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“Scuola, l’Italia bocciata in Europa”, di Nicola Cacace

Mentre le spese per istruzione aumentano in tutto il mondo, ricco e povero, per fronteggiare la crescente complessità e variabilità dei lavori, l’Italia, marcia in direzione opposta. Siamo l’unico Paese dell’area Ocse che dal 1995 non ha aumentato la spesa pubblica per studente della scuola primaria e secondaria e che ha fortemente ridotto la spesa pubblica per studente dell’università. In anni in cui la strumentazione tecnica ed informatica di supporto agli studi aumenta continuamente, noi riduciamo i fondi pubblici. Nello stesso periodo, 15 anni, i Paesi dell’Ocse hanno aumentato del 62% la spesa per istruzione primaria e secon- daria mentre in media mantenevano invariata la spesa per studente universitario. Questo per quanto riguarda le tendenze medie, che non dicono tutto. Perché il divario nei livelli assoluti di spesa pubblica tra Paesi del Nord e del Sud Europa si allarga sempre più. In Europa, nella politica dell’istruzione, invece di esserci convergenza c’è divergenza.

Serve una Maastricht dell’istruzione per ridurre questi divari. Mentre i norvegesi investono 731 euro per cittadino nell’università , Francia e Germania ne investono 304 e l’Italia solo 104. Per effetto di una drastica riduzione dei fondi per l’università, in Italia aumenta continuamente la quota privata del- le famiglie, per cui l’università sta diventando sempre più un business per famiglie agiate. Se quest’anno non ci sarà un ripristino del finanziamento decurtato di 300 milioni di euro, auspicato anche dal ministro Maria Chiara Carrozza, la posizione dell’Italia nella classifica delle università europee peggiorerà ulteriormente, così come la posizione del Paese nella divisione internazionale del lavoro. Ed i lodevoli Piani predisposti dall’Europa, anche sotto la spinta del nostro governo, per avviare qualche centinaio di migliaia di giovani dalla scuola o dall’inattività al lavoro, rischiano di infrangersi contro il muro della fragilità delle fondamenta culturali. Il muro delle carenze di cultura, basica e superiore, per poter rispondere positivamente agli sforzi di orientamento ed avviamento al lavoro da parte degli ispettorati al lavoro a ciò preposti. Come oggi abbiamo difficoltà quasi insormontabili ad avviare un minatore del Sulcis ad una diversa esperienza lavorativa, date le sue carenze culturali di base, così potremo avere difficoltà simili ad avviare un suo figliolo ad acquisire le conoscenze necessarie a svolgere un qualsiasi lavoro disponibile, se la scuola non gli avrà dato gli strumenti culturali necessari ad orientarsi nel difficile e mutevole mondo dei lavori di oggi.

Investire sul futuro non significa solo investire nelle infrastrutture materiali, strade, energia, innovazione, significa soprattutto investire sui giovani. L’Italia è già il Paese più vecchio del mondo, con meno giovani relativamente ad altri Paesi, se poi rinuncia anche ad investire sui suoi pochi giovani, soprattutto nella loro cultura, si condanna anche ad una fine ingloriosa e certa, in un mondo globale dai rapidi cambiamenti. Si condanna ad una vecchiaia inesorabile e crescente, dove, con i vecchi, resta solo la parte «peggiore» dei giovani, i migliori essendo fuggiti verso lidi più attraenti.

L’Unità 10.07.13

“Finanziamento dei partiti Serve subito una nuova legge”, di Antonio Misiani*

Il finanziamento dei partiti e dei movimenti politici rappresenta un punto cruciale del funzionamento di ogni democrazia. In Italia negli ultimi vent’anni attraverso i rimborsi elettorali sono state distribuite a tutti i partiti risorse pubbliche via via più ingenti e in assenza di controlli efficaci. Nel 2012 il Parlamento, di fronte all’indignazione suscitata dagli scandali Lusi e Belsito, ha approvato una riforma che ha dimezzato i rimborsi elettorali rafforzando molto la trasparenza e i controlli sui bilanci dei partiti. L’ondata populista alle elezioni politiche 2013, con il successo di un movimento che ha fatto della rinuncia ai rimborsi elettorali una bandiera, ha però evidenziato come il nodo del finanziamento dei partiti sia rimasto irrisolto.
Un intervento legislativo su questo tema è dunque necessario: la cosa peggiore che la politica potrebbe fare in questo frangente è lasciare le cose come stanno, facendo finta di nulla.

