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Docenti inidonei: tutti d’accordo, ma non si trovano i soldi”, di R.P. da La Tecnica della Scuola

La discussione sulla questione del transito dei docenti inidonei nei ruoli del personale Ata prosegue senza sosta in Parlamento. Finora le prese di posizione a favore della cancellazione delle disposizioni contenute nell’art. 14 del D.L. 95/2012 sono state numerose.
L’ultima si è registrata il 16 luglio in occasione di una seduta congiunta delle Commissioni Cultura e Lavoro della Camera.
Le 4 mozioni presentate dal M5S, dal PD, dal PdL e da SeL sono state discusse insieme, nel tentativo di giungere ad un documento unitario condiviso da tutte le forze politiche.
Per il Governo è intervenuto il sottosegretario Marco Rossi Doria che ha ripercorso l’intera vicenda e ha fornito i dati richiesti nella seduta precedente da diversi deputati.
La sensazione però è che si stia facendo “melina” perché a conti fatti i numeri sono più o meno sempre gli stessi da un anno a questa parte.
Il punto di tutta la questione è, come sempre, di natura finanziaria e Rossi Doria ha confermato che la copertura necessaria è esattamente quella già indicata dal sottosegretario Toccafondi durante un suo intervento alla Commissione Cultura del Senato: 114,31 milioni per il 2013, 110,09 milioni per il 2014, 105,86 milioni per il 2015, 101,63 milioni per il 2016 e 97,41 milioni a decorrere dal 2017.
Lo stesso Rossi Doria ha concluso il proprio intervento auspicando che il Governo adotti quanto prima ”tutte le iniziative, anche di carattere normativo, volte ad individuare le migliori soluzioni per l’utilizzo e la valorizzazione del personale docente dichiarato inidoneo”.
Resta il fatto che per ora, come ha sottolineato Gianni Melilla (SEL), siamo sempre fermi alla dichiarazioni di intenti mentre sarebbe il caso che il Governo assumesse finalmente una posizione chiara spiegando in che modo intenda individuare la copertura finanziaria per risolvere il problema.

