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“Le riforme che chiedono gli investitori”, di Francesca Manacorda

Un fremito di vita in un Paese bloccato. L’accordo annunciato ieri, che introduce maggiore flessibilità in 800 posti di lavoro per l’Expo 2015, firmato da tutte le sigle sindacali, non è importante solo per il suo contenuto, né esclusivamente per eventuali altre applicazioni che potrà avere. È importante soprattutto perché segnala che – se lo si vuole – si possono superare contrapposizioni in apparenza insanabili per gettare qualche seme di crescita e innovazione, per cambiare regole che sembrano incise nella roccia mentre attorno tutto si modifica a gran velocità.

Ma la scintilla che arriva dall’Expo, assieme ad altre luci – una per tutte il decreto che ha sbloccato i pagamenti della pubblica amministrazione, non basta ad illuminare un quadro che resta in buona sostanza oscuro. Gli investimenti che creano lavoro e fanno girare l’economia si contraggono: i capitali italiani appaiono sempre più scoraggiati e spesso dilaniati tra il desiderio di restare in Italia e la necessità di spostarsi verso terre più accoglienti; quelli internazionali sono sempre più diffidenti verso un Paese che non riescono a capire e dove troppi aspetti – a cominciare dall’incertezza del diritto – rappresentano svantaggi competitivi secchi.

Proprio in questi giorni d’estate, mentre l’Italia si avvia al rito della grande vacanza agostana, tra i protagonisti dell’economia sembra prevalere una sorta di rassegnata estenuazione. Pesa un Paese che non pare in grado di acchiappare la ripresa che già altrove – negli Usa, ma anche in Spagna – dà segnali più o meno forti, una politica che non riesce a concretizzare in modo incisivo pochi provvedimenti necessari, uno spirito nazionale che pare anch’esso, per l’appunto, fiaccato da una sfiducia generalizzata.

Così il banchiere racconta che il suo cliente, ottima media azienda del Nord con grande proiezione internazionale, sta decidendo di spostare il quartier generale all’estero, non per pagare meno tasse, ma per avere un costo del denaro più accettabile di quello esorbitante che oggi tocca alle imprese battenti bandiera italiana; il manager della multinazionale giapponese che ha scelto proprio l’Italia per farne il suo quartier generale europeo spiega quanto sia difficile far capire a Tokyo cosa sia un condono fiscale e quanto pesi dover fare la fila in questura per chiedere il permesso di soggiorno degli ingegneri nipponici assieme alle signore che regolarizzano la colf; l’investitore internazionale con il portafoglio gonfio di euro in cerca di impieghi spiega che l’Italia, dove le valutazioni delle aziende sono ai minimi storici e corrispondono a un terzo di aziende simili in Germania, potrebbe essere il posto giusto dove mettere i soldi, ma che per adesso è preferibile aspettare in attesa di capire meglio che strada prenderemo.

Sono loro – l’azienda italiana, la multinazionale giapponese, l’investitore internazionale – i soggetti che decideranno nei prossimi mesi che cosa fare, quante persone assumere o meno, su quali progetti – e dove – puntare nei prossimi anni. È da loro che dipende la crescita o, viceversa, il declino. Chiedono stabilità politica, ovviamente, perché non si può lavorare in un Paese che cambia un governo l’anno. Ma la stabilità da sola non basta. Ci vogliono anche decisioni e riforme che si aggiungano a quelle già prese, che sfoltiscano la giungla di norme, riconnettano scuola e lavoro, permettano forme nuove e diverse di occupazione, trovino anche rimedio a vicoli ciechi come quello di Basilea 3 che colpisce banche e clienti e amplifica, invece di diminuirli, gli effetti della crisi.

Da questo punto di vista i giorni da qui a fine agosto con sei decreti legge da approvare – da quello che fa slittare l’aumento dell’Iva al decreto del Fare – saranno per il governo una gimcana impegnativa nella quale è però vietato sbagliare. Il mercato non passa agosto al mare o in montagna e nemmeno le difficoltà delle imprese vanno in vacanza. Senza un’azione che aiuti a ristabilire la fiducia e faccia ripartire gli investimenti sarà difficile vedere quella ripresa d’autunno in cui molti sperano.

La Stampa 24.07.13

“Una sentenza ineccepibile”, di Luigi Mariucci

Sarà necessario tornare più estesamente sulla motivazione con cui la Corte costituzionale argomenta l’illegittimità del modo in cui la Fiat ha inteso applicare l’art.19 dello Statuto dei lavoratori. Ma già a una prima lettura il ragionamento della Corte appare ineccepibile e di ampio respiro.L’intera ricostruzione effettuata dalla Corte è volta a censurare un comportamento la cui pretestuosa strumentalità appare ovvia già al senso comune. È mai possibile che in uno Stato di diritto, la cui Costituzione si fonda sui grandi principi di uguaglianza e libertà sindacale, un sindacato che gode di un ampio consenso tra i lavoratori venga escluso dai diritti sindacali e che gli stessi lavoratori aderenti a quel sindacato perdano il diritto a costituire una rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro perché quel sindacato, da sempre partecipe delle relazioni contrattuali, rifiuta di sottoscrivere uno specifico contratto collettivo? Evidentemente no. Eppure è questo ciò che ha voluto la Fiat quando la Fiom-Cgil non ha siglato i contratti dell’era Marchionne.

