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“Maturità, crollano i 100 e lode l’anno nero dei superbravi i presidi: regole troppo rigide”, di Salvo Intravaia

E quest’anno andrà ancora peggio: il numero dei superbravi è destinato ad assottigliarsi ancora. Così mentre gli scrutini sono ancora in corso montano le proteste dei presidi che chiedono una norma “più flessibile”. Anche perché ora la lode vale 10 punti di bonus per l’accesso a Medicina e alle altre facoltà a numero chiuso. Da Nord a Sud, i capi d’istituto censurano l’eccessiva rigidità delle regole per l’attribuzione del massimo punteggio. «Ci sono polemiche diffuse sulla scarsità delle lodi – ammette Gregorio Iannaccone, presidente dell’Associazione nazionale dei dirigenti scolastici – ma non stiamo parlando della tessera del pane. La lode è un fatto eccezionale che necessita di regole rigide». Più diplomatico Giorgio Rembado, presidente dell’Associazione nazionale presidi: «Non si può inflazionare il massimo dei voti – commenta – Ma qualunque meccanismo rigido che vincola ai risultati degli anni precedenti non consente alla commissione d’esame nessuna flessibilità di giudizio e si trasforma in una tagliola».
A Milano, in appena due anni, le eccellenze si sono dimezzate. E per la prima volta i classici Berchet, Manzoni e Parini sono rimasti senza superbravi. «Questi criteri sono ingiusti. C’è tutto un sistema da ripensare», si lamentano i presidi meneghini. In calo le lodi anche a Torino e nelle altre grandi città. Da tre anni, lo scientifico Cannizzaro di Palermo non vede studenti lodati. «Attribuire la lode – spiega il preside Leonardo Saguto – è diventato troppo difficile: basta un niente per farla svanire. Occorrerebbe dare più spazio al percorso scolastico e maggiori margini alle commissioni».
A Napoli, niente lodi al liceo classico Vittorio Emanuele, e solo tre all’Umberto, il liceo del presidente Giorgio Napolitano, che l’anno scorso ne contò otto. Nella Capitale, i superbravi scarseggiano anche nei licei, che hanno sempre fatto il pieno. Righi e Tacito sono in attesa di salutare il primo genietto cum laude. Una sola lode, finora, al Visconti e due al Mamiani. «Folle il fatto – spiega Alessandra Francucci, preside del liceo scientifico Sabin di Bologna – che non sia concesso di avere un voto inferiore all’8 in pagella ed è un peccato perché così non si valorizzano i ragazzi». Anche nel capoluogo emiliano si contano pochissime eccellenze: solo tre, e tutte conquistate da donne, nello storico liceo classico Galvani.
Dal 2012, per aggiudicarsi la lode occorre il massimo punteggio nelle prove d’esame – 75 in tutto – e presentarsi alla commissione col massimo credito scolastico: 25 punti, che si ottengono con una media, nelle pagelle degli ultimi tre anni, superiore a 9, e senza essersi aggiudicati neanche un 7. In più, le decisioni sul punteggio da attribuire agli studenti devono essere state assunte all’unanimità. Fino al 2009, il percorso per arrivare al voto record era più semplice: bastavano le prove e il credito al top. E per quest’ultimo bisognava presentarsi con una media in pagella superiore a otto decimi. Poi la Gelmini ha inasprito le regole, entrate a regime nel 2012, e anche per gli studenti eccellenti l’esame di maturità è diventato più difficile.

La Repubblica 11.07.13

Stalking, “Rosi andava protetta. Servono tribunali specializzati”, du Laura Preite

Un primo ammonimento da parte del questore, poi la querela, infine la custodia cautelare in carcere per i casi più gravi. Sono questi i passaggi che possono portare all’allontanamento dello stalker violento dalla sua preda. Anche se non sempre basta, come nel caso di Rosi Bonanno, 26 anni, uccisa di fronte al figlio di 2 anni dall’ex convivente che lei aveva per sei volte denunciato per stalking. Inutilmente.
QUELLO CHE DICE LA LEGGE

L’ammonimento, è una fase preliminare, la persona viene ammonita dal questore con un provvedimento formale: “Non lo fare più altrimenti si va nel penale”. Poi la vittima può decidere per la querela se l’ammonimento non ha effetto e lo stalker continua. Gli atti persecutori infatti sono sempre punibili “a querela” cioè è la vittima che denuncia e allora parte il procedimento. Basta una prima querela per far partire l’azione penale anche se si possono fare delle “integrazioni” se lo stalker nel frattempo continua. Magistrato e polizia giudiziaria quindi intervengono, verificano le circostanze, e accertano i fatti, se la vittima vive una situazione di pericolo, il Pm che indaga può chiedere al Gip la custodia cautelare in carcere, oppure, il divieto di avvicinamento alla vittima e di comunicazione.

LA TEMPESTIVITA’

Il problema spesso è la tempestività. Se non c’è, infatti, flagranza di reato, manca l’arresto che possono decidere polizia o carabinieri che intervengono sul posto. Altrimenti si passa ad accertare prima i fatti. Se lo stalker aveva una relazione affettiva con la vittima, era un ex coniuge o convivente, le pene possono essere più gravi fino al doppio, se ci sono anche minorenni coinvolti.

