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“Un finale da Caimano”, di Massimo Giannini

Non serviva una particolare virtù divinatoria, per sapere che a dispetto della propaganda populista la vera bomba a orologeria innescata sotto al tavolo delle Larghe Intese non è l’Imu, non è l’Iva, e non è nemmeno il lavoro. Erano e sono, molto più banalmente, i processi di Berlusconi, che purtroppo paralizzano l’Italia ormai da quasi vent’anni.
La novità è che la Cassazione ha attivato il timer. Il 30 luglio, a questo punto, il Cavaliere rischia dunque una condanna definitiva per frode fiscale, punita con 4 anni di reclusione (che non sconterà) e 5 anni di interdizione dai pubblici uffici (che invece dovrà scontare, salvo clamorosi e vergognosi colpi di spugna decisi dal Parlamento). Com’era prevedibile, la decisione della Suprema Corte solleva altissima l’onda dello sdegno cavalcata dai surfisti dell’impunità. Nel Pdl si involano i falchi, si infuriano le amazzoni, sibilano le pitonesse. Da Cicchitto a Sacconi, da Bondi a Matteoli, le formule sono più o meno le solite: «complotto politico-giudiziario per colpire Berlusconi e far cadere Letta», «giustizia sommaria contro un uomo solo », «attentato alla democrazia» che apre «serie incognite sul futuro del governo». Santanché si chiede addirittura «cosa aspettiamo a passare all’azione», dove per «azione» nessuno sa ancora immaginare cosa si intenda davvero. L’unica cosa chiara è che l’insurrezione mediatica prelude alla destabilizzazione politica. Il «tintinnare di sciabole» che proviene da destra non lascia presagire nulla di buono per la già fragilissima Grosse Koalition all’italiana.
Alfano si augura che adesso la Cassazione «usi la stessa celerità con tutti i processi ». Per una volta, senza volerlo né saperlo, il segretario del Pdl dice una cosa giusta. È esattamente quello che è accaduto nel caso di specie. La «celerità» con la quale la Corte ha deciso di fissare in tempi così rapidi l’udienza e la sentenza sul processo per i diritti tv Mediaset in cui è coinvolto Berlusconi è proprio la stessa che usa in tutti i processi sui quali pende la stessa «minaccia», cioè quella della prescrizione. Per saperlo basta incrociare l’articolo 169 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale e il «decreto organizzativo» varato più di un anno fa dall’allora primo presidente della stessa Cassazione, Ernesto Lupo. Le due disposizioni prevedono che in tutti i processi prossimi alla scadenza, e sui quali pende il rischio di una prescrizione anche parziale o «intermedia», la Cassazione penale procede «d’urgenza». Vale ora per il Cavaliere, e da più di un anno vale ed è valso per qualunque altro cittadino. Dunque, nessuna persecuzione personale, nessuna forzatura «ad personam ».
«Ad personam », semmai e come al solito, era la prescrizione che si stava per abbattere in parte anche sul processo diritti tv Mediaset (come si è già abbattuta dal ’94 ad oggi in nove dei diciassette processi, da All Iberian al caso Mills, nei quali l’ex premier si è salvato grazie alle norme su misura fatte approvare a forza dalle Camere). Grazie alla legge ex Cirielli (varata dal governo dell’allora Cdl nel 2005) per effetto del calcolo dei periodi di sospensione subiti durante il dibattimento, il prossimo 13 settembre si sarebbe