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“I ragazzi perduti della laurea senza futuro”, di Maurizio Ricci

È la recessione, si dice. Laura ha 24 anni e, in tasca, una bella laurea in chimica. Per lei, il mondo dovrebbe cominciare ora. Invece, lavora a Madrid in uno Starbucks a servire caffè. Be’, forse lavorare è un termine eccessivo: dieci ore a settimana e paga conseguente. All’altro capo della Spagna, a Barcellona, Aida, 27 anni, si è laureata sei anni fa come bibliotecaria, ma non ha mai visto una biblioteca. È riuscita a lavorare solo come cameriera in un ristorante. Fino a un anno fa, quando l’hanno licenziata. Da allora, più nulla: è ferma a casa. Storie spagnole, che noi italiani riconosciamo subito. Abbiamo anche noi, più o meno tutti, un parente, magari un figlio, o un amico o la figlia di un amico con un bel diploma o una brillante laurea in tasca, che è riuscito a trovare un lavoro precario per qualche mese, poi ha perso anche quello e adesso è a spasso. È la crisi, allora, che morde i Paesi deboli dell’Europa mediterranea, l’Italia come la Spagna? Anche, ma non solo. C’è sotto qualcosa di più. Linnea, 25 anni, una laurea in ecoturismo e storia culturale, il Mediterraneo lo vede, se va bene, solo d’estate.

