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Laura Prati non ce l’ha fatta

“Esprimo a nome di tutto il Partito Democratico, e mio personale, profondo cordoglio per la scomparsa di Laura Prati, sindaco di Cardano al Campo. Una morte avvenuta in circostanze tragiche per un gesto vile ed assurdo, reso ancor più doloroso dal fatto che Laura Prati sia stata colpita nello svolgimento del suo lavoro al servizio della comunità, in quello stesso presidio dove si affrontano e si risolvono i problemi dei cittadini”.
Lo ha dichiarato il segretario nazionale del Pd, Guglielmo Epifani.

“Nella situazione attuale – ha aggiunto – chi ha responsabilità amministrative si assume purtroppo rischi sempre maggiori, in un clima di disagio sociale ed economico crescente.
“Con lei perdiamo una valida e appassionata amministratrice. Il mio pensiero va alla famiglia innanzitutto e a tutta la comunità di Cardano al Campo. A loro esprimo la mia più profonda vicinanza”.

“Una morte assurda, che ci sconvolge. La scomparsa di Laura Prati lascia una ferita insanabile in tutti noi”.
Ha affermato Sergio D’Antoni, presidente forum Pubblica amministrazione del Partito Democratico.

“Nel ricordare la figura di questo sindaco valoroso e coraggioso abbiamo deciso di dedicare a lei l’iniziativa sulla Pubblica amministrazione che si terrà il prossimo 24 luglio. Per ricordare che sono i buoni amministratori come Laura a rendere concreti e fruibili i più importanti diritti della persona e del cittadino. Anche per questo, oggi, diciamo grazie a Laura e ci stringiamo ai suoi cari”.

Laura Prati, sindaco di Cardano al Campo in provincia di Varese, è morta dopo il ferimento a colpi di pistola avvenuto il 2 luglio scorso, per mano di un vigile sospeso dal servizio.
In mattinata il presidente del Consiglio regionale della Lombardia, Raffaele Cattaneo, aveva fatto sapere che il sindaco era in stato di ‘morte cerebrale’.

Le condizioni di Laura Prati ieri si erano aggravate, dopo che il sindaco nei giorni scorsi era stato colpito da una emorragia cerebrale al termine di un intervento chirurgico all’ospedale di Circolo di Varese. Il vicesindaco di Cardano al Campo, Costantino Iametti, anche lui ferito nella sparatoria, e’ stato dimesso dall’ospedale nei giorni scorsi ed è tornato a casa.
I familiari hanno autorizzato la donazione degli organi.

Primo sindaco donna di Cardano Al Campo, Laura Prati è stata eletta nel 2012 con il Pd. Ora tutto il Paese si stringe attorno alle famiglia della donna, 49 anni.

Sposata e madre di due figli, Prati era impegnata da anni nella politica, nell’associazionismo e nei sindacati.
Al suo primo mandato, in passato era stata vice sindaco e assessore alla Cultura nel paese di circa 14mila abitanti vicino all’aeroporto di Malpensa, consigliere provinciale dei Ds e poi del Pd, portando avanti diverse iniziative per i diritti delle donne.

“Apprendo con infinita tristezza che a 20 giorni dal gravissimo attentato, per mano di un criminale, Laura Prati sindaco di Cardano ha dovuto arrendersi pagando un prezzo altissimo per il suo rigore morale e per la determinazione nel far rispettare le leggi. Laura lascia un vuoto incolmabile soprattutto per i suoi cari”.
Lo ha dichiarato Daniele Marantelli, deputato del Pd di Varese.

“Al marito Pinuccio, ai figli Massimo e Alessia un abbraccio affettuoso. Laura Prati lascia un grande vuoto anche nella comunità di Cardano, nella sinistra e nel Partito democratico di Varese. Nell’impegno politico, sindacale, amministrativo, associativo, sempre condotto in modo volontario, ha lasciato segni importanti: moralità, concretezza, cultura di governo, sensibilità verso chi soffre sono sempre stati i valori praticati, da semplice segretaria di sezione, a consigliere provinciale, da sindaco a presidente provinciale del Pd di Varese”.

“L’esempio di questa donna dolce e forte, con cui ho avuto la fortuna di condividere un lungo tratto della mia esperienza politica e personale, non deve andare disperso. Mi auguro sia un esempio soprattutto per i giovani che si avvicinano alla politica. Mi auguro infine che l’autore di questo feroce attentato, che fortunatamente ha risparmiato la vita del vice sindaco Costantino Iametti, paghi il prezzo che deve alla giustizia”.

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“LAURA, IL VOLTO DELLA BUONA POLITICA”, di Susanna Camusso

È difficile parlare di un atto così feroce e folle ed è doloroso ricordare una persona giusta e onesta che per quel gesto è stata uccisa. Ammazzata per vendetta e per rancore, morta per aver compiuto il suo dovere. Laura Prati, primo sindaco donna di Cardano, ci ha lasciato dopo due settimane di agonia.

