d’un fardello: «L’Europa deve coordinarsi meglio, ma credo che non tutto debba esser fatto a Bruxelles. Va considerata l’ipotesi di restituire qualcosa agli Stati.
Dopo il voto ne discuteremo». Secondo lo scrittore austriaco Menasse, la malattia dell’euro ha proprio qui le sue radici, politiche e democratiche assai più che economiche: nel potere che gli Stati vanno riprendendosi, non da oggi ma da quando nacque, al posto di una Costituzione federale, il Trattato di Lisbona del 2007 ( Der europäische Landbote-Il messaggero europeo, Zsolnay 2012). È da allora che gli Stati – Consigli dei ministri, vertici dei leader nazionali – hanno ricominciato a prevalere, accampando sovranità illusorie ma non meno tronfie, erodendo sempre più le istituzioni sovranazionali. I difetti di costruzione dell’euro sono noti: mancanza di unione politica e economica. Ai difetti si sta rispondendo dilatandoli anziché riducendoli.
In un’Europa dove regnano di nuovo gli Stati – è fiaba anche questa, ma ci son fiabe più reali del reale – è ineluttabile che comandi il più potente economicamente. E comanda non senza astuzie, al punto che Beck parla di modello Merchiavelli, quando descrive l’impero accidentale messo su da Berlino: «Proprio come Machiavelli, Angela Merkel ha sfruttato l’occasione che le si è presentata (la crisi) e ha trasformato i rapporti di potere in Europa». Lo avrà fatto controvoglia ma lo ha pur sempre fatto, e con effetti visibili: l’Unione non è più comunità, quando i paesi debitori-peccatori vengono umiliati col soprannome di Periferia-Sud.
Non si spiegano altrimenti l’evaporare d’ogni «nocciolo normativo», la volatilità delle posizioni tedesche: sui poteri da rimpatriare nelle capitali, sull’Europa-federazione, o sull’unione bancaria prima voluta, poi respinta per meglio tutelare gli interessi delle banche tedesche. Ascoltiamo ancora Beck: «Il principe, dice Machiavelli, deve attenersi alla parola politica data ieri solo se oggi gli porta vantaggio» ( Europa tedesca, Laterza 2012).
Fischer sostiene che per la terza volta, la Germania rischia di distruggere l’Europa. Il pericolo è reale, ma stavolta è nel perfezionismo della sua democrazia che perversamente s’annida la minaccia. È nelle sue istituzioni indipendenti: Corte costituzionale, Parlamento nazionale, Banca centrale. Il nuovo nazionalismo in Europa è iperdemocratico. O meglio: siamo alle prese con prassi istituzionali che Menasse giudica antiquate perché «non ancora sorrette da una democrazia postnazionale ». La voglia isolazionista di
Alternativa per la Germania accelera la regressione. Se Alternativa entra in Parlamento il paese muterà volto, ma non mettendosi ai margini come l’Inghilterra: la sua Costituzione le prescrive l’Europa (art. 23, riscritto nel ’92), ma l’Europa voluta non è federale.
L’ultimo luogo comune riguarda la memoria. L’Italia ha poco da criticare, essendo abituata all’oblio di sé. Ma la politica della memoria ha in Germania singolari lacune. Si ricorda l’inflazione di Weimar, ma non la deflazione e l’austerità adottata nel ’30-32 dal Cancelliere Brüning, che assicurò trionfi elettorali a Hitler. Si ricorda il nazionalsocialismo, ma non quel che accadde dopo: il taglio del debito tedesco generosamente accordato nel ‘53 da 65 Stati (tra cui la Grecia). Anche il mito della Germania che impara dalla storia va in parte sfatato, se non si vuol dividere l’Europa tra centro e favelas: tra santi e peccatori che al massimo «si coordinano», dimenticando strada facendo il nome solidale – Comunità – che un tempo si erano dati e che troppo spensieratamente hanno abbandonato.

La Repubblica 04.09.13

“La paura di perdere la normalità borghese”, di Michela Marzano

Ancora una donna uccisa. Ancora una vittima della violenza maschile. Questa volta, però, forse non si tratta di un dramma senza movente. La giovane brasiliana ammazzata a Brescia dall’amante aspettava da lui un bambino. UNA storia di tradimento che finisce male come tante, ma che questa volta, però, con la morte di Marilia e del bimbo di cinque mesi che la donna portava in grembo, si trasforma in una vera e propria tragedia. Come se uccidere una donna incinta potesse cancellare ogni traccia di quello che è successo, potesse far ricominciare a vivere come se niente fosse mai accaduto, potesse permettere di riprendere in famiglia il corso normale della propria esistenza. Quale esistenza? Quale normalità? Quale famiglia?
Ognuno, nella vita, cerca di districarsi come può, scegliendo di essere o meno fedele, accontentandosi di una moglie oppure accumulando avventure successive. Nessuno, però, dovrebbe immaginare che i propri gesti non abbiano alcuna conseguenza e che, se l’amante resta incinta, ci si possa poi sbarazzare di lei come di un oggetto di cui ci si è ormai stancati. Considerazione ovvia per chiunque. A meno di non illudersi che l’unica cosa che conti sia il proprio ego, un “io” sempre più ingombrante e sempre meno in empatia con gli altri: io ho un’avventura, io decido di interromperla, io mi libero di ogni presenza ingombrante … “I, me, and myself”, come scriveva Salinger nel Giovane Holden.
Solo che questa volta il protagonista del dramma non è un adolescente alla ricerca di se stesso, ma un uomo che, uccidendo l’amante incinta, mette in luce l’ennesima sfaccettatura della violenza maschile. Quali che siano le circostanze precise di questo delitto, non siamo più solo di fronte ad una forma di disprezzo nei confronti delle donne, ma anche di fronte ad un disprezzo generalizzato nei confronti della vita umana: quella di un bimbo che non nascerà mai, ma anche quella dei due figli già nati e della moglie. Un crimine terribilmente banale, squallida espressione dell’iperindividualismo contemporaneo.

La Repubblica 04.09.13