La Tecnica della Scuola 18.07.13

“Un argine alla povertà”, di Chiara Saraceno

Per il secondo anno consecutivo, e in modo più accentuato, è aumentata sia la povertà relativa (cioè in riferimento al tenore di vita medio, per altro diminuito nel 2012 rispetto all’anno precedente) sia quella assoluta, che riguarda l’impossibilità di acquistare un paniere di beni essenziali. In entrambi i casi, il peggioramento riguarda tutte le aree territoriali (anche se nel Mezzogiorno l’incidenza della povertà relativa è oltre tre volte quella del Centro-Nord e quella assoluta quasi doppia) e quasi tutti i tipi di famiglie: le più giovani e le meno giovani, quelle più numerose e quelle più piccole, quelle in cui nessun adulto è occupato ma anche, in minor misura, quelle con occupati, le famiglie di operai e, in minor misura, quelle di impiegati. La disoccupazione ha ridotto il numero di percettori di reddito in famiglia, la riduzione dell’orario di lavoro e la cassa integrazione hanno ridotto il reddito degli occupati. Sono soprattutto le famiglie relativamente giovani e con figli minori quelle che hanno visto peggiorare maggiormente la propria situazione. Si trova in condizione di povertà assoluta, cioè non in grado di alimentarsi adeguatamente e di far fronte alle necessarie spese per l’abitazione, il 17,1% delle famiglie con tre o più figli minori (oltre il 6% in più dell’anno precedente), e il 10% (quasi il doppio dell’anno precedente) di quelle con due. Le percentuali sono più alte – rispettivamente 28,5 e 20,1 per cento – nel caso della povertà relativa. I minori e le loro famiglie si confermano così i soggetti più vulnerabili alla povertà nel nostro Paese. I minori in condizione di povertà assoluta sono un
milione e 58 mila, un quarto di tutte le persone in queste condizioni. Un dato impressionante in un Paese in cui periodicamente ci si lamenta per la bassa fecondità e ci si preoccupa, giustamente, dei Neet, dei giovani che non sono né a scuola né al lavoro, ma poco o nulla si fa per evitare che un’ampia porzione dei bambini che ci sono cresca in condizioni materiali inadeguate. La vulnerabilità dei minori è particolarmente alta se abitano nel Mezzogiorno e se nessun adulto in famiglia è occupato. Quasi la metà di tutti coloro che sono in condizioni di povertà assoluta, infatti, vive nel Mezzogiorno, dove è anche più alta l’incidenza di famiglie in cui nessuno è occupato o ritirato dal lavoro. Tra queste ultime, a livello nazionale si trova in povertà assoluta il 30,8% delle famiglie (l’8,5% in più rispetto all’anno prima). La mancanza di occupazione, e il suo prolungarsi senza speranza, sta diventando un disastro antropologico, che allarga le sue conseguenze dagli individui alle famiglie, dagli adulti ai più piccoli.
Solo per gli anziani che vivono da soli l’incidenza della povertà assoluta non è aumentata e quella della povertà relativa è diminuita un po’ (per effetto del peggioramento complessivo del restante della popolazione). È probabilmente l’effetto positivo del mantenimento dell’indicizzazione per le pensioni più basse. Stante l’elevato numero di coloro che – come segnalato ieri dal rapporto annuale Inps – hanno una pensione attorno, o inferiore, ai 500 euro, esso non è stato tuttavia sufficiente a ridurre la povertà degli anziani che vivono con altri e la cui pensione è talvolta l’unico reddito sicuro in famiglia.
A parte le pensioni, ci si può interrogare sull’adeguatezza degli ammortizzatori sociali messi in campo. Sempre il rapporto Inps ha evidenziato che la spesa per il sostegno al reddito non è piccola: oltre 22 miliardi nel 2012, di cui sei per la sola cassa integrazione, il resto per indennità di disoccupazione e mobilità, invalidità civile, contributi figurativi e simili. Sicuramente queste misure di sostegno hanno impedito a molte famiglie di cadere in povertà assoluta. Ma, a fronte dell’aumento di quest’ultima e delle caratteristiche di chi la sperimenta, non ci si può esimere dal riflettere sui costi sociali della mancanza, nel nostro Paese, di due strumenti che in altri si sono rivelati piuttosto efficaci nel contrastare gli effetti più negativi della povertà. Il primo è l’assegno per i figli, che aiuti chi ha figli a sostenerne il costo, perciò impedendo che la scelta individuale di investire sul futuro si traduca in povertà per sé e per i propri figli. Il secondo è un reddito di garanzia per chi si trova, appunto, in povertà, integrato da misure di inclusione e attivazione. L’Italia è uno dei pochi Paesi europei occidentali a non avere né l’uno né l’altro strumento, affidandosi invece a misure frammentate e categoriali, che, mentre lasciano molti, di solito i più deboli, scoperti, talvolta beneficiano chi invece non ne avrebbe bisogno. Sarebbe opportuno che la presa d’atto dell’emergenza sociale evidenziata dai dati sulla povertà sollecitasse in tutti la necessità di una revisione della spesa per il sostegno al reddito, in direzione di una maggiore
equità ed efficacia.

La Repubblica 18.07.13

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Poveri 9,5 milioni d’italiani disoccupazione verso il 13%, di ELENA POLIDORI