prescritta una delle due annualità fiscali per le quali il Cavaliere è già stato condannato per frode in primo e in secondo grado. Se la Cassazione non avesse adottato la procedura «d’urgenza», affidando l’udienza finale del 30 luglio alla cosiddetta «sezione feriale», la sentenza definitiva (emessa dopo il 13 settembre) avrebbe riguardato un’unica annualità fiscale della frode Mediaset, e questo avrebbe obbligato la Corte a rinviare comunque il processo alla Corte d’appello, per consentire il ricalcolo della pena (commisurandola non più su un reato compiuto in due anni,
ma su un solo anno). L’intero processo, a quel punto, si sarebbe prolungato al 2014. Con il pericolo di arrivare in questo modo alla sua completa estinzione, visto che la prescrizione totale è prevista per il giugno del prossimo anno.
Di fronte allo scenario infausto di un ennesimo salvacondotto, la mossa della Corte non solo non è scandalosa, ma era al contrario doverosa. Ed è stupefacente che Franco Coppi si dichiari «esterrefatto». È un grande avvocato, patrocina in Cassazione da anni, e non può non conoscere le regole. Evidentemente anche un principe del Foro, da difensore del Cavaliere, si fa accecare dal teorema della «persecuzione giudiziaria» e delle «toghe rosse». Ora tutto è nelle mani dei giudici della Suprema Corte. Il 30 luglio, come il nemico, è alle porte. E com’era ovvio, il Pdl è già sulle barricate, pronto a combattere la madre di tutte le battaglie. Tornano in auge mai sopiti propositi ribellisti, in una progressione sediziosa che va dal minimo di una grande manifestazione di piazza al massimo di un Aventino di massa dal Parlamento. In tutti i casi, è ridicolo illudersi che la strana maggioranza tenga e che le Larghe Intese restino salde, mentre il Cavaliere rischia tra appena tre settimane gli arresti domiciliari, l’affidamento ai servizi sociali e l’estromissione definitiva dalla politica. Per Berlusconi e per la sua corte la tentazione di far saltare il tavolo, prima o dopo che la bomba a orologeria sarà esplosa, è fortissima.
Si avvicina l’epilogo che temevamo. La gigantesca bolla della «pacificazione», sulla quale la destra ha costruito e vincolato lo scellerato patto di governo con la sinistra, si sgonfia miseramente, e libera miasmi velenosi e pericolosi. Un intero Paese resta in ostaggio dell’ossessione personale e processuale di un solo uomo, in nome della quale tutto è sacrificabile. Se la Cassazione confermerà la condanna, tutto è davvero possibile. Compresa la crisi, il voto, una campagna elettorale feroce. A meno che nella Giunta per le autorizzazioni del Senato, che sarà chiamata a ratificare a scrutinio segreto l’interdizione dai pubblici uffici, qualche anima persa del Pd non decida di offrire un «soccorso rosso» al Cavaliere. Un atto di nichilismo etico e di cinismo politico così enorme ed abnorme che risulta persino difficile da pensare, e che dunque non può essere neanche pensato.
Nel frattempo l’immagine dello Statista responsabile, costruita a forza da Giuliano Ferrara sul profilo riluttante del populista di Arcore, sbiadisce e quasi svanisce nell’attesa dell’ordalia di fine luglio. E sullo sfondo si intuisce un finale da Caimano di Nanni Moretti, con tumulti e fuochi intorno ai palazzi di giustizia. Edificante al cinema, terrificante nella realtà.