Ed è appunto l’illegittimità e la stessa assurdità di questo comportamento che ora la Corte censura inappellabilmente. La Fiat infatti aveva fatto leva su una interpretazione pedissequa dell’art. 19 dello Statuto, come modificato da un referendum del 1995, secondo il quale il diritto a costituire rappresentanze viene riferito ai «sindacati firmatari di contratti collettivi applicati in azienda». Il paradosso è che quel referendum intendeva estendere il campo di applicazione di quella norma. La sua applicazione letterale invece comporterebbe una plateale restrizione del diritto: ne deriverebbe una vera e propria «sanzione del dissenso», come puntualmente rileva la Corte. Perciò si conclude che quel comportamento viola gli art.2, 3 e 39 della Costituzione. Nella motivazione la Corte ricostruisce l’intera vicenda normativa in oggetto, richiamando le molteplici sentenze che hanno riguardato l’art.19 nella sua originaria versione e in quella attuale.
Ne emerge il filo di una continuità concettuale di indubbia coerenza. Viene in particolare richiamata la sentenza con cui si dichiarò l’ammissibilità del referendum del 1995, ricordando come già in quella occasione la Corte avesse avvertito della impossibilità di applicare il nuovo art.19, come ritagliato eventualmente dal referendum, vuoi in senso espansivo, attribuendo il diritto alle Rsa anche ai sindacati non rappresentativi che siglano i contratti per pura acquiescenza, vuoi in senso restrittivo, escludendone i sindacati che non sottoscrivono il contratto pur essendo rappresentativi «nei fatti e nel consenso dei lavoratori». Ora l’argomento viene ulteriormente sviluppato osservando come sia inammissibile ammettere privilegi ai sindacati «in ragione del rapporto contrattuale col datore di lavoro» e «non in ragione del rapporto con i lavoratori». Sicché la Corte pur limitando la censura di incostituzionalità dell’art 19 alla formula «in quanto non si applichi anche ai sindacati che hanno partecipato alle trattative», con una sentenza necessariamente di carattere additivo, dichiara comunque l’illegittimità di «ogni accordo ad excludendum». Da ultimo la Corte rinnova l’invito al legislatore, già ripetutamente formulato in passato, a introdurre nuove regole della rappresentanza sindacale, in coerenza con l’art. 19 della Costituzione. Questa è forse la parte più feconda della pronuncia costituzionale, diretta a sollecitare i protagonisti delle relazioni sindacali a voltare pagina e a definire un sistema compiuto di regole del gioco. Cosa che in buona parte è già avvenuto con gli accordi interconfederali unitari del 28 giugno 2011 e del 31 maggio 2013, che costituiscono il punto di riferimento essenziale per avviare una nuova fase dell’azione sindacale nella grave situazione di crisi economica e sociale che il Paese sta attraversando. Di questo c’è bisogno, non di recriminazioni né, tanto meno, di arroganti dichiarazioni che sembrano voler condizionare le strategie industriali all’esistenza di leggi pro domo sua e riproporre una antistorica visione dell’impresa come dominio privato legibus solutus.

L’Unità 23.07.13

“Nel 2013 il sistema-Italia perderà 250mila posti”, di Rosaria Talarico

Meglio l’agricoltura. È l’unico settore nel quale cresce l’occupazione dei giovani, con un aumento record del 9% nelle assunzioni di under 35. Per il resto nel 2013 si sono persi 250 mila posti di lavoro. Le 750 mila assunzioni complessive previste dalle imprese dell’industria e dei servizi non compenseranno quasi un milione di uscite (tra pensionamenti, licenziamenti e cessazioni) messo a bilancio. Si arriva così al saldo negativo rilevato dal sistema Excelsior di Unioncamere e ministero del Lavoro.

La perdita occupazionale si è fatta sentire soprattutto nei settori e nei territori più legati al mercato interno, ovvero il Mezzogiorno (da cui è atteso il 35% del saldo negativo complessivo), le imprese con meno di dieci dipendenti (che prevedono di ridurre la propria forza lavoro di 142.600 unità), le costruzioni (-59mila il saldo), il commercio al dettaglio (-24.500) e il comparto turistico (-25.600). In controtendenza l’agricoltura che incrementa l’occupazione nonostante i danni alle coltivazioni provocati dal maltempo e il calo dei consumi a tavola. La crescita di opportunità nel settore è dimostrata anche dal boom del 29% delle iscrizioni negli istituti professionali agricoli e del 13% in quelli tecnici di agraria, agroalimentare ed agroindustria, come evidenzia un’analisi della Coldiretti. Le 750 mila assunzioni in programma rappresentano il 13,2% di tutte le imprese dell’industria e dei servizi con dipendenti ma indicano che «c’è una parte del sistema produttivo che, malgrado tutto, sta reggendo prendendo personale», spiegano da Unioncamere.

La propensione ad assumere è maggiore in particolare tra le aziende orientate all’export e all’innovazione. «La necessità di mantenere alto o di accrescere il profilo competitivo indurrà queste imprese a investire ulteriormente nella qualità delle risorse umane, assumendo spiega il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello – il resto dei dati non sono confortanti, ma la presenza di una quota significativa di imprenditori che scommettono sull’impresa e operano nuove assunzioni fa capire che il sistema è vitale e che riducendo il carico burocratico e quello fiscale si libererebbero risorse per accelerare la ripresa».

Secondo il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini «quello che stiamo facendo va nella direzione giusta, dobbiamo rafforzare il nostro impegno. I dati Istat sugli ordinativi e la fiducia delle imprese – ha osservato – indicano che qualche cosa si sta muovendo, niente di esplosivo, ma come governo dobbiamo rafforzare questa ripresa che ci aspettiamo per fine d’anno». Sul fronte sindacale, il segretario confederale della Cisl, Luigi Sbarra sottolinea come ad assumere sono prevalentemente aziende appartenenti al settore chimico-farmaceutico, della gomma e delle materie plastiche, dei servizi finanziari e assicurativi «e ancora una volta, della sanità e dell’assistenza sociale. Di questi dati va fatto tesoro, avviando immediatamente un programma di riqualificazione dei servizi per l’impiego che consenta di recepire le misure europee della “Garanzia giovani” per dare opportunità agli under 29». La leva su cui agire per sostenere l’occupazione non può essere solo quella della maggiore flessibilità per l’accesso nel mercato del lavoro.

È questo il commento del segretario confederale della Uil, Guglielmo Loy, che evidenzia «la difficoltà nell’incontro tra domanda e offerta, la bassa percentuale di attivazioni di contratti di apprendistato, la forte flessione di consumi interni, che condizionano negativamente i settori dell’edilizia, del commercio, del turismo e, infine, la questione meridionale».