L’altro punto cruciale è se si tratta di stalking o di maltrattamenti in famiglia (un reato considerato più grave dal codice penale e che prevede di procedere d’ufficio). «Il problema è la tempestività degli interventi, nel momento in cui si tratta di violenza in famiglia o atti persecutori la cosa importante è che ci sia un intervento immediato del questore e soprattutto un intervento immediato dell’autorità giudiziaria. Non bisogna mai sottovalutare perché la tempestività degli interventi salva le donne» commenta Titti Carrano, avvocato civilista dei centri antiviolenza Differenza donna di Roma e presidente della rete Dire. In casi di separazione infatti sono i tribunali civili che possono emettere gli ordini di protezione.

LA FORMAZIONE DI CHI INTERVIENE

Ma la questione arriva prima alle forze di polizia che ai tribunali, per questo un altro punto su cui le associazioni femminili insistono è la formazione: «Coloro che entrano in contatto con la violenza maschile contro le donne devono conoscere e riconoscere immediatamente quella che è la violenza, e quindi servono polizia giudiziaria e tribunali specializzati. Nei grandi tribunali abbiamo sezioni specializzate alla trattazione dei casi di violenza, ma in quelli piccoli no». In molti casi di violenza famigliare e stalking possono essere coinvolti anche minori, «molte volte il fatto che i bambini assistono alla violenza è sottovalutato, ed è un grosso errore» continua Carrano.

Vittoria Doretti, che coordina il codice rosa- task force antiviolenza, lanciata a Grosseto (e che si sta replicando in modo spontaneo, senza input dall’alto in varie procure, questure e pronto soccorso) guarda lontano: «Siamo sulla strada giusta, dobbiamo lavorare congiuntamente, associazioni e istituzioni, in tutte le sue articolazioni, la violenza è un mostro a mille teste. Dobbiamo guardare all’obiettivo anche se sembra lontano: affinché omicidi come quello di Palermo non accadano più». E al Senato si chiede con una proposta di legge a prima firma di Valeria Fedeli (Pd) che parta una commissione d’indagine per appurare se ci sono delle responsabilità «oggettive» nei casi come quelli di Bonanno.

La Stampa 11.07.13

“Giornalismo e potere”, di Piero Ottone

La Fiat al Corriere della Sera? Mi sembra di assistere a un film già visto. Ho alle spalle, anno più anno meno, settant’anni di giornalismo, parecchi trascorsi per l’appunto al Corriere, e posso raccontare che già in un’altra occasione la Fiat diventò l’azionista di punta del giornale. Ma allora tutto era chiaro. Fiat voleva dire in quel frangente (anno 1973) Gianni Agnelli, e Agnelli sapeva diventare, in qualche occasione, un generoso cavaliere. Il
Corriere di quel tempo dava fastidio al potere costituito, alla Democrazia cristiana: era troppo libero, troppo spregiudicato. Eugenio Cefis, gran personaggio del tempo, fiancheggiatore del partito dominante, rappresentante di punta in quella che Scalfari e Turani chiamarono in un libro la razza padrona, voleva mettere le mani sul
Corriere, portandolo via a Giulia Maria Crespi, ultima rappresentante della famiglia. Agnelli intervenne: un po’ perché contrastava (con Leopoldo Pirelli, con altri grandi imprenditori) Cefis e la razza padrona, un po’ per cavalleria, perché era amico di gioventù di Giulia Maria. Ma non aveva secondi fini. Non pensava minimamente a servirsi del Corriere per qualche suo interesse, palese o recondito. Posso testimoniare che non si occupò mai del giornale: né della gestione aziendale né della linea politica. Solo una volta nel giro di un anno venne a farmi visita in via Solferino (allora dirigevo il giornale), perché era venuto a Milano per parlare con Cefis di Confindustria, e aveva mezz’ora a disposizione. Parlammo di tutto un po’, meno che del giornale. Che l’acquisto del
Corriere, per lui, fosse tutto sommato un gioco è dimostrato dal fatto che proprio in quei giorni, non appena scoppiò la crisi petrolifera, col prezzo del petrolio quadruplicato all’improvviso, lui decise immediatamente di vendere la sua quota, abbandonando Giulia Maria alla sua sorte. Scalfari lo punì chiamandolo, in un corsivo, “l’avvocato di panna montata”.
Tutto questo avvenne negli anni Settanta. Ma adesso non c’è nessun Cefis alle porte, nessuna Giulia Maria pericolante, e Sergio Marchionne, nuovo patron della Fiat, non ha niente in comune con Agnelli. Perché fa dunque nel Corriere
quello che ha definito un investimento strategico? Coi tempi che corrono? Fiat o non Fiat, comunque, resta il problema della stampa italiana, e se quarant’anni fa fu preoccupante la crisi petrolifera, oggidì imperversa ben più grave, in tutto il mondo, la crisi dell’editoria e della carta stampata.
Nella lettera aperta al presidente della Repubblica Diego Della Valle, azionista di rilievo nel gruppo Rizzoli, dice che «è in pericolo la libertà di opinione di un pezzo importante della stampa italiana… In un Paese democratico la stampa deve essere indipendente e libera di esprimere le proprie opinioni senza vincoli e pressioni… nel caso specifico del gruppo Rizzoli bisogna evitare che chiunque tenti di prenderne il controllo per poterlo poi utilizzare come strumento di pressione». Parole gravi. Ma il gruppo Rizzoli è controllato da industrie e banche, che hanno interessi diversi da quelli dell’editoria. Ed è purtroppo vero che sono rari in Italia i così detti editori puri, per ragioni storiche.
Vi fu una prima crisi che ridusse il loro numero negli anni Settanta, in seguito all’autunno caldo: il costo della mano d’opera si impennò in breve tempo. Le grandi famiglie dell’editoria, come i Crespi e i Perrone, alzarono bandiera bianca: si affrettarono a vendere prima che fosse troppo tardi. È allora che subentrarono le banche e i gruppi industriali. Eugenio Cefis, presidente prima dell’Eni e poi di Montedison, fu tra i più avidi, e amabilmente, con grande semplicità, mi spiegò perché. Avevamo buoni rapporti, anche se sapevo che il giorno dopo l’acquisto del
Corriere avrebbe cambiato il direttore. «Vede — mi disse — le grandi industrie in Italia hanno un giornale col quale possono fare piaceri agli uomini politici, e poi gli uomini politici ricambiano. La Montedison non ha giornali: deve procurarseli ». E infatti tramava da mane a sera: fondò una prima testata presso Torino, per sparare sugli Agnelli, poi scatenò Rusconi, finanziandolo, e scompaginando la famiglia Perrone, all’assalto del Messaggero, e intanto sosteneva Andrea Rizzoli nell’acquisto del Corriere.
La bulimia di Cefis giustificava il sospetto che non mirasse soltanto a qualche scambio di favori col partito di maggioranza: forse aveva altre ambizioni. Quando all’improvviso decise di lasciare l’Italia, Enrico Cuccia (uno dei suoi estimatori) gli disse: «Ma Lei non doveva fare la dittatura?», e non sappiamo fino a che punto scherzasse. Quel che comunque è rimasto è l’intreccio fra industria, finanza, editoria: brutta peculiarità italiana, e Diego Della Valle giustamente la deplora nella lettera già menzionata. Come impedirla? Se l’autunno caldo fu, in ordine di tempo, la prima causa della crisi, oggi infieriscono sull’editoria altre difficoltà, ben più gravi.
C’è rimedio? Tutte le speranze devono essere riposte nella coscienza professionale di noi giornalisti: nel rifiuto di essere adoperati come strumento di lotta, al servizio del potente di turno.