La Repubblica 10.07.13

“Non sacrifichiamo le pensioni sull’altare dell’Imu”, di Cesare Damiano

I “piccoli passi” compiuti dal governo in direzione delle riforme sono oggetto, contemporaneamente, di apprezzamenti e critiche che provengono dagli stessi partiti che sostengono l’esecutivo. Dopo il decreto sull’occupazione, che ha cominciato il suo iter al Senato, è tempo di dedicarsi alle pensioni. La nostra non è una richiesta anticipata e precipitosa, ma l’espressione di una preoccupazione: che il governo collochi questa tematica all’ultimo posto nella lista delle priorità.
Il ministro Giovannini ha affermato che si comincerà a parlarne a partire dal prossimo mese di settembre. È evidente che, con questa scelta temporale, il provvedimento sulla previdenza andrà a finire nella legge di Stabilità. Sorge a questo punto un interrogativo sul tema delle risorse. Non vorremmo scoprire che esaurite le esigenze, anche parziali, di copertura finanziaria che si riferiscono agli altri provvedimenti, non rimanessero risorse sufficienti per intervenire sulle pensioni. Sappiamo che il governo intende risolvere, entro l’estate, i problemi dell’Imu e dell’Iva e che il ministro Saccomanni ha dichiarato che nel mese di giugno si è registrato un avanzo di bilancio provvisorio di ben 14 miliardi di euro, di 8 miliardi superiore rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Una buona notizia che si somma a quella relativa alle altre risorse che l’Italia ha strappato in sede europea, grazie al superamento della procedura di infrazione e all’allentamento dei vincoli che per fortuna l’Europa si è decisa ad adottare nel caso di spese per investimento. Nonostante tutto questo, non sfugge il fatto che allo stato esiste una notevole distanza tra le richieste avanzate dai partiti, soprattutto di centrodestra, e le risorse disponibili. Per questo occorre una ferma e prudente regia per quanto riguarda la distribuzione dei finanziamenti. Il Partito Democratico ha indicato con chiarezza le sue priorità: sostegno alle imprese e all’occupazione, in particolare di quella giovanile, rifinanziamento della cassa integrazione in deroga e correzione del sistema pensionistico. Questo non vuol dire che non vogliamo affrontare il temi dell’Imu e dell’Iva. Sul primo osserviamo soltanto che sarebbe delittuoso consentire la cancellazione del tributo sulla prima casa anche a chi ha un reddito alto, perché questo sottrarrebbe risorse agli impieghi di carattere sociale. Anche sull’Iva si può mantenere un criterio di carattere selettivo distinguendo, come già accade, tra consumi popolari e di lusso. Se si procede in modo oculato non si corre il rischio di arrivare a fine corsa avendo esaurito tutte le risorse. Nella commissione Lavoro della Camera la discussione è iniziata su alcune proposte di legge sulle pensioni presentate dai partiti di maggioranza e di opposizione: il Partito Democratico ne ha depositate due, delle quali sono il primo firmatario, già presentate nella precedente legislatura. Adesso si tratta di lavorare per arrivare ad una convergenza di contenuti almeno tra i partiti di maggioranza per poi trovare un accordo con il governo.
Il Presidente del Consiglio, al momento del suo insediamento, ha chiaramente dichiarato che tra le priorità dell’ esecutivo c’era la soluzione del problema dei cosiddetti esodati e l’introduzione di un criterio di flessibilità nel sistema previdenziale. Con le nostre proposte vogliamo dare una risposta a questi interrogativi e indichiamo anche le soluzioni legislative. Sappiamo che sono già all’opera i detrattori che vorrebbero impedire che si cambi la riforma Fornero. Gli argomenti che vengono utilizzati sono sempre gli stessi, periodicamente riverniciati. Si vuol far credere che noi vogliamo cancellare la riforma, mentre la nostra scelta è quella di una sua significativa correzione. Si tira in ballo il tema delle coperture finanziarie che si rendono necessarie per migliorare le normative dimenticando che, tra il 2020 ed il 2060, dal sistema previdenziale si risparmieranno oltre 300 miliardi di euro, come confermato dalla Ragioneria dello Stato. Un’ enormità che squilibra pesantemente le tutele sociali a scapito dei più deboli e che indica la possibilità di reperire risorse.

Le nostre correzioni sono note: ampliare la platea degli attuali 130.000 salvaguardati (finora l’Inps ha liquidato le prime 12.000 pensioni); consentire, con 62 anni di età, 35 di contributi e con una penalizzazione dell’8% (che scompare a 66 anni), di poter andare in pensione; riconoscere l’assegno previdenziale anche a chi ha maturato 41 anni di contributi, indipendentemente dall’età e senza penalizzazioni. Su questi temi la nostra battaglia continua: per questo chiediamo con forza al governo di far seguire alle parole i fatti rendendo finalmente giustizia a centinaia di migliaia di lavoratori.