Una nuova legge deve riaffermare il principio che il funzionamento dei partiti – il modo con cui si finanziano, ma anche le loro regole interne – è un tema di interesse pubblico, che va regolato e orientato in modo da garantire democrazia, trasparenza, libertà da condizionamenti. Gli strumenti, per quanto riguarda il finanziamento, possono essere diretti (come avviene nella gran parte dei Paesi europei) o indiretti, ma le politiche pubbliche devono occuparsi di questa materia.

Il secondo obiettivo da perseguire è dare centralità ai cittadini nelle scelte di finanziamento e nella partecipazione alla vita dei partiti, per rilanciare soggetti che – pur rimanendo protagonisti insostituibili della nostra democrazia – oggi sono deboli e delegittimati come non mai.

Il disegno di legge presentato dal governo Letta non cancella affatto l’intervento pubblico: si superano i contributi diretti, ma si prevedono nuovi strumenti (il 2×1000, le agevolazioni fiscali rafforzate, il finanziamento di alcuni svizi) che impiegano le risorse statali valorizzando la li- bera scelta dei cittadini.

La proposta del governo lega l’accesso ai benefici fiscali al rispetto di una serie di requisiti di democrazia interna, in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione.

Questo impianto – condivisibile nella sua impostazione di fondo – può essere migliorato e rafforzato dal Palamento, evitando polemiche strumentali e guardando al merito delle questioni.

Un primo punto, imprescindibile, è l’introduzione di un tetto massimo alle singole donazioni private, evitando di lasciare campo libero al potere di condizionamento dei grandi interessi economici.

Il sistema del 2 per mille va perfezionato, garantendo la massima privacy per i contribuenti e superando la logica «censitaria» insita nel meccanismo proposto dal governo (il 2 per mille di un operaio non è lo stesso di quello di un notaio!).

Il regime delle agevolazioni fiscali può essere reso più funzionale a una raccolta fondi diffusa: il credito di imposta è preferibile alle detrazioni (che penalizzano gli incapienti); le agevolazioni fiscali andrebbero ulteriormente rafforzate per le piccole donazioni di persone fisiche (nella direzione indicata dalla proposta di legge popolare promossa da Pellegrino Capaldo) e ridotte per le erogazioni liberali da persone giuridiche; sarebbe opportuno abbassare la soglia minima detraibile delle donazioni (attualmente fissata a 50 euro).

Il finanziamento indiretto (in servizi) è una novità interessante che andrebbe potenziata, valorizzando l’attività politica diffusa promossa non solo dai partiti, ma anche dalle liste civiche, dai comitati, dalle associazioni con finalità politiche.

La legge deve intervenire anche sulle fondazioni e associazioni politiche, stabilendo regole di trasparenza e meccanismi di controllo analoghi a quelli previsti per i partiti.

Tutte queste proposte – fattibili a parità di saldi finanziari – non mutano la filosofia del disegno di legge e non ne indeboliscono l’impianto. Al contrario, lo consolidano. La nuova legge sul finanziamento dei partiti va di- scussa e approvata in tempi certi. Lo stesso è auspicabile che avvenga per il provvedimento di regolamentazione delle lobby, che il governo ha annunciato ma non ancora varato. Il Paese chiede discontinuità e rinnovamento e a queste domande vanno date risposte concre- te. Le bandiere ideologiche, da qualunque parte esse vengano innalzate, sono un ostacolo. Mettiamole da parte, concentrandoci sugli obiettivi di fondo e sugli strumenti più efficaci per conseguirli.