Questa volta tutto è chiaro. Non ci sono sicari da cercare né motivazioni oscure da indagare. Le ragioni di questa tragedia, nella loro brutalità, sono chiare, evidenti, esplicite. E al tempo stesso pensando a quanto è successo la sensazione è che venga meno il senso, che la ragione ci abbandoni. Nulla può spiegare alla coscienza di noi tutti quel gesto assassino. Laura Prati è stata un sindaco, anzi una sindaca come amava definirsi, stimata e capace. Una dirigente politica decisa e integra. Una militante sindacale apprezzata e amata. Ha compiuto il suo dovere allontanando dal servizio un impiegato infedele e per questo è stata uccisa. Ancora una volta un rappresentante delle istituzioni, un amministratore pubblico viene colpito perché onesto, perché rispettoso delle norme e delle leggi. Era già accaduto a Perugia con conseguenze altrettanto tragiche.

Capita quotidianamente in molti uffici pubblici, fortunatamente senza gravi conseguenze, quando la disperazione, la rabbia o il risentimento si scatenano contro i rappresentati dello Stato, siano essi impiegati o amministratori, da troppo tempo additati a responsabili di ogni ingiustizia e di ogni sopruso. Sappiamo che così non è. L’amministrazione pubblica, nei Comuni più che altrove, è capace di grande professionalità. Sa essere, nonostante le enormi difficoltà che deve affrontare, vicina ai cittadini. Da troppo tempo c’è chi addita l’impiego pubblico come responsabile dei mali del Paese. Lo fa in mala fede per non dover ammettere i propri fallimenti, le proprie carenze, le scelte troppo spesso sbagliate per dolo. E c’è una responsabilità della politica, della cattiva politica. Quella politica che inganna, che rifiuta le norme e le leggi, quella che incita all’odio di volta in volta contro gli immigrati clandestini, gli amministratori, i fannulloni della pubblica amministrazione.

Laura Prati, diversamente da questi, è stata un esempio di buona politica. Lo è stata come amministratrice, come dirigente di partito, come sindacalista della Cgil. Lo è stata come solo le donne sanno esserlo: con l’impegno, la forza, l’onestà, la capacità, il coraggio, la sensibilità e l’affetto di cui solo loro sono capaci .

L’Unità 22.07.13

“La palla al piede del Wi-Fi italiano”, di Juan Carlos De Martin

Il Wi-Fi in Italia sembra affetto da una maledizione. Ogni volta, infatti, che il suo uso sembra sul punto di venir finalmente liberalizzato qualche contraddizione nelle norme, qualche codicillo ignorato, qualche lacciolo ancora vigente salta fuori e si mette di traverso. Ritardando, quindi, il diffondersi in Italia di un’esperienza che all’estero è da anni normale, mentre da noi è ancora rara, ovvero, sedersi in un caffè, una biblioteca o un aeroporto e connettersi direttamente, semplicemente a Internet. Senza compilare moduli più o meno complessi, senza fornire i dati della propria carta di credito, senza doversi iscrivere a servizi di autenticazione. Sembra scontato, ma in Italia non lo è. E non da ieri: sono, infatti, ben otto anni che l’Italia ci tiene a far sapere al mondo che il Wi-Fi – la modalità di accesso a Internet più semplice, più economica, la più disponibile in dispositivi di tutti i tipi – proprio non le garba.

Otto anni inaugurati nel luglio 2005, quando, subito dopo l’attentato di Londra, il governo Italiano fece, emanando il cosiddetto decreto Pisanu, una scelta senza paragoni nel mondo sviluppato, ovvero, impose non solo l’identificazione con documento d’identità di chiunque accedesse a Internet da una postazione pubblica (Wi-Fi o fissa), ma anche la preservazione delle relative tracce della navigazione. Così facendo, veniva, in nome della sicurezza, affibbiata una palla al piede del Wi-Fi italiano precisamente nel momento in cui il Wi-Fi si accingeva a esplodere in tutto il mondo, nelle catene di negozi come nelle biblioteche, nei campus universitari come nei giardini pubblici. In Italia, infatti, il bar o la biblioteca che avesse voluto offrire connettività ai propri utenti doveva non solo dotarsi di connessione a Internet e degli appositi punti di accesso Wi-Fi, ma doveva anche preoccuparsi di identificare in maniera forte ogni singolo utente e di dotarsi di apposito software per l’archiviazione dei relativi dati di navigazione.

Troppo per un paese già poco digitale di suo come l’Italia.

