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“Costituzione non dividiamoci”, di Rosy Bindi

Quando si interviene sulla sentinella della Costituzione, l’art. 138, c’è sempre il rischio che si voglia aggredire il tesoro che custodisce. Era questa la preoccupazione che con altri colleghi avevo manifestato quando è iniziato l’iter di modifica costituzionale. Non abbiamo nascosto le nostre perplessità sia sul ruolo del Parlamento che sull’ampiez- za del mandato a intervenire. Ma grazie al la- voro compiuto insieme ai gruppi del Senato e con la disponibilità del governo, l’esame di questo disegno di legge costituzionale, che vo- teremo a settembre, può iniziare con grande serenità.
Possiamo essere sereni perché il ddl costitu- zionale, pur derogando ad alcuni aspetti del 138, non ne intacca i principi e, anzi, ne raffor- za le garanzie prevedendo, comunque, il ricor- so al referendum anche nel caso in cui le rifor- me possano essere approvate con la maggio- ranza dei due terzi. E soprattutto perché è sta- ta assicurata e rispettata la centralità del Par- lamento. Si è tornati al metodo costituziona- le: quello di interventi puntuali, sui singoli og- getti delle riforme da fare e da affidate a diver- si progetti di legge, tra di loro coerenti, ma distinti e autonomi e sui quali si potrà even- tualmente chiedere ai cittadini di esprimersi con i diversi referendum.
In questo lavoro siamo stati molto attenti alle voci critiche che si sono levate in queste settimane. Voci sensibili, competenti, direi quasi innamorate della nostra Carta costitu- zionale. Non siamo sordi né distratti agli ap- pelli, alla raccolta delle firme. Abbiamo ascol- tato tutte le sensibilità costituzionali. È assolu- tamente positivo il forte coinvolgimento delle associazioni, dei cittadini e la mobilitazione dei mezzi di comunicazione. Ma al tempo stesso bisognerebbe forse evitare i toni allarmistici e un’enfasi eccessiva, che non tiene conto del lavoro paziente e delicato – perché delicato e prezioso è l’oggetto della nostra Carta costituzionale – che è stato fatto e che tradisce il principio di realtà. Penso a certe affermazioni, che personalmente ritengo anche offensive, come quelle tradotte nell’invito a firmare «contro il tentativo di stravolgere la Costituzione con il progetto della P2». Chi come me nel 2006 ha fatto una battaglia in difesa della Carta accanto a Oscar Luigi Scalfaro e Leopoldo Elia e ha vinto un referendum, avverte in questo atteggiamento qualcosa che non aiuta ed anzi ostacola il percorso che dovremmo fa- re insieme. Penso anzi che tra le voci più sensibili e le impostazioni culturali più legate alla nostra Costituzione e chi sarà impegnato in Parlamento dovrebbe stabilirsi un’alleanza vera e profonda, affinché la nostra fatica di revisione sia davvero rispettosa del metodo costituzionale. Non dividiamoci, noi che pensiamo che la nostra sia la Costituzione più bella del mondo.
Un atteggiamento di ostinata conservazione nei confronti della Carta costituzionale non serve al Paese e per non serve alla Costituzione. Vale la pena, allora, ribadire lo spirito con il quale il Pd intende muoversi in Parlamento. Prima di tutto, dobbiamo ribadire ancora una volta che nel rapporto tra governo e Parlamento è essenziale ristabilire una corretta gerarchia. Non c’è dubbio che questo governo e la maggioranza che lo sostiene sono stati il presupposto per avviare il processo di revisione costituzionale, basta rileggere i discorsi del presidente della Repubblica e quello pronunciato dal presidente del Consiglio Letta al momento della fiducia.
Una maggioranza quanto più è ampia e inedita, tanto più deve essere consapevole del proprio limite. Il Parlamento è il luogo delle riforme perché in Parlamento ci sono le maggioranze, le opposizioni e le minoranze e la Costituzione si cambia, con metodo costituzionale, tutti insieme. Al tempo stesso bisognerebbe liberarci da atteggiamenti di strumentalità reciproca. Non si può dire «facciamo le riforme perché così dura il governo» o «non facciamo le riforme perché così cade il governo»: è un modo di procedere irrispettoso della Carta costituzionale, il cui valore è superiore e prescinde dal governo. Ma la Costituzione va riformata per renderne pienamente operanti i principi e il processo di riforma va avviato rispettandone lo spirito e la lettera. Per questo occorre procedere scegliendo la via della gradualità e della puntualità. Non dobbiamo iniziare questo lavoro con progetti troppo ambiziosi, affrontando temi sui quali già in partenza vi sono distanze profonde tra le diverse forze politiche, con il rischio che anche questa volta non vedano la luce quelle riforme sulle quali esiste da tempo una larga condivisione. Penso all’abolizione del bicameralismo perfetto, alla riduzione del numero dei parlamentari, al rafforzamento dell’esecutivo, alla revisione del Titolo V. Dobbiamo seriamente riformare le istituzioni, renderle più forti, autorevoli ed efficienti.
Chi crede nella centralità del Parlamento vuole un Parlamento funzioni, chi vuole davvero una forte democrazia parlamentare deve concepirla con un governo che può decidere e che perciò va rafforzato. Sappiamo bene che ciò non dipende solo dalla Costituzione, e però dipende anche dalla Costituzione. E se non interveniamo per superare le disfunzioni del nostro sistema assisteremo ad una mutazione genetica dei principi della Carta costituzionale, con una involuzione verso forme populiste, plebiscitarie e leaderistiche. Per questo è essenziale stabilire un’intesa e un’alleanza con le voci e le sensibilità che in Parlamento e nel Paese sembrano più attente all’esigenza di restituire autorevolezza alle istituzioni, in un momento così difficile del rapporto tra politica e società. Se insieme faremo questo lavoro di intervento puntuale, graduale con metodo costituente dovremo anche impegnarci in una riforma ancora più profonda della politica, a cominciare dai partiti e da una nuova legge elettorale, per essere davvero all’altezza delle responsabilità che il momento così difficile richiede.