La Stampa 23.07.13

“La vera riforma è abolire il porcellum”, di Ezio Mauro

In questo Paese sospeso, che vive una crisi economico-finanziaria molto pesante, una crisi di rappresentanza evidente e una crisi di fiducia preoccupante, sembra quasi che si sia rinunciato alla politica come strumento- guida di un sistema disorientato. Le elezioni con due sconfitti (Pd e Pdl) e un outsider egoista – M5S – hanno imballato il Parlamento. Il suicidio del Pd nel voto per il Quirinale ha certificato l’impotenza finale del sistema, con la politica che non riesce a dar forma alle istituzioni, nemmeno a quella suprema.
Il governo di necessità che è nato da questo quadro disperato porta con sé tutte le contraddizioni della fase, a partire da una alleanza contronatura tra destra e sinistra che si giustifica solo se fa quattro cose indispensabili per sgombrare la strada ostruita della politica e riportare il Paese al voto: cambiare la legge elettorale, ridurre i costi della politica, negoziare con l’Europa un diverso rapporto tra austerità e crescita, affrontare il dramma del lavoro. Letta sta negoziando seriamente con Bruxelles e Berlino: tutto il resto è invece avvolto dalla nebbia del minimo comun denominatore, unico possibile risultato di un’alleanza tra culture contrapposte. In più il Pd paga da solo – fino all’autolesionismo – il prezzo della responsabilità di governo a cui il Pdl è estraneo, come dimostra la vergogna del caso Alfano.
Perché il sistema ritrovi ossigeno, autonomia e libertà, serve almeno l’abolizione immediata del Porcellum, per rendere agibile il percorso elettorale quando servirà. Come ha scritto Eugenio Scalfari, «la legge elettorale che è stata infilata (non si capisce perché) nella legge costituzionale affidata all’apposita commissione dei 40, va rimessa a disposizione del Parlamento. Non si può infatti correre il rischio che un ritiro della fiducia al governo da parte di un partito avvenga senza l’abolizione del Porcellum. Si tratta di una legge ordinaria ma fondamentale e non può essere sottratta alla libera disponibilità del Parlamento».
Perché il Pd non fa questa scelta, subito? Per una volta guiderebbe l’agenda invece di subirla, farebbe l’interesse del Paese e ritroverebbe persino la sua opinione pubblica, sconcertata dallo scandalo Alfano.

La Repubblica 24.07.13

“Quei buchi nella versione di Alfano che hanno trascinato il governo nel caos”, di Carlo Bonini

Come il morto che si afferra ai vivi, il ministro dell’Interno Angelino Alfano trascina nel suo abisso di omissioni, contraddizioni, opacità chi con lui ha politicamente condiviso il caso Ablyazov nei cinquanta giorni di silenzio (31 maggio-12 luglio) successivi all’espulsione di Alma Shalabayeva e della sua bimba Alua. Il ministro degli esteri Emma Bonino, quello della Giustizia Annamaria Cancellieri, lo stesso Presidente del Consiglio, Enrico Letta. E polverizza ogni traccia di residua collegialità del Governo, costringendo ora ciascuno dei protagonisti dell’affaire, a muoversi in ordine sparso per dar conto, in solitudine, delle proprie mosse.
UN’INFORMAZIONE VELENOSA
Nella lunghissima dissimulazione di quanto accaduto tra il 28 e il 31 maggio nel quadrilatero Viminale — Questura di Roma — villa di Casal Palocco — Ufficio Stranieri — il peccato originale è infatti nella rapidità con cui, il 3 giugno (dopo aver ricevuto un primo appunto dalla Questura di Roma), il ministero dell’Interno liquida la vicenda come un’ordinaria pratica di espulsione che ha seguito altrettanto “ordinarie” prassi amministrative. L’informazione — come è ormai documentalmente accertato — è infatti significativamente inesatta, monca, e ha la capacità di contagio della peste. In quei primi giorni di giugno, ad esempio, la avalla il capo della Polizia, Alessandro Pansa, salvo doverla correggere, più di un mese dopo, con la sua indagine interna e con un equilibrismo linguistico durante la sua audizione di fronte alla Commissione diritti umani del Senato. «La rapidità della procedura di espulsione di Alma Shalabayeva — converrà il capo della Polizia — non è stata ordinaria, ma neppure anomala».
LE RASSICURAZIONI ALLA GIUSTIZIA
È un fatto che quella prima informazione alla camomilla diffusa dal Viminale viene accreditata con l’ufficio di gabinetto del ministro di Giustizia Annamaria Cancellieri convincendola ad una presa di posizione ufficiale sulle procedure di espulsione della Shalabayeva («Perfette», le definisce. Così come accredita l’assoluta regolarità dell’udienza di fronte al giudice di pace di Roma che ha verificato la legittimità dell’espulsione). E questo, mentre la Farnesina e Palazzo Chigi seguono altre strade. La Bonino — per quanto è stato possibile ricostruire — viene avvisata della vicenda Shalabayeva da una email che i legali della donna, lo studio Vassalli-Olivo, le spediscono intorno alle 20 del 31 maggio, più o meno contemporaneamente al lancio Ansa che dà conto dell’espulsione. E, di lì in avanti, decide di muoversi in autonomia.
LE MOSSE DELLA BONINO
Sappiamo dai documenti allegati alla relazione di Pansa che la Bonino attiva la nostra ambasciata a Londra il 3 giugno per verificare lo status di rifugiati politici
di Ablyazov e della Shalabayeva nel Regno Unito (ne riceverà un riscontro positivo il 4). E scopriamo anche — per quanto ne riferiscono a “Repubblica” i diretti interessati — che interloquisce durante il mese di giugno «almeno cinque o sei volte» con gli stessi legali dello studio Olivo. Quasi sempre attraverso i suoi più stretti collaboratori. Di più. Come riferiva ieri un’informata cronaca di Luca Sofri su “ il Post”, il 7 giugno il ministro degli Esteri «chiede informazioni a Letta, alla presenza del consigliere diplomatico Armando Varricchio e del proprio capo di Gabinetto Benassi» e «torna a chiedere al mistero dell’Interno informazioni sulle procedure seguite nell’espulsione».
LA RIUNIONE A PALAZZO CHIGI
Che Interno ed Esteri non comunichino in quei primi giorni
di giugno e che Alfano e la Bonino non abbiano nessuna ragione al mondo per fidarsi l’uno delle risposte dell’altro è evidente anche dalle scelte del Presidente del Consiglio. Il 3 giugno — per quanto riferiscono fonti qualificate di Palazzo Chigi — Enrico Letta convoca infatti il suo consigliere diplomatico Armando Varricchio e il sottosegretario Patroni Griffi per affidare a loro una raccolta discreta di informazioni con i due ministeri che consentano di venire a capo o quanto meno di avere un’idea di quanto accaduto tra il 28 e il 31 maggio. Un lavoro che, a quanto pare, procede silenziosamente per l’intero mese di giugno e che le stesse fonti di Palazzo Chigi definiscono «assiduo» e fitto di «ulteriori contatti» con Alfano e Bonino (anche se di questi contatti non è dato sapere con esattezza né il numero, né le circostanze).
LA RESA DEI CONTI
Sicuramente, la situazione precipita a inizio luglio. È allora, infatti, che Palazzo Chigi ha la percezione della totale inerzia del ministro Angelino Alfano nel voler andare fino in fondo alla vicenda Ablyazov e, contemporaneamente, del nervosismo della Bonino che, per altro, continua a ricevere la pressione delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea, delle Ong. Di qui, la decisione di drammatizzare politicamente la vicenda tentando un’operazione che fallirà. Affidare cioè al capo della Polizia un’indagine interna che assolva il ministro dell’Interno Alfano ma trovi comunque un responsabile nelle burocrazie, scommettendo che quella resa dei conti pilotata contribuisca a spegnere l’incendio. L’esito — come ormai evidente — sarà esattamente l’opposto. Fino alle parole di ieri della Bonino. Chiare nel loro significato e quindi precipitosamente corrette. La dimostrazione — ammesso ce ne fosse bisogno — che, come una peste, appunto, la menzogna politica che segna dall’inizio questa vicenda ha avvelenato tutto ciò che poteva avvelenare.