La Repubblica 11.07.13

“Il ritornello dei fucili”, di Filippo Ceccarelli

Passi per il bastone, che è il cuginetto più generico e meno rustico del già invocatissimo forcone, ma anche questa storia dei fucili, purtroppo, suona abbastanza famigliare. La chiamata alle armi è infatti un classico della Seconda Repubblica. E il fatto che Bossi, massimo specialista in materia pseudo- bellica, sia oggi ridotto com’è ridotto, aiuta senz’altro ad approfondire e forse anche a comprendere tale rischiosa retorica, ma certo non consola né, pur facendo un po’ ridere, allarga l’orizzonte del buonsenso.
Era comunque il 1992 quando il leader della Lega, memore di una massima maoista orecchiata nella sua turbolenta giovinezza, proclamò che il potere nasceva dalla canna del fucile. Dopo di che, esclusa la Lega dalla spartizione delle vicepresidenze a Montecitorio, disse: «Prendete il moschetto, zaino in spalla e via!». Via dove, non era chiaro. Via come, almeno in teoria, parve appena più chiaro allorché l’allora (improvvido) ministro dell’Interno Mancino posticipò certe elezioni in Lombardia: «Cristo — inveì Bossi con il consueto garbo — ma allora questi capiscono solo i kalashnikov!».
In seguito gli capitò di soffermarsi su possibili modalità di rifornimento: «Ci vuol poco a far arrivare qualche camion di armi dalla Slovenia o dalla Croazia» —
e in quel caso, dato ciò che accadeva da quelle parti, corse un brivido. Ciò che probabilmente costrinse il
Senatur a una specie di marcia indietro, tra le prime di una interminabile serie: si trattava di «esagerazione, paradosso, scherzo», comunque colpa dei giornali.
Due anni dopo, arrivato al governo con Berlusconi, si registra altresì il momento più alto della infatuazione militaresca bossiana, e il culmine dell’epopea eroicomica, forse anche perché espressa in vacanza, per la precisione su una spiaggia sarda, in canotta
e
scarp del tennis,
e l’attimo fondante fu la rivelazione che nei mesi o addirittura negli anni precedenti, non era chiaro, l’Italia del Nord aveva rischiato un’autentica insurrezione.
Agosto 1994, dunque: «C’erano 300 mila persone armate e pronte. Pensavano che non ci fosse nulla per battere la vecchia politica ». Dovunque Bossi andasse, era un coro: «”Se ci dai l’ordine siamo pronti a tirare”. Avrebbero fatto cento, mille morti» calcolava lui, militesente. Sia come sia, la mobilitazione si era rivelata particolarmente intensa nella zona di Bergamo (che pure alle penultime elezioni aveva stra-votato il cassiere della Dc Severino Citaristi, futuro recordman di Mani Pulite). Sta di fatto che per Bossi «l’urlo dei 300 mila rimbombava di valle in valle».
Anche tale altisonante notazione non spingeva a prendere sul serio l’allarme. Così come, in fin dei conti, suscitarono un moderato scandalo le ulteriori uscite parabelliche della fase per così dire secessionista (1995-1998) sul costo delle cartucce, su possibili attentati ai tralicci e perfino ai ripetitori tv di quello stesso Berlusconi, oltretutto, con cui di lì a poco sarebbe tornato ad allearsi e che alla Padania avrebbe saldato anche qualche debituccio.
E tuttavia, passando con un balzo ventennale dai fucili di Bossi a quelli di Grillo, ciò che più colpisce e fa pensare è che sia l’uno che l’altro leader abbiano sentito il bisogno, e quasi con le stesse parole, di enfatizzare il proprio ruolo di felice contenimento ed efficace trattenimento: «Se non ci fossi stato io a fermarli…». Vecchio trucco di scena: prima si evoca il pericolo della polvere da sparo e poi ci si presenta in prima persona,
e magari in camicia verde, come l’unica soluzione.
Con il che, sia nel caso di Umberto che nel caso di Beppe, la faccenda sarà anche buffa e riprovevole, ma è piuttosto antica e come tale attiene eminentemente all’universo degli spettacoli politici, e in Italia, tanto per cambiare, alla commedia. Grillo, che è un professionista, conosce senz’altro il Miles gloriosus, il soldato smargiasso e fanfarone di Plauto, una maschera che nel periodo della dominazione spagnola si fece «Matamoro» per poi evolversi in «Tecoppa», «Sparafucile», «Capitan Fracassa», «Capitan Spavento » e via dicendo.