L’Unità 02.08.13

“Sentenza da rispettare e da applicare”, di Ettore Rosato

La conferma della condanna a 4 anni di Silvio Berlusconi da parte della corte di Cassazione per il processo Mediaset non ci meraviglia. Non abbiamo mai pensato che ci fosse in atto una persecuzione su un imputato, ma che i magistrati facevano soltanto il loro lavoro, basando le loro indagini e poi i loro giudizi su fatti e prove.
I problemi giudiziari di Berlusconi erano noti anche quando abbiamo dato vita al governo Letta, nato sotto la spinta del presidente Napolitano per affrontare la più drammatica crisi economica dal secondo dopoguerra, in una situazione in cui i risultati delle elezioni avevano provocato una situazione di stallo.
Oggi quelle motivazioni non sono venute meno ed è iniziato il cammino delle riforme istituzionali che ci porterà a rendere le nostre istituzioni più efficienti, cancellando il bicameralismo, riducendo i deputati, rivedendo il rapporto tra autonomie e stato centrale. La decisione di affrontare alla ripresa – in ogni caso – la riforma della legge elettorale rafforza e completa l’impegno imprescindibile a restituire la parola agli elettori con un sistema politico e istituzionale più moderno, meno costoso, più capace di prendere decisioni.
E, come abbiamo sempre detto, per noi i problemi dell’Italia sono più importanti delle vicende di uno solo. Starà al Pdl decidere se questo anche per loro può cominciare ad essere vero, e se vogliono continuare con il percorso di un governo che sta facendo il possibile e sta ottenendo anche i primi risultati nella lotta contro la recessione e la crisi. Se invece sceglieranno la strada dello scontro frontale con i magistrati e di provocare la fine del governo si assumeranno tutta intera una grave responsabilità.

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“Il dramma dei più deboli se cade la rete dei servizi”, di Chiara Saraceno