Recessione, disoccupazione e povertà: quest’anno la crisi si fa sempre più marcata. E dunque, la Banca d’Italia rivede al ribasso le previsioni del Pil 2013, fino a meno 1,9%, quasi il doppio rispetto alle stime precedenti. La disoccupazione è destinata a balzare al 13% nel 2014, un punto in più. l’Istat calcola in 9,5 milioni i poveri «relativi» in Italia, il 15,8% della popolazione. Di questi, 4,8 milioni, circa l’8%, non riesce a vivere una vita dignitosa, non avendo neppure i soldi per i beni essenziali: è un record dal 2005.
Ci aspetta un anno durissimo, perciò, come certificano anche Fmi e Ocse. Poi, piano piano, arriverà una tenue ripresa e l’economia tornerà a crescere «a ritmi moderati», dello 0,7%. Gli esperti del governatore Ignazio Visco elencano però una serie di «rischi al ribasso» legati a diversi fattori: le prospettive dell’economia globale, le condizioni di liquidità delle imprese e dell’offerta di credito. Ma attenzione: sui tempi e l’intensità della ripresa grava anche il pericolo di aumenti degli spread sui titoli di Stato. Di sicuro il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione, se ben attuato, potrebbe dare una scossa all’economia con un effetto positivo sul Pil dello 0,5% nel 2014 e di 0,1 già quest’anno. Non sono previsti invece contraccolpi negativi sui conti pubblici: l’indebitamento resta stabile.
Luci ed ombre, mentre la recessione falcidia i posti di lavoro, scende il reddito disponibile delle famiglie, calano i consumi (-2,3% quest’anno) e aumentano i poveri. L’Istat fotografa una Italia sempre più in difficoltà, che non riesce ad arrivare alla fine del mese: nel 2011 gli indigenti in termini relativi (coloro la cui spesa per consumi è inferiore alla linea di povertà) erano il 13,6% della popolazione, i più poveri tra i poveri il 5,7%. Nel 2012 questi due valori sono aumentati rispettivamente fino al 15,8% e all’8%. Quasi la metà dei più poveri (2,3 milioni) vive al Sud. L’incidenza della povertà relativa tra le famiglie raggiunge il 29,6% in Sicilia, il 28,2% in Puglia e il 27,4% in Calabria. I valori più bassi vengono registrati invece Trento (4,4%), Emilia Romagna (5,1%) e Veneto (5,8%). I più colpiti sono i giovani e i nuclei familiari numerosi, gli operai e i disoccupati. Ma il fenomeno è in aumento anche tra anche tra gli impiegati e i dirigenti (dall’1,3 al 2,6%).
L’Istat indaga il 2012, la Banca d’Italia guarda all’oggi e al futuro prossimo. In sintesi: le condizioni del mercato del lavoro, che tipicamente reagiscono con ritardo alla dinamica dell’attività produttiva, è previsto che continuino a deteriorarsi, soprattutto per i giovani, nonostante i recenti provvedimenti del governo: una timida ripresa è prevista solo nella seconda metà del 2014. Anche i consumi delle famiglie andranno un po’ giù pure nel 2014: solo meno 0,1%, dopo la caduta del 2,3% prevista per il 2013. Il costo del credito per le imprese italiane non calerà né quest’anno né il prossimo. L’inflazione resterà sotto controllo nel biennio anche con l’ipotizzato aumento dell’Iva. In compenso, dopo tre cali consecutivi, la produzione industriale ha registrato «un modesto aumento in maggio» e «anche in giugno». L’attività economica è prevista stabilizzarsi già alla fine di quest’anno, prima della mini-ripresa del 2014 e al netto della serie di rischi che si profila all’orizzonte, spread in testa. Bisogna non mollare sul rigore. Al governo, il Bollettino lancia un messaggio che suona così: «Il conseguimento degli obiettivi di consolidamento dei conti pubblici è condizione necessaria per contenere i premi di rischio». E più avanti: «Occorre altresì evitare che questi risentano negativamente di incertezze sul quadro interno». Un aumento degli spread si ripercuoterebbe sulla provvista delle banche e quindi su disponibilità e costi del credito a imprese e famiglie.

La Repubblica 18.07.13

“Padova in testa, bene il Nord. I voti del ministero agli atenei”, di Giovanni Caprara

