Latest Posts

I braccialetti bianchi mantengono l’impegno: approvata alla Camera la norma contro lo scambio elettorale politico-mafioso.

Dichiarazione di voto finale del capogruppo Roberto Speranza
Signor Presidente, onorevoli colleghi, è veramente per me un piacere e un orgoglio poter fare questa dichiarazione di voto a nome del gruppo del Partito Democratico. Voglio dirlo subito in premessa: al di là delle bandiere, oggi è veramente un bel giorno per tutti noi, un giorno importante e positivo per il Parlamento italiano.  Intanto grazie, grazie veramente, ai tanti che si sono impegnati, alla II Commissione (Giustizia), ai relatori, a tutti coloro che hanno creduto in questo provvedimento e grazie soprattutto, voglio dirlo con forza, a tutte le realtà organizzate che si battono su ogni territorio per affermare il principio di legalità. Grazie in modo particolare a Libera e al gruppo Abele (Applausi) e grazie, grazie di cuore a Don Luigi Ciotti. Grazie ancora ai nostri braccialetti bianchi, grazie, e ancora a quei 270 mila cittadini. È anche merito vostro. Dal gruppo del PD va il ringraziamento, uno per uno, perché il risultato che oggi si ottiene è anche frutto della vostra iniziativa.
Guardate, voglio dirlo con franchezza: ogni miglioramento che c’è stato in questi lunghi anni, ogni piccolo passo avanti nelle normative per la lotta alle mafie, è stato frutto di un sacrificio tremendo di un servitore dello Stato, un sacrificio fatto spesso di sangue, fatto di conflitti enormi. Basta ricordare per almeno un istante la storia di questo Paese, l’assassinio di Dalla Chiesa nel 1982 a cui si deve l’apertura di una riflessione vera che porta finalmente all’articolo 416-bis. E ancora la morte di Pio La Torre, sì, la morte di Pio La Torre, ucciso barbaramente mentre si recava alla sede del suo partito, il Partito comunista italiano (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico). E ancora. Si ricomincia a parlare di scambio politico mafioso dopo il 1992, dopo le morti di Falcone e di Borsellino. Voglio ricordarlo, Borsellino, perché tra qualche giorno, il 19 luglio, sarà l’anniversario della sua morte (saranno 21 anni). Ed io penso che Falcone meglio di ogni altro aveva capito una cosa, aveva capito che l’utilità che la mafia raccoglie dalla politica non è solo il denaro. L’utilità che la mafia raccoglie dalla politica è fatta di appalti, è fatta di informazioni, è fatta di posti di lavoro, è fatta di concessioni. Lo aveva capito già allora, nel 1992, il nostro Giovanni Falcone, e invece quell’Aula, in quell’anno, non ebbe la forza per approvare una norma come quella che Falcone voleva.