E di tutti loro si può sempre ridere, perché questa in fondo è la loro vocazione, ma occorre anche riconoscere che quando la scena pubblica rapidamente si affolla di bastoni dipietreschi, forconi siciliani, fucili a cinque stelle e adesso anche eserciti di Silvio, beh, insomma, non è mai un bel segno.
Nel frattempo si alimenta il mito degli immancabili e onnipresenti servizi segreti. Ieri sempre Grillo ha individuato in un bravo giornalista un agente dei medesimi. Anche questo è un vecchio trucco e anche Bossi aveva questo
genere di paranoie.

La Repubblica 11.07.13

“Il giorno nero della Repubblica”, di Antonio Polito

Se la fissazione della data del processo a Silvio Berlusconi ha prodotto un giorno di stop dei lavori parlamentari, che accadrà il giorno della sentenza? Nonostante alla fine abbiano prevalso quelli con la testa sulle spalle, e l’Aventino minacciato da una parte del Pdl sia stato derubricato a semplice pausa di poche ore, ieri abbiamo assistito alla prova generale di ciò che può accadere al nostro Parlamento nelle prossime settimane. Ostaggio di vicende extraparlamentari, sulle quali né le Camere, né il governo e nemmeno il capo dello Stato possono alcunché. Eppure immediatamente investito, e potenzialmente dissolto, dallo tsunami politico che quelle vicende giudiziarie sono in grado di provocare.
Gli attori visti ieri in scena non rassicurano sull’esito. In troppi puntano a trarre un vantaggio di parte dalla rovina comune. Quelli che nel partito di Berlusconi sfruttano la drammaticità della sua ora per acquisire benemerenze e colpire l’ala governativa. Quelli che nel Pd, per lo piu renziani, non vedono l’ora di affondare Letta magari in nome di una riscoperta purezza antiberlusconiana. E quelli che, stando all’opposizione, pensano che il loro compito sia fomentare il tanto peggio tanto meglio.
Non si spiegano altrimenti la teatralità e al contempo l’incongruenza delle parole e dei gesti cui abbiamo assistito. Beppe Grillo, mentre urla che «l’Italia è un Paese in macerie» e che «non c’è più tempo», chiede come rimedio lo scioglimento del Parlamento e nuove elezioni, perché per un’altra rissa elettorale c’è sempre tempo. I suoi senatori, in un gesto forse inconsapevolmente peronista, si trasformano in descamisados togliendosi in aula la giacca e la cravatta e fischiando come allo stadio la squadra avversaria. I cosiddetti falchi del Pdl, nelle cui mani è rimasto il partito dopo che la sua parte migliore è emigrata al governo, confondono la Cassazione con un Tribunale speciale e invocano il ritorno alle urne come una nuova Resistenza.
Certo, la decisione presa ieri in Parlamento di sospendere i lavori per un giorno, piccolo surrogato concesso al Pdl in rivolta per l’imminenza della sentenza Berlusconi, è fuori dal comune (anche se è prassi per i congressi di partito). Ma purtroppo è l’intera situazione in cui ci troviamo ad essere fuori dal comune, come testimonia la visita serale di Enrico Letta al Quirinale.
Comunque la si veda, se ne dia la responsabilità all’imputato Berlusconi che se l’è cercata o ai magistrati che lo perseguitano, la vita e l’operatività del Parlamento e del governo sono infatti costantemente in pericolo. E questo proprio mentre l’Italia arranca, è come schiacciata dal macigno della crisi, tenta disperatamente di rialzarsi, viene di nuovo declassata. Il resto del mondo ci guarda attonito, attendendo di capire se questo grande Paese ha deciso di suicidarsi.
Dal pasticcio in cui si è cacciata la politica c’è una sola via di uscita: assumersi ciascuno una responsabilità collettiva. E c’è solo una bussola: attenersi scrupolosamente alle regole dello Stato di diritto, inventate proprio per tenere separati i poteri. Stiamo camminando sul ciglio del burrone. Per favore, smettetela di spingere.