Costo dei trasporti urbani aumentato, a fronte di drastiche riduzioni del servizio. Riduzione, se non chiusura, dei servizi cosiddetti a domanda individuale (asili nido, mense scolastiche, trasporto scolastico, servizi domiciliari e diurni per la non autosufficienza), con contestuale aumento dei contributi richiesti agli utenti e possibile eliminazione delle condizioni di favore per i meno abbienti. Rifiuto di farsi carico del costo delle scuole per l’infanzia, un servizio educativo a carattere universale che tuttavia in molti casi continua a rimanere una responsabilità economica ed organizzativa dei Comuni, nell’assenza, o insufficienza, degli istituti statali. Se il Comune non può più sostenerne i costi, una parte di bambini rischia di rimanere esclusa da un servizio pure definito da ben due leggi (la 53 del 2003 e il Dl 59 del 2004) un diritto educativo dei bambini ed uno strumento di contrasto alle disuguaglianze sociali tra bambini. Drastico taglio, se non eliminazione, ai sussidi per chi si trova in povertà, inclusi i sostegni al costo dell’affitto. Manutenzione delle strade e degli spazi pubblici ridotta al minimo o assente. Perdita di posti di lavoro e aumento della disoccupazione come conseguenza della riduzione delle attività comunali che difficilmente possono essere sostituite dal mercato.
Le conseguenze per i cittadini della dichiarazione di bancarotta della loro città sono ben più gravi, e con risultati ancora più disugualizzanti, della conferma dell’Imu sulla prima casa o dell’aumento di un punto dell’Iva. Toccano, infatti, la vita quotidiana, la possibilità di fronteggiare ogni giorno bisogni di cura e partecipazione al mercato del lavoro, la possibilità di essere sostenuti nella propria vita quotidiana anche se non del tutto autosufficienti, di muoversi nel territorio urbano senza doverci impiegare un tempo sproporzionato a causa della riduzione del servizio di autobus, peggiorando le condizioni del traffico con l’utilizzo massiccio del trasporto privato (per altro sempre più costoso) e correndo rischi di incidenti a causa della cattiva manutenzione delle strade.
Anche se il peggioramento della qualità della vita urbana tocca tutti, direttamente o indirettamente, più colpiti sono i più poveri e coloro che hanno un reddito modesto, che non possono ricorrere al mercato privato. Più colpite sono anche coloro che hanno la principale responsabilità della gestione della vita quotidiana anche per i propri famigliari, quindi per lo più, anche se non esclusivamente, le donne.
Tutti i Comuni, anche quelli più virtuosi, da ormai diversi anni fanno giochi di equilibrio per tentare di mantenere un minimo di servizi in una situazione di entrate decrescenti e per di più incerte, non solo a motivo della crisi economica che ha ridotto la base imponibile, ma anche delle decisioni dei governi centrali. La forte riduzione dei trasferimenti ha lasciato senza risorse i Comuni proprio quando diminuivano le entrate locali. Prima l’eliminazione dell’Ici sulla prima casa, poi l’introduzione dell’Imu e ora la sua successiva eliminazione/sospensione per le prime case ha reso impossibile ai Comuni valutare la consistenza di questa, che rimane la principale imposta locale. Per non parlare dei crediti che le amministrazioni locali vantano verso l’amministrazione centrale per attività svolte per conto di questa (a cominciare dalle elezioni). Ma se è difficile per tutti i Comuni far quadrare i bilanci senza intaccare profondamente i servizi per i cittadini, per quelli in bancarotta dichiarata è impossibile. Le responsabilità locali per la bancarotta non vanno certo ignorate, anche se troppo spesso le amministrazioni locali si trovano a dover fronteggiare decisioni cui non hanno partecipato e su cui non hanno potere. In ogni caso, una democrazia e una società civile non possono permettersi di trattare come semplici disgrazie locali i costi sproporzionati che ricadono sui più deboli e l’aumento delle disuguaglianze che ciò provoca.
Ancora di più se parte delle responsabilità è del governo centrale e del Parlamento, del modo in cui negli anni sono state definite le responsabilità e i poteri tra i diversi livelli di governo, di un centralismo nella gestione delle risorse che si è accompagnato al decentramento delle responsabilità per la fornitura di servizi essenziali, della assenza, in campo sociale, di livelli essenziali di prestazioni analogamente a quanto avviene in sanità. Proprio mentre la crisi economica rende più vulnerabili molti individui e famiglie, le conseguenze di una concezione puramente residuale, periferica e discrezionale delle politiche sociali emergono in tutta la loro gravità.

