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“Ma il conto non lo paghi il Paese”, di Mario Calabresi

Ora c’è da chiedersi se bisogna far pagare il conto della condanna di Berlusconi al Paese, a tutti gli italiani, o se per una volta la razionalità può prevalere. Se possiamo provare ad uscire dalla crisi in cui siamo sprofondati o se ci dobbiamo imbarcare in una nuova stagione di grida, lacerazioni e campagna elettorale (sempre con la stessa terribile legge, dettaglio da non dimenticare mai).

Enrico Letta ieri mattina, mentre i giudici della Cassazione entravano in camera di Consiglio, si riuniva per cominciare a preparare il semestre di presidenza italiana della Ue che inizierà il primo luglio dell’anno prossimo. L’unica salvezza pare quella di guardare avanti, caparbiamente, senza farsi travolgere dai colpi di coda di un ventennio di rissa continua.

Il Paese può immaginare un percorso, può sperare di vedere crescere quei fili d’erba di ripresa che vengono segnalati in alcuni segmenti produttivi (grazie soprattutto alle esportazioni), può sperare di vedere il segno positivo di fronte ai dati sul Pil a partire dal prossimo anno e avrebbe diritto ad avere un governo che su questo si concentra. Oggi in Italia la domanda è una sola: i miei figli troveranno lavoro, io salverò il mio?

Tutto il resto non è fondamentale di fronte all’angoscia di un futuro che si sbriciola.

La Cassazione si è pronunciata, un iter giudiziario è finito, si può protestare la propria innocenza e denunciare una persecuzione ma a questo punto non esistono scappatoie, spallate o forzature. Esistono solo iter che ci si augura siano corretti e ordinati.

Il presidente della Repubblica ha invitato a rispettare la magistratura, il segretario del Pd Epifani fa capire che il suo partito è pronto a portare avanti l’esperienza di governo ma non a tollerare strappi istituzionali e colpi di testa del partito di Berlusconi. Siamo a un bivio, in poche ore potrebbe sfasciarsi tutto ancora una volta o si potrebbe finalmente vivere in un Paese in cui una sentenza, che colpisce un politico nelle sue vesti di imprenditore, non determina il destino di un governo.

Gli italiani assistono, la gran parte come spettatori, a questo finale. Guardano da fuori chi ha in mano il loro futuro e scrutano per vedere se verrà appiccato l’incendio. Sono convinto che quelli che lo auspicano siano una minoranza, non perché la maggioranza ami l’idea di un governo di larghe intese ma perché prevale lo sfinimento e la nausea verso la guerra totale. Una guerra che non ha costruito nulla e che ha trascinato la politica in fondo alla scala del gradimento e della stima.

I prossimi giorni saranno cruciali, la navigazione sarà difficilissima, ma la domanda fondamentale è se la maledizione italiana, essere sempre prigionieri del passato, condannati a vivere con la testa che guarda all’indietro, sia destinata a protrarsi o possa svanire.

La Stampa 02.08.13

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LE CONSEGUENZE DELLA VERITÀ, di EZIO MAURO
Il falso miracolo imprenditoriale che nella leggenda di comodo aveva generato e continuamente rigenerava l’avventura politica di Silvio Berlusconi ieri ha rivelato la sua natura fraudolenta, trascinando nella rovina vent’anni di storia politica travagliata del nostro Paese.
La Corte di Cassazione ha infatti confermato la condanna di Berlusconi a quattro anni per frode fiscale, chiedendo alla Corte d’Appello di rideterminare il calcolo della pena accessoria di interdizione dai pubblici uffici, dopo che il Procuratore Generale aveva proposto di ridurla. La condanna diventa dunque definitiva, il crimine è accertato, e tutto il mondo oggi sa che Berlusconi ha frodato il fisco, la sua azienda, gli altri azionisti e il mercato, per costruirsi una provvista illecita di fondi neri all’estero da usare per alterare un altro mercato, quello delicatissimo della politica.
Di questa storia titanica ed enormemente dilatata dalla dismisura populista e dalla sproporzione economica, tutto viene a morire dentro la sentenza di Cassazione, azienda, politica, affari, partito e infine, e soprattutto, una concezione illiberale e poco occidentale della destra, concepita e teorizzata come il territorio degli abusi e dei soprusi, legittimati dal carisma del leader, talmente “innocente” per definizione da sottrarsi ad ogni controllo di legittimità e di legalità.