I risultati faranno discutere ma finalmente il nostro mondo della ricerca nelle università e nei maggiori enti è riuscito ad accettare l’idea di farsi esaminare. «È una piccola rivoluzione» ha ammesso il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Maria Chiara Carrozza. Ed è vero, perché l’ultima valutazione, compiuta una decina d’anni fa, non era molto credibile chiedendo da allora una seria indagine. I risultati presentati sono sorprendenti e inaspettati per molti versi.
La classifica che valuta la produttività della ricerca tra il 2004 e il 2010, cioè la somma dei risultati ottenuti in 14 aree dello scibile da parte delle grandi università, ha posto in vetta Padova seguita nei primi cinque posti da Milano-Bicocca, Verona, Bologna e Pavia. Atenei come l’Università Statale milanese o la Sapienza di Roma scivolano la prima al 10° posto e la seconda addirittura al 22°. Prima di queste troviamo città come Modena, Chieti, Udine, Siena, Parma, Perugia e Salerno.
Anche se guardiamo la valutazione comprendente tutti i sette parametri considerati (dall’attrazione delle risorse all’internazionalizzazione) e quindi non solo i valori scientifici, le prime cinque sono Padova, Politecnico di Milano, Milano-Bicocca, Siena e Verona. Quindi, a parte l’inserimento del Politecnico milanese al secondo posto, prevalgono ancora le località decentrate. Accanto al gruppo delle grandi, la ricerca universitaria ha considerato pure le medie e piccole università. E qui nelle prime troviamo Trento, Bolzano, Ferrara, Milano San Raffaele, Piemonte Orientale e Venezia Ca’ Foscari e nelle seconde Pisa Sant’Anna, Pisa Normale, Roma Luiss, Trieste Sissa e Roma Biomedico.
Il panorama generale mostra una rivincita dei centri periferici rispetto ai grandi capoluoghi dove, però, emerge una realtà accademica a cui guardare con occhi diversi. Se, infatti, scorriamo le classifiche delle 14 aree tematiche analizzate vediamo conclusioni differenti e anche qui c’è qualche sorpresa. Roma La Sapienza, ad esempio, è al top per le scienze matematiche e informatiche, Bologna per la chimica, la Statale di Milano nelle scienze agrarie e veterinarie, il Politecnico milanese è primo nell’ingegneria civile e secondo nell’ingegneria industriale, mentre Venezia presidia l’architettura e le scienze dell’antichità, filologico-letterarie assieme, di nuovo, alla Statale di Milano. Firenze brilla per le scienze giuridiche mentre per economia e statistica guida la Bocconi.
All’allargando l’orizzonte ai centri di ricerca, interessanti sono le posizioni di alcuni enti. Il Laboratorio europeo di spettroscopia non lineare di Firenze ha ottenuto una valutazione massima nell’area delle scienze fisiche, seguito dall’Istituto Italiano di tecnologia (Iit) di Genova e dall’Istituto nazionale di fisica nucleare. Nella chimica troviamo la Fondazione E. Mach di San Michele all’Adige di Trento, e ancora l’Iit il quale, governato da Roberto Cingolani, è al primo posto per la biologia rivelando, quindi, una notevole crescita di capacità e produttività in campi diversi.
Il lavoro dell’Anvur, l’agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca diretta da Stefano Fantoni, ha riguardato 184.878 prodotti, e l’analisi è stata compiuta da 14.770 revisori, un terzo dei quali straniero. «Con questo risultato entriamo in Europa e possiamo confrontarci alla pari — ha ribadito il ministro Carrozza —. Ogni opera è migliorabile ma i nostri scienziati hanno dimostrato responsabilità. La valutazione non è solo una fotografia della situazione ma consente alle università e agli enti di programmare meglio il futuro e a famiglie e studenti di compiere scelte più adeguate. L’operazione, inoltre, aiuterà il riordino degli enti ma soprattutto a far valere il merito e la distribuzione delle risorse. Infatti i 540 milioni del fondo premiale previsto per il 2013 saranno distribuiti secondo le indicazioni emerse dalla valutazione». E con una frecciata finale aggiunge: «Altri ministeri dovrebbero fare altrettanto».
È sperabile che l’importante passo compiuto aiuti a recuperare il pesante divario scaturito altrettanto nella ricerca tra il Nord e il Sud e a risollevare il maggior ente italiano, il Consiglio Nazionale delle Ricerche, emerso come il grande bocciato.

Il Corriere della Sera 17.07.13

Riparte il futuro: all’unanimità la modifica dell’articolo 416 ter del Codice penale sul voto di scambio politico-mafioso

Ciao Manuela,
il primo grande passo è stato fatto: grazie a te e agli altri 273.000 firmatari di Riparte il futuro la Camera ha approvato ieri pomeriggio all’unanimità la modifica dell’articolo 416 ter del Codice penale sul voto di scambio politico-mafioso, una riforma importante che doterebbe l’Italia di una norma moderna più incisiva e in linea con gli standard europei.

Raramente succede che un’iniziativa proveniente dalla società civile venga presa in considerazione in tempi così rapidi dalla politica. Ed è ancora più raro che la Camera si esprima così chiaramente per estendere l’applicabilità di una legge. Si tratta di un risultato straordinario che abbiamo ottenuto grazie al tuo apoggio e a quello di migliaia di cittadini che come te vogliono fare la differenza contro la corruzione.