L’Unità 10.07.13

Giallo Kazakistan: «Alfano deve spiegare», di Claudia Fusani

Il governo balbetta da un mese su una brutta storia di spie, petrolio e diritti umani negati. E il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha una lancia nel fianco di cui non riesce a liberarsi. Perchè è difficile andare davanti al Parlamento, che lo reclama da giorni, a spiegare perchè la questura e la prefettura di Roma hanno, in meno di 72 ore, impacchettato e messo su un aereo privato una donna di 46 anni (Alma) e la figlia di sei (Alua) e le ha consegnate al presidente kazako Nursultan Nazarbayen e al premier Serik Akmetov. Due nomi che non brillano per principi democratici e rispetto delle libertà. E il cui obiettivo primario, oltre alla gestione degli immensi giacimenti energetici che fanno gola a tutto l’occidente, è arrestare, in ogni modo e ovunque si trovi, il dissidente Ablyazov. Per l’appunto il marito e il padre di Alma e Alua.
UNA PISTA IN ISRAELE
Quella accaduta a Roma, in una villa di Casal Palocco, tra il 29 e il 31 maggio 2013 è una brutta storia che ormai il governo e gli apparti non riescono più a tenere nascosta. In Parlamento, tanto alla Camera quanto al Senato, fioccano le interrogazioni. Il primo ad alzare la voce è stato, il 5 giugno scorso, in aula, il senatore Cinque stelle Mario Giarrusso. Ieri il senatore Luigi Manconi (pd), presidente della commissione per i diritti umani, ha chiesto di nuovo che il «governo venga in aula a riferire il prima possibile su questa storia». Il prima possibile, per Manconi, significa «al massimo entro la settimana». Ma se su questa storia si sono fatti sentire dapprima una
furibonda ministro degli Esteri Emma Bonino e poi un’altrettanto furibonda Guardasigilli Anna Maria Cancellieri, tutto tace da Alfano che è il ministro che tutto dovrebbe sapere della faccenda. E che invece continua a tacere. Oppure a far veicolare versioni per cui «sarebbero tutto avvenuto a sua insaputa». Cioè, prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, che Alfano voleva a capo della polizia; questore, capo della mobile e della Digos avrebbero agito in autonomia senza informare il livello politico di quello che accadeva tra il 29 e il 31 maggio in quel di Casal Palocco.
Ieri la storia è stata per la prima volta raccontata in una sede istituzionale, al Senato, dal senatore Manconi e dai due avvocati, Riccardo Olivo e Gregori Valente che hanno mostrato quei pochi documenti di cui sono riusciti ad entrare in possesso. Perché questo è il primo buco nero della storia: «Due persone su cui non pende alcuna accusa penale sono state prelevate da casa, perquisite e trattenute tre giorni senza poter vedere alcun legale e poi espulse in via amministrativa, poichè sprovviste di permesso di soggiorno. E di tutto questo denunciano i due avvocati non riusciamo ad avere accesso agli atti».
La storia può essere così riassunta. Su Ablyazov pesa da anni un mandato di cattura internazionale del Kazakistan per truffa, bancarotta e una lunga serie di reati economici. In realtà è il più grosso oppositore politico del presidente Nazarbayen, caro e grande amico di Berlusconi. Ablyazov, moglie e figlia hanno vissuto per anni a Londra. «Nel 2011 raccontano gli avvocati mostrando un documento della polizia di Londra le autorità inglesi hanno spiegato di non essere più in grado di garantire la loro sicurezza e che il livello di minaccia su di loro era diventato troppo alto». Inizia, nei fatti, una lunga latitanza, che tocca Lettonia, Francia, Svizzera. Da settembre 2012 Roma, Italia. Intanto un’agenzia di sicurezza privata, ingaggiata da una collegata di Tel Aviv, scopre che Ablyazov vive con la famiglia a Casal Palocco. Siamo al 28 maggio scorso. Quando un fax Interpol, di cui non c’è traccia, segnala a Prefettura e Questura dove andare a prelevare il dissidente.
QUATTRO IRRUZIONI
La prima irruzione è la notte tra il 28 e il 29 maggio. «Sembravano gangster ma invece erano poliziotti della questura di Roma, senza riconoscimenti, tesserini, nulla» raccontano gli avvocati. Seguono altre tre perquisizioni. Ablyazov non c’è. La moglie viene trattenuta tre giorni tra questura e Cie. «La bambina viene prelevata senza alcuna tutela aggiungono i legali la mattina del 31 maggio e portata a Ciampino dove su un aereo privato pagato dai kazaki l’attende la mamma».
Espulsione «illegittima» sulla base di «documentazione falsa» denunciano i legali. «Era entrata sottraendosi ai controlli di frontiera» filtra dal Viminale «e aveva con sè passaporti falsi». Quindi il decreto di espulsione è legittimo». Risulta dal fascicolo degli avvocati che i passaporti sono regolari (una della Repubblica Centroafricana e l’altro kazako). E che sicuramente Alma e la figlia, a prescindere dalle eventuali colpe del marito, erano in fuga da una minaccia più grande di loro.
Il nuovo capo della polizia Alessandro Pansa si insedia proprio il 31 pomeriggio, quando tutto si è già concluso. Un’operazione del genere non può essere stata condotta senza via libera dall’alto. Il ministro Alfano deve spiegare.