È la crisi, allora, che morde i Paesi deboli dell’Europa mediterranea, l’Italia come la Spagna? Anche, ma non solo. C’è sotto qualcosa di più. Linnea, 25 anni, una laurea in ecoturismo e storia culturale, il Mediterraneo lo vede, se va bene, solod’estate.ViveaStoccolma,in quello che a noi appare come il prospero Nord Europa. Ma Linnea, con la sua laurea, ha trovato solo un posto part time in un ente no profit. Gratis. Quando a dicembre le è scaduto il contratto, le hanno proposto di restare a tempo pieno, sempre gratis. Da allora, ha mandato in giro decine di domande di assunzione, ma, in sei mesi, ha collezionato in tutto due colloqui.
In tutto il mondo, i media si riempiono di storie di giovani che girano a vuoto. Una generazione — quella dei nati dopo il 1980 — che, confermano le statistiche, a Est come a Ovest, a Nord come a Sud, non è mai stata più preparata e istruita, ma non riesce a decollare. Neanche dove la logica economica sembrerebbe imporlo. Negli ultimi dieci anni, in Giappone il numero complessivo dei lavoratori è sceso del 7 per cento. Ma quello dei ragazzi fra i 15 e i 24 anni disoccupati è raddoppiato. Akigutsu, 27 anni, viene inquadrato dalla telecamera mentre, impeccabile nel suo vestito grigio, esce per l’ennesima volta da un’agenzia di collocamento, il cui nome suona, grosso modo, “Neolaureato, salve lavoro”. Non è il caso di Akigutsu: fra due giorni, lascia la Waseda University, una delle migliori del Giappone, con una laurea in gestione pubblica. Ma il lavoro lo cerca già da due anni e mezzo. Ha riempito almeno 100 formulari di assunzione e si è messo 40 volte quello stesso abito grigio per un colloquio. È stato anche all’università un anno in più, per guadagnare tempo. Tutto inutile: neanche una proposta.
È un dramma, forse una tragedia, quella che si sta consumando in questi anni. Milioni e milioni di ragazzi e ragazze che escono da scuole e università, per impantanarsi subito e alzare, sempre più spesso, bandiera bianca. Un fenomeno che le statistiche sulla disoccupazione, in realtà, non catturano. La notizia che il tasso di disoccupazione dei giovani sotto i 24 anni, in Europa, è
del 24 per cento, del 40 per cento in Italia, quasi del 60 per cento in Grecia e in Spagna fa effetto, ma vuol dire poco. Per rientrare nella statistica, bisogna aver attivamente cercato lavoro (come Linnea e Akigutsu) nelle ultime due settimane. Pochi giovanissimi lo fanno. Secondo gli esperti, circa il 10 per cento di chi ha quell’età. Il 60 per cento di quel 10 per cento vuol dire che 6 giovani spagnoli sotto i 24 anni su 100 hanno cercato lavoro, senza successo, nelle ultime due settimane. Non parrebbe una catastrofe. Ma il problema sono gli altri. Quelli che hanno abbandonato o completato gli studi, ma non hanno trovato lavoro e neanche lo stanno cercando. Quelli che si sono arresi: né studio, né lavoro, i “néné”. In Italia, sono passati dal 2007 — prima della recessione — al 2011, dal 16 al 21 per cento dei giovani fra i 15 e i 24 anni. Un giovane italiano su cinque, insomma, non fa nulla. In misura minore, ma questo vale anche per i suoi coetanei d’Europa, dove i “né-né” sono cresciuti dal 10,8 al 13,2 per cento. Colpa loro che non hanno capito che solo studiando, aumentando le proprie competenze, centrando titoli di studio sempre più alti si può trovare il proprio posto nel mondo di oggi? Niente affatto. E qui sta il dramma. Il numero dei laureati “né-né” nei paesi dell’Ocse — l’organizzazione che raccoglie i paesi più ricchi del mondo — è cresciuto dal 10,6 al 14,8 per cento fra il 2008 e il 2011. L’Italia ha una sorta di record: i laureati che non studiano più e non lavorano ancora sono passati dal 18,6 al 21,8 per cento e qui parliamo di giovani fra i 24 e i 29 anni, condannati ad una sorta di animazione sospesa. Ma non sono i Paesi deboli del Mediterraneo a drogare la media Ocse. Germania e Svezia, grazie soprattutto al
part time, molto spesso involontario, hanno visto un lieve calo delle loro quote di laureati fuori dal gioco. Ma in Francia sono saliti dal 7,5 al 10,4 per cento dei loro coetanei post universitari, in Giappone sono addirittura quasi raddoppiati, arrivando al 15,8 per cento. In Gran Bretagna e anche negli Usa, nel giro di quattro anni, sono aumentati di circa un terzo, arrivando, rispettivamente, oltre l’8 e il 12 per cento.
E quelli che un lavoro lo hanno trovato? Le notizie non sono buone neanche qui. I laureati che non sono disoccupati, i laureati che non hanno gettato la spugna si trovano spesso dove mai avrebbero pensato. In America, nel 1970, un tassista su 100 aveva una laurea in tasca. Oggi, sono il 15 per cento. Idem i pompieri: 2 per cento di laureati nel 1970, 15 per cento oggi. Non occorre una laurea per maneggiare un tassametro o un idrante. Tanti anni di studio non avrebbero dovuto consegnarli ad una vita piena, felice, gratificante? È la promessa che i giovani si sono sentiti ripetere decine di volte. Ma, a quanto pare, non vale più. Una recente ricerca di tre studiosi canadesi (Paul Beaudry, David Green, Benjamin Sand) osserva che la domanda di competenze legate ad una maggiore istruzione, negli Usa, è andata salendo fino al 2000, ma, da allora, è in calo. I laureati, comunque, aggiungono i tre canadesi, farebbero bene a non lamentarsi troppo: la laurea ha impedito che andasse peggio.
Che succede? Questa volta, la globalizzazione c’entra poco. Pesa di più la rivoluzione digitale, l’esplosione del software onnipresente. I dati, anche stavolta dell’Ocse, mostrano che esiste ancora, sul mercato del lavoro, un premio per il diploma e, ancor più per la laurea. Mediamente, nei paesi industrializzati, il 13 per cento di chi non ha finito la scuola media superiore è disoccupato, mentre solo il 5 per cento dei laureati lo è. Inoltre, un laureato guadagna, mediamente, una volta e mezzo lo stipendio di un semplice diplomato. Attenzione, però, avvertono i tre studiosi canadesi, le distanze restano, ma è una corsa verso il basso: è la rivoluzione tecnologica a spingere in giù. Prima l’automazione ha svuotato le fabbriche, poi computer e Internet hanno dimezzato il personale degli uffici: dalle centraliniste ai fattorini. Adesso la digitalizzazione sta risalendo le gerarchie. Fino a qualche anno fa, la brillante americana laureata in legge sarebbe entrata in un grosso studio, cominciando con lo spulciare ponderosi tomi, alla caccia di qualche precedente per una causa importante. Adesso, la ricerca dei precedenti la fanno i computer, ad un decimo del costo. I grossi studi legali non assumono giovani avvocati, anzi, tagliano selvaggiamente gli organici.
La giovane laureata ha qualche speranza di infilarsi come assistentesegretaria, a tenere l’agenda di un grosso avvocato. E la giovane diplomata che, fino a qualche anno fa, avrebbe preso quel posto di segretaria? A fare le pulizie in ospedale.
È ancora presto per sapere se i tre studiosi canadesi hanno ragione e se il mercato del lavoro — negli Stati Uniti e altrove — si sta schiacciando verso il basso. Quello che è chiaro sin d’ora, però, è che la crisi che si è aperta nel 2008 non è una recessione come le altre e che processi profondi stanno modellando la ripresa in direzioni, oggi, imprevedibili. Economia e società, probabilmente, non saranno le stesse di prima della crisi. Non sono trasformazioni che avvengono gratis. A pagare il conto, salatissimo, delle novità è un’intera generazione di nati dopo il 1980, illusi, poi delusi e frustrati che, della crisi e, forse, anche della sua fine, porteranno a lungo le cicatrici. Psicologiche e finanziarie. Perché quando le giornate si assomigliano tutte e l’impressione è di girare in tondo, alla fine anche grinta, iniziativa, ottimismo si logorano. E perché, se alla fine si comincia a lavorare sul serio, ma si hanno già 30-40 anni, il tempo per garantirsi la serenità di un tesoretto per una vecchiaia che già si annuncia lunghissima, è davvero poco.

La Repubblica 16.07.13

“Io offesa? Colpiscono me perché sono una donna”, di Franco Giubilei

Anche davanti agli insulti più sgradevoli, Cécile Kyenge non abbandona neanche per un momento il profilo istituzionale e i toni pacati di chi ragiona a un altro livello: «Non mi rivolgo a Calderoli, ma al vicepresidente del Senato: è arrivato il momento di riflettere sul ruolo di chi riveste una carica politica e istituzionale».

L`applauso scoppia immediato nella saletta degli incontri della festa del Pd a Cesena, dove un centinaio di persone la stanno ad ascoltare nonostante il caldo soffocante. «Che cosa vogliamo trasmettere e comunicare? Per anni si è usato un linguaggio di odio e violenza, ma sia in Italia, sia per i riflessi che certe cose assumono all`estero, c`è bisogno di un altro linguaggio».