Oggi finalmente con questa riforma, con la riforma che stiamo per approvare dell’articolo 416-ter si raggiunge questo obiettivo. E allora diciamocelo, diciamocelo con forza, con chiarezza: questa di oggi è una vittoria per la politica, è una vittoria per tutti noi, è un riscatto che ci fa finalmente trovare nuova sintonia con i cittadini.
Guardate, Borsellino diceva una frase fortissima, sulla quale penso che dobbiamo tutti saper riflettere. Diceva Borsellino che «politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio e questi due poteri – diceva Borsellino – o si fanno la guerra o si mettono d’accordo». Io penso che con questo provvedimento noi confermiamo ancora una volta che alla mafia vogliamo fare la guerra e con questo provvedimento facciamo un passo importante per vincere proprio quella guerra (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
Allora, guardate, diciamocelo, c’è un pezzo d’Italia bellissima, un pezzo d’Italia di cui dobbiamo saper essere orgogliosi. L’Italia che lavora tutti i giorni, spesso nel silenzio, in quei terreni confiscati alle mafie, l’Italia che ogni giorno combatte denunciando le estorsioni, l’Italia che lavora nelle associazioni per la legalità, l’Italia di quegli studenti antimafia che tanti cortei e tante iniziative hanno fatto in tutti i pezzi della nostra penisola. È l’Italia di chi non si rassegna, di chi non è indifferente, di chi si indigna, di chi crede che un Paese diverso si può fare e noi oggi, con questo voto, siamo qui a dire che siamo all’altezza di quella sfida e siamo pronti su questo terreno a far vincere la politica.
Io penso, allora, che il testo che oggi approviamo contribuirà davvero a rompere quel legame politica-mafia. Certo, un testo non basta, ci sarà bisogno ancora di tanto. Ma per la prima volta si offre uno strumento concreto alla battaglia di tutti i giorni, non solo di quelle persone e di quelle associazioni, ma – io penso – si dà uno strumento concreto alla magistratura e alle forze dell’ordine, cui va il ringraziamento per il lavoro straordinario che compiono a servizio di questo Paese (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico). Io penso, guardate – e concludo – che la legalità, questa parola bellissima, la legalità sia il vero e proprio presupposto morale della ricostruzione del Paese. Sì, presupposto morale della ricostruzione di questo Paese; è una battaglia che è la vera e propria premessa della politica.
Permettetemi di dirlo, che errore sarebbe stato dividersi su questo. Oggi non ci sono bandiere, oggi non ci sono parzialità, c’è solo il senso dello Stato e la voglia di affermare la legalità nel nostro Paese. Voglio concludere con un’ultima frase bellissima che ci chiama in causa, una frase di Falcone. Diceva Falcone: «La mafia non è affatto invincibile, la mafia è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto – continuava Falcone – bisogna rendersi conto che si può vincere, ma non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni». E io penso che oggi, proprio da questo punto di vista, approvando questa riforma, abbiamo fatto la nostra parte e siamo stati all’altezza di questa lezione. Ed è per questo che annuncio il voto favorevole del Partito Democratico (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Scelta Civica per l’Italia e Sinistra Ecologia Libertà – Congratulazioni).

www.camera.it

“Giustizia, la confusione di Grillo”, di Michele Prospero

Peggio per la rete. E’ stato il vecchio telefono a indurre
Grillo a operare una rapida retromarcia. E il referendum sulla giustizia, che prima aveva deciso di appoggiare in gran spolvero, adesso dovrà fare a meno delle attese firme del M5S. Non la fredda comunicazione tramite una mail, ma la appassionata voce di Antonio Di Pietro, riferiscono le agenzie, ha partorito il gran ripensamento. La vendetta dei vecchi media è così consumata.
Altro che intelligenza collettiva della rete, questa incarnazione postmoderna dell’intelletto possibile degli averroisti, capace, se attivata nel modo opportuno e con i tempi giusti, di penetrare in ogni mistero del mondo, fornendo a tutto lo scibile una valida soluzione. C’è voluta solo la furbizia individuale dell’ex leader dell’Idv, con il suo intercalare dialettale e con le sue metafore ruspanti, a spingere Grillo a rimangiarsi tutto, senza ritegno alcuno.
Avrebbe potuto, l’ex comico, spiegare la sua improvvisa ritrattazione dicendo che la giustizia è una questione troppo complessa. Così spigolosa, che non si presta ad essere maneggiata con semplici colpi di referendum abrogativi. E che quindi era opportuna una maggiore cautela attorno a interventi chirurgici puntati diritti su un cruciale potere dello Stato. O avrebbe anche potuto asserire che l’oracolo della rete ancora non aveva partorito il sacro responso tanto atteso.
Pare invece che l’argomentazione cruciale, la pistola fumante con la quale Di Pietro ha smontato tutte le resistenze dell’ex comico portandolo infine a siglare la resa, sia stata quella di non apparire, ancora una volta, il servo sciocco del Cavaliere. Insomma, niente giudizio di merito sull’organizzazione della giustizia. Di coinvolgimento di competenti in materia o di addetti del settore nemmeno a parlarne.
Solo calcolo delle piccole convenienze, misurate magari in ragione di un qualche sondaggio. Come è già vecchia la nuova politica, con la sua maniacale attenzione alla immediata ricaduta mediatica delle opzioni appena annunciate e subito negate. Come puzza di conservatorismo stantio il recente ribellismo dello tsunami che ha premiato un non-partito che non valuta nulla sulla base di principi ma ogni cosa fa decidere al capo in rapporto ai divini sondaggi.