L’Unità 10.07.13

“L’ora dei cattivi presagi”, di Stefano Folli

Qualunque cosa si voglia pensare dei verdetti di Standard&Poor’s e delle altre agenzie di “rating”, non c’è dubbio che la bastonata è autentica ed è una brutta notizia. Se non altro perché tende a esporre l’Italia, indebolita, alle solite operazioni speculative sui mercati. Per cui «il paese resta un vigilato speciale».

La frase è del presidente del Consiglio ed è davvero il minimo che si possa dire, condita di parecchia amarezza. Vigilati speciali… Non è molto incoraggiante. Anche se la frase di Letta è pur sempre un modo per tentare di girare a proprio favore un evento negativo: proprio perché l’Italia è ancora sotto sorveglianza, guai a intaccare quel tanto di stabilità che il governo delle larghe intese riesce a garantire. Tuttavia il problema, a proposito di stabilità, è che il declassamento non è l’unica cattiva notizia di ieri. Ce n’è una assai peggiore e riguarda, come tutti ormai sanno, Berlusconi e il processo Mediaset.

Sul piano virtuale, la scelta della Corte di Cassazione di accelerare i tempi e di decidere il 30 luglio sul ricorso dei difensori dell’ex premier, equivale all’accensione di una miccia a combustione neanche troppo lenta. Berlusconi per il momento tiene i nervi saldi, sia a pure con crescente fatica. Ma si sente giocato, teme di essere finito in una trappola inesorabile.

È chiaro che l’anticipo giudiziario («qualcosa che in quarant’anni non avevo mai visto» ha detto Franco Coppi, il noto penalista che rappresenta il leader del centrodestra) non potrà non avere, alla lunga, un impatto straordinario sulla maggioranza. D’altra parte, la logica suggerisce che dal Pdl, o meglio da Palazzo Grazioli, non ci saranno colpi di testa prima dell'”ora X” o in prossimità di essa. A questo punto, la rissa o addirittura la crisi di governo sarebbe un errore fatale.

La ragione è una sola. Non è affatto certo che tempi più brevi vogliano dire sicura conferma delle condanne. Significano, questo è vero, un disagio per la difesa costretta a lavorare in spazi più angusti. Ma le questioni di diritto sono le stesse in luglio come in ottobre. Per cui la tendenza al panico che si registra in certi ambienti del Pdl è forse esagerata e di sicuro controproducente. Gridare oggi al complotto e accusare come di consueto la “giustizia politica” è una dimostrazione di debolezza, non certo di forza. Ci sarà tempo, nel caso, per dare la stura al repertorio del vittimismo. Adesso è il momento di misurare bene i passi.

Ovvio che non si potranno tenere distinti, come se niente fosse, il piano politico e quello giudiziario. Questo è un auspicio che Enrico Letta ha l’obbligo di far suo, ostentando fiducia. Ma chissà quanto egli stesso crede alle sue parole. È altrettanto vero, peraltro, che Berlusconi ha tutto l’interesse a concentrarsi oggi sulla Cassazione. Scaricare le tensioni sul governo sarebbe un gesto impulsivo per nulla in grado di avvicinare di un metro la soluzione del tema processuale.