Fosse per lei si parlerebbe di ius soli e di «interazione», concetto che accosta a quello di integrazione, ma questa è una giornata particolare, con l`attenzione di tutti concentrata sull`immagine dell`orango evocata da Roberto Calderoli, dunque l`accoglienza che le riservano alla Festa del Pd è carica di un affetto speciale: fin da quando arriva al parco giochi Frutipapalina, quartiere Sant`Egidio, prima periferia cesenate, i militanti le vanno a stringere la mano per esprimerle solidarietà, si fanno fotografare accanto a lei, si fanno firmare libri in tema di migrazione.

La stessa scena che si ripete al ristorante e negli stand, quando il ministro Kyenge va a salutare i volontari, prima che cominci l`incontro pubblico. Del resto qui la conoscono bene, come spiega il responsabile organizzativo del Pd di Cesena, Amedeo Lusini: «L`abbiamo avuta ospite già due anni fa, in occasione della festa nazionale sull`immigrazione dedicata ai nuovi italiani, quando era responsabile regionale del Pd per queste tematiche, quindi l`accoglienza è stata particolarmente calorosa». Lo si capisce anche dall`attenzione con cui la gente segue l`iniziativa fin dall`inizio, e dagli applausi che accolgono ogni intervento della Kyenge.

Quando poi le domande affrontano l`argomento del giorno, lo scherno razzista di Calderoli, il ministro per l`integrazione non si sposta di un millimetro dai concetti che gli stanno più a cuore, evitando con ogni cura di buttarla sullo scontro personale: «Non scendo a un livello personale, parlo a una carica istituzionale. Personalmente credo di essere sempre stata coerente, e penso che si debba cercare di essere coerenti con quanto rappresentiamo sotto l`aspetto istituzionale, per i riflessi che certi atteggiamenti possono avere sia nel nostro Paese che all`estero».

E siccome negli ultimi tempi si sono ripetuti gli attacchi alle donne che hanno un ruolo pubblico, c`è spazio anche per questa riflessione: «Salta fuori anche questo dato, che molte persone che sono state oggetto di attacchi sono donne: è capitato al presidente della Camera Boldrini, a Mara Carfagna e alla sottoscritta». Ma nonostante l`accostamento pesantissimo che le ha rivolto Calderoli, la Kyenge non abbandona la linea che si è data: «Se mi sento offesa? Mi sento rammaricata per il Paese».

Poi la scorta la preleva per portarla poco lontano da qui, a Sorrivoli, sulle colline cesenati, a incontrare la carovana Ius Migrandi: ci troverà anche un presidio di Forza Nuova con striscioni polemici nei suoi confronti. Prima di partire però commenta le parole pronunciate dal Papa a Lampedusa: «Bisogna saper leggere quel messaggio: il Papa ha celebrato un lutto, il lutto per quanti hanno perso la vita nelle traversate, che significa riconoscere il valore delle persone. E` un messaggio rivolto a tutti, poi quanti fanno politica devono saper ascoltare e tradurre in concretezza quel messaggio».