Veniva quindi a mancare il terzo pilastro che, a fianco dell’accesso fisso e del cellulare, altrove è servito e tuttora serve a diffondere Internet, appunto, il Wi-Fi. Lasciando agli italiani in mobilità una sola scelta, ovvero, l’accesso a Internet tramite la rete cellulare, non a caso uno dei pochi ambiti dove gli Italiani primeggiano nel panorama digitale internazionale.

Nel maggio 2010, però, il lancio dell’Agenda Digitale europea aumenta la consapevolezza dell’arretratezza digitale dell’Italia, che secondo un gran numero di indicatori oscilla intorno al 24° posto su 27 paesi. Si rafforzano, quindi, le voci che sottolineano l’assurdità del decreto Pisanu in un paese in così grave ritardo digitale come il nostro.

A fine 2010 parti cruciali del decreto Pisanu non vengono prorogate, aprendo varchi importanti verso la piena liberalizzazione del Wi-Fi in Italia. Ma rimangono ancora alcuni dubbi normativi, sufficienti a spaventare la maggior parte degli esercizi commerciali e la quasi totalità delle pubbliche amministrazioni (con la lodevole eccezione della Regione Piemonte).

E’ da allora, quindi, che si attende un intervento legislativo che spazzi via gli ultimi ostacoli e dia il via libera definitivo al Wi-Fi italiano. Ancora nei giorni scorsi un emendamento al decreto del governo ha riproposto i vecchi ostacoli. Il presidente della commissione Bilancio Francesco Boccia ieri sera ha promesso che le difficoltà saranno superate e l’accesso diventerà finalmente libero. Sarà vero? Oggi lo sapremo.

La Stampa 22.07.13

“Il tempo ti ringiovanisce” e con il compleanno di Grillo ritorna il culto del Capo, di Filippo Ceccarelli

Dieci giorni fa Grillo è andato al Quirinale, in giacca e cravatta, ma poi al Senato si è voluto cambiare, indossando una bella camiciona a scacchi con cui ha tenuto una conferenza stampa. In quel frangente si è notato che nei corridoi l’ex presidente del gruppo 5Stelle, Vito Crimi, recava un prezioso involucro a mano, contenente i panni del Fondatore.
Ieri, genetliaco di Grillo (65 anni), il medesimo, servizievole senatore Crimi ha inteso rendere pubblici i suoi auguri con il seguente tweet: “65 anni fa nacque una persona speciale… che 8 anni fa ha cambiato le nostre vite, che ha dato il LA a una rivoluzione culturale ineluttabile e inarrestabile… Benché la sua età anagrafica cresca, la sua età biologica recupera di anno in anno stando in mezzo alla gente che gli vuol bene. Grazie di cuore Beppe… grazie”.
Ma non è Crimi il soggetto principale di questo testo, che pure per il suo accesso messianismo e per certe problematiche alla Scapagnini su età anagrafica e biologica, rappresenta comunque un rimarchevole documento. Tanto meno è il destinatario Grillo, che pure poteva portarsi i panni da solo, e che oggi vede un evento eminentemente privato proiettarsi in una dimensione pubblica, come accadeva dagli imperatori romani (Giorgio Agamben, Il regno e la gloria, Neri Pozza, 2007) fino ai dittatori nordcoreani.
No. Il punto curioso e anche abbastanza drammatico della faccenda, è che a forza di fare la guerra il M5S sembra condannarsi a diventare non solo subalterno, ma molto simile, al nemico. E quindi proprio a quel potere partitocratico che Grillo e i suoi hanno qualche ragione di combattere. E’ già accaduto nelle ultime settimane con l’ideaccia di sbattere fuori dalle Camere i giornalisti (come voleva D’Alema, tanto per indicarne uno) e poi con la storiella dei fucili che sono pronti a sparare (come già sosteneva Bossi vent’anni orsono).
Ecco, anche stavolta l’invocazione, la lode e il ringraziamento augurali al leader rientra appieno nei codici della Seconda Repubblica. Nella Prima, in effetti — allorché i portaborse non fungevano da portapanni — erano celebrati al massimo i 70 o 80 anni di qualche capo, perloppiù comunista, con soporifere articolesse; per il resto i leader si guardavano bene dal sollecitare festeggiamenti.
E’ negli anni 90, infausto decennio di leaderismo megalomane e inconcludente, che cominciano a diffondersi telegrammi, torte, candeline, gazebi, striscioni, ricevimenti, targhe e altre encomiastiche scempiaggini tra le quali non poteva mancare il tweet, per giunta fitto di allusivi puntini.
In bilico tra regressione infantile, privatizzazione del potere e culto della personalità, è dalla Lega che si trasmette il rito del “Nacque al mondo un Sole” e del “tanti auguri, caro Leader” — né il vedere oggi il povero Bossi solo e abbandonato lascia qualche speranza sul valore propiziatorio di tali cerimonie. Sta di fatto che La Padania riservava intere pagine dei lettori agli auguri. Un anno venne organizzata una specie di crociera lacustre (in quell’occasione Bossi infilò un fazzoletto verde nel taschino del prefetto di Novara).
Ma va detto che anche i leader della sinistra si mostrarono tutt’altro che riservati. A parte una torta prodiana, malauguratamente sormontata dalla scritta “Al Pantani della politica”, e ai festeggiamenti per i 60 anni di D’Alema, che durarono diversi giorni con rimpatriate e
filmati, vale qui rammentare con il dovuto sgomento la “sorpresa” che Rosy Bindi fece trovare a Bersani in un convegno: una sosia di Marilyn Monroe che in suo onore intonò “Happy birthday” eccetera.
Infine Berlusconi (che compie gli anni lo stesso 26 settembre), e a lui, nel 2009, l’Happy birthday lo cantò Barbara D’Urso in tv. Prima c’era stato un pensierino a “Uno Mattina” e nel pomeriggio la festa del Cavaliere era stato fatto coincidere con la consegna delle prime case ai terremotati dell’Aquila. Le telecamere inquadrarono dei cartelli: “Oggi è nato un grande uomo, grazie Silvio”. Vito Crimi era già un attivista 5Stelle. E Casaleggio, per il suo video “Gaia”, si preparava a far coincidere l’avvio, tramite Internet, del nuovo ordine mondiale proprio nel giorno (14 agosto 2054) del suo centesimo compleanno. Stai a vedere che diventerà festa nazionale.