La Repubblica 02.08.13

“Il rebus del Cavaliere”, di Massimo Mucchetti

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna penale di Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, di cui tre condonati per indulto, e ha annullato l’interdizione dai pubblici uffici rinviando
a un’altra sezione della Corte d’Appello di Milano la rideterminazione di questa pena accessoria. Il decreto sulla incandidabilità, varato dal governo Monti, fissa in due anni la condanna definitiva minima che lo escluderebbe dalle liste. Berlusconi, d’altra parte, non aspira a una candidatura. Egli è un eletto. La giunta delle elezioni del Senato dovrà decidere se sia eleggibile, ma su questo fronte la legge 361 del 1957 non aiuta a chiarire ancorché il decreto anticorruzione dell’aprile 2013 introduca il concetto di incandidabilità sopravvenuta. In ogni caso, molto dipenderà dalle scelte dello stesso capo del centro-destra, tenuto conto del fatto che una condanna definitiva per frode al Fisco lede profondamente la sua reputazione sul piano interno e internazionale.
Ma se pure ci si arrivasse subito sull’onda di questa sentenza, la fuoriuscita di Berlusconi dal Senato non scioglierebbe la questione Berlusconi. Il padre-padrone del centro-destra potrebbe pure abbandonare il laticlavio e continuare a fare politica da casa sua. Come fa Beppe Grillo. Del resto, il patron di Mediaset è abbastanza estraneo alla vita della Camera e del Senato. L’uomo è sempre stato o premier o leader in sostanza extraparlamentare. In entrambi i casi si è avvalso della sua influenza su una quota rilevantissima del sistema dei media, per lo più corazzata dalle sue proprietà personali. Proprietà che, ove si ritirasse ad Arcore, nessuna legge, nemmeno una riforma della legge del 1957 sulla ineleggibilità e di quella del 1953 sulle incompatibilità, potrebbe più imporgli di dismettere per conservare una posizione parlamentare ormai svanita. Ma ipotizziamo pure che, complici l’età, le emozioni e le limitazioni eventualmente provocate dalle pena, Berlusconi decida di ritirarsi a vita privata. Che cosa cambierebbe allora nella politica italiana? A quel punto, la sentenza della Suprema Corte porrebbe termine a un’esperienza lunga vent’anni. Una tale durata, ove non dia la stura a contestazioni irrituali della magistratura, costituirebbe comunque un successo per il condannato eccellente. Certo, non altrettanto si potrà dire per l’Italia. Ma se Berlusconi è durato tanto, non è forse questa una clamorosa manifestazione di debolezza sia degli schieramenti del centro-sinistra, imperniato sul Pd, sia di quello neocentrista, da ultimo rappresentato da Scelta Civica? E poi, nell’Italia postberlusconiana, quali saranno le culture politiche prevalenti? Pdl, Pd e Scelta Civica resteranno tal quali o entreranno in una stagione di disgregazioni e riaggregazioni, sotto la spinta dei magneti europei delle socialdemocrazie e del partito popolare? Ma poi, quali saranno gli indirizzi di fondo dell’azione di governo? Noi sappiamo che il richiamo al cacciavite, fatto da Enrico Letta, o il rigorismo di Mario Monti sono segni di serietà purché l’uno non finisca con il riproporre per l’Italia quell’amministrazione condominiale che Gabriele Albertini offriva a Milano e l’altro il ritorno al Washington Consensus. Non sono questioni astratte. Di praticismo si muore, dopo la Lehman.
La vicenda berlusconiana ha alimentato la rappresentazione di una interminabile emergenza democratica. Che spesso varcano i confini dell’ipocrisia. I professionisti dell’antiberlusconismo gridano al golpe imminente o, addirittura, già consumato e poi vanno al mare a prendere il sole, invece di salire in montagna a fare la Resistenza come nel 1943 o a convocare lo sciopero generale (vero) come nel luglio del 1960. Ma sarebbe superficiale ridurre queste contraddizioni alla retorica trombona, sempre viva sotto tutte le bandiere. L’antiberlusconismo ha consentito di tenere nascoste le difficoltà del centro-sinistra. È possibile la politica della concorrenza come architrave di tutto in un continente solo? Ci provò l’Unione Sovietica a realizzare il socialismo in un Paese solo, e si è visto com’è finita. Che senso ha una zona di libero scambio transatlantica quando gli Usa battono moneta, varano aiuti di Stato a man salva e hanno ormai l’indipendenza energetica, mentre l’Europa non manovra liberamente la base monetaria, importa olio e gas, boccia il salvataggio del Monte dei Paschi e promuove quello delle banche inglesi? Campioni nazionali, con la regia del governo quando necessaria, o liberi tutti, salvo piangere lacrime di coccodrillo quando Loro Piana vende ad Arnault? Mass media liberati dai conflitti d’interesse anche con qualche iniziativa del legislatore o il Corriere in mano alla Fiat che ritiene impossibile investire in Italia e tuttavia riceve la benedizione di Intesa Sanpaolo, sedicente banca del Paese? In queste partite, e in altre che non cito per brevità, Berlusconi non era e non è il problema. I problemi – e questi sulla vita delle persone pesano assai – stanno anche dentro le case del centro-sinistra e in quelle dei suoi amici, nei poteri reali, dai sindacati alle banche.