La Stampa 15.07.13

“Viminale e Ps, tutti sapevano”, di Carlo Bonini

Con la certezza dell’indicativo e la promessa di un severo redde rationem, il ministro Alfano ripete come un mantra di essere stato tenuto all’oscuro dell’operazione Ablyazov. Ebbene, è un fatto che in quell’operazione, su sollecitazione del capo di gabinetto del ministro, venne coinvolto l’intero Dipartimento della Pubblica sicurezza. Vale a dire il vertice della Polizia di questo Paese. La novità, infatti, è che ai nomi del prefetto Alessandro Valeri, segretario del Dipartimento, e del prefetto Francesco Cirillo, capo della Criminalpol (di cui Repubblica ha già dato conto ieri), si aggiunge ora anche quello del prefetto Alessandro Marangoni, che in quell’ultima settimana del maggio scorso aveva l’incarico di Capo della Polizia pro-tempore. L’intera catena di comando sapeva, dunque. E lavorò perché la “pratica” venisse celermente evasa. Come era stato chiesto, appunto, dal gabinetto del ministro su sollecitazione dell’ambasciatore kazako in Italia.
IL CAPO INFORMATO
Ad informare Marangoni, il 28 maggio, è proprio Valeri, un prefetto prossimo alla pensione, cresciuto nei ranghi della Polizia e molto legato a Gianni De Gennaro. Il colloquio nell’ufficio di Procaccini alla presenza dell’ambasciatore kazako e del suo primo consigliere convince infatti Valeri che la richiesta kazaka va collocata in cima all’agenda del Dipartimento. Sa — perché è prassi del Viminale — che una convocazione di quel genere ha un solo significato e in un solo modo va interpretata. Che la sollecitazione ha l’imprimatur del ministro dell’Interno. Dunque, si comporta di conseguenza. Informa “il Capo” Alessandro Marangoni, che, a sua volta, dà il suo nulla-osta a procedere con rapidità. Per altro — per quanto ne riferiscono fonti qualificate — senza porre particolari vincoli all’operazione. Raggiunto telefonicamente, Marangoni invoca lo stesso «obbligo alla riservatezza» invocato da Procaccini due giorni fa. Non è di alcun aiuto, insomma. Neppure su una circostanza cruciale. Comprendere per quale ragione il ministro dell’Interno Alfano insista nel sostenere che tra il 28 maggio e il 3 giugno nessuno — l’intero Dipartimento, il capo della Polizia, il capo di gabinetto del ministro — trovò il tempo o ritenne opportuno informarlo di che fine aveva fatto quella richiesta.
“I CANDIDATI AL SACRIFICIO”
Davvero dunque Alfano venne tagliato fuori? E’ certo che, a operazione conclusa, Marangoni non interloquì direttamente con il capo di gabinetto di Alfano. Mentre le mosse di Valeri rimangono nebulose. In ogni caso, è evidente, a questo punto, che la salvezza politica del ministro Alfano, oggi, passa necessariamente attraverso il sacrificio del suo capo di gabinetto Procaccini e di almeno due prefetti del Dipartimento (Valeri e, forse, lo stesso Marangoni). A meno che non abbiano ancora carte da giocare in grado di metterli in salvo dalla purga.
LA SECONDA PERQUISIZIONE NELLA VILLA
Accade infatti che il protagonismo del Dipartimento di Pubblica sicurezza in questa vicenda sia decisivo. Non solo per l’eccitazione
con cui investe il lavoro della Questura e dei suoi dirigenti (dal questore Fulvio Della Rocca, al capo della Squadra mobile Renato Cortese, al capo dell’Ufficio immigrazione Maurizio Improta), ma anche per l’invadenza nelle scelte operative. Dopo il blitz della notte tra il 28 e il 29 in cui vengono fermate Alma Shalabayeva e sua figlia Alua, è infatti proprio il Dipartimento a premere sul questore per una seconda perquisizione all’interno della villa di via di Casal Palocco 3. Decisione di cui si spiega la ratio
solo evidentemente in ragione della pressione che l’ambasciatore kazako ha potuto continuare a esercitare sul vertice della nostra Polizia.
LA RELAZIONE DEL 3 GIUGNO
Un protagonismo, quello del Dipartimento, che non si chiude con la fine dell’operazione. Il 2 giugno, infatti, dopo il colloquio telefonico con cui il ministro degli esteri Bonino ha sollecitato il ministro Alfano a darle spiegazioni su quanto accaduto, è di nuovo il Dipartimento a chiedere e ricevere le 3 pagine e gli 11 allegati della nota con cui il questore di Roma Della Rocca ricostruisce la catena degli eventi tra il 28 e il 31 maggio. E’ un dossier che, questa volta, finisce sul tavolo di Alessandro Pansa, Capo della Polizia appena insediato. Lo stesso che, di qui a 48 ore, dovrebbe rassegnare le conclusioni sulle responsabilità interne alla Polizia. Un esercizio logicamente faticoso. Perché da condurre sulla base di quegli stessi atti che, da quel 3 giugno, non hanno sin qui prodotto alcuna conseguenza. Anzi, che convinsero proprio Alfano a sostenere che, nella vicenda Ablyazov, «prassi e norme» erano state «correttamente rispettate». Insomma, sarà interessante vedere come il nuovo capo della Polizia e il ministro riusciranno a sostenere che ciò che era apparso a entrambi cristallino 45 giorni fa, diventi oggi indizio di infedeltà che merita una punizione esemplare.
I SERVIZI CHE NULLA SANNO
In questo affaire non manca infine un’appendice sulla nostra Intelligence. Anche se, questa volta, la questione appare capovolta. Perché non è della loro invadenza che si parla, ma della loro singolare assenza. Prima, durante, dopo. Possibile che l’Aisi (il nostro controspionaggio) nulla sapesse che, a Casal Palocco, risiedeva la moglie di uno dei più noti dissidenti e ricercati kazaki, al centro di una vicenda giudiziaria che aveva già investito l’Inghilterra? Possibile, a quanto pare. Possibile, soprattutto, che nella notte tra il 28 e il 29 a Casalpalocco di agente segreto ce ne fosse in realtà uno solo. Un pensionato dell’Aise (il nostro spionaggio militare) passato a lavorare per quella società di investigazioni private assoldata dai kazaki per individuare il rifugio di Mukhtar Ablyazov.