Il Corriere della Sera 11.07.13

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“La mossa disperata del Cavaliere all’angolo”, di CLAUDIO TITO
«Bisognerebbe trovare una soluzione per rinviare questa maledetta sentenza. Un modo per farla slittare ci sarà pure. Perché io non ho più voglia di fare una campagna elettorale. Non so se mi va di far cadere il governo e ricominciare tutto daccapo». La tensione nel Pdl è alle stelle. Il centrodestra è sull’orlo di una crisi di nervi. E anche sul ciglio di una spaccatura che potrebbe
segnarne la fine.
CON i “falchi” da una parte e le “colombe” dall’altra. Con Silvio Berlusconi che si sente chiuso in un cul de sac. Senza via d’uscita. Alla ricerca di un «escamotage» che gli permetta di non sentirsi definitivamente in trappola.
La giornata di ieri, infatti, si può racchiudere in questa frase che il Cavaliere ha ripetuto a più di un deputato. Parole che non descrivono solo il suo status emotivo. Ma anche la voglia di giocarsi ancora la partita su due piani. Come ha sempre fatto in passato, è alla ricerca di una “leggina”, di un “passepartout” che possa scardinare la prossima sentenza. Ma nello stesso tempo capisce che il tempo non lavora a suo favore. Troppo poco per arrivare ad una qualche forma di “salvaguardia”. Il 30 luglio ormai è vicino. E allora si acconcia al “piano B”: limitare i danni. Ossia lasciare in vita il governo Letta e considerarlo l’ultimo baluardo per conservare un “ruolo” al “tavolo che conta”. Nel frattempo sperare che la Cassazione sia clemente. «Io – sono le sue parole – ci spero ancora». Speranze, peraltro, alimentate dal comunicato emesso dalla Suprema corte e dalle dichiarazioni del suo presidente Santacroce che non ha escluso l’ipotesi del rinvio.
Ma, appunto, l’ex premier per ora gioca due parti in commedia. Non a caso ha incaricato il suo unico e vero plenipotenziario, Gianni Letta, di compiere un ultimo tentativo per incidere sul verdetto della Cassazione. In questi giorni ha spesso invocato diversi stratagemmi: ha chiesto se la strada dell’amnistia potesse essere imboccata. Se fosse possibile approvare un emendamento che innalzi almeno la soglia detentiva per applicare la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Se il Quirinale si fosse convinto a dare corpo ad una «vera pacificazione » con la sua nomina a senatore a vita (che per alcuni potrebbe inibire l’interdizione visto che non è previsto nemmeno l’istituto delle dimissioni). I due primi punti, però, richiedono l’accondiscendenza del governo e del Pd. A Palazzo Chigi ripetono che nessuno ha mai avanzato una richiesta del genere. «In ogni caso – ha sempre ammonito il presidente del consiglio, Enrico Letta – non potremmo far passare cose del genere». «Non potremmo mai macchiarci in questo modo», gli fa eco Dario Franceschini. E del resto i tempi per approvare
un’amnistia sono troppo lunghi e troppo complicati con il quorum dei due terzi alla Camera e al Senato. Soprattutto i precedenti non hanno mai riguardato reati come la frode fiscale: troppo alta la pena edittale. Pure l’ipotesi di una nomina senatoriale da parte del Colle non è stata mai presa in considerazione. L’ex premier vuole comunque provarle tutte fino a fine mese. E per questo ha ordinato al suo partito di tenere altissima la guardia. Scaricare sulle istituzioni il nervosismo e far sentire sulla Cassazione tutta la forza del pressing esercitato da un movimento che continua a rappresentare quasi un terzo degli elettori.
Il Cavaliere, dunque, si sente sempre più in un angolo. Ascolta il ventaglio di possibili reazioni alla sentenza – dalle dimissioni in blocco dei parlamentari all’Aventino – con una sorta di irritato distacco. «Ora non ho più voglia di queste cose», ripete a quasi tutti. Del resto il timing di ieri è emblematico. La protesta del Pdl è partita come