La Repubblica 22.07.13

“Non solo la politica”, di Carlo Galli

Questo non è un governo di larghe intese, né di unità nazionale; e non è neppure un governo dell’inciucio. Non nasce da decisioni alte, né da basse. È un governo nato per fare non «politica», ma «politiche», come ha detto il presidente Enrico Letta il giorno in cui ha ottenuto il voto di fiducia del Parlamento. È figlio quindi tanto del caso, cioè della contingenza – della serie di errori e sconfitte che il Pd ha alle proprie spalle – quanto della necessità, del duro giogo di Ananche. Il Pd governa insieme al Pdl non per amore, né per convenienza, né per calcolo, e neppure per pacificare la nazione; ma per assoluta e radicale mancanza di alternative e per spirito di responsabilità davanti alla nazione: non sono possibili altri governi né altre maggioranze, e neppure nuove elezioni.
Governo non politico e non tecnico (dato il non grande successo del governo di Monti), ma governo della necessità che si sforza di essere di servizio – cioè di servire a qualcosa. Questo è il governo Letta. Il cui peggiore nemico è l’inconcludenza, l’impaludamento, l’ozio che genera ogni vizio: sia i vizi di chi sta al governo, cioè di trovarcisi troppo bene, di compiacersene, ovvero di volere prolungare oltre il lecito questo rapporto contro natura, di tentare di trasformarlo in abitudine; sia i vizi di chi sta in Parlamento, cioè di scaricare sul governo ambizioni e frustrazioni, ansie lecite e illecite, di gravarlo di tutte le incertezze (assai diverse, ma ugualmente destabilizzanti) che attanagliano i due principali partiti che lo sorreggono.
È dall’incontro di questi vizi che possono venire la palude e l’intrigo, l’inerzia e la fibrillazione, che messi insieme producono il cortocircuito fatale: la perfetta impotenza, la piena irrilevanza della politica – che le «politiche» da sole non possono surrogare, mentre accade il contrario: che cioè senza politica anche le politiche sono impossibili -. La sensazione, non solo fra i cittadini che non vanno più a votare, ma anche a livello internazionale, che la politica italiana non serva a nulla. E che ciò che di bene viene all’Italia sia frutto di benevole concessioni dei poteri forti d’oltralpe, e ciò che di male ci capita derivi da giudizi severi di altri poteri (di agenzie di rating, o di spregiudicati Stati stranieri) o da nostra disperata incapacità: e che di conseguenza nulla sia nel potere degli italiani e delle libere istituzioni del nostro Paese.
Vi è qualcosa di sbagliato in questa sindrome da impotenza, in questa voluttà di autolimitazione: nulla di ciò che ci viene di buono dal di fuori è immeritato, possiamo esserne sicuri. Ma vi è anche parecchio di vero e di corretto; la specifica qualità non-politica di questo governo lo fa sembrare paralizzato e privo di reale volontà, incapace di governare nel senso etimologico del termine, cioè di dare una direzione alla vita del Paese che non sia la tenuta dei conti pubblici, baluardo estremo e santo Graal della credibilità e della responsabilità. È proprio in questa evanescenza politica, in questo vuoto di orientamento, che ha la meglio chi urla di più, chi impone con più forza i propri valori non negoziabili – la vicenda dell’Imu ne è un esempio per il Pdl, anche senza rivangare altre recenti ferite simboliche; mentre non risulta un analogo sfoggio di muscolarità da parte del Pd -. È in questo vuoto che la politica diventa davvero irresponsabile. E che – se si vuole dar fede alla narrazione ufficiale, che ha appena avuto la fiducia del Senato – viene bypassata da chi opera in Italia, a qualunque titolo, come un’entità trascurabile. Il caso dell’irresponsabile Alfano è l’emblema del rischio che il governo trasformi, per mancanza di politica, la responsabilità da cui è nato in irresponsabilità.
Dare qualità politica al governo, quindi, è un obiettivo primario; rafforzarne il profilo, impegnarlo in direzioni significative, anche con pochi punti qualificanti, è condizione perché anche le politiche per cui è nato risultino efficaci. Ma accanto a questa inderogabile necessità ce n’è un’altra: che cioè non solo la politica sia impegnata in questa cura ricostituente, ma tutte le élites del Paese, a partire da quelle imprenditoriali fino a quelle intellettuali. Non è pensabile che l’Italia si riformi (nel senso di tornare a prendere forma) solo grazie alla politica; si richiede con urgenza un impegno di più vasto respiro, del Paese e non solo della cosiddetta Casta. La responsabilità è un dovere di tutti, non solo di qualcuno. E la riluttanza oggi non è una comprensibile strategia, ma è un peccato contro lo spirito: è ignavia.