La Repubblica 15.07.13

“Modernizzazione non sempre fa rima con educazione”, di Benedetto Vertecchi

Quella a cui stiamo assistendo nella scuola è una sorta di modernizzazione forzosa. Di fronte alla constatazione della gravità della crisi si tenta di correre ai ripari, intervenendo su aspetti nei quali si manifesta un disagio più acuto. E lo si fa cercando di riversare sul funzionamento ordinario del sistema elementi di razionalità desunti in parte da procedure ricognitive messe a punto da organizzazioni internazionali, in parte tentando di riversare sulla gestione delle scuole e sulle pratiche di insegnamento la sapienza reificata nelle risorse che lo sviluppo della tecnologia ha reso disponibili. Se le procedure ricognitive danno l’impressione di offrire gli elementi necessari a interpretare lo stato del sistema educativo, le nuove risorse dovrebbero consentire sia di migliorare la gestione delle scuole, sia di introdurre pratiche d’insegnamento più adeguate. Il fatto è che la modernizzazione alla quale stiamo assistendo risponde a logiche interpretative che con l’educazione hanno poco o nulla da spartire. Di per sé, infatti, i dati ottenuti tramite procedure ricognitive possono far emergere aspetti critici dell’attività delle scuole, ma non indicano in che modo le difficoltà emerse abbiano avuto origine o possano essere superate. I dati sull’educazione scolastica sono, infatti, posti in relazione a variabili che costituiscono riferimenti prossimi, sul piano spaziale (per esempio, i dati del Nord sono migliori di quelli del Sud) e su quello temporale (ovvero in che modo questo o quel provvedimento normativo abbia modificato il quadro preesistente). Qualcosa di non troppo diverso si può dire dell’introduzione di nuove risorse, dalle quali si attendono ricadute valutabili in un contesto semplificato, che non tiene conto della complessità degli stimoli che raggiungono gli allievi. In breve, ci troviamo di fronte a una cultura educativa scadente, che non costituisce il punto di approdo di una riflessione autonoma, ma si limita a proporre un calco di modi di argomentare affermati in altri settori della vita sociale, in particolare da quelli produttivi. C’è bisogno di ricostituire condizioni positive per lo sviluppo del sistema educativo e, in primo luogo, di elaborare un disegno interpretativo per il tempo, verso il passato e verso il futuro. Le comparazioni devono cogliere tendenze dalle quali derivino cambiamenti significativi nei profili culturali delle popolazioni. Per esempio, è comune oggi sentir lamentare la regressione in atto nel livello delle competenze simboliche della popolazione adulta. In altre parole, popolazioni che hanno fruito di periodi anche consistenti di educazione scolastica si dimostrano progressivamente meno capaci di utilizzare il linguaggio alfabetico per comunicare. In una logica di breve periodo, questo fenomeno è inspiegabile, o se ne danno spiegazioni banali, come la cattiva qualità dell’istruzione fruita. Meglio sarebbe chiedersi per quali ragioni nel corso degli ultimi secoli sia stata avvertita la necessità di sostituire a una generale condizione di analfabetismo la capacità diffusa di leggere e scrivere (e, possiamo anche aggiungere, di far di conto). Troveremmo che all’origine di una trasformazione che ha segnato in modo determinante la storia sociale europea ci sono stati, a seconda dei casi, una spinta religiosa (nei Paesi riformati, per consentire al popolo cristiano di leggere le Scritture), o una sociale, collegabile alle innovazioni che si sono registrate nell’amministrazione degli Stati, nelle attività economiche, nell’organizzazione della vita quotidiana. La spinta religiosa ha preceduto di due o tre secoli l’altro fattore dinamico di cambiamento culturale. Ebbene, la comparazione delle quote di popolazione che stanno subendo la regressione alfabetica mostra che il fenomeno è molto meno grave nel primo gruppo di Paesi, quelli di religione riformata. Dal momento che le condizioni attuali di vita non sono troppo diverse tra i diversi Paesi, potremmo ipotizzare che un’educazione volta a consentire il possesso comune di una cultura non rivolta a soddisfare esigenze di breve periodo ha effetti più duraturi. In altre parole, la categoria dell’utilità nell’educazione non coincide con quella dei bilanci di breve periodo enfatizzati dalla modernizzazione forzosa del sistema scolastico. È singolare l’ostentazione di certezza che accompagna interventi sul funzionamento della scuola che si fondano, nei casi migliori, su suggestioni analogiche, ma non sono sostenuti da alcuna evidenza di ricerca. Se le procedure ricognitive fossero utilizzate per cercare di capire la complessità dei fenomeni educativi, potrebbero compararsi i dati che si riferiscono a sistemi scolastici variamente organizzati e diversi dal punto di vista delle scelte operative. Si potrebbe giungere alla conclusione che i simulacri della modernizzazione forzosa non sono quelli più comuni nelle condizioni in cui si ottengono migliori risultati. Assai più rilevante è la definizione dei profili culturali, la finalizzazione dei processi nel lungo periodo, la condivisione degli intenti da parte delle popolazioni. Di fronte alla difficoltà di conseguire esiti desiderati, ci si dovrebbe chiedere non solo se le pratiche messe in atto erano le più opportune, ma anche se i messaggi sociali capaci di orientare gli atteggiamenti e sostenere l’apprendimento non siano stati negativi. Sono tante le domande che occorre porsi per intraprendere un cammino di sviluppo per l’educazione: quel che conta è non credere che sia facile trovare le risposte.