La Repubblica 23.07.13

“Ricercatori in fuga”, di Pietro Greco

I nostri giovani, malgrado tutto e con crescente difficoltà resistono. Ma l’Italia ha perso ogni residua capacità di attrazione. Il responso della selezione 2013 della cosiddetta Erc junior, ovvero i grants appena assegnati dallo European Research Council ai giovani ricercatori dell’Unione e dei paesi associati non poteva essere più chiaro. Su 287 fondi per portare avanti un progetto di ricerca (grants) assegnati, i giovani italiani ne hanno vinto 17: il 5,9% del totale. Non molti, tenuto conto che nel 2008, in un’analoga (ma non omologa) selezione ne avevamo vinti 35 su circa 300 (il 12% del totale). Ma neanche pochi, visto che gli inglesi ne hanno vinto 22 e i francesi 26, pur avendo un numero di ricercatori e, soprattutto, di giovani ricercatori molto più nutrito. Solo la Germania si distacca, con 55 grants vinti. Ma la Germania ha, appunto, un numero di ricercatori tra 3 e 4 volte superiore. Se ancora cinque anni fa riuscivamo a raccogliere più di quanto seminato, ora raccogliamo esattamente quanto seminiamo. Certo, per numero assoluto di successi, eravamo secondi nel 2008 e ora siamo sesti. Un arretramento c’è stato. Ma la capacità individuale di competere dei nostri giovani resta, in ogni caso, del tutto paragonabile a quella dei loro colleghi di altri paesi europei. Ma è la capacità del sistema paese che, nel modo più assoluto, il confronto col resto d’Europa. Lo dimostra il fatto che gli inglesi, con 22 progetti vinti, ne ospiteranno nei loro laboratori 60 (ciascun vincitore può scegliere il paese dove realizzare il proprio progetto di ricerca). Poiché solo due inglesi tra i vincitori (il 9%) hanno scelto di realizzare i loro progetti all’estero, significa che la Gran Bretagna è riuscita ad attrarre 40 giovani ricercatori stranieri. Un autentico trionfo. Tutti vogliono andare in Inghilterra a fare ricerca! Al contrario, l’Italia, con 17 progetti vinti, ne ospiterà solo 8. Siamo riusciti ad attrarre un solo ricercatore straniero, mentre 10 dei nostri (il 59%) ha preferito andare a spendere i propri soldi all’estero. Un’autentica debacle. Un record speculare e opposto a quello inglese. Nessuno, neppure gli italiani, vuole fare ricerca in Italia! Perché? Prima di rispondere alla domanda, conviene ricordare un’altra performance clamorosa. Al secondo posto, per successi assoluti, nella classifica quest’anno, al posto degli italiani, con ben 34 grants ottenuti, ci sono i giovani ricercatori israeliani. Israele, associato a Erc è un piccolo paese (ha una popolazione di 7,8 milioni di abitanti, quasi otto volte inferiore a quella italiana) ma ha un imponente sistema di ricerca (imponente per quantità e qualità, sia chiaro). E le sue performance dimostrano, al contrario di quanti molti predicano in Italia, che la ricerca scientifica non è un lusso che solo paesi grandi e ricchi si possono permettere. Ma il risultato più clamoroso è che Israele ospiterà ben 32 vincitori (31 israeliani e uno straniero). Terzo assoluto, dopo Gran Bretagna e Germania. In pratica, quasi nessun giovane israeliano si è sognato di andar via da un paese che pure, fuori dai laboratori, la vita non è semplice. Ma perché i giovani italiani, invece, vanno via dall’Italia non appena ne hanno l’opportunità? Non è un problema di soldi, evidentemente. Perché, per definizione, i 10 italiani su 17 che sono andati via i soldi da spendere in ricerca li avevano: la hanno ottenuti dall’Europa. E allora è evidente che più che le precarie condizioni finanziarie, è la (percezione della) qualità ambientale che non regge. Anzi, che sta crollando. Nel 2008, fra i 35 vincitori italiani andarono via in 13: il 38%. Oggi ad andar via sono stati 10 su 17, il 59%. Ma cosa, in particolare, spinge un giovane ricercatore italiano di successo a lasciare il proprio paese, le proprie abitudini, i propri affetti e ad andare all’estero? Non esiste un’indagine scientifica che abbia individuato le cause. Ma varie testimonianze raccolte indicano due cause principali: la logistica e la burocrazia. In Italia un ricercatore ha meno soldi e, anche, meno strumenti per la ricerca. Tuttavia i ricchi grants dell’Erc consentono di acquisire il meglio delle tecnologie disponibili. Volendo, si potrebbe restare. A spingere via è, dunque, l’altra grande forza, la burocrazia. Onnipresente, asfissiante, opprimente. Suicida. Un giungla di leggi, leggine, norme, regolamenti, una tassazione irragionevole (gli stranieri che vengono in Italia, per esempio, non capiscono perché devono pagare le tasse sulle spese di viaggio) e una montagna di carte da compilare. Chi porta persone, soldi e novità dall’esterno in un’università o in un ente pubblico di ricerca si ritrova di fronte un insuperabile muro di gomma. Questo muro di gomma è sempre più spesso e sempre più elastico. Non c’è modo di vincere anche solo una partita. Così chi può, se ne va. In tutti gli altri paesi (e il tutto non è iperbolico, perché una recente ricerca ha dimostrato che, per un cervello che vuole entrare, solo 4 nazioni su 200 al mondo sono più respingenti dell’Italia ) avviene il contrario. Tappeti rossi ai cervelli che vogliono entrare e burocrazia al minimo. Ecco, dunque, un consiglio (non richiesto) a Maria Chiara Carrozza, il Ministro per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca: realizzi l’unica riforma a costo zero possibile e auspicabile. Abbatta drasticamente la burocrazia. Tagli leggi e leggine. Smonti norme e regolamenti. Renda la vita facile ai (pochi, ma ancora bravi) giovani ricercatori italiani. Faciliti l’ingresso e la permanenza in Italia di quei giovani ricercatori stranieri che, nonostante tutto, vorrebbero venire da noi. Non li faccia respingere alla frontiera da una stupida, eppure feroce burocrazia. L’unica burocrazia al mondo che non ha capito che è in atto una “guerra dei cervelli”. E che chi vince questa guerra virtuosa ha chance molto più alte di costruire un futuro desiderabile. Non solo in termini di cultura e civiltà. Ma anche in termini economici.