L’Unità 22.07.13

“Il cammino aperto da Mandela. Nella storia come Gandhi”, di Roberto Toscano

Nelson Mandela ci sta lasciando. In un certo senso ci ha già lasciato, con la perdita della coscienza e una sopravvivenza fisica solo permessa dalle moderne tecnologie mediche. Tra poco sarà il momento dei necrologi, che saranno di certo improntati alla celebrazione di una delle poche figure positive del nostro tempo, così carente di eroi e così affollato da personaggi poveri sia di principi che di carisma. La sua è una straordinaria vicenda politica ed umana: la lotta armata contro uno dei più spietati e disumani sistemi politici del XX secolo, l’Apartheid; oltre vent’anni di carcere; la costruzione di un Sudafrica per tutti basato non sulla sconfitta del nemico razzista, ma sul dialogo e l’esclusione della violenza. E tutto questo con uno stile inconfondibile fatto di pazienza e serena fermezza, e soprattutto con una stupefacente mancanza di odio e risentimento nei confronti di chi, oltre a macchiarsi di innumerevoli crimini di lesa umanità, gli avevano rubato oltre due decenni di vita.

Mandela è già nella storia, e non sembra possibile immaginare che un giorno qualcuno possa seriamente confutare la sua immagine di grande, straordinario, unico personaggio. Eppure il suo lungo addio non è solo il momento di celebrare il suo storico trionfo, ma anche di riflettere su quanto di triste, su quanta delusione, emerga dalla sua vicenda sia personale che politica.

La famiglia, in primo luogo. A partire dalla per lui penosa vicenda, ormai molti anni fa, della moglie Winnie, vittima di sconsiderate ambizioni di potere oltre il limite della decenza e della legalità, il comportamento della famiglia di Mandela può solo essere definito come squallido e vergognoso.

Tentativi scoperti di lucrare sulla sua immagine, lotte interne fra figli e nipoti per impadronirsi di una eredità non certo morale, ma volgarmente materiale. Quello che è più triste è che manovre e intrighi sono continuati, anzi si sono accentuati, da quando è risultato evidente che la fine si avvicinava.

Ma la delusione più grande deriva dal Paese. Contro ogni previsione, e soprattutto contro le sprezzanti certezze dei «realisti», l’arrivo al potere della maggioranza nera non ha comportato vendette e stragi di bianchi, e nemmeno la spaccatura del Paese. Con un modello che è poi stato ripreso in altre situazioni di transizione dopo la caduta di un regime repressivo, il Sudafrica di Mandela ha invece proposto di perseguire «Verità e riconciliazione» in alternativa alla sacrosanta ma devastante applicazione della giustizia.

Ma oggi cos’è il Sudafrica? Tassi di disuguaglianza estremi e particolarmente indecenti dati altissimi livelli di corruzione. Una corruzione che caratterizza in particolare il partito di Mandela, quell’African National Congress – Anc, che ha condotto sia la resistenza contro l’Apartheid sia la difficile fase della transizione.
L’uguaglianza teorica di una democrazia pluripartitica e pluralista viene pesantemente smentita da una struttura socio-economica in cui la classe e il denaro battono la razza, nel senso che anche una minoranza di neri è entrata a far parte della élite, del privilegio.