L’Unità 15.07.13

“Fuori i razzisti dalle istituzioni”, di Gad Lerner

Bisogna vincere la tentazione di rispondere per le rime a Roberto Calderoli. Lui non chiederebbe di meglio che un confronto sui tratti somatici e i quozienti intellettuali. Ma stavolta non potrà cavarsela rifugiandosi nella buffoneria un personaggio come lui, che la politica italiana ha tollerato rimanesse ai suoi vertici per quasi un ventennio.
L’aggressione verbale alla ministra Cécile Kyenge, mascherata come al solito da battuta di spirito, è stata un atto premeditato di violenza razzista. Calderoli sapeva bene quel che stava facendo. Con il suo ignobile giro di parole al comizio di Treviglio cercava la provocazione, in un momento di massima difficoltà della Lega Nord afflitta da una vera e propria emorragia di militanti; e sua personale, visto che dall’interno lo accusavano di eccessi di moderatismo.
Provocazione studiata, dunque, con il primo stadio di quell’odioso riferimento allo stereotipo coloniale più classico, l’uomo-scimmia, riferito agli africani. Ma l’intento razzista, se ancora ce ne fosse bisogno, è stato confermato da Calderoli nelle dichiarazioni successive, rilasciate ieri a Radio Capital, quelle in cui fingeva stupore per le reazioni alla sua battuta “innocente”. Ebbene, più volte al microfono, e con inequivocabile spudorata tenacia, egli ha insistito a negare che la cittadina italiana Kyenge, peraltro eletta nel Parlamento della nostra Repubblica, abbia il diritto di ricoprire un incarico di governo. «Può fare il ministro, ma in Congo – ha sostenuto Calderoli – non può fare il ministro in Italia». Con ciò lasciando intendere che a suo parere la Kyenge non solo non avrebbe il diritto di fare la ministra in Italia, ma non avrebbe neppure il diritto di considerarsi cittadina italiana.
Simili affermazioni non soltanto contraddicono la verità dei fatti: Kyenge è naturalizzata per legge cittadina italiana né più né meno di Calderoli, e ha quindi i tutti requisiti necessari per assumere incarichi di governo. Di più, queste falsità recitate con leggerezza da Calderoli determinano un vero e proprio vulnus istituzionale: può infatti un’istituzione parlamentare come il Senato della Repubblica avere fra i suoi vicepresidenti un esponente politico che nega l’altrui cittadinanza con argomenti relativi al luogo di nascita? Può permettersi, la nostra Repubblica, di concedere un tale ruolo pubblico a chi semina veleno razzista e alimenta il pregiudizio verso una
parte dei suoi concittadini?
C’è da augurarsi che oggi stesso il Senato provveda a sollevare Calderoli dalla carica che indegnamente ricopre, dopo che per troppi anni s’è finto di ignorare il cumulo di volgarità razziste che di volta in volta ha profuso contro singoli interlocutori o contro popoli e fedi religiose nel loro insieme.
La nomina di Cécile Kyenge come ministra dell’Integrazione è stato forse l’atto più innovativo (l’unico?) del governo Letta. Ma ha letteralmente scatenato una piccola minoranza di esagitati che l’hanno percepita come offesa intollerabile al loro ego xenofobo e hanno scatenato contro di lei una vera e propria guerra dei nervi. Cécile Kyenge ha mostrato una pazienza degna di miglior causa ogni qual volta l’hanno chiamata in causa a sproposito perché si giustificasse di fronte a episodi di violenza sessuale; hanno messo in dubbio la sua competenza in quanto è laureata in oculistica; hanno ironizzato sulla sua numerosa famiglia; l’hanno accusata di godere di protezioni eccessive, nel mentre che aizzavano con toni minacciosi la gente a manifestare contro di lei. L’esito di questa sollevazione contro la Kyenge è stato fallimentare, ma la ricerca della provocazione non si arresta nella speranza che possa derivarne il recupero di uno spazio politico perduto. Per questo è importante seguire cosa succederà nelle prossime ore.
Così come Borghezio è già stato espulso dal gruppo parlamentare cui era iscritto a Strasburgo, in seguito alle offese profferite contro la Kyenge, ci attendiamo che altrettanto faccia il gruppo dei senatori della Lega nei confronti di Calderoli. Non sarà una gran perdita. E servirà a ristabilire anche in Italia quella prassi europea per cui i razzisti vengono tenuti ai margini delle istituzioni, anche perché la destra liberale e moderata per prima si impegna a non dare loro spazio.

La Repubblica 15.07.13

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Calderoli, razzismo contro la Kyenge l’ira di Napolitano: “Imbarbarimento”, di SILVIO BUZZANCA

Dimettiti, scusati, vergognati. Brutta domenica per Roberto Calderoli, il leghista che al momento siede sulla poltrona di vicepresidente del Senato. Siede al momento, perché sabato sera ha pensato bene di scaldare gli animi dei militanti accorsi alla festa di Treviglio, nel bergamasco, con qualche “simpatica” battuta sulla ministra Cecile Kyenge che potrebbero costringerlo a lasciare «Io mi consolo – ha rivelato ai 1500 presenti – quando navigo in Internet e vedo le fotografie del governo. Amo gli animali, orsi e lupi, com’è noto. Ma quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di orango».
Ieri, poi, per tentare di spiegare, l’ex ministro, ha aggiunto pepe alle polemiche in un’intervista a Radio Capital. Perché per Calderoli, quella frase «è stata una battuta, per mettere della simpatia, non c’era niente di particolarmente contro. Era legata alle mie impressioni. Non l’ho paragonata a un orango, l’ho detto in riferimento ai lineamenti. A dimettermi non ci penso proprio».
Così anche questa volta, il pensiero dell’ex ministro tracimato dalla festa leghista provoca il finimomdo. Un’agitazione che spinge Giorgio Napolitano a mettere insieme tre episodi: le parole di Calderoli, l’incendio del liceo antiomofobico Socrate a Roma e le minacce all’ex ministro Mara Carfagna. Il presidente, fanno sapere dalla presidenza della Repubblica, «è colpito e indignato per i tre casi che dimostrano tendenza all’imbarbarimento delle vita civile e affronterà il tema nell’incontro con la stampa del 18 luglio».
Ultima mazzata su Calderoli che arriva in serata. Ultimo atto di una giornata iniziata presto, quando, è arrivata, prima di una lunga serie, la condanna di Enrico Letta. «Parole inaccettabili. Oltre ogni limite. Piena solidarietà e sostegno a Cecile. Avanti col tuo e col nostro lavoro», dice il premier. Condannano anche i presidenti di Camera e Senato. A seguire arriveranno manifestazione di solidarietà da molti ministri. Anche del Pdl, come la Lorenzin e la Di Girolamo.
Prende le distanze anche Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia, pronta a combattere le proposte della ministra, ma non vuole certo seguire Calderoli. E alla fine arriva anche il “vattene” dal Pd. «Calderoli «accetti un consiglio, si dimetta», dice il segretario Guglielmo Epifani. E intanto parte una raccolta di forme online per le sue dimissioni. L’interessata, intanto commenta così: «Non deve chiedere scusa a me, piuttosto deve fare una riflessione sulla carica politica e istituzionale che ricopre».
La questione crea imbarazzo nei vertici leghisti. Al punto che Roberto Maroni ha telefonato a Calderoli per chiedergli di correre ai ripari e spegnere l’incendio che ha appiccato. Fonti leghiste parlano di un colloquio molto concitato durante il quale il “governatore” ha accusato Calderoli di avere insistito troppo nella polemica contro la Kyenge.
Dunque Maroni consiglia delle scuse. Che alla fine arrivano. Dopo la sortita di Napolitano. Perché Calderoli telefona alla ministra e racconta di «avere chiarito» e di averle dato «appuntamento in Parlamento per un confronto franco e leale ». E così Maroni, dopo un lungo silenzio può dire: «Calderoli ha sbagliato e ha chiesto scusa. Ha fatto bene a chiedere scusa, perché noi non attacchiamo le persone ma contrastiamo le idee sbagliate».