La Cassazione mette la parola fine, è sempre così, a un percorso e a una storia giudiziaria. E non deve certo essere l’inizio della nostra fine.
Questa era in realtà la vera posta in gioco, e pesava infatti quasi fisicamente sulle toghe dei giudici che leggevano ieri in piedi la sentenza in nome del popolo italiano: sapendo che da oggi si trasformeranno in bersagli polemici e personali per la furia iconoclasta della destra, nello sciagurato Paese in cui ci vuole coraggio anche solo per amministrare la giustizia secondo diritto.
La posta in gioco era dunque arrivare non alla condanna, come abbiamo sempre detto, ma alla sentenza. Dimostrare che anche in Italia vige lo Stato di diritto, e vale la separazione dei poteri. Confermare che per davvero la legge è uguale per tutti, com’è scritto sui muri delle aule di giustizia.
Per giungere a questo esito – rendere compiutamente giustizia – ci sono voluti 10 anni di indagini, 6 anni di cammino processuale continuamente accidentato dai “mostri” giudiziari costruiti con le sue mani dal premier Berlusconi per aiutare l’imputato Berlusconi, minando il codice e le procedure con trappole a sua immagine e somiglianza. Una impressionante sequela di abusi ad uso personale e diretto, senza vergogna, dal Lodo Alfano ai “legittimi” impedimenti,
alle prescrizioni brevi, ai processi lunghi: abusi in serie che nessun cittadino imputato avrebbe potuto permettersi, e nessun leader occidentale avrebbe potuto praticare.
Rivelatisi infine inutili anche i “mostri”, che hanno menomato il processo ma non sono riusciti ad ucciderlo, è scattato il ricatto psicologico su istituzioni deboli e partiti disancorati da ogni radice identitaria.
È la pressione fantasmatica del “dopo”, che impedisce di leggere il presente giudicando il passato, e dunque tiene la politica prigioniera in un’unica dimensione, quella di un precario presente, trasformando la stabilità non in un valore (come avviene ovunque) ma in un tabù: che viene prima delle identità distinte da preservare nella loro diversità e addirittura prima delle responsabilità che i partiti hanno di fronte alla loro opinione pubblica.
Ecco dunque le minacce sul “dopo”, gli “eserciti di Silvio” già schierati con le armi al piede, il leader diviso come sempre da vent’anni tra la tentazione rivoluzionaria di rovesciare il tavolo nell’ultima ordalia e la prudenza democristiana di restare aggrappato al legno del governo come all’ultimo spazio possibile di negoziazione.
Qualcosa di quasi metafisico, che dimostra come la politica sia prigioniera. Nessuno ha parlato del reato in discussione, della sua gravità e delle sue conseguenze e tutti hanno guardato solo all’autore del reato, come se fosse possibile separare le due cose, e la specialità del soggetto annullasse il crimine, o lo derubricasse, amnistiandolo di fatto nel senso comune.
Ma il senso comune è il prodotto di un’operazione politica, che tende a occultare la clamorosa evidenza dei fatti. Perché ciò che è successo ieri con la sentenza è frutto di comportamenti precisi, almeno 270 milioni di euro sottratti a Mediaset e agli azionisti, diritti su film comprati a cento dagli intermediari berlusconiani e rivenduti a Mediaset a mille, per costruire nei passaggi intermedi un tesoro illegale di fondi neri in Svizzera, a Montecarlo, alle Bahamas, nella disponibilità piena e illecita del Cavaliere.
Altro che processo politico. La Cassazione ha sanzionato ieri definitivamente una frode imprenditoriale gigantesca, da parte dell’imprenditore “che si è fatto da sé” e che “ama il suo Paese”.
Adesso sappiamo qual è la sostanza di questo amore e di quella costruzione industriale e politica.
Gli stessi sottosegretari sbandati che ieri sera annunciavano di andarsi a dimettere «nelle mani di Berlusconi » non si accorgono che stanno confermando come tutta questa destra italiana si muova dentro uno Stato a parte, dove valgono altre leggi, diverse sudditanze, logiche separate e gerarchie
autonome.
Tutto questo porta a credere che il governo non cadrà, ma per impotenza. Il governo è infatti l’ultima espressione politica che resta a questa destra senza più leader, l’unico strumento per tenerla viva, e insieme. Anzi, Berlusconi – che già attacca la magistratura «irresponsabile» – proverà a trasferire la sua tragedia personale dentro la maggioranza e nelle istituzioni, contagiandole con la sua anomalia, ieri certificata nelle televisioni e nei siti di tutto il mondo.
L’unica salvezza per la sinistra e per le istituzioni è leggere con spirito di verità quanto è avvenuto in questi anni e la Cassazione ha certificato ieri, dando un giudizio preciso sulla natura di questa destra e del suo leader, senza nascondere la testa dentro la sabbia, perché su questa natura si gioca la differenza per oggi e per domani tra destra e sinistra, cioè il nostro futuro.
Non è la destra che deve decidere se può restare al governo dopo questa sentenza. È la sinistra. Perché la pronuncia della Cassazione non è politica: ma il quadro che rivela è politicamente devastante. Per questo chi pensa di ignorarlo per sopravvivere avrà una vita breve, e senz’anima.

La Repubblica, 02.08.13

“Tante procedure poca sinistra”, di Michele Prospero

Per capire come debole e smarrita sia diventata la politica occorre riflettere sulla fuga dal principio di realtà che coinvolge un po’ tutte le culture esistenti. Un intreccio di emergenze impone come centrali nella sfera pubblica questioni procedurali che, enfatizzate da schieramenti agguerriti e pompati dai media, determinano un completo appannamento della società e delle sue contraddizioni.
Di legittimità processuale si dibatte al Palazzaccio, con telecamere di mezzo mondo fuori dall’aula pronte a captare qualche indiscrezione sulle sorti penali del principale capo politico della seconda Repubblica. Attorno a regole congressuali si lacera da tempo il Pd, ancora alla ricerca di una identità e per questo aggrappato ai gazebo come alla sua unica ragione vitale. E ad una battaglia all’ultimo sangue contro le modiche alterazioni dell’articolo 138 si dedica un radicalismo giustizialista che minaccia fuoco e fiamme contro i costituzionalisti traditori.
E la società? E le classi e il loro rapporto sempre più segnato dalle incolmabili diseguaglianze di status e di potere che fine fanno in questa totale epifania delle regole, delle procedure, delle tecniche? La tendenza alla fuga della politica dalla società e dai suoi contrasti durevoli è un fenomeno generale che si afferma dopo la sconfitta del mondo del lavoro, maturata negli anni Ottanta. Lo storico francese Pierre Rosanvallon ha parlato al riguardo di fine della «democrazia dell’equilibrio» (cioè del compromesso tra le classi siglato nella cornice di ampi diritti sociali di cittadinanza conquistati dai partiti provvisti di grandi sistemi di identificazione) e di avvento di una «democrazia di imputazione» che pone una attenzione pressoché esclusiva e maniacale sulla vicenda privata e sulla fedina penale del politico.
Il primato della cosiddetta questione morale (con la centralità dei palazzi di giustizia osannati come luoghi della salvi- fica resa dei conti con il nemico) ha radice in questa metamorfosi del conflitto sociale e identitario che perde ogni intensità programmatica e si converte in una banale disputa con al suo centro la personalità del singolo candidato. Dai partiti storici che si affrontano con identità opposte, con radici sociali differenziate, si passa a cartelli elettorali provvisori che investono tutto in un leader che con l’affabulazione e i ritrovati del marketing si rivolge a un pubblico pigro, conquistato con immagini, messaggi, narrazioni, semplificazioni banali.
Proprio questo svuotamento della politica, ottenuto con la venerazione di quelli che Norberto Bobbio chiamava gli «uni- versali procedurali» della democrazia, è la forma della totale rivincita di una classe economica privilegiata. Con la desocializazione della contesa politica, essa riesce a domare quella furia del numero che nel corso del Novecento l’aveva piegata e costretta a subire una caduta tendenziale del saggio di profitto, indispensabile per finanziare i diritti, le politiche pubbliche, la mobilità sociale dei ceti periferici.
La politica che si concentra nell’universo asettico delle procedure, e lascia incustodita la società reale con le sue angosce e regressioni, non è una operazione neutra. È invece lo strumento specifico per cercare il recupero di spazi di dominio da parte delle sentinelle sempre più egemoni del capitale. Per piegare le ultime resistenze alla dittatura dell’economico e imporsi sulla gracile rappresentanza politica, i signori dei media e del denaro (per i quali le costituzioni del Novecento sono un costo sempre più insopportabile, Mar- chionne insegna) inventano anche la no- zione di «casta» e così si sbazzano più agevolmente di una possibile potenza sociale eccentrica (i partiti) rispetto ai calco- li avidi del capitale.
Questa democrazia sfiancata, che san- tifica le procedure e alimenta una rumorosa opinione pubblica assillata dalle fedine penali dei deputati, è però vulnerabile. Le diseguaglianze sociali, le esclusioni, le precarietà, la riduzione in povertà del lavoro, colpiscono ai fianchi del sistema politico e lo rendono assai fragile. Sul loro cammino i lavoratori però non trovano più, come un tempo, la vecchia talpa che dà un senso alla lotta per i diritti e organizza l’autonomia politica dei ceti subalterni. E per questa drammatica assenza, proprio gli operai, i ceti popolari, i soggetti marginali sono i primi a votare per le destre populiste o a lasciarsi sedurre dai capitalisti incantatori. È normale.
Se manca una sinistra con una identità ridefinita ma pur sempre visibile, con una consapevolezza storica della propria funzione, con una diagnosi approfondita della postmoderna questione sociale, il di- sagio, il risentimento, l’anomia, l’indifferenza prendono la strada ingannevole della mobilitazione populista contro culture e religioni altre, della rivolta di molti- tudini senza progetto che bruciano i cassonetti nelle metropoli. Ricostruire un nesso tra sinistra e società, tra politica e conflitto, questo è il nodo irrisolto (e non solo in Italia).
Basta allora a perdere ancora tempo sulle regole dei congressi, sui risvolti processuali della vicenda del Caimano, sull’accorciamento da tre a un solo mese dei tempi previsti per la seconda lettura di una legge di riforma costituzionale. Parliamo invece delle classi che non sono affatto estinte, del lavoro alienato e sfruttato, della perdita per intere generazioni di ogni progetto di vita, della casa, dello studio, della ricerca.
La sinistra non può essere una procedura e una semplice questione morale che si scalda sulle fatidiche dieci domande su Noemi. È invece un movimento reale di liberazione che conquista spazi nuovi di libertà dal bisogno e orizzonti di senso, profili di dignità del soggetto solo nella lotta contro le potenze del capitale che privatizzano lo Stato e desocializzano la società.
L’Unità 01.08.13