L’Unità 22-07-13

“La violenza omofoba si condanna con la legge, non a parole” di Walter Verini, Ivan Scalfarotto

L’omofobia è la paura e l’avversione irrazionale nei confronti dell’omosessualità. L’Unione Europea considera l’omofobia analoga al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo e al sessismo e molti Stati europei hanno introdotto nuovi strumenti normativi idonei ad una migliore tutela legale contro la discriminazione per orientamento sessuale e identità di genere. L’Italia è in grave ritardo nell’affrontare il tema del contrasto all’omofobia e transfobia.

È urgente quindi una legge che ci permetta di frenare l’escalation di aggressioni e discriminazioni di cui abbiamo notizia sempre più frequentemente dalla stampa e dalle televisioni. In tutta Europa, un omosessuale su quattro è stato vittima di violenza o di minacce violente, e l’Italia risulta al penultimo posto, prima della sola Bulgaria, dal punto di vista legislativo sul piano dell’equiparazione dei diritti. Ci sono stati in Italia, solo nel 2012, sette omicidi a seguitodi aggressioni omofobiche o transfobiche e numerosi atti di violenza verbale e fisica.

È urgente una legge non solo contro l’omofobia, la paura dei gay, ma contro l’odio verso di essi. Perché l’omofobia, per essere tale, proprio come il razzismo, non richiede necessariamente la violenza fisica. Una legge di civiltà, in nessun modo ideologica, che serva in primo luogo a dire al Paese che la nostra comunità nazionale ripudia ogni forma di odio, incluso quello omofobico e transfobico. Per questi motivi il Partito Democratico ha chiesto con determinazione che la legge venga approvata con urgenza.

La nostra proposta parte dal presupposto che, per contrastare i reati motivati da stigma sessuale, in particolar modo nei confronti delle persone omosessuali e transessuali, sia più efficace, rispetto alla mera introduzione di una circostanza aggravante, prevedere l’estensione dei reati puniti dalla legge Mancino-Reale anche alle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere della vittima.

Per saperne di più: vai allo speciale del gruppo PD alla Camera

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“Ho grande rispetto per i temi etici e per la liberà’ di scelta quando si toccano temi che riguardano le coscienze. Ma una legge che contrasti l’omofobia non c’entra nulla con i temi etici, riguarda il codice penale, e l’introduzione di norme efficaci, che da troppo tempo attendono una approvazione, e’ urgente e non più rinviabile”. Così il ministro per i Rapporti con il parlamento, Dario Franceschini.

“Ci sono tutte le condizioni per una rapida e unanime approvazione del testo che introduce finalmente nel nostro Paese il reato di omofobia. Il lavoro svolto in Commissione Giustizia è stato molto approfondito e costruttivo. Siamo davvero all’ultimo miglio e la Commissione potrà licenziare un testo di grande civiltà che tiene conto di tutte le sensibilità”, hanno dichiarato Walter Verini capogruppo PD in Commissione Giustizia della Camera e Ivan Scalfarotto, relatore del provvedimento.

“Non crediamo, quindi, che siano necessarie moratorie di alcun genere: siamo alla fine e non all’inizio del percorso. Il provvedimento è già calendarizzato in aula per il prossimo 26 luglio, prima la stessa aula approverà il ‘decreto del fare’ e riteniamo che questo traguardo di civiltà possa e debba essere obiettivo condiviso da tutti”.