L’Unità 16.07.13

“Se i prof si valutano così”, di Raffaele Simone

Cosa ha fatto di male l’università per meritarsi l’Ava? Non è il nome di una famosa attrice né quello di un detersivo per i panni. È la sigla (in verità un po’ sbilenca) di “Autovalutazione, Valutazione periodica e Accreditamento”, un perfido dispositivo attivato da un decreto del marzo scorso (ministro Profumo), che in questi giorni, andando in applicazione, minaccia di mettere a terra il già ammaccatissimo sistema universitario.
Inventato tempo fa dall’Anvur, l’agenzia di valutazione dell’università – criticata e temuta per la smodata ampiezza delle sue attribuzioni, la squilibrata composizione (mancano del tutto gli umani-sti), la fantasiosa stramberia dei metodi e l’imponenza dei suoi costi, – Ava dispone che i singoli corsi di studio delle università riversino telematicamente al ministero una varietà di dati. Questi sono confrontati con parametri fissati dall’Anvur, e, in base ai risultati, i corsi vengono accreditati (cioè autorizzati a funzionare) oppure no e sottoposti a valutazione periodica.
Lo scopo, apparentemente benefico, si scontra con incredibili difficoltà pratiche. Studiando il decreto si è costretti non di rado a strofinarsi gli occhi perché non si crede a quel che si legge. Anzitutto, le norme Anvur pretendono che per immettere i dati i corsi di laurea formino grappoli di comitati: “gruppi di riesame”, commissioni paritetiche, commissioni di … “gestione dell’assicurazione di qualità” (detta ovviamente Aq!)… Si istituiscono nuove figure inutili come il Responsabile di Qualità di Dipartimento, che si aggiunge ai Nuclei di valutazione di ateneo. Si suggeriscono criteri e parametri astrusi o ridicoli. Si prevedono schede tortuosissime infestate da miriadi di cifre e di sigle (come Sua “scheda unica annuale”, che si distingue in una Sua-Cds, sul corso di studio, e una Sua-Rd, sulla ricerca di dipartimento). Chi volesse capire meglio cos’è la “Sua”, troverebbe nel caotico sito Anvur la seguente sconclusionata definizione:
«una piattaforma di comunicazione “integrata” che consente di veicolare a tutti gli attori/destinatari del processo di comunicazione la medesima informazione, con un significativo vantaggio in termini di tempo, affidabilità e semplificazione dei processi informativi».
Questo pezzo di prosa dà un’idea eloquente dell’aria che tira nell’ambiente Anvur e nelle procedure Ava: gergo para-aziendale, pedagogese d’accatto, ossessione computazionale. Non stupisce allora che i parametri Anvur siano ispirati a quella pedagogia americaneggiante che infetta da decenni l’ambiente del Miur: i corsi devono segnalare, insegnamento per insegnamento, i loro obiettivi didattici, scegliendo se si punta a conferire «Conoscenza e comprensione» oppure «Capacità di applicare conoscenza e comprensione», «Autonomia di giudizio», «Abilità comunicative», «Capacità di apprendimento»… Queste etichette sono, come si vede facilmente, pure banalità che la sesquipedale dottrina Ava ingigantisce e trasforma in totem. Inoltre, tutta la procedura è di una macchinosità insopportabile: per ogni insegnamento
vanno riempite fittissime schede in cui bisogna districarsi tra cervellotiche distinzioni e indicatori numerici contraddittori.
Come è ovvio le proteste sono valanga. Già sull’Anvur e i suoi metodi si erano scaricati pesantissimi attacchi da ogni parte, in particolare a proposito dell’operazione denominata (ti pareva!) Vqr (“Valutazione qualità della ricerca”) eseguita fortunosamente, e con mille correzioni di rotta, alla fine dell’anno scorso. Ora si rovesciano sull’Ava altre bordate: si denunciano l’insensata macchinosità del marchingegno e la mortificante burocratizzazione a cui costringe, dato che obbliga i docenti a scervellarsi su maligne bislaccherie terminologiche e sulla compilazione di schede al limite del dadà. Dinanzi alle critiche Profumo esibì una totale indifferenza (uno dei suoi tratti più eminenti). L’università italiana spera ora che la nuova ministra sospenda in tronco tutta la procedura e la sostituisca con qualcosa di più semplice, sensato e amichevole, per “l’attore/destinatario” (ma chi sarà?) oltre che per i giovani e per il Paese.