Colpisce non poco registrare le accorate parole di Nadine Gordimer, una grande scrittrice che fin dagli inizi ha appoggiato la lotta contro l’Apartheid ed è stata qualcosa di più che semplice fiancheggiatrice dell’Anc, ma una militante attiva e coraggiosa. E’ infatti desolata la sua constatazione del crollo di tante speranze, e altrettanto desolata è la sua denuncia di una sorta di collasso morale molto più grave delle pur serie difficoltà economiche.

E allora? Si può forse dire che Mandela muore da sconfitto? Certo il Paese che ha sognato nei lunghi anni di detenzione, e ha poi costruito con grande visione politica, è diventato qualcosa di ben diverso, a partire dal presidente attuale, quello spregiudicato e demagogico Zuma che sembra più un’antitesi che non un successore di Mandela.

Ma la sua vittoria e la sua lezione restano, e vanno ben oltre il Sudafrica. La sua vittoria è quella di avere clamorosamente smentito uno dei più radicati luoghi comuni della politica, quello secondo cui solo la forza permette di prevalere, mentre in non violenti sono inevitabilmente sconfitti. E’ vero per il Sudafrica come è stato vero per la Polonia di Solidarnosc, e più recentemente per la caduta di Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto: in tutti questi casi la pacifica protesta di massa ha prodotto risultati che la violenza non poteva certo conseguire.

Ma il paradosso della vittoria/sconfitta di Nelson Mandela non è poi così misterioso, così come non è misterioso in paradosso di quella Primavera Araba che ha conseguito, con la via pacifica, risultati molto concreti, come la caduta di regimi dotati di forti strumenti di repressione e anche capillari meccanismi di cooptazione e consenso.

La non violenza risulta una strategia vincente nel momento in cui la grande maggioranza della popolazione toglie a un regime la legittimazione, e con essa quel minimo di consenso di cui anche i regimi non democratici non possono fare a meno. Una strategia che risulta vincente quando le richieste di libertà e giustizia incompatibili con il mantenimento del potere diventano egemoniche, sia interclassiste che interrazziali, e spesso anche capaci di coinvolgere fedeli di religioni diverse.

Ma quella vittoria è solo l’inizio di un altro cammino. Un cammino che prende certo le mosse da un potente rifiuto, ma deve continuare con un paziente lavoro basato sulla qualità politica e sul rigore morale –
quella qualità politica e rigore morale che spiegano il «miracolo Mandela». I leader, anche i più grandi, non sono eterni. Essi aprono un cammino, indicano una direzione, ma poi dirigenti e cittadini dovranno continuare la loro opera – e purtroppo non è detto che questo avvenga necessariamente.

Ma forse non si può dire lo stesso di Gandhi? Non è possibile mettere in dubbio la straordinaria grandezza di quella che sembrava la sua folle scommessa: sconfiggere il colonialismo inglese e conseguire l’indipendenza dell’India senza violenza. Ma possiamo forse dire che l’India di oggi era quella che Gandhi voleva? Proprio come l’attuale Sudafrica, tristemente, non ha molto a che vedere con il messaggio di Nelson Mandela.

E allora – in Sudafrica come in India, e forse dovremmo dire ovunque – non ci resta che riprendere il senso più profondo del messaggio dei nostri Padri (ad esempio quelli che hanno lanciato il sogno europeo) e continuare sul cammino da loro indicato, con chiarezza politica e soprattutto un sostenuto impegno morale.

No, non è detto che Nelson Mandela muoia sconfitto.