Non è finita, però: il nuovo testo dovrà passare al vaglio del Senato. È urgente che questo passaggio avvenga in tempi rapidi, il prima possibile, sicuramente prima della fine dell’estate. Non possimo rischiare infatti che nell’attuale clima di instabilità politica tutti gli sforzi fatti fin ora si vanifichino ad un passo dalla vittoria.

Dobbiamo portare la legge in Senato e il ruolo del Presidente è molto importante per questo passaggio. Firma ora l’appello al Presidente del Senato Pietro Grasso per chiedere di calendarizzare subito la legge.

Vai all’appello: http://www.riparteilfuturo.it/pietro-grasso/

Insieme, possiamo riuscire a far ripartire il futuro del Paese. Senza corruzione.

“La delusione del Cnr. Il gigante delle provette al di sotto della media”, di Giovanni Caprara

Il grande malato uscito dalla valutazione dell’Anvur è, purtroppo, il Consiglio nazionale delle ricerche, il maggior ente italiano. Nelle classifiche quasi non appare, se non sporadicamente e dietro ad altri, come nelle scienze della Terra o nelle scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche. «Il lavoro compiuto dall’Anvur è indispensabile e prezioso ma ritengo che il decreto istitutivo della valutazione vada rivisto perché i suoi criteri penalizzano il Cnr», afferma il suo presidente Luigi Nicolais, illustre ricercatore ed ex ministro delle tecnologie e dell’innovazione.
«Il Cnr tende all’interdisciplinarità — aggiunge Nicolais — e ciò rende difficile la considerazione con l’attuale sistema. Inoltre le nostre ricerche hanno vari autori e quindi i prodotti escono numericamente inferiori, ma soprattutto la metà dell’attività del Cnr è rivolta alla valorizzazione della ricerca cercando il trasferimento alle aziende. E questo pone in una condizione diversa la nostra produttività rispetto, ad esempio, a quella dell’Istituto nazionale di fisica nucleare che si occupa solo di ricerca pura. Non si possono mischiare insieme mele e pere. Il Paese ha bisogno di innovazioni ed è quello che cerchiamo di favorire. La valutazione è un passo avanti ma ci sono punti negativi da eliminare. Io stesso sono rimasto male».
«Le regole erano uguali per tutti — ribadisce Stefano Fantoni, presidente dell’Anvur —. I prodotti mancanti hanno penalizzato il Cnr ma anche in altri enti si sono considerate le iniziative come i trasferimenti di tecnologia alle industrie». «Il Cnr deve riprendere il suo cammino — nota Silvio Garattini, direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano —. Il Paese ha bisogno del grande ente capace di fare da riferimento. Ma penso che varie siano le ragioni che lo hanno danneggiato, a partire dai pochi fondi garantiti che impediscono di fare ricerca, di innovare le attrezzature e di assumere gente giovane».
«Credo sia stato un errore di metodo all’interno del Cnr — nota Stefano Cingolani, direttore dell’Iit genovese — a mio avviso doveva essere compiuta una valutazione per istituto e il risultato sarebbe stato diverso. È un peccato perché ci sono ricercatori eccellenti e Luigi Nicolais è persona di grande competenza nella ricerca e nella sua gestione».
Il ministro Maria Chiara Carrozza ha messo in evidenza come uno dei punti deboli usciti dalla valutazione sia proprio il rapporto tra Università, enti di ricerca e industrie, indicandolo, quindi, come una via sulla quale lavorare più seriamente. Ma questo è un male antico di cui non si è mai guariti nonostante i tentativi compiuti a partire dagli anni Settanta con i progetti finalizzati del Cnr.
«La ricerca è debole nel nostro sistema — ammette Ivan Lo Bello, vicepresidente per l’Education in Confindustria —. Però la questione è da considerare con dei distinguo. Abbiamo certamente molte piccole e medie aziende che non hanno risorse da dedicare alla ricerca e non hanno rapporti col Cnr o le università. Ma ce ne sono altre, in particolare le grandi società, che investono cifre rilevanti al pari dei concorrenti stranieri e mantengono legami con il mondo della ricerca pubblica. Comunque, questo problema storico negli ultimi tempi mostra una dinamica ben diversa dalle considerazioni che possono emergere dalla valutazione fermata a tre anni fa. Con lo stesso presidente del Cnr Nicolais abbiamo avviato preziose iniziative che daranno frutti utili nei prossimi anni».
Nella valutazione che ha riguardato la maggior parte delle attività nazionali non sono stati inclusi alcuni importanti centri come l’Istituto Mario Negri e l’Ifom per la ricerca oncologica, entrambi di Milano. «La prossima valutazione si effettuerà fra cinque anni» ha precisato Fantoni. Forse per allora il panorama sarà completo.