L’Unità 09.07.13

“Le disuguaglianze insostenibili”, di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini

Mentre le ultime rilevazioni dell’Istat indicano un vero e proprio crollo dei consumi delle famiglie, uno studio commissionato dall’Unione Europea, Gini-Growing inequality impact, ha messo in evidenza che l’Italia è tra i paesi europei che registrano le maggiori diseguaglianze nella distribuzione dei redditi, seconda solo al Regno Unito, e con livelli di disparità superiori alla media dei paesi Ocse. Non solo: da noi la favola di Cenerentola si avvera con sempre minor frequenza, nel senso che le unioni si verificano non tanto tra fasce di reddito diverse ma entro le stesse fasce frenando la mobilità sociale. Inoltre, appare che la ricchezza si sta spostando verso la popolazione più anziana accentuando il divario tra generazioni.
Il crollo dei consumi in Italia è dunque associato ad un divario nella distribuzione della ricchezza che si è accentuato durante la crisi: oggi circa la metà del reddito totale è in mano al 10% delle famiglie, mentre il 90% deve dividersi l’altra metà.
La domanda che si impone è: come siamo arrivati a questo punto?
La risposta non è difficile: questa situazione va ricondotta al pensiero dominante di ispirazione neoliberista, che si è affermato all’inizio degli anni ’80 negli Stati Uniti e in Inghilterra e che poi ha influenzato la politica economica dell’Unione europea. La teoria economica neoliberista si fonda sull’assunto che la diseguaglianza non inficia in alcun modo la crescita. Anzi, detassare redditi e soprattutto patrimoni immobiliari e mobiliari dei più ricchi genererebbe un “effetto a cascata” che dai piani alti della società trasferirebbe la ricchezza fino ai piani bassi, portando ad un arricchimento generale e ad una maggiore crescita. Questa idea ha aperto la strada alle privatizzazioni e alla deregulation dei mercati finanziari (inclusa la proliferazione dei paradisi fiscali) per permettere agli “spiriti animali” di dispiegare liberamente tutta la loro forza propulsiva. Così lo Stato diventa un “disturbatore”, fonte di sprechi e di inefficienza, e pertanto deve essere ridotto ai minimi termini. “La società non esiste, ci sono solo individui e famiglie. E nessun governo può far nulla. La gente deve pensare a se stessa”: così Margaret Thatcher in una sentenza diventata tristemente famosa.
Dall’inizio degli anni ’80, il drastico ridimensionamento della capacità di intervento dello Stato nell’economia e il progressivo indebolimento dei lavoratori, che cominciano a subire i ricatti delle delocalizzazioni produttive, interrompono l’espansione della classe media che si era registrata nell’Età dell’Oro (1945-1973). Ma una crescita fondata su diseguaglianze crescenti può destabilizzare l’economia riportando indietro di anni il livello di benessere della popolazione. Joseph Stiglitz ha sintetizzato i risultati delle sue ricerche in una formula che dimostra come diseguaglianza e sviluppo economico siano inversamente proporzionali.
Insomma, l’effetto a cascata auspicato dai liberisti non si è assolutamente verificato e sono risultati evidenti gli effetti nefasti della polarizzazione della ricchezza, così come era stato teorizzato da Karl Marx.
Dopo la crisi esplosa nel 2008 lo Stato è dovuto intervenire massicciamente per salvare il settore privato dal collasso, il che ha determinato un’espansione rapidissima del rapporto tra debito pubblico e Pil in tutti i paesi avanzati. E ora si è scatenata una nuova controffensiva del settore privato e dei mercati per tagliare i servizi sociali e più in generale la spesa pubblica aggravando la situazione delle fasce più deboli ed alimentando diseguaglianze sempre più marcate.
Il ceto medio è il vero motore dei consumi sia perché rappresenta la fascia più larga della popolazione, sia perché tende a convertire in consumi una percentuale proporzionalmente molto più elevata del proprio reddito. Se far ripartire i consumi è una delle principali chiavi per promuovere l’intera economia ecco allora l’importanza di politiche che favoriscano una più equa distribuzione della ricchezza ed il rafforzamento della middle class.
La politica dei redditi deve dunque tornare al centro della politica economica se vogliamo uscire dalla crisi che sta alimentando tensioni sociali destinate a diventare insostenibili.