da www.repubblica.it

“Un governo isolato dai partiti”, di Luigi La Spina

Ha proprio ragione Letta quando osserva che nel mondo della politica avvengono «cose indecorose» e quando deplora la perdita del «senso delle istituzioni». Ma anche lui sa che non basteranno i suoi moniti saggi, né quelli di Napolitano, per limitare i danni che, ogni giorno, si provocano sull’immagine internazionale del nostro Paese e sulla credibilità della nostra classe politica nei confronti dei cittadini.

Il contributo più utile, però, che il presidente del Consiglio può fornire, prima che si arrivi a uno scontro tanto permanente quanto improduttivo, è quello di riuscire a superare una condizione che del suo ministero fa un «unicum» assoluto nella storia della Repubblica.

Non si è mai visto, infatti, un governo che, pur godendo, sulla carta, di una maggioranza parlamentare amplissima, appaia così isolato dai partiti che lo sostengono. Né si è mai visto un governo che, nonostante tutto, non abbia alcuna alternativa concreta e, quindi, appaia insostituibile.

La situazione, se vogliamo uscire dalle ipocrisie, è riassumibile in poche parole: il Pd è squassato da una battaglia interna devastante e, nella sostanza, paradossale, perché è l’unico partito al mondo che, possedendo un leader sicuramente vincente alle elezioni, come Renzi, sta cercando in tutti modi di evitare di candidarlo. Nel frattempo, quel partito invoca le dimissioni, un giorno di Alfano, l’altro di Calderoli e spera che la Cassazione riesca a fare quello che in vent’anni non è stato capace di fare: eliminare dalla scena politica Berlusconi. Del governo se ne occupa, perciò, il meno possibile, anche perché, occupandosene, dovrebbe ricordare ai suoi furibondi e disperati elettori che, in quel governo, collabora con il nemico di sempre, l’odiato Cavaliere.

Il Pdl, l’altra gamba su cui si regge, si fa per dire, il ministero Letta, è perfettamente consapevole che, senza il suo fondatore e padrone assoluto, è un partito inesistente, sia nella politica nazionale, sia in quella locale, come dimostrato, prima dalla campagna elettorale per il Parlamento e, poi, dai risultati delle recenti elezioni amministrative. Ecco perché è terrorizzato dalla possibile condanna definitiva del suo leader e alterna minacce di conseguenze devastanti sulle istituzioni e sul governo, in caso di conferma della sentenza Mediaset, a improbabili rassicurazioni sul senso di responsabilità del partito, nella speranza di convincere i giudici della Cassazione a tener conto sia di quelle minacce, sia di quella promessa. In attesa dell’unica cosa che per il Pdl abbia importanza, quel verdetto di fine mese, ci si può dividere, senza troppi danni, tra amici e nemici di Alfano.

Il terzo partito che conta, o potrebbe contare, nella politica italiana, il Movimento di Grillo, si è autoesiliato in un sostanziale Aventino che, come tutti gli Aventini della storia, è destinato alla totale inutilità e, quindi, a un destino di sicuro fallimento. Il solo concreto risultato della posizione del M5S, se vogliamo, è di togliere l’unica teorica alternativa possibile al governo Letta, rafforzando così la sua insostituibilità, perché tutti sanno che, senza una diversa legge elettorale, i risultati di un nuovo voto sarebbero, più o meno, gli stessi.