“Due palle al piede frenano il mondo del lavoro”, di Walter Passerini

Non deve trarre in inganno il calo di giugno rispetto a maggio (da 12,2 a 12,1%): la disoccupazione su base annua è cresciuta di 1,2 punti. Siamo sempre sopra i tre milioni di senza lavoro. Il tasso di occupazione (55,8%) è al minimo dal 2000. A pagare ancora una volta il prezzo più alto sono i giovani, il cui tasso di disoccupazione è salito di 0,8 punti al 39,1%, vale a dire 4,6 punti in più su base annua.

Ogni volta che escono i dati mensili dell’Istat, la sensazione è quella di partecipare a un incontro di boxe con le mani legate dietro la schiena. In attesa della trasformazione in legge delle misure per l’occupazione, in particolare giovanile, che diventano sempre più urgenti, operatori ed esperti stanno chiedendosi come uscirne, misurando le forze in campo per affrontare la sfida del lavoro. Dalle risorse europee (che nel recente passato siamo riusciti a spendere solo per il 40%), ci si aspetta una boccata di ossigeno per gli under 30, ma anche un salto di qualità nel modo di affrontare la disoccupazione e nell’approccio alla creazione di nuove occasioni occupazionali. Sono due i punti deboli e le palle al piede del nostro mercato del lavoro: la rete dei servizi all’impiego e la formazione. In Italia il mercato del lavoro assomiglia più a un suk che a una rete efficiente di servizi, un supermercato del fai da te con tanti bricoleur che vi si aggirano. E’ necessario mettere in comunicazione la domanda (le imprese) e l’offerta di lavoro (le persone che cercano) con canali più professionali.

Il salto deve essere realizzato in fretta, perché dal primo gennaio 2014 la rete dovrà far funzionare la Garanzia lavoro, senza la quale non avremo diritto alle risorse stanziate (1,5 miliardi). L’impresa è difficile, ma si può fare. Di fronte all’inadeguatezza dei servizi, il lavoro oggi lo si trova grazie ad amici, parenti e conoscenti. All’estero si usano invece canali professionali. Ad usare i centri pubblici nella media dei 27 Paesi Ue è il 53% di chi cerca un lavoro, l’81,2% in Germania, il 57% in Francia, solo il 33,7% in Italia. Sfiducia o incultura? Le agenzie private sono usate ancora meno: dal 23% nella media Ue, dal 13,5% in Germania, dal 29% in Francia, solo dal 19,6% in Italia. Se poi guardiamo non solo gli strumenti usati per la ricerca, ma la loro effettiva efficacia, il panorama è desolante: in Italia solo sei cercatori su cento trovano lavoro con agenzie private e centri pubblici per l’impiego. Come riusciranno in pochi mesi questi servizi a mettere in pratica la sfida dell’occupazione, senza una campagna di rilancio del loro ruolo e una dose massiccia di formazione a tutti gli addetti? Il campo da gioco è immenso.

I giovani tra 15-29 anni, target dei nuovi provvedimenti, sono 9,5 milioni, di cui occupati sono poco più di tre milioni (3070mila), quasi 4 milioni gli studenti, 1040 mila i disoccupati, con un tasso di disoccupazione del 26%. I ragazzi tra 15-24 anni sono 6 milioni, di cui i disoccupati sono 642 mila, con un tasso del 39,1%. Come accompagnare questi nuovi clienti nel cammino dall’assenza di lavoro e dalla precarietà verso una maggiore stabilità? La rete dei servizi dovrà fornire a tutti entro quattro mesi o un’opportunità di lavoro o un’opportunità formativa. Come si aiutano i quasi ventimila dipendenti dei centri pubblici e delle agenzie private ad assolvere un compito a cui non sono abituati? Come riusciranno a cogliere i bisogni delle imprese e dei giovani e a indirizzarli verso efficaci opportunità formative? La legge da sola non basterà. Ma nemmeno la rete sarà sufficiente, se non si metterà mano contemporaneamente a una drastica riforma della formazione.