L’Unità 02.08.13

Strage Bologna «Ecco cosa chiediamo al governo», di Adriana Comaschi

«Cosa chiederò al ministro Graziano Delrio? Che risolva una volta per tutte il “rebus” degli indennizzi alle vittime del terrorismo – chi fu ferito da bambino, ad esempio, non ha diritto a una pensione. E che il governo appoggi il nostro disegno di legge, presentato da me alla Camera e dai colleghi Pd al Senato per istituire il reato di depistaggio. Quanto a noi, a settembre come parti offese non lasceremo nulla di intentato per dare un’accelerazione alle indagini».
Il presidente dell’Associazione familiari vittime della strage del 2 agosto 1980 Paolo Bolognesi racconta così le aspettative per le celebrazioni del 33° anniversario dello scoppio della bomba alla stazione di Bologna, appuntamento che oggi richiamerà migliaia di persone da tutta Italia per ricordare 85 morti, 200 feriti segnati a vita, una città colpita al cuore negli anni in cui la strategia della tensione era al suo massimo. Chi si ostina a non dimenticare e a chiedere tutta la verità lo fa oggi con un di più di ottimismo sulla possibilità di arrivare finalmente ai mandanti della strage, come invoca il manifesto di quest’anno. L’arrivo sotto le due torri di Delrio e della presidente della Camera Laura Boldrini poi «è già di per sè un segnale positivo» – ci sarà anche il segretario del Pd, Gugliemo Epifani. E pazienza se il Pdl non rinuncia a cercare di “rimescolare le carte”, come puntualmente avviene alla vigilia del 2 ago-to: al consigliere della Regione Emilia-Romagna Fabio Filippi che parla di dubbi sulla matrice fascista della strage e lo attacca a livello personale Bolognesi replica semplicemente «si deve vergognare. E il Consiglio regionale lo dovrebbe censurare. Parla da ignorante, nel senso che ignora quello che è successo a me e il contenuto delle sentenze». Bolognesi difende il punto fermo messo dalla magistratura con la condanna inflitta come esecutori della strage ai neofascisti dei Nar Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. E davanti agli attacchi personali («sarei di parte perché eletto con il Pd») ricorda, «sono gli argomenti già usati contro di me da Enzo Raisi (ex An poi finiano, ndr), ha pure detto che mia suocera non era morta il 2 agosto ma anni do- po». Non era così, ma più delle offese per i familiari pesava vedere agitata per anni la “pista palestinese”: lo scop- pio in stazione attribuito all’esplosione fortuita di ordigni in transito a Bolo- gna a opera di terroristi internazionali. Proprio a fine luglio la Procura di Bolo- gna ha concluso che non ci sono prove a favore di questa pista, da sempre giu- dicata dai familiari fumo negli occhi.
Così ora si spera di potersi concen- trare su «tre obiettivi» concreti. «Vo-liamo che il reato di depistaggio diven- ti legge – ricapitola dunque Bolognesi -. E che il governo faccia suoi i nostri emendamenti all’applicazione della legge sugli indennizzi a tutte le vittime del terrorismo: l’ex ministro degli In- terni Cancellieri ci ha dato una mano, ma sono ancora troppe le difficoltà a vedere riconosciute le giuste cifre». L’attenzione poi rimane alta anche a livello giudiziario: «Per arrivare ai man- danti della strage serve l’impegno dei magistrati, anche a digitalizzare i docu- menti. Stiamo arrivando a delle chic- che: emerge come Licio Gelli, condan- nato per depistaggio, ed esponenti di Gladio siano sempre più coinvolti in prima fila. Potremmo arrivare a una sua condanna per partecipazione alla strage».

“Trucchi, tribunali, verdetti il derby lungo vent’anni tra il Cavaliere e la Giustizia”, di Filippo Ceccarelli