La Repubblica 09.07.13

“Maturità, i commissari interni rischiano un solo compenso”, di Mario D’Adamo

I membri interni delle commissioni di maturità rischiano di ricevere un
unico compenso, anche se designati a rappresentare più d’una classe. Ora
che gli esami stanno per terminare e i compensi per essere erogati, le
organizzazioni sindacali si sono messe sul piede di guerra e qualche
giorno fa hanno sollecitato il ministero dell’istruzione a ritirare o a
puntualizzare meglio la nota con la quale lo scorso 13 novembre Carmela
Palumbo, direttore generale per gli ordinamenti scolastici, aveva
precisato che «al commissario interno spetta un unico compenso
forfetario qualora operi su un’unica commissione [e che] viene
attribuito un ulteriore compenso aggiuntivo solo nel caso in cui il
commissario interno operi su più commissioni e non anche nel caso in cui
si trovi ad operare in entrambe le classi della medesima commissione».
Effettivamente la nota è mal formulata, giacché sembra distinguere tra
commissione d’esame e classe assegnata, mentre è vero il contrario:
commissione e classe d’esame coincidono o, meglio, c’è corrispondenza
tra l’una e l’altra, una classe di candidati dovendo essere esaminata da
una commissione formata dal presidente, da non più di tre commissari
esterni e da altrettanti commissari interni (art. 4, primo e secondo
comma, della legge n. 425 del 1997). Il fatto che al presidente e ai
membri esterni siano affidati anche candidati appartenenti a un’altra
classe e siano quindi unici non autorizza ad affermare che la
commissione sia anch’essa unica. Le commissioni, invece, sono invece
due, una per ciascuna classe. Si deve perciò parlare non di una
commissione d’esame cui sono affidate due diverse classi ma di due
distinte commissioni d’esame di diversa composizione (variano i membri
interni) cui sono affidate due distinte classi. Presidente e commissari
esterni, essendo unici, ricevono compensi elevati rispetto a quelli
corrisposti ai commissari interni: il presidente, 1249 euro; i membri
esterni, 911 euro; mentre i commissari interni, che possono essere
diversi tra una classe/commissione e l’altra, 399 euro ciascuno, poco
meno della metà del compenso dei colleghi esterni. I compensi erogabili
ai commissari interni sono sei (tre per ciascuna commissione), e se uno
di essi è lo stesso per ciascuna delle due commissioni/classi riceve un
compenso doppio, il cui importo totale si avvicina a quello dei colleghi
esterni. Così come correttamente prevede l’art. 3, primo comma, del
decreto ministeriale del 24 maggio 2007, che stabilisce anche il limite
massimo di due compensi che possono essere erogati a ciascun commissario
interno. La rilevante differenza di compenso, uno è più del doppio
dell’altro, si spiega quindi con il fatto che i commissari esterni sono
unici per ciascuna delle due commissioni di cui fanno parte ed esaminano
i candidati appartenenti a due diverse classi, mentre i commissari
interni possono essere diversi per ciascuna commissione ed esaminare i
candidati di una sola classe. Per la corrispondenza tra commissione
d’esame e classe, non si può dare il caso di una commissione cui siano
affidate due classi né quindi di commissari interni che operino, come
erroneamente precisa la nota ministeriale, «in entrambe le classi della
medesima commissione». Insomma, la nota ministeriale ha voluto precisare
troppo, doveva limitarsi ad affermare che «viene attribuito un ulteriore
compenso aggiuntivo solo nel caso in cui il commissario interno operi su
più commissioni», e sarebbe stata nel giusto, mentre è caduta in errore
aggiungendo l’ipotesi di un membro interno che operi «in entrambe le
classi della medesima commissione». Resta da dire che i commissari
interni, per esaminare i candidati di due diverse classi devono essere
stati designati dai rispettivi consigli e avervi insegnato materie non
affidate ai commissari esterni (art. 11 del decreto ministeriale n. 6
del 2007), e infine che l’onere di retribuire i commissari interni delle
classi di candidati appartenenti a istituti legalmente riconosciuti o
pareggiati, abbinate a una commissione di istituto statale o paritario,
è a carico degli istituti di provenienza.