La Repubblica 15.07.13

“I giovani italiani nell’Europa a due velocità”, di Carlo Buttaroni

Nell’Europa dei 27, l’Italia è terza per quanto riguarda la quota dei Neet, i giovani che non lavorano, non studiano e non sono impegnati in percorsi formativi. Un primato negativo che ci vede preceduti solo da Bulgaria e Grecia. Un Paese, il nostro, a fondo scala anche per quanto riguarda la classifica sull’istruzione universitaria, nel gruppo di testa per l’abbandono scolastico e qui« ultimi in merito alle competenze matematiche dei nostri studenti. Insomma, in un’Europa a due velocità, l’Italia partecipa nel gruppo degli inseguitori, con poche risorse da mettere in pista. Proprio per recuperare questo gap la Strategia di Lisbona aveva posto, tra i cinque obiettivi da raggiungere entro il 2010, la riduzione al 10 per cento della quota di giovani che lasciano la scuola senza un adeguato titolo di studio. La Strategia Europa 2020 ha, invece, posto il tetto di almeno il 40 per cento di giovani che ottiene un titolo di studio universitario o equivalente, da raggiungere entro il prossimo decennio. L’Italia ha fallito il primo obiettivo ed è assai lontana dal secondo.

LA SPESA PUBBLICA La debole competitività dei nostri giovani rispetto ai coetanei europei non stupisce perché l’Italia è anche nella parte bassa della classifica per quanto riguarda la spesa pubblica per l’istruzione e la formazione, ben sotto la media europea. La Danimarca, ad esempio, investe una quota pari a1l’8,1% del Pil, rispetto al 4,5% dell’Italia. Eppure la spesa in istruzione è un indicatore chiave per valutare le policy attuate in materia di crescita e valorizzazione del capitale umano. Peggio di noi, tra i grandi d’Europa, c’è la Germania, che, però, compensa abbondantemente con gli investimenti nel sociale e percorsi formativi eccezionalmente performanti. Nonostante tutto, i talenti nostrani continuano a essere esportati in tutto il mondo. I dati Oecd fissano in 300 mila gli italiani di cultura elevata che hanno lasciato il Paese ottenendo successo all’estero. Ma resta sempre e comunque una contabilità negativa. Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha stimato in circa cinque miliardi di euro il prezzo che l’Italia paga per la diaspora dei migliori e dei più competitivi, che lasciano un Paese che non sa trattenerli. Rispetto al resto d’Europa, l’Italia si presenta con un sistema di formazione e accesso al mondo del lavoro che predispone al fallimento un gran numero di giovani. La competizione per il successo si risolve in un piccolo numero di vincitori e in una grande massa di esclusi. E svela un problema centrale: dopo aver creato un’etica del lavoro e dopo avere sottomesso ogni ambito a quello economico, i giovani si trovano di fronte alla prospettiva di una società senza lavoro, dove prevale la tendenza a spostare sempre più avanti la soglia dell’indipendenza economica. Una dilatazione forzata che prolunga in modo talvolta paradossale il tempo della giovinezza, fino a far sfumare i limiti di ciò che è chiamata «post-adolescenza’>. Il risultato è una massa di «quasi-adulti», bloccati nel passaggio tra il non-più e il non-ancora. I giovani non hanno scelto di non crescere, ma vi sono costretti perché privati di ogni autonomia e autodeterminazione. I percorsi scolastici universitari tendono ad allungarsi a dismisura, si abbandona la casa dei genitori sempre più tardi. I tassi di occupazione si sono abbassati ed è aumentata l’età del primo lavoro stabile. I mondi giovanili sono descritti dagli adulti con nomi diversi (generazione invisibile, generazione x, generazione in ecstasy), ma tutti concordano nell’indicare la mancanza di un’identità precisa e determinata. I giovani di oggi sono più poveri, dipendenti dalle famiglie, smarriti in un’Italia anziana, dove sono soggetti marginali più che protagonisti. La loro esclusione sociale assume forme diverse: dal reddito, dal mercato del lavoro, dalla prestazione dei servizi e dalle relazioni sociali, sul versante dell’economia come su quello dei diritti e della solidarietà. Lo squilibrio generazionale rende la società più iniqua e meno dinamica. Il futuro ha sempre rappresentato una promessa, mentre oggi si è trasformato in una minaccia. I giovani stanno diventando una risorsa scarsa, eppure il loro contributo è indispensabile per rilanciare lo sviluppo del Paese. La loro passività li rende meno capaci di diventare protagonisti del cambiamento. Una loro riscossa è urgente, ma ciò che gli manca è la speranza di successo. Nell’esclusione i giovani diventano apatici, vivono la loro situazione come un destino individuale e non collettivo, al quale è possibile sfuggire solo facendo fede nella buona sorte individuale.