Il punto di attacco è il superamento dei venti sottosistemi di formazione professionale, gestiti in un delirio solipsistico dalle regioni, che si potrà realizzare solo con la creazione di una cabina di regia nazionale, che promuova l’apprendistato e la nascita della formazione post-diploma di alto livello, che oggi coinvolge poche migliaia di giovani. Senza dimenticare che un’offerta di formazione dovrà in futuro essere rivolta non solo ai ragazzi, ma anche agli adulti, agli over 50 e alle donne, che vogliono rientrare nel mercato del lavoro.

La Stampa 01.08.13

“Inegalité” le differenze sociali minano la democrazia, di Paul Krugman

Detroit è un simbolo del vecchio concetto di declino economico. L’abbandono non ha colpito solo il centro della città; in tutta la sua area metropolitana, tra il 2000 e il 2010 la popolazione ha subito un calo più drastico di quello registrato in altre grandi città. Per converso, Atlanta può essere citata ad esempio di sviluppo impetuoso. In quello stesso periodo, il numero dei suoi abitanti è aumentato di oltre un milione: un incremento paragonabile a quelli di Dallas e Houston, senza la spinta aggiuntiva del petrolio.
Ma al di là di questo netto contrasto, c’è un fattore che accomuna una Detroit in bancarotta a un’Atlanta in piena crescita. Sembra che anche qui, nonostante il boom, il “sogno americano” sia ormai svanito. Chi nasce in una famiglia povera difficilmente riesce a migliorare la propria condizione. Di fatto, l’ascensore sociale – o in altri termini, la possibilità di raggiungere uno status socioeconomico più elevato rispetto alle proprie origini – ad Atlanta sembra funzionare anche peggio che a Detroit, dove il livello di mobilità sociale è comunque basso.
Uno studio recente promosso dall’Equality of Opportunity Project (EOP) e diretto da un gruppo di economisti delle università di Harvard e Berkeley si basa su una serie di confronti tra i tassi di mobilità sociale di diversi Paesi. Ne risulta che l’America di oggi, che pure continua a considerarsi come la terra delle opportunità per tutti, ha un sistema classista ereditario persino più rigido di altre nazioni avanzate. Gli autori del progetto hanno peraltro riscontrato notevoli differenze, in materia di mobilità sociale, anche all’interno degli Stati Uniti. Ad esempio a San Francisco, chi è nato in una famiglia appartenente al 20% inferiore (in termini di reddito) della scala sociale, ha l’11% di probabilità di elevarsi fino al “top fifth”, cioè al 20% con i livelli di reddito più alti; mentre ad Atlanta questa prospettiva è limitata al 4% di chi nasce povero.
Gli studiosi hanno poi cercato di individuare i fattori collegati ai tassi più o meno elevati di mobilità sociale, giungendo a risultati in parte sorprendenti. Contrariamente alle aspettative, il fattore razziale sembra giocare un ruolo relativamente modesto. È invece emersa una correlazione significativa tra il grado di sperequazione sociale esistente e le probabilità di miglioramento In altri termini, quanto più debole è il ceto medio, tanto minori sono le probabilità di ascesa sociale. Questo risultato trova riscontro anche a livello internazionale: nelle società relativamente egualitarie come quella svedese, la mobilità sociale è molto più elevata che nell’America di oggi, con i suoi stridenti contrasti tra poveri e super-ricchi. È inoltre emerso un altro dato significativo: la correlazione tra la segregazione abitativa – cioè la condizione delle fasce sociali relegate in quartieri molto distanti delle città estese a macchia d’olio – e le probabilità di riscatto da una condizione di indigenza.
Ad Atlanta, la distanza fisica tra i quartieri bene e quelli abitati dalle fasce più povere è enorme. Sembra dunque che esista un rapporto inversamente proporzionale tra la dispersione urbana e il grado di mobilità sociale: un argomento in più per chi promuove le strategie urbane di “smart growth” (crescita intelligente) con centri urbani compatti e facilmente accessibili ai mezzi di trasporto collettivi.
Quest’osservazione andrebbe tenuta in considerazione anche nel più ampio contesto di una nazione che sta deviando dalla propria rotta, e continua a parlare di pari opportunità mentre si rivela incapace di offrirle a chi più ne ha bisogno.
Copyright The New York Times Traduzione di Elisabetta Horvat

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“SE I DIRITTI SONO DIVERSI”, si ANAIS GINORI