un’onda di piena ed è arrivata come una modesta risacca. I tre giorni di “blocco parlamentare” si sono trasformati in un mezzo pomeriggio, peraltro con la presenza in aula del premier per il question time. Non a caso proprio Enrico Letta ieri sera si mostrava molto più tranquillo della mattina: «La giornata è iniziata male ed è finita bene». Non solo. Dopo il primo scossone, il capo del governo ha avuto più di un colloquio con il vicepremier Alfano: «Bisogna fare un lavoro di contenimento della rabbia», hanno concordato. Con una premessa fondamentale: «Berlusconi non vuole la crisi di governo». La precondizione che ha paralizzato i falchi e ha dato il via alle manovre per sedare la rivolta in corso nel centrodestra.
Il Cavaliere, infatti, in assenza di una “leggina”, considera prioritario rimanere nel campo governativo. «A che serve far cadere questo esecutivo? – chiedeva ieri anche ai più infervorati -. Io non ne ho voglia. Sarà quel
che sarà, ma lasciatemi in pace. L’importante è che non tocchino le aziende». Appunto, le aziende. In questo quadro preferisce dotare i suoi ministri di un’arma: sedere ancora al tavolo che conta e giocare almeno le ultime carte per difendere il suo gruppo. Berlusconi per la prima volta negli ultimi venti anni ha voluto distinguere il suo destino personale da quello di Mediaset. Una linea concordata in un pranzo di famiglia nel primo lunedì (il 24 giugno) dopo che la Consulta aveva bocciato il legittimo impedimento. E non a caso ha fatto sapere di non voler assolutamente coinvolgere sua figlia Marina nella battaglia politica: «Deve rimanere alla guida delle imprese». Insomma l’ex presidente del consiglio è convinto di poter meglio tutelare suoi affari rimanendo in maggioranza e trattando. Anche perché c’è un altro aspetto che agita i suoi sonni. Nel caso di condanna confermata per il processo Mediaset, Berlusconi non andrà in carcere: sarà destinato ai servizi
sociali. Ma se dovesse essere emesso in via definitiva anche il verdetto sul caso Ruby, allora niente impedirà la detenzione. E certe cose, allora, è meglio affrontarle con il Pdl in maggioranza che non all’opposizione.
Anche perché, anche i “falchi” sanno che la crisi di governo non garantisce il voto anticipato. Giorgio Napolitano ha steso il suo velo protettore su questo esecutivo e a tutti i suoi interlocutori, compresi i grillini, ha ribadito che fino a quando non si modificherà la legge elettorale, lui non scioglierà le Camere. Proverà a formare un altro esecutivo e semmai preferirà dimettersi, piuttosto che indire le elezioni. A quel punto il centrodestra dovrà fare i conti con un nuovo capo dello Stato che prevedibilmente sarà concordato nel campo del Pd e del Movimento 5Stelle. Un identikit che fa venire in mente personaggi come Romano Prodi e Stefano Rodotà. Anzi, il Pdl potrebbe fare i conti persino con una scissione: una parte delle “colombe” potrebbe sostenere la nuova compagine.
La tensione, in ogni caso, si taglierà con il coltello fino a al 30 luglio. Quella sarà la vera cartina tornasole del governo. Anche per il Pd. Che potrebbe essere tentato da un blitz per infrangere l’asse «contro natura» con Berlusconi. I falchi del centrodestra, infatti, sperano che una parte dei democratici votino contro l’interdizione al Senato e che poi sia Matteo Renzi a provocare la crisi. Ma i segnali lanciati ieri da Palazzo Vecchio verso Palazzo Chigi andavano per ora nell’altra direzione. «A fine mese però – dice proprio Letta ai suoi fedelissimi – almeno ci sarà un chiarimento definitivo. Non governo a tutti i costi e di certo non a costo di mettere in fibrillazione le Istituzioni. Quindi tutti sappiano che anche con parole tipo “Aventino”, salta tutto». L’appuntamento è fissato fra tre mercoledì.