La Stampa 22.07.13

“La rivoluzione. Perchè le primavere non cambiano il mondo”, di Roberto Esposito

Da qualche tempo il mondo è battuto dal vento della rivolta. Non un unico incendio, ma tanti fuochi che si accendono come per contagio reciproco. È una catena cui si aggiunge ogni mese un nuovo anello. Da Rio a Istanbul, da Il Cairo a Damasco, da Atene a Los Angeles, folle sempre più numerose si rovesciano nelle piazze sfidando il potere. Certo, l’entità della ribellione e le sue occasioni di innesco sono differenti. Si va dalla aperta guerra civile in Siria alla protesta contro i rincari dei trasporti in Brasile, dalla lotta al regime islamico in Egitto al rifiuto delle politiche di austerità in Europa e in America. E tuttavia, pur nella profonda diversità dei problemi e dei contesti, qualcosa di comune sembra unire queste piazze ribelli. Se finora si è globalizzata la finanza, oggi a farsi globale appare anche la rivolta. A collegare tra loro tali sommosse è per ora un elemento negativo, vale a dire l’indeterminazione politica, l’inidoneità a costruire istituzioni stabili, la continua reversibilità. A pochi mesi dalla destituzione di Mubarak, le forze armate egiziane hanno deposto il presidente eletto, mentre in Libia si riaccende la lotta tra etnie rivali.
Come mai? Cosa rende queste rivolte costitutivamente fragili, se non contraddittorie? Apparentemente destinate a bruciare nella stessa fiammata che accendono? Nettissima è la distanza dalle rivoluzioni moderne, ma anche dai moti che hanno trasformato in profondo il mondo occidentale tra gli anni Sessanta e Settanta. È vero, anche allora il mutamento socio-antropologico ha prevalso su quello propriamente politico. Ma ciò che adesso manca, rispetto a quegli anni, è la dimensione collettiva, l’intensità progettuale, l’opzione ideologica. Insomma, se non un vero e proprio orientamento, quantomeno un respiro, politico. Almeno allora gli obiettivi polemici erano espliciti, come le richieste — dall’attacco all’imperialismo americano alla rottura di vincoli costrittivi. Anche adesso le insorgenze di piazza, al di là degli eventi contingenti da cui nascono, affondano radici profonde nella globalizzazione dei mercati, nelle insostenibilità delle disuguaglianze, nella mancata diffusione dei diritti fondamentali. Tutti i regimi autoritari abbattuti in Africa, come quelli combattuti in Asia, meritavano e meritano di essere travolti. Così la protesta degli “indignati” è ampiamente giustificata dalla macelleria sociale di misure destinate ad accrescere gli effetti recessivi della crisi. Ma ciò non bilancia la difficoltà a solidificarsi in forme e istituzioni politiche.
Più che a un potere costituente, le attuali rivolte fanno pensare a un potere destituente — capace di minare l’assetto precedente, ma non a crearne uno nuovo. In esse prevale un carattere esistenziale, un bisogno di identità, da parte di gruppi eterogenei che si aggregano e disgregano a seconda degli eventi. Gli obiettivi, piuttosto che definiti anticipatamente, nascono e mutano nel corso stesso delle lotte. Quasi si direbbe che non sono i soggetti a fare le lotte, ma le lotte a fare i soggetti.
Perché? Cosa trattiene le rivolte contemporanee al di qua della soglia di effettività? Cosa conferisce loro una tonalità più soggettiva che oggettiva? Per rispondere a tale domanda bisognerebbe interrogare i mutamenti di fondo che da qualche decennio hanno investito l’antropologia contemporanea. Non parlo soltanto dell’arretramento della politica sotto la spinta congiunta della tecnica e dell’economia, ma dei suoi effetti sulla percezione del tempo, soprattutto da parte delle generazioni più giovani. Ad appannarsi, insieme alla visione politica, è la dimensione del futuro, appiattita e risucchiata dall’urgenza del presente. È come se il tempo si fosse ripiegato su se stesso, impossibilitato a proiettarsi in avanti, bloccato sulla gestione quotidiana di un’emergenza che non lascia respiro. Esso scorre in maniera automatica, senza penetrare lo spazio della vita e l’orizzonte del pensiero. Senza sapersi fare storia. Si può dire che le rivolte in atto abbiano lo stesso fiato corto, condividano lo stesso deficit che combattono, sperimentino la stessa sottrazione del futuro cui si ribellano.
Molte di esse, soprattutto in Africa e in Asia, parlano il linguaggio della libertà. E anche i cortei che sfilano nelle strade europee e americane esprimono comunque un’ansia di liberazione dai parametri insostenibili fissati dalla finanza globale. Ma anche questa passione per la libertà, più che un affetto positivo, o un sentimento produttivo, appare come il rovescio del disciplinamento che da tempo modella le nostre vite attraverso una fitta rete di dispositivi ormai diventati parte di noi. Si pensi alla registrazione sempre più capillare dei nostri dati personali, per non parlare dei meccanismi securitari di controllo che ci sorvegliano come un nuovo Panopticon. La stagione delle rivolte, insomma, appare il residuo non colmato, o il controeffetto, di una generale sottomissione alle potenze anonime che ci governano. Non per nulla per molti analisti questa è, insieme all’età della ribellione, l’età dell’obbedienza, della identificazione con leader, più o meno carismatici, che calamitano un consenso altrimenti incomprensibile. Si vedano in proposito le intuizioni visionarie di Étienne de la Boétie nel suo
Discorso della servitù volontaria e i tanti saggi che hanno assunto ad oggetto l’oscuro, ma saldo, nesso tra il desiderio di libertà e quello di servitù.
Alla base del dominio — ieri dei sovrani assoluti, oggi dei leader populisti o delle banche transnazionali — non c’è né una necessità naturale né una schiacciante sproporzione di forze, ma quel desiderio di uniformità e rifiuto della responsabilità che già Tocqueville rintracciava nelle pieghe della democrazia. Le rivolte che incendiano il mondo, senza riuscire a mutarlo, nascono da questa ambivalente falda psicosociale — dall’accettazione e insieme dal rigetto della servitù. Come sostiene Mario Galzigna in un libro appena edito da Bollati, Rivolte del pensiero. Dopo Foucault, per riaprire il tempo, perché possa toccare terra, e incidere in essa i segni del futuro, la rivolta deve prima insediarsi nelle nostre vite. Ma soprattutto, dopo anni di ripiegamento privato, dobbiamo tornare a coniugare conflitto e politica.