Alain Touraine, dopo i nuovi scontri in banlieue, bisognerebbe cambiare il motto repubblicano in “liberté,
inégalité, fraternité”?
«Non esageriamo, la Francia è ancora il paese d’Europa in cui le diseguaglianze sono meno pronunciate. Se guardiamo indicatori classici per misurare la povertà, ci accorgiamo che le disparità economiche sono sicuramente inferiori rispetto a paesi come la Gran Bretagna. Se poi facciamo un paragone tra l’Europa e gli Stati Uniti, allora vediamo che il Vecchio Continente è ancora un’area del mondo in cui viene preservato un ideale di giustizia sociale».
Il sociologo francese sta per pubblicare un nuovo saggio,
La fin des societés.
Un’analisi di come il “sociale”, inteso come organizzazione
delle risorse in istituzioni collettive, dalla scuola
alla sanità, sia ormai in pericolo di estinzione.
Il governo del sociale è stato sostituito da quello puramente economico?
«La globalizzazione finanziaria ha messo a soqquadro un equilibrio che avevamo costruito nell’ultimo secolo, attraverso i movimenti operai, i sindacati e poi le forze progressiste. Ora che l’economia finanziaria può passare sopra al controllo di Stati e nazioni, l’unica cosa che rimane delle istituzioni sociali che abbiamo costruito sono valori morali, come la dignità,
il rispetto. Ed è qui che le disuguaglianze, anche in Francia, stanno aumentando».
Le democrazie occidentali hanno ormai accettato che ci siano cittadini con meno diritti degli altri?
«Se guardiamo indicatori sociali che misurano il successo dei ragazzi a scuola, oppure il diritto delle famiglie ad avere una casa, dobbiamo constatare il fallimento della Francia dell’égalité. Questo è stato un paese che ha saputo integrare in modo formidabile gli immigrati, poi il modello è entrato in panne per una ragione connaturata allo Stato: l’universalismo».
È proprio questa la promessa mancata della République?
«La società francese ha sviluppato una resistenza alle differenze in nome dell’universalismo. Nel sistema scolastico, per esempio, è quasi assente un tentativo di offrire programmi di integrazione specifici per le minoranze culturali e religiose, che poi ormai non sono più tanto minoranze. Questo atteggiamento, alla fine, provoca un rigetto dell’altro».
Ma come si può eludere il dato economico, per esempio sul deterioramento della classe media?
«In sociologia il concetto di classe media è stato ormai ridefinito. Una volta erano le categorie statali e parastatali, ovvero gli impiegati con un salario garantito. La classe media è oggi composta da quadri d’impresa e da liberi professionisti. Anche in questo caso, è un’evoluzione legata all’economia di mercato che ha preso il sopravvento».
Con la crisi, è anche aumentata la forbice tra i ricchi e poveri.
«Il dato che riguarda il 5% della popolazione più ricca o più povera rispetto al reddito medio non è peggiorato in modo clamoroso. La novità sono i super-ricchi, quello zero virgola qualcosa che accumula fortune immense nonostante la recessione ».
E la gaucheche ora è al potere non ha portato alcuna svolta?
«Anche in Francia, la sinistra ha abdicato al suo ruolo di governo dell’economia di mercato. I valori della
gauche sono invisibili. L’attuale governo si accontenta di difendere conquiste passate. Ha una visione puramente conservatrice che, come tale, è destinata a essere sconfitta».

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“INÉGALITÉ Così le differenze sociali mettono a rischio la democrazia”, di Stefano Rodotà

Vi è una soglia di diseguaglianza superata la quale le società allontanano le persone tra loro in maniera distruttiva, ne mortificano la dignità, e così negano il loro stesso fondamento che le vuole costituite da “liberi ed eguali”? Evidentemente sì, visto che Barack Obama, abbandonando i passati silenzi, è intervenuto su questo tema, sottolineando che diseguaglianze nei diritti, nel rispetto della razza, nel reddito mettono in pericolo coesione sociale e democrazia. La denuncia riflette preoccupazioni che hanno messo in evidenza come le diseguaglianze siano pure fonte di inefficienza economica.
È all’opera una sorta di contro modernità, che contagia un numero crescente di paesi, e vuole cancellare l’“invenzione dell’eguaglianza”. Proprio questo era avvenuto alla fine del Settecento, quando le dichiarazioni dei diritti fecero dell’eguaglianza un principio fondativo dell’ordine giuridico, e non più soltanto un obiettivo da perseguire all’interno di un ordine sociale che trovava nella natura la fonte della solidarietà, affidata ai doveri della ricchezza, alla carità, a un ordine gerarchico intessuto di relazioni spontanee tra superiori e inferiori. Questo disegno armonico si era rivelato incapace di reggere il peso delle diseguaglianze, e da qui è nata la rivoluzione dell’eguaglianza, che ha abbattuto la società degli status, e dato vita al soggetto libero ed eguale. Da generico dovere morale la lotta alle diseguaglianze diveniva compito pubblico. Passaggio colto con l’abituale nettezza da Montesquieu: «fare l’elemosina a un uomo nudo, per strada, non esaurisce gli obblighi dello Stato, che deve assicurare a tutti i cittadini la sopravvivenza, il nutrimento, un vestire dignitoso, e un modo di vivere che non contrasti con la sua salute».
Erano venuti i tempi di quella che Pierre Rosanvallon ha chiamato “l’eguaglianza felice”. Non perché una magia avesse cancellato le diseguaglianze. Ma perché un cammino era tracciato, e l’eguaglianza non era solo una promessa, ma un compito al quale lo Stato non poteva sottrarsi (continua a dircelo l’art. 3 della Costituzione). Questo cammino è stato interrotto, per ragioni diverse. La crisi fiscale dello Stame
to, con una riduzione delle risorse disponibili per il welfare accentuata nell’ultima fase. La teorizzazione di una eguaglianza sempre più legata alle sole opportunità di partenza e non ai risultati, quasi che diritti come salute e istruzione possano essere svuotati del loro esito concreto. Sullo sfondo, le tragedie del Novecento, con la separazione della libertà da una eguaglianza imposta anche con una violenza che spingeva a rifiutare, insieme all’egualitarisno, forzato, l’eguaglianza stessa. E soprattutto il ritorno del mercato come legge naturale indifferente all’universalismo.
E così il mondo si è fatto sempre più diseguale. Negli anni ’80 Peter Glotz parlò di una società dei due terzi, dove la maggioranza degli abbienti, raggiunto il benessere, abbandonava gli altri al loro destino. Oggi le cifre sono più drammatiche, i meccanismi di esclusione più profondi. Lo slogan estremo – “siamo il 99%” – è stato reso popolare dal movimento Occupy Wall Street e, al di là dell’esattezza della percentuale, fotografa una tendenza al concentrarsi della ricchezza nelle mani di una quota sempre più ristretta di persone (le stime parlano di un 10% della popolazione che possiede tra il 50 e l’85% della ricchezza). Una concentrazione che si è rafforzata nell’ultima fase, e che testimonia una spettacolare inversione di tendenza. Infatti, nel 1913 in Francia l’1% possedeva il 53% della ricchezza, quota scesa al 20% nel 1994; in Svezia, la discesa era stata dal 46% del 1900 al 23% del 1980; negli Stati Uniti, il 10% possedeva il 50% prima della crisi del 1929 e il 35% nel 1980.
Dalla società dell’eguaglianza, che parlava di pieno impiego e di fine delle povertà materiali, si è così passati ad una società della diseguaglianza, dove distanze abissali dividono le persone, come hanno messo in evidenza i dati riguardanti il rapporto tra i redditi dei nostri manager e quelli dei dipendenti (in testa Marchionne con un rapporto 1 a 460). Il mondo solidale si perde nella frammentazione e negli egoismi. Gli effetti si manifestano con il ritorno della povertà, la riduzione dei diritti sociali, la trasformazione del lavoro in precariato o sfruttamento, la violenza dei meccanismi di esclusione e di rifiuto dell’altro, la chiusura nei ghetti. Le diseguaglianze stravolgono la vita delle persone, le condannano al grado zero dell’esistenza, anzi a quella “infelicità” che Wilkinson e Pickett hanno cercato di misurare con indici concreti. Così la diseguaglianza si scompone, va oltre la distanza economica, si alimenta con le tensioni legate alla razza, con le politiche del disgusto per il “diverso”, con le diseguaglianze digitali. E regredisce a cittadinanza censitaria, perché i diritti non sono garantiti dall’eguaglianza, ma dalle risorse per comprarli sul mercato.
Nel mondo diseguale emergono soggetti che incarnano la nuova condizione. La classe precaria, alla quale Guy Standing vorrebbe affidare l’intero compito del rinnovamento. O i migranti, più ragionevolmente ricordati da Gaetano Azzariti come la realtà che meglio descrive la società globale e diseguale. Proprio perché tanto grandi sono gli effetti distruttivi delle diseguaglianze, torna così il bisogno di ripensare l’eguaglianza, quella “società degli eguali” alla quale è dedicato il bel libro di Rosanvallon, che indica di nuovo la via dell’eguaglianza perché la stessa democrazia possa tornare ad essere,
o divenire, “integrale”.