La Repubblica 11.07.13

Edilizia scolastica, Ghizzoni “Fondi costanti e procedure snelle”

Il Ministero in audizione alla Camera per indagine conoscitiva promossa dal Pd. Il Ministero dell’Istruzione porta l’Emilia-Romagna della ricostruzione post-sisma come esempio virtuoso da seguire nel settore dell’edilizia scolastica. La conferma è arrivata nel corso di un’audizione in Commissione Cultura e Istruzione sollecitata dal Pd. Per il resto la situazione dell’edilizia scolastica italiana è desolante: il 42% degli edifici, ad esempio, è privo del certificato di agibilità. “Alla scuola italiana – commenta Manuela Ghizzoni, vice-presidente della Commissione Istruzione della Camera dei deputati – servono una programmazione chiara, allentamento del Patto di stabilità degli Enti locali proprietari degli edifici, procedure burocratiche snelle e fondi stanziati con continuità”.

58 scuole costruite in meno di tre mesi: la ricostruzione degli istituti scolastici nell’Emilia-Romagna del dopo-sisma viene citata dal Ministero dell’Istruzione come esempio virtuoso di come si dovrebbe procedere per recuperare il patrimonio edilizio scolastico che, in Italia, è non solo vetusto, ma in troppi casi addirittura non regolare. La conferma nel corso di un’audizione a Montecitorio tenutasi a seguito della richiesta di una indagine conoscitiva promossa dal gruppo Pd in Commissione Cultura e Istruzione. “Con il giusto orgoglio abbiamo sentito citare la nostra Regione come esempio – spiega Manuela Ghizzoni, vice-presidente della Commissione Istruzione della Camera dei deputati – ciò non toglie che, per il resto, i dati forniti dal Ministero siano sconfortanti. Il 44% delle scuole italiane, ad esempio, è stato costruito tra il 1961 e il 1980, mentre solo il 17,7% è in possesso del certificato di prevenzione incendi”. E non si può dire che sia solo un problema di fondi ma “di rendere spendibili le risorse stanziate per aprire i cantieri. Per farlo occorre intervenire sulle procedure troppe lunghe e centralizzate in capo ai Ministeri dell’Istruzione e delle Infrastrutture e allentare il Patto di stabilità che immobilizza i Comuni e Province”. La politica di edilizia scolastica, inoltre, non deve più vivere di piani straordinari, spesso dettati dall’onda emotiva di un singolo clamoroso episodio: occorre una nuova normalità. “Le Regioni e gli Enti territoriali proprietari delle scuole devono essere messi nelle condizioni di poter fare programmazione – conferma Manuela Ghizzoni – In questo senso occorre rendere pienamente operativa l’Anagrafe dell’edilizia scolastica, soprattutto se si andrà verso la federazione delle diverse anagrafi regionali. Occorrono fondi elargiti con costanza, magari rifinanziando quella legge Masini che l’ex ministro Fioroni aveva potenziato arrivando a movimentare fino a 950 milioni di euro destinati all’edilizia scolastica e che l’ultimo Governo Berlusconi, invece, aveva lasciato assolutamente a secco”. Una burocrazia più snella, una programmazione basata sulla continuità di risorse e l’allentamento del Patto di stabilità sono le basi su cui rilanciare un progetto di manutenzione ordinaria e straordinaria del patrimonio immobiliare sede di istituti scolastici dei cui benefici effetti risentiranno non solo gli utenti del servizio, che per primi hanno il diritto di frequentare scuole sicure, ma anche il tessuto economico locale e nazionale, in particolare quel settore edile che sta arrancando sotto i colpi della crisi.

“Superato ogni limite, così non si va avanti”, di Simone Collini

«Il Pdl mette a rischio la funzione stessa di questo governo. C’è un limite oltre il quale il nostro senso di responsabilità, che anche oggi abbiamo dimostrato, non può andare. O c’è un chiarimento serio, o il Pdl dimostra di essere interessato ai problemi del Paese e non alle vicende giudiziarie di Berlusconi, oppure con la stessa forza con cui abbiamo fatto nascere questo governo diciamo che così non si può andare avanti». Guglielmo Epifani non sottovaluta affatto quanto avvenuto ieri. E in questa giornata di bagarre a Montecitorio innescata dal Pdl e da un Beppe Grillo che invoca nuove elezioni, il segretario del Pd lancia il suo ultimatum: «Noi non temiamo nulla, quale che sia l’evolversi della situazione».

Si può continuare a sostenere il governo insieme al Pdl dopo quanto avvenuto? «È indubbio che da oggi si entra in una fase nuova. Abbiamo assistito a una richiesta insostenibile in qualsiasi democrazia. La richiesta del Pdl di sospendere per tre giorni i lavori del Parlamento a seguito di una decisione della Cassazione è un atto irresponsabile, che lega campi che vanno rigorosamente tenuti distinti, quello giudiziario e quello parlamentare. Il Pd non si è prestato né si presterà mai ad una logica di questo segno. E ora o il Pdl dimostra di tenere distinte le due sfere, oppure si assume la responsabilità di una scelta dissennata verso la condizione del Paese e la sua crisi drammatica».

Formigoni dice che rimarranno in assemblea permanente fino al 31 luglio, data per cui è prevista la sentenza della Cassazione sul processo Mediaset.

«È ridicola questa idea del sit-in continuo. È totalmente privo di fondamento pensare che la pressione possa indurre le Camere a risolvere i problemi giudiziari di Berlusconi o di qualsiasi altra persona. La verità è che puntano a colpire l’autonomia e la funzione del Parlamento in relazione a una vicenda che appartiene a un’altra sfera. E questo rappresenta un vulnus profondo».

C’era da aspettarsi altro dal Pdl, insieme al quale sostenete questo governo?
«Noi abbiamo detto no a un governo di pacificazione. Questo è un governo di comune responsabilità per affrontare la crisi del Paese. Fin dalla sua nascita era implicita una questione ora resa esplicita, e cioè che questo esecutivo di servizio può operare soltanto se il Pdl ha la capacità di tenere distinte le vicende giudiziarie di Berlusconi dal lavoro del Parlamento, perché altrimenti con una fibrillazione continua non si può fare nulla». Ora si è chiarito che questa capacità da parte del Pdl non c’è, o no?

«Ma infatti adesso il Pdl deve sciogliere il nodo. È evidente che se si tira la corda giorno dopo giorno si crea un clima pesante, come si è visto oggi in Parlamento, e alla fine la corda si spezza».

Fuor di metafora?