Tra apoteosi e piazzale Loreto, gloria e sconfitta, salvezza e disastro, ma sempre sotto l’ala inconfondibile della commedia, e quindi con la partecipazione straordinaria dell’Esercito di Silvio e del cagnolino Dudù, di pochi altri capi politici si potrà dire, come di Silvio Berlusconi, che in questi venti anni se l’è voluta, cercata e trovata — e adesso si spera che un po’ si metta tranquillo.
Ma non è detto. Nei primi anni del decennio, ai tempi del suo secondo e anch’esso non irresistibile governo, il presidentissimo impose all’allora Guardasigilli, il non rimpianto pure lui ingegner Castelli, leghista esperto in congegni per l’abbattimento del rumore, di apporre nelle aule dei tribunali di tutto il paese al fianco della targa “La Legge è uguale per tutti”, un’altra targa che doveva ridimensionare, per così dire, l’impatto di quell’uguaglianza, e perciò detta Legge “era amministrata in nome del popolo”. Il quale popolo, sottinteso, era il medesimo che aveva fatto largamente vincere il Cavaliere, che a sua volta tutto desiderava fuorché farsi disturbare e magari rovinare dalla magistratura quella che il saggio amico di sempre, Fedele Confalonieri, in un attimo di civettuola distrazione aveva designato: “La passeggiata di Silvio nella Storia”.
E dunque di storia si tratta, se non antica nemmeno troppo recente, in ogni caso anche giudiziaria, ma soprattutto a tal punto fondata, contrastata, rimandata, agognata, scongiurata, impossibilitata, disgraziata, insomma, talmente esageratamente prolungatasi da sollecitare in qualsiasi cittadino italiano la voglia di un qualsiasi redde rationem, il sollievo di una conclusione pur che sia — con la speranza che questa condanna non arrivi ormai troppo tardi.
Ché davvero non se ne può più. E tuttavia, per dire l’andazzo irreale, qualche mese fa Beppe Grillo, che tante cose in comune ha insospettabilmente con il Cavaliere, e tra queste anche un certo vittimismo, se n’era uscito con la storia che lui è un mega- perseguitato, che ha più cause di tutti, e non l’avesse mai detto, subito Berlusconi è insorto rivendicando il primato, con tanto di numeri, come al solito non troppo verificabili, e perciò: “Io ho 2.700 udienze sulle spalle, nessuno ne ha più di me”. D’altra parte, quando l’altro giorno un tribunale abruzzese ha condannato fra gli altri l’ex onorevole di Forza Italia Aracu per degli impicci di mazzette, subito dopo la sentenza al colpevole è parso naturale di gridare: “È un ingiustizia!”, il che si può perfino capire, ma anche: “Viva Berlusconi!”.
Sono stati anni irti di cause e controcause, densi di leggi salva-questo e salva-quest’altro, affollati di giusti e ingiusti processi, di lodi e non-lodi, prescrizioni e ricusazioni e indimenticabili classificazioni processuali tipo “l’utilizzatore finale” che hanno fatto venire addirittura il buonumore a chi vanamente si aggirava stordito tra sciaguratissime
pandette e passaggi iniziatici in cui la Giustizia assomigliava ora a un groviglio, ora a un mistero.
Fremano adesso le Amazzoni, la Pitonessa e magari anche i Fratelli d’Italia. Tremino i falchi, le colombe, gli Ateniesi di Renzi e perfino i Giovani Turchi. Ma intanto, con una cadenza che in futuro si potrà pure studiare cavandone qualche algoritmo, Berlusconi ha richiamato la grande fortuna economica e di notorietà che ha baciato i suoi innumerevoli avvocati, non di rado rivali fra loro, e in un caso addirittura minacciati di bastonate da parte di altri effervescenti cortigiani tipo Lavitola.
A un certo punto, rinchiuso al buio per via di un’uveite nella lussuosa sala “Diamante” dell’ospedale San Raffaele, l’imputato permanente e privilegiatissimo ricorse addirittura al linguaggio cristico: “Vogliono crocifiggermi”. Dopo di che ebbe in sorte una visita fiscale da cui risultò che con qualche goccia di collirio poteva benissimo deporre a una benedetta udienza del processo Ruby. Ma siccome l’Italia è l’Italia, e il dominio degli spettacoli anche inconsapevolmente comici travolge qualsiasi dramma, fuori del Tribunale proprio