“Le garanzie della Costituzione”, di Andrea Manzella

Stupisce che nello scontro in atto tra “revisionisti” e “difensori” della Costituzione sia assente o ai margini, la questione-madre di tutte le questioni istituzionali. È la questione delle garanzie sostanziali del nostro ordinamento. Quelle che riguardano il cittadino come persona, come elettore, come rappresentato in Parlamento. Questi sono infatti i tre aspetti di un attuale disordine istituzionale che ferisce il comune sentire pubblico: quello che ancora cerca nella Costituzione la riserva immunitaria contro abusi e storture.
Non occorre andare lontano nel tempo per avvertire su di noi il peso di queste offese. Ci sono tre esempi vicini.
Primo. Ognuno di noi, come persona, ha avvertito una intima sofferenza alla rivelazione che la polizia del nostro Stato possa accorrere in soccorso dei sequestratori di una donna e di una bambina, e li aiuti a deportarle da un nostro aeroporto verso un oscuro “asilo”. Mentre il nostro sistema giudiziario, famigerato nel mondo per le sue lentezze, nulla ha da dire, da obiettare, da controllare, da impedire: accondiscendendo ad una urgenza, di per sé, clamorosamente sospetta.
Secondo. Ognuno di noi, come cittadino che vota, sente l’insopportabile frode compiuta “a norma” di leggi elettorali: leggi che in una Camera alterano artificiosamente il risultato delle votazioni, gonfiando il numero dei seggi di chi ha un solo voto in più: senza una base minima che possa legittimare un premio di governo a chi “non” ha vinto le elezioni. E leggi che, invece, nell’altra Camera, sono fatte in modo da impedire, una qualche ragionevole governabilità: frammentando regionalmente il voto “nazionale”.
Terzo. Ciascuno di noi, come rappresentato in Parlamento, si sente impotente e avvilito quando sa che il dispotismo di maggioranza può imporre leggi assurde e costituzionalmente dubbie. Senza che né lui direttamente né la minoranza parlamentare per cui ha votato possano chiedere un controllo esterno, “prima” che quelle leggi producano danni. Mentre in tutto il Continente europeo non è così: e i tribunali costituzionali possono essere chiamati a verificare a giudicare, “prima”, sulla legittimità delle leggi.Tre esempi: ma abbastanza mostruosi per convincere qualsiasi persona ragionevole che l’unico possibile avvio del cammino delle riforme sta lì dove gli attentati alla sicurezza democratica sono in atto, dove l’ordinamento mostra incredibili lacerazioni alle “tradizioni costituzionali comuni” degli Stati europei.
Il percorso di modifica ha invece preso le mosse dalla questione di governo e dalle sue forme. Discorso certo da fare con tutta la forza e la sollecitazione che la Grande Crisi impone. A patto però da non dimenticare che la base su cui tutto deve reggersi è nella sostenibilità democratica dei rapporti tra i cittadini e l’apparato pubblico, tra gli elettori e il loro Parlamento, tra i cittadini e la giustizia costituzionale.
Ora come ora, la questione delle garanzie — e soprattutto di “queste” garanzie: l’habeas corpus, la verità elettorale, la tempestività dei rimedi costituzionali — è invece classificata come secondaria. Come cosa da risolvere poi, in appendice: dopo aver parlato di bicameralismo, di regionalismo, di presidenzialismo e di altro ancora. Come l’imbiancatura finale da non menzionare neppure nel cosiddetto “cronoprogramma » disegnato.
C’è un errore di metodo. Chi è consapevole della situazione italiana, capisce che solo il preventivo riordino delle garanzie potrebbe rendere più agevole e persuasiva la via per nuovi e più efficaci conformazioni del potere pubblico di decisione.
Ecco: come si vede, questa semplice rilevazione di primarie necessità pratiche a cui provvedere — ricostruire la fiducia e la sicurezza dei cittadini nell’ordine privato, giudiziario, ammini-strativo, parlamentare — si allontana dallo scontro teorico in atto sulla stessa legittimità delle procedure scelte per cambiar le norme della nostra Costituzione.
Se ne distacca per due ragioni. Innanzitutto, perché per attuare queste tutele è necessario non disperdere, ancora una volta, il patrimonio di faticosi e costosi accordi politici e di simbolici interventi istituzionali, che è stato investito per un processo riformatore. In secondo luogo, perché la prima e migliore difesa di una Costituzione e delle sue necessarie rigidità è nel complesso delle garanzie sostanziali in essa incorporate, nei “principi supremi”, più che in norme “di chiusura” procedurale. Tutti sanno che non c’è nulla di più stabilmente “rigido”, in questo senso, dell’ordinamento del Regno Unito, organismo — più che sistema formale — costituzionale. Mentre una limitata e compensata variante procedurale — in vista però di nuove garanzie — potrebbe essere considerata come corrispondente alla stessa intima natura di un «giusto» processo di sviluppo costituzionale.
Così fu per il caso della Convenzione per la redazione della Carta dei diritti fondamentali della Ue (finora, l’unico vero risultato “costituzionale” dell’Unione): istituita per decisione allora non prevista nell’ordinamento comunitario. Ma se è sbagliato fermare il treno, già ansimante, delle riforme costituzionali, è del tutto doveroso chiederne un diverso tragitto: una inversione, insomma, dell’ordine del giorno e della scala di priorità. Mettendo innanzi e in cima i rimedi che servono al cittadino contro i meccanismi elettorali senza rappresentatività, gli abusi degli apparati, il dispotismo delle maggioranze, l’oscurità delle leggi.
È sul fronte di queste garanzie sostanziali che (da che mondo è mondo) si gioca il destino – e l’unità – di una democrazia costituzionale. E su questo “fronte” è francamente difficile dividersi.