Omofobia (GD)

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Ecco il testo di Legge – progetto di legge n.245

PROPOSTA DI LEGGE
d’iniziativa dei deputati
SCALFAROTTO, ZAN, TINAGLI, CHIMIENTI, AIELLO, AIRAUDO, ALBERTI, AMENDOLA, AMODDIO, ASCANI, BALDASSARRE, BARONI, BASILIO, BAZOLI, BELLANOVA, BENEDETTI, BENI, BERLINGHIERI, MASSIMILIANO BERNINI, PAOLO BERNINI, MARIASTELLA BIANCHI, NICOLA BIANCHI, BIFFONI, BINDI, BOCCADUTRI, BOCCIA, BONACCORSI, BONAFÈ, BONIFAZI, BONOMO, FRANCO BORDO, MICHELE BORDO, BOSCHI, BOSSA, BRAGA, BRATTI, BRESCIA, BRUGNEROTTO, BUSTO, CAMPANA, CAPOZZOLO, CARBONE, CARIELLO, CARRESCIA, CASO, CASTELLI, CATALANO, CECCONI, CENNI, ANTIMO CESARO, CHAOUKI, CIMBRO, CIVATI, COLLETTI, COLONNESE, COMINELLI, CORDA, COSTANTINO, COZZOLINO, CRIMÌ, CRIPPA, CRIVELLARI, CURRÒ, D’AGOSTINO, D’AMBROSIO, D’OTTAVIO, D’UVA, DA VILLA, DADONE, DAGA, DALL’OSSO, DALLAI, DE MENECH, DE MICHELI, DE ROSA, DECARO, DEL GROSSO, DELL’ORCO, DELLA VALLE, DI BATTISTA, DI BENEDETTO, DI SALVO, MANLIO DI STEFANO, DI VITA, DURANTI, FANUCCI, FARAONE, DANIELE FARINA, CLAUDIO FAVA, FERRARA, FERRARI, FICO, FRAGOMELI, FRATOIANNI, FREGOLENT, FRUSONE, FURNARI, GADDA, GAGNARLI, GALGANO, GALLINELLA, GARAVINI, GASPARINI, GELLI, GIACHETTI, GIANCARLO GIORDANO, GIULIANI, GOZI, GRIBAUDO, GRILLO, LORENZO GUERINI, GUERRA, GUTGELD, CRISTIAN IANNUZZI, KRONBICHLER, L’ABBATE, LABRIOLA, LACQUANITI, LAFORGIA, LAVAGNO, LEONORI, LIUZZI, LOMBARDI, LOREFICE, LOTTI, LUPO, MADIA, MAGORNO, MALISANI, MALPEZZI, MANFREDI, MANNINO, MANTERO, MARTELLI, MARZANA, MARZANO, MATARRELLI, MAURI, MAZZIOTTI DI CELSO, MAZZOLI, MELILLA, MARCO MELONI, META, MICILLO, MIGLIORE, MOGHERINI, MOLEA, MORANI, MORETTI, MOSCA, MOSCATT, MUCCI, NARDELLA, NESCI, NESI, NICCHI, NUTI, OLIARO, ORFINI, PAGLIA, PALAZZOTTO, PALMA, PANNARALE, PARENTELA, PARRINI, PELLEGRINO, PELUFFO, PES, PESCO, PETRAROLI, PIAZZONI, PICCOLI NARDELLI, PICIERNO, PILOZZI, GIUDITTA PINI, PIRAS, PLACIDO, POLLASTRINI, PRODANI, QUARANTA, QUARTAPELLE PROCOPIO, RAGOSTA, RAMPI, REALACCI, RICHETTI, RIZZETTO, RIZZO, ANDREA ROMANO, PAOLO NICOLÒ ROMANO, RUOCCO, SARTI, SCAGLIUSI, SCOTTO, SCUVERA, SENALDI, SERENI, SORIAL, SOTTANELLI, SPADONI, SPESSOTTO, TARTAGLIONE, TENTORI, TERZONI, TIDEI, TOFALO, VACCA, VALERIA VALENTE, VAZIO, VECCHIO, VELO, VENITTELLI, VIGNAROLI, VILLAROSA, VILLECCO CALIPARI, ZACCAGNINI, ZANETTI

Modifiche alla legge 13 ottobre 1975, n. 654, e al decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, per il contrasto dell’omofobia e della transfobia
Presentata il 15 marzo 2013

Onorevoli Colleghi! Sulla scia degli episodi di omofobia e transfobia, che hanno funestato il nostro Paese negli ultimi anni, è diventato ineludibile affrontare un problema che da tempo le associazioni a tutela delle persone lesbiche, omosessuali, bisessuali, transessuali e transgender (LGBTI) denunciano. L’omofobia e la transfobia sono fenomeni non affatto nuovi, ma l’eco mediatica di quanto accaduto di recente ha destato finalmente l’attenzione sociale e della classe politica.

Nella violenza e nella discriminazione di stampo omofobico e transfobico la peculiarità dell’orientamento sessuale della vittima, ovvero l’essere omosessuale oppure l’essere transessuale, così come l’essere donna, per fare un esempio, nella violenza sessuale contro queste ultime, non sono neutrali rispetto al reato, del quale costituiscono il fondamento, la motivazione e, in senso tecnico, il movente, né è neutrale rispetto ad essi l’autore del reato stesso, che si trova in uno stato soggettivo di disprezzo o di odio nei riguardi della vittima.

Si ritiene che, per contrastare i reati motivati da stigma sessuale, in particolar modo nei confronti delle persone omosessuali e transessuali, sia più efficace, rispetto alla mera introduzione di una circostanza aggravante, prevedere l’estensione dei reati puniti dalla legge Mancino-Reale (legge n. 654 del 1975, che ha reso esecutiva la convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, fatta a New York il 7 marzo 1966) anche alle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere della vittima, così come previsto in numerose proposte di legge già presentate in Parlamento nelle precedenti legislature.

Si è sostenuto che l’estensione della legge Mancino-Reale potrebbe condurre alla condanna tanto della mamma che suggerisse alla figlia di non sposare un bisessuale, quanto del padre che decidesse di non affittare una casa di sua proprietà al figlio che volesse andare a vivere nell’immobile con il proprio compagno.