ItaliaOggi 09.07.13

“Se i trentenni non sono più giovani”, di Bruno Ugolini

Il recente decreto sul lavoro ha suscitato non tra gli esperti ma tra i giovani interessati un polemico dibattito. Anche perché le indicazioni fornite dal governo sulle condizioni necessarie per favorire la conquista di un posto di lavoro non erano del tutto chiare. Molti avevano capito che per entrare nella rosa dei futuri occupati occorreva oltre non avere un’età superiore ai 29 anni possedere contemporaneamente questi tre requisiti: essere privi di impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi; essere privi di un diploma di scuola media superiore o professionale; vivere soli con una o più persone a carico. Nella realtà il testo del decreto spiegava come bastasse una delle tre opzioni per essere candidabili al posto di lavoro.

Ed ecco comunque scatenarsi su Twitter una ridda di battute spesso salaci: «Scusate, ‘ndo s’annulla la laurea? C’è ’na Sacra Rota a cui far domanda?»; «Letta ora sto miliardo e mezzo lo investiamo solo su chi non sa leggere e scrivere e paga più di 10000 euro d’affitto?»; «Ricapitolando, in Italia se hai più di trent’anni ed hai un’alta scolarizzazione, puoi tranquillamente rimanere disoccupato!»; «Sono neo-diplomato, cosa cambia per me con #decretolavoro?»; «Giovannini: più facile aprire nuova impresa! E in quali scuole lo insegnano?»; «Non cambia la musica per i giovani tra #fuga all’estero e #disoccupazione»; «Ma se il lavoro non c’è i giovani per cosa devono essere assunti?»; «Per gli over 30 nessuna speranza e nessun futuro».

Ed è proprio questo limite relativo all’età che fa più discutere. Ha spiegato Eleonora Voltolina, la fondatrice di «Repubblica degli stagisti» che «in Italia vi è un numero troppo rilevante di persone, spesso con alti titoli di studio, che stanno tra i 29 e i 34 anni e non hanno ancora trovato una decente collocazione nel mercato del lavoro… Sono piombati nel tunnel degli stage senza formazione e compenso e dei contratti a progetto sottopagati e senza progetto. Sono oggi troppo vecchi per accedere al contratto di apprendistato, decantato da tutti gli ultimi ministri del Lavoro come la modalità più corretta per inserire stabilmente i giovani. I loro cv sono poco appetibili per i direttori del personale, che preferiscono i 25enni freschi di laurea. Eppure sono loro, la generazione dei trentenni di oggi, ad avere maggior bisogno di aiuto. Sono loro che stanno per perdere l’ultimo treno per l’indipendenza economica, per un inserimento dignitoso nel mercato del lavoro».