La Repubblica 22.07.13

“Abolizione Imu il Tesoro a caccia di cinque miliardi”, di Roberto Petrini

Il rebus Iva-Imu potrà trovare qualche prima indicazione oggi al ministero del Tesoro nel corso del vertice tra maggioranza e governo. La sortita del ministro Zanonato sull’azzeramento dell’Imu prima casa e il blocco dell’aumento Iva, piace al Pdl ma è temperata dalla cautela di Palazzo Chigi. La sortita di sabato sera del ministro dello Sviluppo Economico Flavio Zanonato, che ha annunciato dagli schermi del Tg1 l’azzeramento in autunno dell’Imu sulla prima casa e il blocco dell’aumento Iva, è stata accolta con freddezza nella maggioranza. Una dichiarazione più vicina alla linea del Pdl che a quella del Pd tanto che gli uomini del centrodestra non hanno perso l’occasione per allinearsi: «Avanti tutta su Imu e Iva», ha annunciato il capogruppo del Pdl Brunetta che ha anche reiterato la proposta di coprire le misure con l’Iva che lo Stato incasserà di più con l’accelerazione dei pagamenti dei debiti alle imprese. «Anche Zanonato ha capito che l’Imu sulla prima casa va cancellata e che l’Iva non può aumentare», ha ironizzato Gasparri.
Ma l’opzione dell’abolizione completa non è data per scontata a Palazzo Chigi da dove i collaboratori del premier, Enrico Letta, sottolineano come l’obiettivo resti quello del «superamento» della forma attuale della tassa, espressione che lascia aperte un po’ tutte le ipotesi da sondare entro la fine di agosto. Più determinazione
c’è invece negli ambienti governativi sull’Iva, anche perché la nota diffusa giovedì dalla cabina di regia indica chiaramente la volontà dell’esecutivo di individuare «coperture» per la sterilizzazione del rincaro. Anche in questo caso entro il 31 agosto.
Il rebus Iva-Imu potrà trovare qualche prima indicazione oggi, quando al ministero del Tesoro si terrà un vertice tra i rappresentanti dei partiti della maggioranza e il governo per una ricognizione su misure da prendere per sciogliere il nodo fiscale e per individuare le relative coperture. E’ proprio quello delle risorse in realtà il tema principale perché un intervento di azzeramento costa 4 miliardi per quest’anno che con lo stop al rincaro Iva arrivano a cinque. Dove trovarli? Il rilancio della spending review, avviato in Parlamento, e i propositi di Saccomanni sulla valorizzazione degli asset pubblici, potrebbero fornire benzina. Ma sul tavolo ci sono anche i due temi portati da Letta nella recente intervista a Ballarò: il risparmio per la spesa per interessi e il maggior gettito dovuto all’Iva dei pagamenti della pubblica amministrazione. Se tuttavia si sceglierà la strada del «superamento», ovvero della sintesi tra le due tesi contrapposte, una delle opzioni che viene maggiormente sponsorizzata nelle ultime ore, almeno tra i ranghi del Pd, è quella tax service che ingloberebbe Imu, Tares e potrebbe
assorbire anche l’addizionale comunale Irpef. Naturalmente l’intervento non potrebbe che essere in tappe successive, data la complessità della materia: la nuova base imponibile sarebbe composta infatti da un mix di rendita catastale, componenti nucleo familiare e metri quadrati. L’altra soluzione è quella dell’innalzamento delle detrazioni da 200 a 600 euro in modo da esentare l’85% dei contribuenti: costa 3,2 miliardi ed è ben vista da Fassina e Brunetta. La terza ipotesi, emersa nel dibattito in Commissione Finanze del Senato, è quella di esentare chi ha un reddito Isee inferiore ai 15 mila euro: in questo modo non pagherebbe il 75% dei contribuenti (costo 2,8 miliardi). Infine, come ha detto il ministro Delrio, allargare il criterio delle case di pregio (quelle che continueranno a pagare) estendendolo ad altre tipologie esentate al momento del rinvio di giugno.
Intanto, potrebbe arrivare a breve, forse prima dell’estate, un decreto congiunto dei ministeri dell’Economia e dello Sviluppo, per favorire la diffusione della moneta elettronica come arma contro l’evasione fiscale. Le misure mirerebbero a ridurre le commissioni per l’utilizzo delle carte di credito, soprattutto per i pagamenti particolarmente bassi, e ad incentivare la diffusione dei pos anche tra i commercianti.

La Repubblica 22.07.13