Il Corriere della Sera 17.07.13

“E ancora resiste il culto della razza”, di Tahar Bel Jelloun

Potrei scrivere direttamente al signor Roberto Calderoli per dirgli quanto si è sbagliato; ma dato il mio attaccamento e la mia amicizia per l’Italia e il suo popolo, preferisco rivolgermi a tutti, anche perché l’informazione che ho da dare riguarda ognuno di noi: le razze non esistono. Non si tratta di uno scoop ma di una realtà evidente. Non esiste una razza bianca, e neppure nera o gialla. Siamo tutti quanti simili e diversi. Il termine «razza», se usato per gli umani, è improprio. Ha un significato se riferito agli animali, così diversi tra loro; ma applicato all’uomo rappresenta un errore, sia sul piano ontologico che su quelli genetico e biologico. I cani possono essere di razze diverse. Non così gli umani. Perciò, ignorarlo vuol dire trattare l’uomo come un animale. Proprio questo è accaduto nel caso delle aggressioni contro la ministra dell’integrazione Cécile Kyenge. Ciò che definisce un essere umano sono i suoi geni, il suo Dna, non il colore della sua pelle. Nessun comportamento psicologico o politico può essere ascritto a un dato esteriore, o in altri termini, all’aspetto fisico di una persona. A definirci sono le nostre qualità, le nostre capacità, la nostra volontà, la nostra fedeltà o infedeltà ai valori fondamentali che sono alla base di ogni civiltà. Che importa il colore della pelle? Che ruolo può mai avere nel mio giudizio, nella mia percezione della realtà?
Razzista è chi crede che nel genere umano esistano diverse razze: ma ciò è scientificamente falso. Apparteniamo tutti a una sola ed unica razza: la razza umana, che comprende i sette miliardi di abitanti del nostro pianeta.
Di fatto, le dichiarazioni di taluni leader della Lega Nord, come ed esempio quelle del deputato europeo Mario Borghezio, sono soltanto insulti che rivelano sentimenti di odio e disprezzo verso chiunque, uomo o donna, non faccia parte del suo schieramento politico. In Francia abbiamo sentito profferire ingiurie razziste di questo tipo da esponenti dell’estrema destra, poi condannati dalla giustizia. Ma nel caso italiano, da alcuni anni vediamo emergere un’ideologia tendente a diffondere pregiudizi sugli immigrati la cui pelle non è di un bianco smagliante. Si ricade così in una vecchia abitudine: quella di confondere il buono col bello, e di assimilare il bianco a tutto ciò che è giusto – mentre per converso il non bianco è identificato col male.
Alcuni decenni fa, quando nel Sudafrica regnava ancora il regime dell’apartheid, un individuo (di pelle bianca) giustificò la discriminazione nei confronti dei neri dicendo: «A noi non piacciono perché hanno lo stesso colore dei nostri escrementi».
Questo riferimento a ciò che viene espulso è inconsciamente presente nella mentalità e negli atteggiamenti del razzista «di base».
Come sappiamo, insulti razzisti sono risuonati anche negli stadi, contro i calciatori di colore; e qualcuno ha imitato i versi delle scimmie. Il signor Borghezio ha parlato di «bonga bonga». Ma prima di lui, un presidente del consiglio aveva descritto Barack Obama come un uomo «abbronzato».
Ultimamente lo Stato francese ha trovato infine il coraggio di radiare dalla sua Costituzione la parola «razza». Certo, non basta questo a cancellare il razzismo; ma è già un passo in avanti, per tagliare l’erba sotto i piedi dei razzisti.
La stupidità del razzismo si combatte con l’educazione e l’istruzione, smantellando i pregiudizi. Una volta affermato e dimostrato che le razze non esistono, diventa più difficile trovare una pseudo-giustificazione alle discriminazioni basate sul colore della pelle. D’ora in poi i razzisti dovranno cercare altrove di che alimentare la loro stupidità e il loro squallore. Perché non rispettando gli altri, il razzista manca di rispetto a se stesso. È un disgraziato, a disagio nella sua pelle, e quindi bisognoso di rassicurazioni. In tempi di crisi, per forza di cose il razzismo diventa più virulento.
Traduzione di Elisabetta Horvat