La Voltolina ha anche scritto una lettera aperta al premier Letta insieme ad Alessandro Rosina, Marco Albertini, Arianna Bazzanella, Giulia Cordella, Francesco Giubileo e Michele Raitano. Nel lungo testo si afferma tra l’altro che «Non servono quindi specifiche misure di incentivo all’assunzione dei giovani con atteggiamento paternalistico. Il cambiamento vero può arrivare solo da politiche che migliorano l’efficienza del mercato del lavoro, l’allocazione delle risorse, la produttività, l’innovazione e la competitività». Tra gli interventi proposti: «una politica industriale che allarghi le opportunità nei settori più dinamici e innovativi, che riconosca caratteristiche e potenzialità delle nuove generazioni e riadatti il modello di sviluppo in modo da metterle meglio a frutto a vantaggio di tutti». Con quali risorse? «L’aiuto ottenuto dall’Europa è importante, in senso sia simbolico che sostanziale, ma non risolutivo per una vera svolta. Serve anche la capacità, il coraggio, la determinazione, di riorganizzare la spesa pubblica spostando risorse dalle politiche passive a quelle attive. Tutto va rimesso in discussione e per ciascun euro destinato in passato ad una specifica voce ci si deve chiedere se può ridurre maggiormente le disuguaglianze e rendere di più in termini di crescita se spostato altrove». Quel che conta, infine, è avere «un’idea chiara del modello di sviluppo che si intende costruire, una rotta chiara su cui puntare, non solo misure estemporanee per difendersi dal rischio di naufragio». Ed è questo forse il vero punto nodale: avere chiaro un punto di arrivo. Un traguardo, un impegno di questo tipo non lo si può però pretendere da quello che rimane un governo provvisorio, messo in piedi per affrontare le aspre tempeste contingenti.

L’Unità 09.07.13

“Il Papa scuote le istituzioni e non solo le nostre coscienze è tempo di cambiare politica”, di Vladimiro Polchi

«Il Papa scuote le nostre coscienze e incoraggia chi dalle politiche dell’indifferenza vuole passare a quelle dell’accoglienza ». Cécile Kyenge parla con emozione. Del resto la parabola della prima ministra “nera” della Repubblica (come lei preferisce definirsi) racconta molto della nuova Italia multietnica: la sua storia parte da Kambove, nella provincia congolese del Katanga, e arriva a Roma in Largo Chigi 19, sede del ministero dell’Integrazione. In mezzo, un periodo da precaria, un impiego da badante, la professione di medico oculista, due giovani figlie e il matrimonio con Mimmo, ingegnere italiano.
Lei è arrivata in Italia nel 1983 e ha provato sulla sua pelle cosa significa vivere da “invisibile”.
«Sì anche io, dopo essere entrata con un permesso di studio, ho vissuto un periodo di precariato. Ora il Papa nel suo discorso ha parlato di fratellanza e ha rimesso al centro la persona, a prescindere dalla sua provenienza».
Quale valore ha per lei la vista del pontefice a Lampedusa?
«È un’emozione grandissima e indescrivibile. Il Papa ha fatto un regalo a chiunque si sia dedicato a questa causa, per una maggiore fraternità, uguaglianza e per una nuova convivenza. Il suo viaggio mi ha trasmesso molti messaggi e spunti da cui partire, anche per poter orientare la nostra ricerca di nuove politiche».
E cosa deve fare la politica per rispondere al richiamo di papa Francesco?
«Il suo è stato un segnale forte, un aiuto in un momento così importante, di cui gli sono molto grata. Credo che questo messaggio debba scuotere le coscienze di chiunque sieda all’interno delle istituzioni, me compresa. Per cominciare, dovremmo rivedere le nostre posizioni e il nostro approccio complessivo al fenomeno migratorio, abbandonare l’indifferenza e ritornare a una politica che sappia affrontare l’immigrazione nell’ottica dell’accoglienza».
A partire dall’introduzione dello ius soli?
«Certo, c’è bisogno di riflettere ancor di più su quello stiamo facendo, per ricercare una cittadinanza che sia vera ed esigibile».
Il viaggio del Papa la ripaga dei tanti insulti ricevuti in questi mesi?
«È sicuramente una grande soddisfazione e gioia. È il segnale di un’altra Italia. Ma non ne faccio una questione personale. Il messaggio del pontefice conforta quella che sembrava solo l’idea di pochi, a sostegno di una politica diversa, e responsabilizza ciascuno di noi».
Come giudica le critiche al Papa arrivate ieri dagli ascoltatori di
Radio Padania e da qualche amministratore leghista?
«Preferisco non commentare, ognuno risponde delle proprie
parole e azioni».
Il Papa si è rivolto anche agli immigrati musulmani.
«Del discorso di Francesco mi ha colpito il suo augurio per un buon inizio del Ramadan. Questo mi riempie di gioia perché è un passaggio importante, avendo come ministro la responsabilità del Tavolo interreligioso. La sensibilità del Papa verso quella religione, al pari di tutte le altre che nel mondo sono praticate, mi fa dire che solo il dialogo tra tutte le confessioni può essere un viatico utile per capire gli altri, far incontrare i diversi mondi, le diverse provenienze».