LA SCOMMESSA DELLA UE In quest’ambito, l’Europa si sta muovendo con determinazione. Lo scorso 22 aprile la Commissione Europea ha approvato lo Youth Guarantee, ovvero la raccomandazione che detta le linee guida per risolvere le problematiche occupazionali che affliggono i giovani in tutta Europa. La Commissione ha fatto appello ai singoli Stati membri affinché s’impegnino a garantire, a tutti i cittadini sotto i 25 anni di età, un’offerta qualitativamente valida di lavoro, il proseguimento degli studi o l’accesso a un percorso formativo entro quattro mesi dall’inizio della disoccupazione o dall’interruzione del percorso di studi. Un’Europa consapevole che ha deciso di muoversi verso i giovani per recuperare quella che rappresenta la principale risorsa per il futuro. La risposta dell’Italia non deve farsi attendere se vuole iscriversi nel gruppo dei Paesi competitivi. E la chiave strategica da utilizzare è quella della formazione. Se guardiamo agli Stati caratterizzati dai più bassi tassi di disoccupazione giovanile, questi appaiono anche come quelli con i sistemi d’istruzione e formazione più strutturati, attrattivi e meglio finanziati. Un migliore accesso all’istruzione e alla formazione di qualità rappresenta lo strumento essenziale per migliorare la qualità della vita e promuovere la coesione sociale. La sfida che abbiamo davanti è di altissimo livello e richiede un notevole sforzo. A tal fine, è fondamentale intraprendere fin da subito tutte le azioni possibili per l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro e per l’attuazione di strategie di sensibilizzazione delle problematiche che li affliggono. Non più una società di giovani a perdere ma di opportunità e progetti di sviluppo per evitare il rischio povertà ed esclusione sociale di quel popolo che rappresenta il bacino a cui attingeremo il nostro futuro

Carlo Buttaroni – Presidente Tecnè

L’Unità 15.03.13

“Donne che fanno la differenza”, di Roberta Agostini

“Abbiamo voluto riunire la Conferenza delle Democratiche per avviare una discussione seria e aperta, dopo quanto accaduto in questi mesi, dalle elezioni alla nascita del nuovo governo, per capire meglio quale possa essere il nostro contributo nella fase nuova e difficile che stiamo attraversando.

Due anni fa e mezzo fa, nel febbraio del 2011, decidemmo di dare vita alla Conferenza delle Donne Democratiche, convinte che la comune appartenenza al genere femminile fosse politicamente rilevante e che l’assunzione piena di un nostro punto di vista sulla politica, l’economia, la società fosse indispensabile per guardare in modo nuovo al Paese e per cambiarlo.

Il nostro obiettivo era rendere più aperta ed inclusiva la politica attraverso un ricambio delle classi dirigenti, dentro e fuori le istituzioni, ancora troppo spesso in mano esclusivamente maschili e contribuire alla costruzione di un partito in grado di scegliere, rappresentare e promuovere interessi ed aspirazioni.

Siamo state parte di un movimento ampio e plurale delle donne ed abbiamo dialogato con tante realtà femminili ed associazioni, che in alcuni momenti preziosi sono state capaci di interpretare e dare voce alla realtà delle donne italiane.

Abbiamo denunciato l’intreccio perverso tra l’arretratezza di una cultura che nega diritti e libertà di scelta alle donne ed il blocco del Paese.

Abbiamo promosso iniziative e battaglie contro la violenza sulle donne e contro il femminicidio, come un tragico fenomeno che nasce dalla disparità nelle relazioni tra uomini e donne e che chiede una nuova civiltà dei rapporti umani. Lo abbiamo fatto in connessione ideale con tutte quelle donne che nel mondo si battono per i loro diritti, in India, in Messico, in Turchia, in Egitto, in Pakistan, in Europa.

La Convenzione di Istanbul, la cui approvazione abbiamo voluto con determinazione, è il simbolo di questa battaglia e di una comune strategia.

Da ultimo, siamo impegnate nella discussione sulle regole nella Commissione per il Congresso. Ci guida l’obiettivo di ricostruire un legame positivo tra cittadini e partiti, tra iscritti e gruppi dirigenti, tra istituzioni ed elettori.
Vogliamo ridare centralità ai territori, al valore della partecipazione, correggendo le derive correntizie, riaffermando il senso della scelta originaria del PD, dal quale indietro non torniamo, di unire le migliori culture politiche del Paese per farne una nuova.

Ma più di ogni altra cosa questo nostro partito, cosi come questo nostro Paese, ha bisogno di una rigenerazione di passioni, di un nuovo sentimento di comunità e di appartenenza, a cui tanto tantissimo, può contribuire la funzione civilizzatrice della presenza delle donne. Per questo continueremo ad impegnarci e le nostre parole sono state e saranno: democrazia paritaria, dignità, libertà, eguaglianza”.
Così Roberta Agostini, Portavoce nazionale delle democratiche, ha introdotto il suo intervento alla Conferenza nazionale delle Donne del PD, dal titolo: “Donne che fanno la differenza”.

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La sicurezza delle donne è il metro della democrazia di un Paese
Intervento del segretario del PD Guglielmo Epifani alla Conferenza nazionale delle Democratiche