A questo proposito, il governo Letta dovrebbe dimostrare di meritare la fortuna di non avere possibili successori e di non meritare l’isolamento dai partiti che lo sostengono. Nell’unico modo praticabile: smettendo di rinviare la soluzione dei problemi più gravi e urgenti, a partire dalla tassa sulla casa e dall’aumento dell’Iva e affrontando, con la radicalità che la situazione impone, la questione che più interessa gli italiani: la ripresa dell’economia. La crisi dell’occupazione, soprattutto giovanile, è tale da non consentire più soluzioni di compromesso, pannicelli caldi, misure che non sono in grado di cambiare sostanzialmente le cose nel mondo del lavoro. L’inesistenza di una seria alternativa a questo governo dovrebbe costituire la più formidabile leva di convinzione per non procedere più con la strategia dei rinvii e dei piccoli passi, quando urgono, invece, passi da giganti. È vero che il coraggio, come diceva don Abbondio, se uno non ce l’ha, non se lo può dare, ma in certe occasioni ce ne vuole davvero poco per non approfittarne.

Finora Letta ha utilizzato, con giovanile sapienza, il credito internazionale per le sue salde convinzioni europeiste e quello nazionale per la serietà dei suoi comportamenti. Ma ora è scaduta la sua «luna di miele» con i cittadini del nostro Paese, ai quali deve dimostrare che le sue doti di abile mediatore dei conflitti non condanneranno l’Italia a un sostanziale immobilismo. Perché sono vent’anni, da quando è cominciata una seconda Repubblica dai risultati davvero fallimentari, che non si riesce a rompere il muro dei «no» ripetuto inesorabilmente dalle mille nostre corporazioni. Quelle corporazioni di ostinati interessi particolari che ci stanno condannando a un irreversibile declino.

LA Stampa 16.07.13

“Scuola, la musica è finita”, di Alessia Camplone

Un tempo la richiesta era altissima e la selezione molto dura. Ma ora ci sono sempre meno iscritti ai Conservatori
salvati solo dai corsi primari e pre-accademici e dagli studenti provenienti dall’estero: classi anche con un solo alunno e professori chiamati a insegnare altre materie come il solfeggio. E i sindacati denunciano: riforma ferma da 14 anni.