quel giorno stavano girando una fiction con Stefano Accorsi su Mani Pulite — misurandosi quindi in meno di dieci anni il ritardo tra l’immaginazione scenica e la realtà.
Ecco, ora basta. Basta con il finale del Caimano, evocato sempre dinanzi al marmoreo palazzone di stile assiro babilonese di Milano ogni due o tre mesi. Basta con le claque contrapposte di tifosi fuori dalle aule, con cartelli, bottigliette d’acqua, palloncini e personaggi folcloristici tipo “Miss Passerottino”, una signora anziana che sosteneva che Berlusconi, “Silviuccio” lo chiamava, era appunto da ritenersi innocente come un uccellino e gli tirava baci davanti alle telecamere.
Basta dunque, ma non sarà facile. Come del resto non fu facile installare sui muri delle aule giudiziarie quella frase che invano tentava di sottrarre il Cavaliere all’uguaglianza della Legge. Non si trovavano le lettere giuste, i materiali e i colori adatti, a volte mancava lo spazio sulle pareti, gli artigiani consegnavano fuori tempo massimo, e così prima il governo Berlusconi ter e poi il quater erano caduti, e perciò a tutt’oggi questa storia del popolo e della giustizia amministrata nel suo nome pare rubricata nel “forse non tutti sanno che”, o addirittura nello “strano, ma vero”.
Sollecitato da una finta Margherita Hack il presidente emerito della Consulta Onida, nonché primo saggio del Quirinale, fu lapidato per aver detto,in fondo, qualcosa che in questo giorno suona quasi ragionevole: “È anziano, cerca protezione, speriamo si decida a godersi la vecchiaia lasciando in pace gli italiani”. Lui stesso, Berlusconi, insisteva con la storia che gli sarebbe tanto piaciuto andare in giro per il mondo a costruire ospedali per i bambini del Terzo Mondo.
Ma quali ospedali! Processi, invece, e processi, processi, boccacceschi per giunta, con fantastici “assaggiatori” di giovinette o spassose linee difensive delle coimputate, la Minetti che invocava l’amore “vero”, l’Ape Regina l’amore “puro”. Il problema, semmai, è che la resa dei conti continuerà nell’immaginario, dentro le teste dei cittadinispettatori, e non potrebbe essere altrimenti se solo si considerano le ultime piazze berlusconiane, gli alti e i bassi della popolarità, le foto che restano impresse nella memoria.
Quel cartello, per dire, a piazza del Popolo: “Silvio, sei più grande di Giulio Cesare”, e sotto, abbandonato per terra, un altro su cui si leggeva: “Silvio, dopo di te il diluvio”. Come pure il trionfo piacione di Bari: “Visti da qui — sorrideva lui aggiustandosi i microfoni — siete bellissimi!”. Ma anche i lacrimogeni e le cariche della polizia a Brescia. Le cheerleaders che ballano al ritmo di “meno male che Silvio c’è” sotto il Colosseo. E sempre lui, ma in sagoma cartonata, su un camion con Giulianone Ferrara e una scritta che dice: “Siamo tutti puttane” (prima furono i “liberi servi” e prima ancora le
mutande).
Troppe visioni, troppi processi, troppo di Berlusconi è stato sparso nella società perché lo si possa bruciare, liquidare, o sradicare nel tempo breve di un’estate. Per cui nel giorno del giudizio (“Quattro angeloni con le trombe in bocca”) ci si rigira tra le mani i frammenti dell’ultima, eccezionale minutaglia di un consenso quasi ipnotico: l’eccentrico
sardo che si è fatto il tatuaggio con la faccia del Cavaliere; lo studente di Caserta fatto denudare perché aveva lui sulla maglietta (e si giustifica: “Ma io ce l’ho anche con Scarface, Che Guevare e Ligabue”); l’ingegnere del Salento che si toglie la vita, ma raccomanda la famiglia a Berlusconi; la signora di Facebook che l’ha sognato e chiede di scrivergli lettere, “ma solo d’affetto e di riconoscenza”.
Altro che l’astuta ordalia del Palazzaccio.
Si guardi il petto e le spalle anche il governo. “Io lo so che tutto quello che coinvolge Berlusconi — diceva Enrico Letta ai giornalisti della stampa estera — per voi è fantastico perché vi consente di scrivere lunghi articoli”. Ma sempre più uguali, purtroppo — e nel frattempo sono volati vent’anni.