È evidente che in una normale dinamica processuale queste ipotesi di scuola non potranno mai verificarsi per un motivo molto semplice, e cioè che la legge Mancino-Reale si basa su una nozione di discriminazione il cui significato si può trarre sia dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, sia dalla citata convenzione di New York, sia dall’articolo 43, comma 1, del testo unico sull’immigrazione di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998, successivamente meglio puntualizzata nella direttiva 2000/43/CE del Consiglio, recepita con il decreto legislativo n. 215 del 2003, nonché nella direttiva 2000/78/CE del Consiglio, recepita con il decreto legislativo n. 216 del 2003, che fa menzione anche dell’orientamento sessuale.

Il bene giuridico tutelato è quindi ben individuato. In base al principio dell’offensività, che deve caratterizzare la condotta penalmente rilevante e che vincola il giudice nell’interpretare e applicare la legge penale, ai sensi dell’articolo 49, secondo comma, del codice penale, se si verificassero le ipotesi richiamate, le stesse ricadrebbero nell’ambito dei reati impossibili, in quanto la condotta non sarebbe idonea a ledere o a porre in pericolo il bene giuridico protetto.

Inoltre, la fattispecie delittuosa descritta dalla legge Mancino-Reale è molto chiara e precisa, individuando condotte che vanno ben al di là della semplice manifestazione di un’opinione. Infatti, essa punisce l’istigazione a commettere una discriminazione o una violenza, non mere opinioni, quand’anche esse esprimano un pregiudizio. La differenza tra un mero pregiudizio e una reale discriminazione dipenderà ovviamente dalle condizioni di tempo e di luogo, nel corso delle quali si manifesterà il messaggio, dalle modalità di estrinsecazione del pensiero, da precedenti condotte dell’autore, e così via, in modo da verificare se il fatto si possa ritenere realmente offensivo del bene giuridico protetto.

Il testo originario della legge 13 ottobre 1975, n. 654 (cosiddetta «legge Reale»), stabiliva l’applicazione della sanzione penale solo per le discriminazioni e le violenze «nei confronti di persone perché appartenenti ad un gruppo nazionale, etnico o razziale». Con il decreto-legge n. 122 del 1993, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 205 del 1993, cosiddetto «decreto Mancino», venne introdotto il fattore religioso, e successivamente furono introdotte altre fattispecie, fino ad arrivare all’elenco attualmente presente nell’articolo 3 della legge n. 654 del 1975 e nelle leggi speciali che, ad esempio, rendono applicabile l’articolo 3 alle minoranze linguistiche.

La presente proposta di legge si pone due obiettivi: da un lato modificare la misura delle pene previste dall’articolo 3, comma 1, lettere a) e b), della legge 13 ottobre 1975, n. 654; da un altro lato estendere la sua applicazione alle discriminazioni motivate dall’identità sessuale della vittima del reato, come definita, ai fini della legge penale, nell’articolo 1 della presente proposta.

L’articolo 3 della legge n. 654 del 1975, è stato modificato da ultimo dall’articolo 13 della legge 24 febbraio 2006, n. 85, sotto due profili: la descrizione della condotta incriminata e le pene previste.

Nel testo risultante dalle modifiche apportate nel 1993 dal decreto Mancino la disposizione prevedeva, infatti, la reclusione fino a tre anni per chiunque diffondesse in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incitasse a commettere o commettesse atti di discriminazione per motivi razziali, etnici o religiosi. La legge n. 85 del 2006 ha dimezzato la pena della reclusione (ora prevista fino a un anno e sei mesi) e ha introdotto la pena della multa fino a 6.000 euro, in alternativa a quella della reclusione; sotto un altro profilo, la condotta è stata ridefinita modificando il termine «diffusione» con quello di «propaganda» e sostituendo il termine «incitamento» con quello di «istigazione».

La legge n. 85 del 2006, non punendo più la diffusione delle idee discriminanti, ma la propaganda, e non più l’incitamento a discriminare o a delinquere ma l’istigazione, introduce modifiche che potrebbero sembrare solo terminologiche, ma che in realtà dal punto di vista della legge penale introducono fattispecie più circoscritte e riducono il numero dei comportamenti punibili.

Passando all’illustrazione del contenuto della presente proposta di legge, l’articolo 1 definisce ai fini della legge penale l’identità sessuale e le sue componenti, in modo che la norma penale rispetti i princìpi di tassatività e determinatezza. Nella definizione delle componenti dell’identità sessuale sono ricompresi l’identità o i ruoli di genere, nonché i diversi orientamenti sessuali (omosessuale, eterosessuale o bisessuale) così come pacificamente riconosciuti dalla legislazione e dalle scienze psico-sociali, che nulla hanno in comune con comportamenti genericamente afferenti alla sfera sessuale, siano essi leciti o illeciti.

L’articolo 2 reintroduce, in luogo della propaganda, la condotta della diffusione, in qualsiasi modo, delle idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale; prevede nuovamente, sia alla lettera a), sia alla lettera b) del comma 1 dell’articolo 3 della legge n. 654 del 1975, la condotta di incitamento in luogo dell’istigazione (fattispecie più circoscritta), in linea con la citata Convenzione e con lo stesso articolo 3, comma 3, della suddetta legge (il quale incrimina l’associazione a fine di incitamento all’odio razziale).

Le pene previste differiscono per la gravità delle condotte realizzate. In caso di incitamento a commettere o di commissione di atti di discriminazione, è mantenuta l’attuale previsione della reclusione fino a un anno e sei mesi – a tanto ridotta dalla riforma del 2006 – eliminando, tuttavia, l’alternatività con la multa. Analogamente, in caso di incitamento alla violenza o di commissione di atti violenti, non viene modificata la pena prevista, che va da sei mesi a quattro anni.

La scelta di non modificare le pene attualmente previste, anziché inasprirle così com’era nel testo vigente prima della riforma del 2006, si giustifica alla luce delle modifiche alle sanzioni accessorie, come si dirà nell’illustrazione del successivo articolo 4 della proposta di legge. Coerentemente con il principio costituzionale della rieducazione del condannato, cui devono tendere le pene, appare più efficace – in materia di reati d’odio – l’applicazione di sanzioni accessorie, piuttosto che la reclusione.