«Viene messa a rischio la funzione stessa del governo. C’è un limite che non può essere superato, né spostato all’infinito. Adesso bisogna chiarire questa questione. E questo è un problema che riguarda tutti».

Per quel che riguarda il Pd cosa significa?

«Significa riflettere sul fatto che la nostra responsabilità verso il Paese ha un senso se il governo viene messo nelle condizioni di operare per il bene degli italiani. Questo adesso è il vero chiarimento politico da aprire. Non su questa o quella misura di politica economica, perché lì siamo già nel campo fisiologico di un confronto tra forze politiche diverse. Da oggi tutto diventa più complesso e occorre affrontare il nuovo quadro che si è aperto con la chiarezza necessaria». Letta è andato a riferire al Quirinale sulla situazione politica: quale pensa possa essere il contributo che può dare il Presidente della Repubblica in questa fase? «Certamente il fatto che il presidente del Consiglio sia andato dal Capo dello Stato segnala la delicatezza di questo passaggio. E penso che il Presidente Napolitano eserciterà il suo ruolo per evitare che questa situazione possa degenerare».

Degenerare significa crisi di governo e nuove elezioni?
«Resto fermo sulla necessità di arrivare a un chiarimento, a un confronto vero, sapendo che c’è un limite oltre il quale con la nostra responsabilità, che anche oggi è stata espressa in maniera chiara non si può andare. Non ci si può chiedere di più. Ma non per altro, perché il rischio è che il governo non sia messo nella condizione di fare quello che deve fare. Il Pdl esca dalla linea avventurista, il tanto peggio tanto meglio non è una risposta».

E se invece il loro obiettivo fosse proprio far precipitare gli eventi?
«Noi non temiamo nulla, quale che sia l’evoluzione della situazione. Abbiamo tutte le carte in regola per affrontare qualunque scenario. Abbiamo fatto nascere questo governo in condizioni difficili, ci siamo assunti la responsabilità di scelte non facili, abbiamo lavorato per tenere distinte vicende giudiziarie dall’attività parlamentare e di governo, registrando un credito internazionale molto forte. Ma con la stessa forza con cui abbiamo dato in Parlamento il segno della nostra serietà e del nostro spirito di servizio nei confronti del Paese, diciamo che così però non si può andare avanti. Per noi è fondamentale difendere l’autonomia del Parlamento. Non ci sono piaciute all’inizio della legislatura le polemiche contro le Camere da parte del Movimento 5 Stelle e allo stesso modo non ci piace il tentativo del Pdl di sospendere l’autonomia del Parlamento». Dice così però il Pd ha accettato la sospensione dei lavori parlamentari per il pomeriggio di ieri.

«I nostri gruppi hanno respinto la richiesta di sospensione per tre giorni. Di fronte alla domanda di un aggiornamento dei lavori per permettere la riunione dei gruppi del Pdl, abbiamo accettato, come del resto si è fatto tante volte in passato, anche per noi».
La decisione però è stata criticata anche da diversi vostri deputati: come risponde a chi dice che si è sbagliato a dimostrare tale accondiscendenza?

«Non c’è stata alcuna accondiscendenza nei confronti dell’idea di sospensione. Il Parlamento ha lavorato fino alle quattro del pomeriggio e riprende i lavori domattina. C’è stata una discussione all’inter- no della nostra presidenza e tutti erano d’accordo nella chiusura anticipata alle quattro. Una scelta che ora ci mette nella condizione di poter dire al Pdl adesso basta».

Come giudica la richiesta di Grillo di voto anticipato?
«Davvero strana da parte di chi, per scelta propria, non ha fin qui svolto alcun ruolo positivo. Grillo aveva la possibilità di influenzare il percorso della legislatura ma non lo ha voluto fare, si è rintanato in una specie di Aventino parlamentare. E ne ha pagato le conseguenze in termini di consenso. Adesso rialza la voce perché si trova in difficoltà. Ma è chiaro a tutti che ha concorso a portarci a questo punto».

Lui dice che “la gente vuole prendere i fucili” e che è lui a dire “proviamo ancora con i metodi democratici”.
«Evocare la violenza, in una fase così delicata, non indica alcuna via d’uscita, non dà risposte ai problemi, ed è un pericoloso gettare benzina sul fuoco».

Se la situazione può evolvere in ogni senso, non era più opportuno chiudere sulle regole del congresso? Perché ha fatto slittare la riunione della commissione congressuale?

«Perché il nostro problema adesso è comprendere come evolverà la situazione politica, che è davvero grave. Il centrodestra rischia davvero di far precipitare il Paese mantenendo posizioni di cui vedo tutta la pericolosità e la strumentalità, perché era previsto che la Cassazione fissasse la data della sentenza».

Ma non così presto…

«Forse lo avrà fatto per evitare la prescrizione».
Se il 30 dovesse arrivare una sentenza di condanna, come voterà il Pd quando il Parlamento dovrà decidere sull’esecutività dell’interdizione di Berlusconi dai pubblici uffici?

«Noi rispettiamo il lavoro della magistratura e faremo quello che bisogna fare perché la sentenza, com’è doveroso che sia, venga applica».

L’Unità 11.07.13