Quello che sappiamo è che da ieri il cammino delle larghe intese è ancora più difficile. Prima la relativa forza di Letta era la mancanza di un’alternativa. Ora l’alternativa continua a latitare, ma la precarietà di Berlusconi determina una potenziale e drammatica novità. Certo, anche in caso di condanna definitiva il leader del centrodestra, sia pure interdetto, dovrà pensare a tutelare la rete di interessi di cui egli è ancora il punto d’equilibrio. Non è detto che il modo migliore per farlo sia buttare tutto all’aria. Il punto però è che nell’ipotesi peggiore la galassia del Pdl non riuscirà a reggere la pressione. Saranno allora le circostanze a decidere il futuro della destra e dunque anche della grande coalizione.

Il Sole 24 Ore 10.07.13

“Il crimine dell’indifferenza”, di Barbara Spinelli

Immaginiamo dunque questo: che Papa Francesco abbia accettato di firmare un’enciclica scritta quasi per intero da Joseph Ratzinger, perché all’enciclica non era affatto interessato. Quel che lo interessava sopra ogni cosa, che lo convocava, era il viaggio a Lampedusa, sul bordo di quel Mediterraneo dove sono morti, dal 1988, 19mila migranti in fuga dalla povertà, dalle guerre, dalle torture. Altri drammi vedremo, con l’Egitto che sprofonda nel caos e nell’eccidio.
Così grave è il male di questo mondo, così vaste le colpe dei singoli, dei loro Stati, anche della Chiesa, che occuparsi di teologia in modo tradizionale – con precetti, verità assolute – può apparire una distrazione, se non un’incuria. Si riempie un vuoto, per occultarlo. Lo si affolla di parole dottorali, quando altra è l’emergenza: andare in quell’isola, simbolo delle nostre ipocrisie e del nostro disonore. La teologia non fa piangere, e di lacrime c’è soprattutto bisogno, ha detto il Pontefice. Il mondo è uscito dai cardini, 19mila morti sono lo scandalo che nessun politico grida, e il Papa ha trovato la parola che lo mette a nudo e lo definisce: la globalizzazione dell’indifferenza.
È come se il Papa dicesse (ma stiamo immaginando): «Io non scrivo encicliche, per ora. O meglio ne propongo una tutta nuova: facendomi testimone e pastore che non teorizza ma agisce. Io vado dove le lacrime sono sostanza del mondo». Come Achab, il cacciatore della balena bianca in
Moby Dick: di sotto al cappello calcato, cade nell’oceano una sua lacrima. «Tutto il Pacifico non conteneva tante ricchezze che valessero quella misera goccia ». Perché dove c’è teologia non c’è teofania: dove c’è ideologia si parla
di Dio, ma Dio non si manifesta.
Immaginiamo che sia una forma di esilio, questo rifiuto di scrivere encicliche ora. Un «esiliarsi rimanendo lì», spiega Carlo Ossola in un articolo del febbraio 2012 sul
Sole 24 ore: una peregrinatio in stabilitate, secondo i monaci antichi. Una «disoccupazione di spazi» per accogliere il prossimo senza che esso diventi ingombro, disse una volta Roland Barthes. È quello che fece Gesù, che non scriveva trattati ma andava in giro fra la gente «nelle oscure vie della città» (nelle «periferie esistenziali» evocate a marzo dal Papa), come il Cristo raccontato da Dostoevskij che torna in terra e scampa alla prigione del Grande Inquisitore di Siviglia.
Gesù non scolpisce leggi divine sulla pietra, quando assiste al processo dell’adultera: urge fermare un linciaggio. In un primo momento tace, si china a terra, e scrive sulla sabbia un’altra legge, che non si fissa perché sulla sabbia passa il vento. Importante è che la sua parola s’incammini nelle menti, aprendo un vuoto e facendo silenzio tutto intorno. Dicono che non è teologia: in realtà è teologia diversa. Gianfranco Brunelli lo spiega bene, in un articolo sul Regno: esiste uno stile cristiano
(lo stile di Gesù), non meno sofisticato delle dottrine, e il Papa lo fa proprio quando proclama: «Il mondo di oggi ha tanto bisogno di testimoni. Non tanto di maestri, ma di testimoni. Non parlare tanto, ma parlare con tutta la vita» (18 maggio 2013).