Nel linguaggio musicale si chiama canone inverso. I Conservatori di musica, davanti ai quali un tempo si faceva la fila per iscriversi, ora si stanno svuotando. Un’inversione di tendenza inaspettata. Sono sempre di meno gli studenti che decidono di dedicarsi allo studio di uno strumento. E così l’Italia sembra mettere da parte la sua cultura musicale, dando l’immagine di un Paese che abbandona una delle sue tradizioni migliori. Secondo i dati ufficiali più recenti del ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca (relativi all’anno accademico 2011/2012) gli alunni iscritti complessivamente nei Conservatori sono 42.386, mentre i diplomati sono stati 4.826. Sensibilmente in calo rispetto all’anno precedente. Ma i numeri non danno ancora la dimensione esatta della realtà. Perché ad attutire la fuga dai Conservatori incidono i corsi di primo e secondo livello e i pre accademici che vanno a sopperire al calo dei corsi tradizionali. Corsi rivisti con la riforma del 1999. Lanciata e non ancora portata a completamento.
«Il problema è sulla tenuta di questi corsi. Soprattutto su quelli di primo e secondo livello – spiegano dal sindacato della Flc Cgil – Ci fanno temere per i prossimi anni, quando andranno a termine i corsi del vecchio ordinamento. Ora siamo in una situazione di transizione, ma la realtà che ci si prospetta non è delle più incoraggianti. È necessario portare a compimento la riforma dei Conservatori, ferma da 14 anni».
IL PRESTIGIO
Andando ad analizzare i numeri nel dettaglio, in effetti ci sono realtà dove gli iscritti sono calati anche del 20%. E se i numeri complessivi reggono è anche per il fascino ancora irresistibile che i Conservatori in Italia (sono 54 in Italia, ai quali si aggiungono 21 gli istituti musicali pareggiati) hanno sugli studenti stranieri. Disposti a trasferirsi nel Paese del bel canto pur di imparare a suonare. «C’è una situazione davvero di sofferenza per la musica», denuncia il sindacato. «La situazione è davvero preoccupante – spiega Massimiliano Pitocco, ordinario di Fisarmonica del Conservatorio di Santa Cecilia e concertista a livello internazionale -. Noi riusciamo ad avere sempre molti iscritti grazie al prestigio dell’istituto e ai tanti alunni stranieri. Ma un po’ di calo iniziamo ad avvertirlo. Sento colleghi di altri Conservatori che devono fare i conti con cattedre con soli uno o due alunni e che vengono utilizzati per insegnare altre materie, come il solfeggio, per non essere considerati soprannumerari. Una situazione che mai avremmo immaginato se pensiamo che dieci anni fa la selezione per entrare nei Conservatori era durissima».
LE PROSPETTIVE
A registrare il maggior calo di iscrizioni sono soprattutto i corsi classici. Va meglio per i corsi di jazz, di musica antica e, da quest’anno, di didattica della musica. Ma come mai questa inversione di tendenza nelle “vocazioni” musicali? Diverse le cause. Dalla crisi economica e dalla mancanza di prospettive occupazionali. «Si avverte una contrazione legata anche alla confusione per il riconoscimento dei titoli – osserva Benedetto Lupo, pianista di successo e insegnante al Conservatorio di Monopoli -. C’è una riforma che è stata calata dall’alto e non è stata mai portata a termine. Occorre una riflessione culturale ampia. La musica fa bene alla vita. Porta ad avere una pluralità di pensiero». Una politica più attenta. Non solo. «Creiamo scuole civiche dove i bambini possono iniziare a suonare fin da piccoli – propone Lupo che da settembre insegnerà presso l’Accademia di Santa Cecilia, a Roma – E poi occorre un approccio strutturale all’insegnamento e meno scolastico».
Dedicarsi alla musica negli studi è percepita come una scelta elitaria. Ma la realtà è diversa. «Abbiamo ancora l’idea che chi esce dal Conservatorio debba per forza diventare un solista o un orchestrale – chiarisce Pitocco -. Ma i saperi musicali sono molto flessibili e una solida base di preparazione aiuta anche altre professioni di settore. Pensiamo a chi si occupa di acustica o a chi lavora nell’ambito della registrazione». C’è un mondo professionale che aspetta diplomati con una preparazione d’eccellenza nella musica. Prima di rinunciare a una vocazione, forse non bisogna cedere al pessimismo. C’è la crisi, ma la musica può cambiare.

Il Messaggero

“Valutazione, i presidi dicono no”, di Mario D’Adamo

Nel corso dell’incontro svoltosi la settimana scorsa al ministero con i rappresentanti delle organizzazioni sindacali sono continuate a piovere critiche sul decreto che introduce il sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione. Pubblicato in Gazzetta ufficiale il 4 luglio scorso e fortemente voluto dal precedente ministro dell’istruzione, Francesco Profumo, che nel marzo scorso lo aveva presentato al governo per l’approvazione, il decreto, in particolare, interseca i propri contenuti con quelli contrattuali sulla valutazione dei dirigenti scolastici.