La Repubblica 01.08.13

“Bologna 2 agosto: la storia scritta dalle vittime”, di Gigi Marcucci

La più piccola si chiamava Angela Fresu, aveva tre anni. Era alla stazione con sua madre Maria, di 24. Erano appena arrivate da Gricciano di Montespertoli, in Toscana. E a Gricciano erano immigrate dalla Sardegna. Maria, che essendo giovanissima viveva ancora insieme ai sette fratelli, quel giorno aveva deciso di andare sul lago di Garda, con la bambina e con l’amica Verdiana Bivona, anche lei immigrata, ma dalla Sicilia. La breve vacanza di acqua dolce doveva essere, per quest’ultima, una piccola parentesi aperta tra lavoro e cura dei genitori, anziani e malati. Dopo l’esplosione, di Angela e Maria non si trovò più traccia. Non si salvò nemmeno Verdiana. Sopravvisse solo una terza amica, Silvana Ancillotti.

Non molto distanti da loro c’erano Antonella Ceci, 19 anni, e il fidanzato Leo Luca Marino. Le sorelle di lui, Angela e Mimma, li avevano raggiunti alla stazione di Bologna. Erano tutti originari di Altofonte, paese del Palermitano. A Bologna ci sarebbe stato il pri- mo incontro con Antonella, quasi una presentazione ufficiale, in vista di un matrimonio ormai giudicato imminente. Invece ci furono un’esplosione e quattro funerali. Vito Diomede Fresa, 62 anni, patologo noto per le sue ricerche sul cancro, era in viaggio con la moglie Errica Frigerio, un’insegnate, e il figlio Francesco Cesare, di soli 14 anni. Racconta la giornalista e scrittrice Antonella Beccaria nel libro “È come il sangue e non va via. Due agosto: la strage, le vittime, la memoria”, (collana i Giovani siciliani, diretta da Riccardo Orioles, scaricabile gratuitamente da Internet), che Francesco si era seduto su un seggiolino, nella sala d’aspetto di seconda classe, e stava leggendo un fumetto. Lo scoppio travolse tutta la famiglia. Sul primo binario, c’erano anche i Mauri, ancora trafelati, perché temevano di perdere il treno. Carlo, il padre, era un perito meccanico di trentadue anni, e si era messo in viaggio verso Brindisi con la moglie Anna Maria Bosio, maestra, e il figlio Luca, sei anni. Erano partiti da Como ma la loro auto si era piantata a Bologna: avevano trascorso la notte sui sedili, poi, sentito un meccanico, avevano deciso di proseguire in treno per raggiungere il resto della famiglia. La corsa verso la stazione, il sollievo dopo l’affanno: il treno non era ancora partito. Poi il fuoco e il buio. Sono anche loro tra le ottantacinque persone che il 2 agosto dell’80 varcarono l’ingresso liberty della stazione di Bologna, senza sapere che non ne sarebbero più uscite. Vite che il fato ha mescolato, come fossero carte da gioco. Destini uniti da un’elucubrazione eversiva che – così dicono le sentenze – imponeva a chi la condividesse di spargere sangue e seminare il terrore per scuotere il quadro politico e spostarlo un po’ più a destra. Costasse quel che costasse. Il prezzo, spesso dimenticato, sono i nomi che avete appena letto, e molti altri. Storie spezzate, parole mai pronunciate, amori finiti, bambini mai diventati adulti Ottantacinque strade verso il futuro sbarrate da una ventina di chili di tritolo. Domani, nel trentesimo anniversario della strage alla stazione di Bologna, quei nomi non rimarranno solo sulla lapide che li ricorda, di fianco allo squarcio nel muro della sala d’aspetto. Grazie a un’idea di Mattia Fontanelli e Riccardo Lenzi, finiranno idealmente sulle targhe delle vie citta- dine, costituendo idealmente uno stra- dario della memoria che il sindaco Vir- ginio Merola propone di rendere in par- te definitivo. È una piccola rivoluzione della toponomastica, ma un capovolgi- mento copernicano nel punto di vista sul nostro passato. È forse la prima vol- ta che si finisce su una targa stradale non perché si è fatta la storia, ma la si è subita. Non uno scrittore, un eroe parti- giano, uno statista o uno scienziato. Ma una vittima, i cui parenti attendono una verità più completa sulle ragioni che l’hanno privata della vita. Un immi- grato, una giovane madre, un medico capace ma sconosciuto fuori della cer- chia dei colleghi e dei suoi pazienti, una coppia di turisti inglesi, una fami- glia di tedeschi decimata sotto la pensi- lina del primo binario. Siamo abituati alle targhe che ricordano i grandi ecci-

di. Vie Marzabotto, piazze Fosse Ardea- tine, giardinetti che ricordano le Foibe e gli altri mille luoghi calpestasti dal Se- colo Breve non ci sorprendono più. Cer- to ci sono le strade intitolate ai martiri, ma questi sono uomini e donne che. ri- spetto alle vittime di una strage, in qualche modo, in qualche misura, sono andati incontro al destino guardando- lo in faccia. Una cosa è leggere, all’an- golo di una strada, il nome di un con- dottiero. Un’altra sarebbe leggere quel- lo di un soldato mandato allo sbaraglio dal generale di turno. In questo caso, la storia ufficiale, quella dei bollettini, do- vrebbe farsi parte e lasciare il posto a quella, sconosciuta, di una persona qualunque. Il passante potrebbe girare lo sguardo e continuare per la sua stra- da. Oppure chiedersi chi e perché sia stato sacrificato; quale filosofia deviata abbia ispirato la mattanza. Una strage è un evento creato anche per essere in- comprensibile. Capire è la prima condi- zione per non dimenticare. E non di- menticare – ormai è diventato quasi un luogo comune. ma giova ripeterlo – è la prima condizione per impedire che un pessimo capitolo della nostra storia possa ripetersi. Forse anche la topono- mastica può essere d’aiuto.