La Parola è centrale nel cristianesimo, e nelle religioni del Libro. Non la parola scritta dottamente. Ma quella che dici all’altro: ai sommersi, sofferenti; ai «cari immigrati musulmani», cui il Papa augura un Ramadan ricco di «abbondanti frutti spirituali»; e ai tanti che di fronte al soffrire dicono al massimo poverino! e impassibili passano oltre. Francesco non passa oltre, anzi mette se stesso fra i colpevoli d’indifferenza: «Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. (…) Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non è affare nostro!».
La Chiesa romana è peccatrice, proprio come nella Commedia
di Dante è responsabile del mondo uscito dai cardini, disastrata dal potere temporale. E colpevoli sono i sovrani d’Occidente, che tollerano quelle povertà estreme, e un Mediterraneo funebre, e l’immondo commercio di chi «sfrutta la povertà degli altri, facendone fonte di guadagno».
Arrivando a Lampedusa il Papa ha sorriso ai migranti, ma altrimenti il volto era assorto, il capo chino. Durante la messa non è andato tra la folla, per lo scambio dei saluti. Non sta col capo chino chi edifica dottrine, l’occhio fisso sul crocifisso: dunque più sulla morte di Gesù che sulla sua vita e le sue opere terrene. Tiene il capo chino chi espia, o è rattristato, o semplicemente pensa, e tace come Gesù con l’adultera.
A che pensa il Papa? Nell’omelia lo racconta. Fin da quando ha saputo dei tanti morti in mare, il pensiero della tragedia s’è conficcato «come una spina nel cuore che porta sofferenza». Allora ha sùbito risposto sì all’invito di visitare l’isola. L’enciclica gli era indifferente (immaginiamo, ancora): «Ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta». Due volte ha detto il verbo – «Non si ripeta per favore» – come un mendicante che ha rabbia dentro e la trattiene.
Ha anche pensato alle poche parole che Dio rivolge all’umanità, nella Genesi. Una prima volta all’uomo che appena creato pecca: «Dove sei Adamo? ». Poi al primo fratricida: «Caino, dov’è tuo fratello?». Ne è nata una «catena di sbagli che è una catena di morte». Di qui la terza domanda, del Pontefice: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?». La conclusione cui giunge non è quella cui siamo abituati: nessun accenno al relativismo, al nichilismo, parole europee dei secoli scorsi. Essenziali sono le lacrime, l’anestesia
del cuore.
«Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza
del piangere, del patire-con». Ecco la globalizzazione dell’indifferenza: è tremenda perché «ci ha tolto la capacità di piangere». Perché si nutre di politiche che generano caos, e lo chiamano pace.
Tutto questo possiamo immaginare, senza scostarci troppo dal vero. Dicono che un Papa così è impolitico, perché va nelle periferie esistenziali detestate dai Grandi Inquisitori, e fa politica quando potrebbe installarsi in un’enciclica. L’irritazione è massima. Basti citare la reazione di Cicchitto, araldo di Berlusconi: «Un conto è la predicazione religiosa, un altro è la gestione da parte dello Stato di un fenomeno così difficile quale l’immigrazione irregolare». Cose simili dice il ministro greco dell’Interno (Nikos Dendias, uomo di Samaras), blandendo i nazisti di Alba Dorata.
Il peccato d’indifferenza ha una lunga storia in Europa. Lo scrittore Herman Broch lo chiamò, narrando la Germania pre-hitleriana, crimine dell’indifferenza: più grave ancora del peccato di omissione, perché non perseguibile penalmente (nel primo caso c’è almeno il reato di omissione di soccorso). L’indifferente non è stato sveglio, quando si poteva. «Non è stato attento al mondo in cui viviamo», dice il Papa: «Non abbiamo curato e custodito quello che Dio ha creato per tutti». Chi difende il proprio benessere buttando a mare gli «uomini di troppo» usa il cristianesimo, mal dissimulando il razzismo e facendo quadrato attorno alla triade «Dio, famiglia, patria tribale». Ha perfino, come Cicchitto, l’impudenza di invocare la laicità: che lo Stato governi, e i Papi scrivano encicliche. Disobbediente, imperturbato, il Papa infrange quest’ordine imbalsamato. Non a caso il suo nome è Francesco. Sappiamo che le prediche di Francesco mutarono il mondo.