E crea incertezze interpretative e resistenze. Alle sollecitazioni della dirigente preposta agli ordinamenti scolastici, Carmela Palumbo, che segnalava come l’unica area dirigenziale non ancora sottoposta a valutazione è quella dei dirigenti scolastici, le organizzazioni sindacali hanno obiettato che, a distanza di sette anni dalla sottoscrizione del contratto che la prevedeva, non ha ancora trovato applicazione la normativa sulla verifica dei risultati e la valutazione dei dirigenti scolastici, soprattutto perché il ministero non ha provveduto alle parti di sua competenza, l’attivazione dei nuclei di valutazione e la determinazione dei criteri ai quali si dovrebbero attenere. Pensare ora di introdurre un altro sistema di valutazione, oltre tutto meno garantistico di quello contrattuale, è incoerente e irrazionale, in relazione anche a diverse altre critiche al decreto. Dei tre organismi, infatti, ai quali è affidata la valutazione, Invalsi, Indire e corpo ispettivo, Invalsi e Indire devono essere riformati e quanto agli ispettori se ne dovrebbe rivedere il profilo, per tacere del fatto che, se pur sarebbe necessario un organico ben più consistente di quello attuale di 330 unità, in ogni caso esso presenta così numerosi buchi da non poter essere colmati nemmeno con l’immissione in ruolo dei cinquantanove neovincitori di un concorso durato oltre cinque anni, che andranno ad aggiungersi alle poche decine di colleghi in servizio neppure in tutte le regioni. E se per completare l’organico sarà indetto un altro concorso, c’è il rischio che passi un altro lustro. Pensare realisticamente di avviare una valutazione del sistema scolastico con questi mezzi è come tentare di svuotare il mare con un secchiello forato. E pensare di farlo nei confronti dei dirigenti scolastici rischia di aprire anche un contenzioso giuridico – sindacale infinito. La valutazione negativa di un dirigente scolastico ha effetti sull’incarico affidato, che potrebbe essere modificato fino a far intervenire il recesso, e su una quota parte della retribuzione, quella di risultato, che potrebbe non essere attribuita. Il sistema di valutazione, introdotto con il decreto, prevede infatti che i risultati della valutazione operata nelle scuole sottoposte ad esame siano forniti ai direttori generali degli uffici scolastici regionali, ai sensi dell’art. 25 del decreto legislativo n. 165 del 2001. E quest’ultima disposizione prevede che i dirigenti scolastici rispondano della gestione delle risorse finanziarie e strumentali e dei risultati del servizio. Per rispondere dei risultati del servizio, però, occorre vi sia un nesso di causalità con la loro azione e per l’accertamento di questo nesso il contratto dell’11 aprile 2006 aveva giustamente previsto una serie di procedure e garanzia e tutela del preside sottoposto a verifica. Se queste mancano o non sono rispettate o vengono trascurate, come sembra fare il decreto, non si va da nessuna parte o, meglio, si va dal giudice del lavoro, giacché in materia di diritti retributivi e di svolgimento delle mansioni affidate il contratto di lavoro continua a prevalere sul decreto.

da ItaliaOggi 16.07.13

“Giovani, la rassegnazione si batte sui banchi di scuola”, di Oreste Pivetta

Si discute dei Neet da una infinità di anni e questa infinità di anni mi inquieta ben più del numero dei Neet. Numero che aumenta, senza tuttavia che nel frattempo si sia messo in atto qualche progetto concreto, semplice, chiaro». In attesa del miracolo, in attesa di una pioggia di soldi sulla scuola, in attesa di un balzo prodigioso del Pil. Intanto i Neet, giovani senza studio e senza lavoro, invadono l’Italia e risalgono verso l’Europa: «Prima la questione riguardava il Sud, adesso colpisce il Centro e il Nord e supera i confini. Anche la Francia comincia a soffrirne ». Sono parole di Giuseppe Roma, direttore generale del Censis, che di fronte all’aspetto generazionale delle crisi, accusa la bassa intensità sociale delle politiche economiche europee.