Ai fattori di discriminazione considerati dall’articolo 3 della legge Mancino-Reale la presente proposta di legge aggiunge l’identità sessuale.

L’articolo 3 coordina le altre disposizioni e le rubriche degli articoli dello stesso decreto-legge n. 122 del 1993 con il contenuto della presente proposta di legge.

L’articolo 4 modifica l’articolo 1 del decreto-legge n. 122 del 1993 disponendo che il tribunale applichi obbligatoriamente – e non solo facoltativamente, come fino ad ora previsto – con la sentenza di condanna, la sanzione accessoria dello svolgimento dell’attività non retribuita a favore della collettività da parte del condannato. Tra i soggetti presso i quali la predetta attività può essere svolta, sono inserite le associazioni che si occupano di tutela delle persone omosessuali, bisessuali e transessuali o transgender. L’attività non retribuita in favore della collettività dovrà essere svolta al termine dell’espiazione della pena detentiva per un periodo da sei mesi a un anno – mentre attualmente, oltre ad essere facoltativa, essa è comminata per un periodo massimo di dodici settimane –, e deve essere determinata dal giudice con modalità tali da non pregiudicare le esigenze lavorative, di studio o di reinserimento sociale del condannato.

L’articolo 5 sostituisce il comma 2 dell’articolo 3 del decreto-legge n. 122 del 1993 specificando che la circostanza aggravante, nel caso di reati commessi per le finalità indicate dal comma 1, deve essere sempre considerata prevalente dal giudice rispetto alle circostanze attenuanti riconoscibili all’imputato. Nel testo attualmente in vigore, tale previsione, è formulata in modo da prevedere che le attenuanti non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto all’aggravante.

PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.
(Definizioni relative all’identità sessuale).

1. Ai fini della legge penale, si intende per:

a) «identità sessuale»: l’insieme, l’interazione o ciascuna delle seguenti componenti: sesso biologico, identità di genere, ruolo di genere e orientamento sessuale;

b) «identità di genere»: la percezione che una persona ha di sé come uomo o donna, anche se non corrispondente al proprio sesso biologico;

c) «ruolo di genere»: qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse all’essere uomo o donna;

d) «orientamento sessuale»: l’attrazione emotiva o sessuale nei confronti di persone dello stesso sesso, di sesso opposto o di entrambi i sessi.

Art. 2.
(Modifiche all’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654).

1. Il comma 1 dell’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente:

«1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, anche ai fini dell’attuazione dell’articolo 4 della convenzione, è punito:

a) con la reclusione fino a un anno e sei mesi chiunque, in qualsiasi modo, diffonde idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali,
religiosi o motivati dall’identità sessuale della vittima;

b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi o motivati dall’identità sessuale della vittima».

2. Al comma 3 dell’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, e successive modificazioni, le parole: «o religiosi» sono sostituite dalle seguenti: «, religiosi o motivati dall’identità sessuale della vittima».

Art. 3.
(Modifiche al decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205).

1. Al titolo del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, le parole: «e religiosa» sono sostituite dalle seguenti: «, religiosa o motivata dall’identità sessuale della vittima».
2. Alla rubrica dell’articolo 1 del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, le parole: «o religiosi» sono sostituite dalle seguenti: «, religiosi o motivati dall’identità sessuale della vittima».
3. Al comma 1 dell’articolo 3 del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) la parola: «finalità» è sostituita dalla seguente: «motivi»;
b) dopo le parole: «o religioso» sono inserite le seguenti: «o relativi all’identità sessuale della vittima».

Art. 4.
(Pena accessoria dell’attività non retribuita in favore della collettività).

1. Dopo l’articolo 1 del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, è inserito il seguente:
«Art. 1-bis. – (Attività non retribuita in favore della collettività). – 1. Con la sentenza di condanna per uno dei reati previsti dall’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, e successive modificazioni, o per uno dei reati previsti dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962, il giudice dispone la pena accessoria dell’obbligo di prestare un’attività non retribuita in favore della collettività per finalità sociali o di pubblica utilità, secondo le modalità stabilite ai sensi del comma 2.
2. L’attività non retribuita in favore della collettività, da svolgersi al termine dell’espiazione della pena detentiva per un periodo da sei mesi a un anno, deve essere determinata dal giudice con modalità tali da non pregiudicare le esigenze lavorative, di studio o di reinserimento sociale del condannato.
3. Possono costituire oggetto dell’attività non retribuita in favore della collettività: la prestazione di attività lavorativa per opere di bonifica e restauro degli edifici danneggiati con scritte, emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui al comma 3 dell’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, e successive modificazioni; lo svolgimento di lavoro in favore di organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, quali quelle operanti nei confronti delle persone disabili, dei tossicodipendenti, degli anziani, degli stranieri extracomunitari o in favore delle associazioni di tutela delle persone omosessuali, bisessuali, transessuali o transgender; la prestazione di lavoro per finalità di protezione civile, di tutela del patrimonio ambientale e culturale e per altre finalità pubbliche;
4. L’attività può essere svolta nell’ambito e in favore di strutture pubbliche o di enti e organizzazioni privati».

2. Entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, con regolamento adottato con decreto del Ministro della giustizia sono determinate le modalità di svolgimento dell’attività non retribuita in favore della collettività, di cui all’articolo 1-bis del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, introdotto dal comma 1 del presente articolo.

3. All’articolo 1 del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, la lettera a) del comma 1-bis e i commi 1-ter, 1-quater, 1-quinquies e 1-sexies sono abrogati.

Art. 5.
(Circostanza aggravante).

1. Il comma 2 dell’articolo 3 del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, è sostituito dal seguente:

«2. La circostanza aggravante prevista dal comma 1 è sempre considerata prevalente sulle ritenute circostanze attenuanti, ai fini del bilanciamento di cui all’articolo 69 del codice penale».

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