La Repubblica 10.07.13

“Contratti più flessibili e risorse sulle tasse la maggioranza ci prova”, di Valentina Santarpia

Non si apre con le premesse migliori la cabina di regia che oggi dovrà affrontare, a partire dalle 14 nella sala degli Arazzi di Palazzo Chigi, le coperture per il rinvio di tre mesi dell’aumento dell’Iva e per gli incentivi all’occupazione stabiliti dal decreto legge varato dal ministro Enrico Giovannini. Da una parte, il declassamento di Standard & Poor’s , che critica proprio il «differente approccio nella coalizione di governo» per coprire il disavanzo che deriva dalla sospensione dell’Imu e dell’aumento dell’Iva. Dall’altra, la decisione della Corte di Cassazione di fissare al 30 luglio la sentenza del processo Mediaset. Due notizie che rischiano di avvelenare ancora di più il clima già teso tra Pd e Pdl in vista delle decisioni importanti da prendere.Il ministro Fabrizio Saccomanni, nonostante tutto, è fiducioso: «Nella cabina di regia di domani e della prossima settimana troveremo su Iva e Imu le soluzioni migliori per il Paese, d’intesa con la maggioranza», ha assicurato ieri su Twitter . I tecnici del ministero del Tesoro hanno infatti messo a punto una serie di soluzioni alternative a quell’aumento degli acconti Ires, Irap e Irpef che aveva suscitato più di qualche mal di pancia.

Tra queste, potrebbe esserci la rimodulazione dell’Iva, ipotizzata dal ministro per i Rapporti col Parlamento Dario Franceschini. Una rivisitazione delle aliquote, spesso incongruenti, assegnate ai vari prodotti del paniere Istat potrebbe infatti far tornare i conti: tanto per fare un esempio, perché la frutta surgelata dovrebbe avere l’Iva al 4% mentre la verdura surgelata al 10%? Cambiare in maniera razionale questi elementi potrebbe essere complicato, ma servire allo scopo di evitare l’aumento più generalizzato dell’Iva, senza andare a toccare la spesa pubblica. Che è già diminuita: come si legge anche nella relazione di Saccomanni alle Commissioni finanze riunite di Camera e Senato, negli ultimi tre anni la spesa corrente «si è contratta in termini nominali di quasi 4 punti percentuali». Ed è difficile immaginare ulteriori tagli se, come è successo anche l’anno scorso, spuntano debiti fuori bilancio come funghi: nel 2012 ammontavano a 500 milioni, causati perfino dal mancato pagamento delle bollette da parte degli uffici pubblici. Anche il presidente del Consiglio Enrico Letta, che probabilmente oggi non sarà presente alla riunione, ieri ha chiarito che bisogna essere cauti sui tagli alla spesa pubblica (che vale 800 miliardi) e che il bilancio di quest’anno non è flessibile, perché ha già messo in conto l’Imu e l’aumento dell’Iva, che costano complessivamente 6 miliardi di euro (4 per l’Imu e 2 per l’Iva), che diventano a regime 8 miliardi (4 per l’Imu e 4 per l’Iva). Sulla tassa sulla prima casa, argomento all’ordine del giorno della riunione del 18, il Pdl è ancorato alle sue posizioni: tutte le ipotesi di rimodulazione dell’imposta circolate negli ultimi giorni, dall’aumento della franchigia alla creazione di una nuova tassa complessiva, hanno suscitato reazioni indignate. E anche sul fronte del decreto lavoro, che è in discussione al Senato, il partito si è irrigidito: il capogruppo Renato Brunetta ha parlato di «decreto legge da riscrivere». E, complici le pressioni di Rete Impresa e Confindustria, il centrodestra potrebbe cercare di far rientrare dalla finestra un articolo uscito dalla porta principale: ovvero la flessibilità sui contratti per l’Expo. Il ministro al Lavoro Enrico Giovannini aveva già previsto nella bozza del decreto la possibilità di creare dei contratti a tempo determinato senza causale per tre anni (fino al 2016) per i lavoratori dell’evento di Milano, ma lasciando poi i dettagli alla contrattazione collettiva. Un’ipotesi che il Pdl aveva bocciato, volendo bypassare proprio gli accordi coi sindacati. Ora il partito di Berlusconi vorrebbe tornare sull’argomento, chiedendo la deroga alla contrattazione nazionale e la possibilità per gli imprenditori di estendere questa formula particolare di contratto a tempo causale a tutti i lavoratori. Una strada che potrebbe però scatenare un altro conflitto: «Se si pensa di utilizzare la logica dell’Expo per rilanciare la logica della deregolamentazione del lavoro e della derogabilità dei contratti — contestano in una nota congiunta Cgil nazionale, Cgil Lombardia e Camera del lavoro di Milano — si è proprio fuori strada».
Il Corriere della Sera 10.07.13