“Che cosa perdiamo se perdiamo la geografia”, di Carlo Petrini

Dalle mie parti, per indicare qualcuno su cui non è possibile fare affidamento, sulla cui opinione è meglio non contare, si dice che “non sa da che parte è girato”, ed espressioni simili ci sono in altre lingue, come lo spagnolo “no saben donde están parados”.
Pare che il buon senso popolare opponga un’inappellabile diffidenza verso chi non si sa orientare nello spazio.
Non conosce i posti in cui si trova, non riconosce i riferimenti di base quando li vede.
Si è appena chiuso il quarto anno scolastico dopo il cosiddetto “Riordino Gelmini” e il prossimo anno sarà quello in cui si diplomeranno i primi ignoranti autorizzati in fatto di geografia. È una cosa a cui penso spesso nei miei tanti viaggi. Penso a quanto oggi è possibile sapere e conoscere, di un territorio, anche senza spostarsi. Però… Internet certamente è una risorsa preziosa, la globalizzazione ci ha consentito l’accesso a una mole di informazioni che a volte persino intimidisce. Ma avere l’accesso alle informazioni non significa, di per sé, acquisire competenze. Per quelle ci vuole un processo più lungo e possibilmente ben guidato, che si chiama, genericamente, scuola. E invece molti studenti, e purtroppo ormai anche tanti adulti, quando si parla di geografia dicono cose tipo: «Perché studiare geografia? Quello che hai bisogno di sapere te lo può dire un navigatore satellitare».
Uno degli effetti indesiderati di un’acritica tendenza alla sempre maggiore velocità è una certa qual cialtronaggine del pensiero, che porta a considerare appaiabili concetti e idee che nei fatti sono ben distinti.
Occorre ormai un certo sforzo intellettuale per ricordarsi costantemente che c’è differenza tra parlare (o scrivere) e comunicare, tra presenziare e partecipare, tra spostarsi e viaggiare. Forse è proprio a causa della forzata sinonimia tra questi ultimi due termini che l’allora ministro per l’Istruzione, Maria Stella Gelmini, decise, nel 2008,
di varare il cosiddetto “riordino” che, a partire dal 2009, fece sostanzialmente sparire l’insegnamento della geografia dalle scuole superiori.
Detto così forse è fuorviante e potrebbe sembrare che il provvedimento non sia stato guidato da precisi criteri. Invece si sono fatti dei distinguo, e vale la pena sottolinearli. Licei: l’insegnamento della geografia non esiste più in forma autonoma; è accorpato con “storia” (3 ore settimanali), ed è affidato a non specialisti. Istituti tecnici commerciali: la materia, che prima si studiava solo nel triennio, ora si studia solo nel biennio. Quindi un anno in meno. Nel triennio si fa poi “Relazioni internazionali” e “Geopolitica”, a cura degli insegnanti di diritto e di Economia aziendale. Istituti tecnici e professionali: non si fa più geografia nel biennio (che ora però è parte dell’obbligo scolastico). Istituti nautici, professionali per il turismo e alberghieri: udite udite, l’insegnamento della geografia è stato semplicemente eliminato.
È da quest’ultima informazione che parte lo sbigottimento: siamo un paese che regge una buona parte della sua economia sulle produzioni agroalimentari di qualità, le quali sono legate a specifici territori, e sia per questa peculiarità sia per lo straordinario patrimonio artistico siamo anche un paese che basa sul turismo un’altra bella fetta di Pil, e noi cosa facciamo? Perché lavoriamo per far sì che le prossime generazioni di operatori turistici e alberghieri non solo non colgano le peculiarità culturali di chi arriva, ma non sappiamo nemmeno presentare quelle dei territori in cui lavorano? E come se non bastasse, sforneremo anche liceali ignoranti in geografia, i quali andranno all’università e poi faranno carriera e poi alcuni di loro diventeranno ministri, magari dell’Agricoltura, o dei Beni culturali.
E a proposito di ministeri: più o meno nello stesso momento in cui la Gelmini varava il riordino, nasceva, ad opera del ministero dell’Agricoltura, la Rete rurale nazionale, un coordinamento di attori istituzionali e della società civile che porta avanti la riflessione sullo sviluppo rurale partendo dal principio sacrosanto che non esiste una ricetta unica, ma ce ne sono tante quanti sono i territori, con le loro caratteristiche fisiche e culturali. Era, ed è, una buona idea; peccato che a minarla alla base stessa del suo senso sia proprio l’opera di un ministro del medesimo governo.
Chi si occupa di agricoltura e di ruralità sa, infatti, che i territori si raccontano attraverso i prodotti, ma quei racconti bisogna saperli ascoltare, bisogna conoscere la lingua che i prodotti parlano. È una lingua fatta di climi, composizioni del suolo, storie economiche e sociali, guerre, religioni. Il successo dei mercati contadini, così come quello di eventi come il Salone del Gusto o Cheese sta nel fatto che l’assaggio di un prodotto, la conversazione con il suo artefice sono le chiavi per aprire porte di territori da esplorare. Ma come si potrà in futuro raccontare le peculiarità dei pascoli lucani, se chi ascolta farà fatica a ricordare dove si trova la Basilicata?
La nuova ministra per l’educazione vorrà porre rimedio a quel “riordino”? Si torni a studiare la geografia nelle scuole, e si affidi questo insegnamento a docenti preparati. Perché di gente che “non sa da che parte è girata” ne abbiamo intorno a sufficienza.

La Repubblica 01.08.13