La Repubblica 02.08.13

“La fine di un’epoca”, di Claudio Sardo

Si chiude un ciclo politico. Silvio Berlusconi, per nove anni presidente del consiglio, è colpevole. La Cassazione ha confermato la condanna a quattro anni per frode fiscale. E potrebbe decadere presto da senatore (ai sensi della legge anti-corruzione), prima ancora che la corte d’Appello rimoduli i tempi dell’interdizione dai pubblici uffici. In ogni caso, per il leader della destra è la prima condanna definitiva.La sconfitta politica del Cavaliere (che ieri ha perso anche il titolo di cavaliere), in realtà, si era già consumata nel 2011, quando lasciò Palazzo Chigi a causa del discredito internazionale, di una crisi sociale non governata, di una maggioranza dissolta tra contrasti e trasformismi. Eppure l’insuccesso del Pd alle elezioni, combinato con il cinismo di Grillo, ha regalato a Berlusconi e al suo partito un potere di sindacato sulla legislatura e sul governo. Berlusconi da tempo non ha più l’ambizione di guidare l’Italia: vuole però partecipare al potere, condizionarlo.
È questo il contesto nel quale è stata pronunciata la sentenza della Cassazione. In qualunque Paese democratico una condanna simile segna irrevocabilmente la fine di una carriera politica. Perché vengono recisi i presupposti di credibilità di un uomo pubblico. Non si tratta, come dicono i cortigiani, di un rigurgito di moralismo. Siamo garantisti e lo rivendichiamo con forza. Anzi, crediamo che questo sia uno dei valori fondativi della sinistra. Ma le sentenze si rispettano. Nel merito e nella forma. È la sola verità civile e costituzionale che abbiamo. La politica deve rispettarla, nella divisione dei poteri.
Berlusconi ha tentato sempre di difendersi dai processi, anziché nei processi. Ha usato tutte le armi a disposizione. Ha mescolato politica, giurisprudenza, leggi ad personam, ricatti istituzionali. Non ha neppure mascherato i suoi assalti al diritto: li ha perpetrati sostenendo che il perseguitato era lui, che i violenti erano i magistrati, e dunque che il fine giustificava i mezzi. Berlusconi è riuscito a sottrarsi ad alcune condanne grazie alla prescrizione. Anche in questo processo sui diritti tv le ha tentate tutte: il lodo Alfano, poi il legittimo impedimento, poi ha disertato udienze già concordate con i giudici, accampando scuse a cui la Consulta non ha creduto. Solo affidandosi all’avvocato Coppi, ha provato in extremis a cambiare strategia e a difendersi nel processo. Ma forse la svolta è arrivata troppo tardi. Per troppi anni ha usato gli avvocati per modificare le leggi a proprio vantaggio, anziché per affrontare le accuse nelle sedi proprie.
Ora il responso è un macigno che pesa sul centrodestra. Fin qui il Cavaliere ha usato falchi e colombe a piacimento. Dopo questa sentenza il Pdl è un bivio: resterà un partito patrimoniale, interno alla holding della famiglia Berlusconi, o diventerà una forza politica autonoma, capace di pensarsi oltre il fondatore ormai non più spendibile come leader? L’idea che il fondatore possa guidare la destra avendo quasi 80 anni, una condanna per frode fiscale, altri processi in arrivo e l’imminente interdizione dai pubblici uffici, non è neppure una minaccia. È una finzione. È vero che Berlusconi è già un leader extra-parlamentare: per vent’anni è stato così, o premier o del tutto estraneo alla vita del Parlamento. Ma la condanna allarga questo distacco. Perché viviamo in Europa e la destra italiana non può permettersi di gridare ad un fantomatico regime repressivo: nessuno sarebbe disposto a crederlo. Il destino del governo Letta, checché ne dicano i sostenitori di Berlusconi, è anzitutto nelle mani del Pdl. Dipenderà dalle reazioni istituzionali (la ripetizione di atti eversivi, come la marcia verso il tribunale di Milano o la richiesta di sospensione dei lavori parlamentari, sarebbe intollerabile). Ma dipenderà soprattutto dalla rotta politica di quel partito: utilizzerà il governo Letta per uscire dalla seconda Repubblica oppure la priorità sarà la difesa degli interessi personali dell’ex Cavaliere? La responsabilità del Pd resta grande davanti a una crisi che mangia imprese e lavoro, davanti a cittadini che sono stati spettatori della condanna mentre pensavano anzitutto al destino dei loro figli. Il governo Letta è nato senza alleanza. Ma ha compiti importanti: tentare di promuovere una ripresa e consentire ai cittadini di tornare alle elezioni in modo che siano utili a formare un governo efficace. Il governo Letta però non può vivere a tutti costi. Il governo Letta può vivere solo se viene ripristinata una divisione dei poteri. Per questo, la decadenza di Berlusconi da senatore (per incompatibilità sopravvenuta) deve scattare senza valutazioni di opportunità, ma solo sulla base del diritto. Se qualcuno nel Pd pensa di utilizzare strumentalmente la sentenza per destabilizzare Letta, è un avventurista. Ma se nel Pdl c’è chi pensa di usare Letta per raccontare la favola del Berlusconi perseguitato, quella del videomessaggio serale, è un pazzo che va fermato.

L’Unità 02.08.13