Letta: “Il Porcellum una vergogna” E il Pd prepara la controffensiva “In autunno la legge va cambiata”, di Francesco Bei

Il Porcellum «è un monstrum che non garantisce né rappresentanza né governabilità. Una vergogna, peraltro a rischio di incostituzionalità, che va superata al più presto». La riforma della legge elettorale, una delle ragioni di esistenza del governo di larghe intese, torna in superficie ed è proprio Enrico Letta a tirarla fuori dal cassetto. In un’intervista che uscirà sulla rivista dell’Arel, anticipata da “Europa”, il premier ribadisce infatti l’impegno preso «dinanzi al Parlamento» di abolire una legge assurda, «un sistema elettorale imploso», che dopo le elezioni di febbraio ha provocato il caos. Ma non basta, bisogna cambiare tutta la “governance” istituzionale: «Non dobbiamo cercare scorciatoie e cadere nell’errore di considerare la legge elettorale la causa unica di tutti i mali della politica italiana». È tutto il sistema a non essere più «all’altezza delle sfide con le quali un paese come l’Italia deve oggi misurarsi. Tanto più dopo vent’anni di bipolarismo muscolare e inconcludente che ha inibito ogni serio tentativo di riforma». Parole che arrivano proprio nel giorno in cui il Senato inizia il dibattito sull’istituzione del “Comitato dei 40” per la riforma costituzionale. «Governo e Parlamento — dice in aula il ministro delle riforme Quagliariello — dovranno procedere insieme dandosi il cambio alla guida, come se fossero in due su una Smart».
Il premier, intervistato in serata da Ballarò, insiste anche su un altro punto del programma, l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Il governo ha già presentato in Parlamento il suo disegno di legge sull’argomento, ma i partiti — Pd e Pdl — resistono. Per questo Letta ribadisce di essere pronto a usare l’arma finale: «Ho già detto che siamo pronti ad un decreto».
Sulla legge elettorale l’incomunicabilità tra Pd e Pdl resta totale. Ieri il Pd è tornato all’attacco
con Anna Finocchiaro: «Se ci fosse un accordo sulla riforma elettorale, il Porcellum potrebbe essere cancellato anche domani mattina. Io mi auguro che questo possa avvenire il più presto possibile. È fondamentale che il Paese sia messo in salvo nel caso ci fossero elezioni a breve». Ma dal Pdl gli ha riposto il dirimpettaio presidente della commissione affari costituzionali della Camera, Francesco Paolo Sisto: «Chi seguita ad incitare il Parlamento a varare al più presto una nuova legge elettorale rischia di alimentare i dubbi sulla reale volontà di centrare l’obiettivo delle riforme». La sensazione nel Pd è che il fronte berlusconiano non voglia toccare nulla nell’attesa della pronuncia della Corte costituzionale che in autunno potrebbe cancellare il premio di maggioranza. A quel punto resterebbe in piedi un Porcellum sfigurato, senza nemmeno il premio, che i critici hanno ribattezzato «Maialinum». Il Pd è pronto al contrattacco e chiederà che la questione della riforma elettorale venga messa al centro dell’agenda parlamentare da settembre. E tuttavia c’è chi, anche nelle file del Pd, dubita della reale volontà del governo di larghe intese di procedere al superamento del Porcellum: «Se Quagliariello — osserva il renziano Roberto Giachetti — teorizza che l’accordo si debba fare nelle segrete stanze dei partiti a me viene il sospetto che si stia costruendo un inganno, ovvero la nascita del Maialinum. È questo che intende Letta? Spero di no».

La Repubblica 10.07.13