La Repubblica 17.07.13

“L’odore marcio del compromesso”, di Barbara Spinelli

Siamo talmente abituati a considerare l’Italia un paese diverso, più sguaiato e uso all’illegalità di altre democrazie, che nella diversità ci siamo installati, e non chiediamo più il perché ma solo il come. Il perché conta invece, è la domanda essenziale se vogliamo capire chi siamo: non una nazione che fa delle leggi le proprie mura di cinta ma un paese immerso nell’anomia, nell’assenza di leggi scritte o non scritte.
Di conseguenza, un paese a disposizione. Gli storici forse, o gli antropologi, potrebbero rispondere. Perché siamo una terra dove ben due volte, nell’ultimo decennio, sono stati sequestrati cittadini stranieri con regolari passaporti e deportati con spettacolare violenza nei paesi da cui erano fuggiti per scampare alle torture o alla morte. Il 17 febbraio 2003 fu il caso dell’imam di Milano, Abu Omar; oggi è toccato a Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov (anche ricercato per frode), e alla figlia di 6 anni Alua: in ambedue le occasioni lo Stato si è inchinato a mafiosi diktat di potenze straniere, sperando che l’affare non venisse mai a galla.
Perché siamo sempre in stato di emergenza, di necessità, sempre in mano a governanti che hanno l’impudenza di dire che non sanno quel che fanno, che sono stati aggirati da poteri interni o esterni incontrollati. Perché la fine della guerra fredda non ci ha resi più liberi di fare un’altra politica ma ci ha ancora più seppelliti nella necessità, imbarbarendoci al punto che un vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, può paragonare il ministro di colore Cécile Kyenge a un orango, senza subito decadere dalla carica che ricopre. Anche questo è anomia: tutto è permesso ai potenti, quando non hanno nulla da temere.
Siamo abituati a ingoiare ogni misfatto e a ridacchiare di noi stessi: dei politici che ignorano le proprie azioni, di Calderoli che fa la sua «simpatica battuta», del poliziotto che grida alla Shalabayeva battute analoghe («puttana russa»). L’aggettivo simpatico dilaga nel nostro parlare: Thomas Mann se ne accorse e inorridì, descrivendo l’alba del fascismo nella novella Mario e il Mago. Anche il sequestro di Alma e Alua è orrido. C’è qualcosa di radicalmente marcio in Italia, se davvero crediamo che un’operazione così vasta (40 uomini della pubblica sicurezza mobilitati per l’assalto) sia nata nelle menti di una polizia del tutto sconnessa dal potere politico.
Nella sua inchiesta sulla deportazione di Alma e Alua, Carlo Bonini ricostruisce su Repubblica una storia torbida, che comincia al ministero dell’Interno con un vertice segreto, la mattina del blitz, tra l’ambasciatore kazako Yelemessov, il suo primo consigliere, e il capogabinetto di Alfano, Giuseppe Procaccini. Qui si concorda l’enorme operazione, e la sua natura violenta. Chi legge l’inchiesta non potrà sottrarsi a sgradevoli reminiscenze: in quelle stesse stanze del Viminale Borsellino, convocato d’urgenza mentre interrogava il pentito Gaspare Mutolo sui patti Stato-mafia, sentì quel che a suo parere aveva precipitato l’assassinio di Falcone, e che 18 giorni dopo avrebbe ucciso anche lui: il «puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità».
L’assenza tragica del «fresco profumo della libertà». In quelle stanze non trovò solo il nuovo ministro Mancino. Trovò Contrada, uomo dei Servizi di cui subito intuì la mafiosità.
Quel puzzo di compromesso morale permane. Non abbiamo magari tutte le prove ma lo sappiamo: la democrazia italiana è incompiuta. Essendo a disposizione, il suo Stato si fa dispositivo, piattaforma che serve da punto d’appoggio per manovre utili a altri. Il dispositivo intrappola perfino ministri onesti come Emma Bonino, che seppe subito dell’avvenuto sequestro e forse tentò rimedi: ma troppo tardi, troppo in segreto. Ancora una volta Berlusconi è coinvolto, non direttamente come nel caso Abu Omar ma tramite Alfano.