La repubblica 09.07.13

“Pd e sindacati: ora detassare il lavoro”, di Simone Collini

La priorità sia data alla detassazione del lavoro. Si erano incrociati in piazza, alla manifestazione unitaria organizzata a Roma alla fine di giugno, ma ora si sono visti attorno a un tavolo, nella sede del Pd, per fare il punto della situazione e per capire come spingere sul governo affinché vengano realizzate politiche che facciano ripartire gli investimenti e favorire l’occupazione. Guglielmo Epifani ieri ha incontrato Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Ed è bastato un giro di tavolo perché gli interlocutori si trovassero d’accordo su due punti, uno generale e uno particolare. Il primo, per dirla con le parole del leader Pd, è che «non c’è alternativa a questo governo». Il secondo, riguardante il tema fiscale, è che la priorità da affrontare da questo esecutivo non va data come pretende il Pdl alla cancellazione dell’Imu, peraltro senza distinzione di reddito e tipologie di prima casa, ma alla detassazione del lavoro. E poi c’è anche un altro punto su cui Epifani e i segretari di Cgil, Cisl e Uil si sono trovati d’accordo, e cioè che la recente intesa tra sindacati e Confindustria sulla rappresentanza sia un passaggio decisivo. Al tavolo si è auspicato che venga siglata anche con altre categorie, per poi assumere anche forma di legge. Se le parti sociali fanno la loro parte, è il ragionamento fatto dai segretari confederali, ora il governo non deve deludere le aspettative sul piano delle politiche economiche. «Bisogna restituire risorse al lavoro”, ha detto Camusso ai giornalisti che al termine dell’incontro le hanno chiesto un commento sulle scelte che il governo si appresta a fare sul piano dell’economia. Un piano del lavoro efficace, per il segretario della Cgil, non può prevedere solo l’incentivazione delle assunzioni ma anche «una straordinaria attività per far ripartire e rilanciare gli investimenti e l’occupazione dei giovani». Anche sul piano fiscale, i sindacati si aspettano che il governo non ceda alle sirene del Pdl. Dice Bonanni lasciando la sede del Pd: «Più che andare a prendere quella sottotassa che è l’Imu, bisogna riprendere l’impianto intero delle tasse e soprattutto sgravare lavoro e pensioni perché il lavoro viene dalla buona economia ». Per il segretario della Cisl «questa è la battaglia vera oggi”, perché altrimenti, dice con chiaro riferimento alla campagna portata avanti dal Pdl sull’Imu «si rischia che qualcuno pensi di depistare, proprio per evitare di aggredire i temi veri». Epifani ha assicurato ai tre leader sindacali che il Pd si sta impegnando per mettere «il lavoro al centro>, dell’attività del governo e non permetterà che il Pdl porti avanti strumentali battaglie per condizionare Letta. Gli attacchi al ministro dell’Economia Saccomanni da parte degli uomini di Berlusconi non sono piaciuti al segretario del Pd e anche i leader sindacali hanno condannato le mosse destabilizzanti del Pdl.«Una crisi di governo sarebbe senza uscita”, ha detto Bonanni difendendo il ministro del Tesoro e aggiungendo che «quello che non ha fatto la crisi economica, nel senso del dissesto del Paese, lo farebbe una crisi di governo». Un governo a cui però ora sindacati e Pd chiedono di porre più attenzione, dal punto di vista fiscale, sul lavoro.

L’Unità 09.07.13