Direttore, tra i capitoli della nostra inchiesta c’è quello relativo alla «spesa pubblica». L’accusa: si spende poco per l’istruzione e per la formazione. Basta a spiegare i Neet? Non c’è di mezzo anche qualcosa di personale? «Si sommano varie situazioni, dalla scuola alla televisione all’obiettiva povertà dell’offerta di lavoro, a giustificare una certo declino della tensione giovanile. S’arriva alla rassegnazione. Ma è decisivo il ruolo della scuola, nell’insegnare e quindi nel costruire cultura e competenze, professionalità e capacità, ma anche nell’aiutare, nell’accompagnare, nell’indirizzare. Non mi sento tuttavia di condividere il segno tutto economicista della contestazione. È un luogo comune che si debba spendere di più. Bisogna spendere meglio, per una scuola più qualificata e diversa, che non si arrenda di fronte all’abbandono, che sappia garantire quelli che chiamerei servizi di accompagnamento e che si preoccupi di sanare la tradizionale cesura con il mondo del lavoro, creando continuità e opportunità. Chi studia dovrebbe ben prima del diploma incrociare il lavoro e chi abbandona dovrebbe potersi riprendere la scuola. Si sta parlando di istruzione per gli adulti. C’è un progetto in corso, si chiama appunto Ida, Istruzione degli adulti. Una volta esisteva la scuola serale: quanti tecnici hanno costruito una loro carriera attraverso le “serali”? In altri Paesi d’Europa la scuola degli adulti è una pratica consolidata. È un modo per recuperare rispetto alla discriminazione che una cattiva società e una cattiva scuola producono».

Questa che definirei lacerazione rispetto al mondo del lavoro non nasce da ciò che la scuola promette e insegna, a volte male? «Alla formazione si affida un valore troppo generico, troppo condizionato dalle famose risorse che non si investono. A forza di citarla, la formazione diventa un totem, inattaccabile, inavvicinabile: non si investe abbastanza anzi si taglia, non si cambia, non si aggiorna, non ci si interroga sui compiti oggi: non c’è dubbio che si debba andare a scuola perché li deve crescere una cultura critica, ma tra i banchi scolastici si deve anche imparare un mestiere vero misurando la propria esperienza scolastica nel lavoro. Un paese, con le difficoltà del nostro, e le sue istituzioni si dovrebbero porre l’obiettivo di una svolta intellettuale e politica, tornando a riconoscere il valore essenziale del lavoro, anche di quei lavori intermedi, spesso misconosciuti o disprezzati, sui quali una società moderna fonda la propria solidità».

Però tra tanti Neet, vi sono anche tanti giovani che la svolta l’hanno imposta da sé… «Ci sono anche numeri positivi. Se ad esempio la nostra agricoltura regge è perché tanti giovani hanno deciso di tornare ai campi, un modo di tornare alla natura. C’è di mezzo una scelta culturale».

Forse pesa un certo tipo di comunicazione. Chiamiamola pure pubblicità. L’ecologico, il biologico, il chilometro zero, l’agriturismo… «Non è un caso se certi lavori piacciono: lo chef fatica, ma televisioni e giornali non fanno altro che illustrare ricette e questa rappresentazione giova a un mestiere fino a qualche tempo fa assai meno considerato. Non vale purtroppo per l’idraulico. La comunicazione è utile, ma è parziale».

Si rischia di invadere il mondo di cuochi e di veterinari. Che fare, dunque, per superare questo inghippo? «Fare pubblicità al lavoro, cioè restituire centralità al lavoro, a tutti i lavori. La scuola deve sapersi rinnovare, riproponendo con la cultura critica anche quell’istruzione tecnica, considerata da noi un ripiego poco appetibile…».

Non ci sono ancora troppe “veline” e troppi “X factor”, troppi modelli di successo facile, senza fatica? «Qualche inchiesta giudiziaria ha per fortuna ridimensionato il fascino di alcune figure femminili. Io direi che si esce da una crisi del lavoro proponendo altre figure: giardinieri, badanti, elettricisti. Naturalmente se si dà formazione e si aiutano nuove forme organizzative, cooperative ad esempio (non sarà un caso se la cooperazione è un settore in crescita di manodopera). Se si danno messaggi giusti: la dignità del lavoro, che non è un vincolo per sopravvivere ma è una opportunità per trovare se stessi. E diamo strumenti giusti, magari mettendo a frutto quei fondi europei che giacciono inutilizzati. Avevo pensato a una “Banca per i giovani”, con un sottotitolo: “Dall’idraulico a Bill Gates”. Cominciamo dall’idraulico, non restiamo immobili in attesa di Bill Gates».

L’Unità 16.07.13