In uno Stato-piattaforma è ineluttabile il patteggiare sotterraneo con poteri esterni o occulti. La democrazia degenera in finzione, i ministri scaricano le colpe
sulla polizia, o i Servizi, o i capigabinetto. «Non sapevamo », ripetono: in italiano si chiama omertà.
Invece di Alfano s’è dimesso il capogabinetto Procaccini: in stato di necessità i governi non hanno da cadere. Resta che non basta un gesto, per emendare la democrazia a bassa intensità che siamo diventati. Per riattivare gli anticorpi che ci sveleniscano, e che pure esistono: la Costituzione, i magistrati, i parlamentari liberi, l’informazione indipendente. Non a caso la destra berlusconiana si scatena da anni contro di loro. Li accusa di eversione: non della democrazia, ma dello Stato-dispositivo che domina i cittadini e li depotenzia.
Per questo sono state così importanti, nel 2010, le rivelazioni di Wikileaks sulla deportazione di Abu Omar in Egitto, dove poi fu torturato e spezzato. Grazie a loro fu scoperchiata la completa identità di vedute fra
Berlusconi e il governo Usa, sull’indipendenza dei giudici italiani. In un cablogramma confidenziale del 2005, gli americani si lamentano dei nostri magistrati. «Sono ferocemente indipendenti. Non rispondono ad alcuna autorità governativa, neanche al ministro della Giustizia. È quasi impossibile dissuaderli dall’agire come vogliono»: cioè dal chiedere l’estradizione degli agenti Cia implicati del sequestro dell’imam.
Sotto accusa a quei tempi era Armando Spataro, il procuratore che chiese e infine ottenne la condanna in terzo grado dell’ex direttore del Sismi Pollari e del suo numero due, Marco Mancini. Ma non poté processare gli agenti americani. Il segreto di Stato fu difeso da Berlusconi come dal governo Prodi, l’estradizione venne bloccata. Fu con Enrico Letta, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, che l’ambasciatore Usa Ronald Spogli provò a negoziare l’impunità della Cia.
Letta non gli rispose a muso duro, come avrebbe dovuto. Già allora amava rinviare, sopire: mandò Spogli dal ministro della Giustizia Mastella, che solerte obbedì al potente alleato. Lo stesso avviene oggi. Il Kazakistan è uno Stato torturatore ma ricco di petrolio. Il suo Presidente Nazarbayev gode dell’amicizia di Berlusconi.
Fin dalla guerra fredda il potere politico a Roma ha questa malleabilità, questa inconsistenza. È uno Stato- non Stato, simile alla Grecia pur avendo avuto una Resistenza che non fu estromessa su pressione americana come a Atene (in una guerra civile di tre anni, dal ‘46 al ’49) ma che pesò, dando vita al Comitato di liberazione nazionale e poi alla Costituzione. Ciononostante siamo andati somigliando a quel che la Grecia fu per decenni: una piattaforma militare, uno Stato in cui i cittadini non credono. Non abbiamo avuto i colonnelli, abbiamo gli anticorpi, ma il miasma fiutato da Borsellino resta. I ministri della Repubblica non sanno la verità che ammettono, quando dicono che i misfatti avvengono «a loro insaputa». Ammettono che i governanti sono marionette, che le elezioni sono inutili: altri decidono chi siamo.
Ritrovare il fresco profumo della libertà è compito nostro e dell’Europa, se non vuole essere anche lei un dispositivo. Urgente è mettere in comune i debiti, ma anche la democrazia, le leggi. Manca l’unione bancaria, ma anche una vincolante Costituzione comune: che bandisca le deportazioni di chi trova asilo in terra europea; che dia la cittadinanza agli immigrati nati nell’Unione, perché la «mondializzazione dell’indifferenza » è inevitabile se il diritto del suolo non sostituirà quello del sangue. Una comune legge, infine, dovrebbe vietare ai rappresentanti delle nazioni parole come quelle dette da Calderoli. La politica estera, l’integrazione degli immigrati, il diritto d’asilo non sono a disposizione. Né di signori esterni, né di signori interni che non temono sanzione alcuna, quando imbarbariscono.

La Repubblica 17.07.13