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Acqua? Non affondiamo nei luoghi comuni”, di Antonio Massarutto

Ci sono molte leggende metropolitane che si sono insinuate nella coscienza collettiva, tanto da avere avuto un ruolo non secondario nell’indirizzare il voto referendario.
La prima è quella relativa agli investimenti. «Da quando è gestito con criteri privatistici, il sistema ha inanellato una drastica riduzione degli investimenti», afferma Marco Bersani su questo giornale. Mi spiace contraddirlo, ma è vero il contrario.
Finché gli investimenti idrici sono stati a carico della fiscalità, la spesa annua (attualizzata) è sempre stata compresa tra i 10 e i 20 euro per abitante all’anno (€/ab/anno), con la sola eccezione dei primi anni 80: periodo della prima grande ondata di interventi nella depurazione. È appena il caso di notare che fu proprio in quella fase che il debito pubblico italiano spiccò il volo: è facile spendere soldi che non si hanno, prendendoli a prestito dalle generazioni future.
Non appena il vincolo di bilancio iniziò a stringere, gli investimenti precipitarono. La media dei 90 è di 17 €/ab/anno,con punte al di sotto dei 10 euro. È facile intuire il perché: quando la spesa pubblica diventa una risorsa scarsa da razionare, è forte la tentazione di tagliare le spese che producono benefici a lungo termine. I piani varati in attuazione della riforma prevedevano una media di 37 €/ab/anno,con una forte concentrazione nei primi anni (61 €/ab) per recuperare il tempo perso. Gli investimenti effettivamente realizzati nel primo decennio sono 33 €/ab/anno. La metà di quanto si sarebbe voluto fare, ma pur sempre il doppio di quanto si faceva prima.
Se guardiamo il dato più da vicino, scopriamo che quei 33 € sono la classica «media del pollo». C’è chi non è così lontano dall’obiettivo, e chi non ha investito per nulla. E non sono certo le gestioni «private» (sul cui essere davvero «private» ci sarebbe poi da discutere) quelle che hanno investito meno, anzi.
Se si è investito meno di quanto si sarebbe voluto, è difficile dare la colpa ai gestori (anche perché la tariffa era costruita proprio in modo che il gestore potesse guadagnare solo investendo di più). Semmai, non si è investito dove i piani d’ambito sono stati costruiti preoccupandosi più di contenere gli incrementi tariffari che dell’equilibrio finanziario.
Un’altra leggenda metropolitana vuole che l’introduzione dell’odiata remunerazione del capitale investito abbia fatto lievitare le tariffe, aggiungendo il profitto garantito al costo del servizio. Tolto l’odioso balzello,
l’acqua sarebbe tornata a costare il giusto. C’è una banale verità, che chiunque dovrebbe capire. Se deve essere la tariffa a sostenere gli investimenti (ossia, a generare i flussi di cassa che servono per ripagare i debiti contratti), è perfettamente ovvio che nella tariffa devono trovare posto sia gli ammortamenti che gli oneri finanziari. Sostituire gli oneri finanziari standard (il famoso 7%) con gli interessi effettivamente pagati si può anche fare (è come passare da un mutuo a tasso fisso a uno variabile). Vorrà dire che i profitti, invece che gestori, li faranno le banche.
Il sogno di una gestione dell’acqua che non paga il capitale può avverarsi solo in un modo: tornando a caricarlo sulla fiscalità generale. E infatti, quando si cerca di stanare qualche proposta concreta, è sempre lì che si va a parare: chi si impanca a inventare tortuosi e irrealizzabili castelli di carte degni di Bernie Madoff (come i bond irredimibili), chi invoca deroghe al patto di stabilità (per finanziare gli investimenti con qualche nuova emissione di Btp), chi favoleggia di sostituire gli F35 o la Tav (come se non vi fossero già altre 100 cose che si è promesso di finanziare con quei soldi, quando anche arrivassero, dal taglio delle imposte agli ammortizzatori sociali, da Pompei alla ricerca). Si vada a curiosare un po’ in Olanda, in Svezia, negli Usa, in Germania – dove le gestioni sono pubblicissime, ma non gravano sulla fiscalità. Lì si investono non 30, non 60, ma 90-100 €/ab/ anno. E le tariffe sono dal doppio al triplo delle nostre, per il semplice motivo che qualunque gestore, se si finanzia sul mercato, deve pagare il denaro al prezzo di mercato.

L’Unità 03.07.13

“Famiglie il tesoretto è finito”, di Ettore Livini

Lo stop all’aumento Iva e la cancellazione dell’Imu? Una passeggiata. La vera finanziaria italiana, roba da Nobel dell’Economia, è quella che da quattro anni a questa parte hanno mandato in porto senza fanfare le famiglie tricolori. Siamo oltre le lacrime e il sangue: nel 2012, per dire, abbiamo tagliato 4 milioni di telefonate al giorno, ridotto di un quarto gli acquisti di case, comprato 80mila auto in meno, sforbiciato 3,4 miliardi di litri di benzina dal pieno (quanto basterebbe per girare 846mila volte la terra all’altezza dell’equatore). Ma essere formiche, ormai, non basta più: le uscite, causa crisi, superano le entrate. E l’Italia – per la prima volta dal Dopoguerra – è stata costretta a rompere il salvadanaio e mettere mano ai soldi risparmiati negli anni del boom per tirare avanti la carretta. I conti della serva sono facili come un compito di ragioneria. Voce “avere”: guadagniamo di meno – 98 miliardi in quattro anni per Confesercenti – e la nostra capacità di spesa è scesa dell’8,7% dal 2008, come dire che abbiamo perso per strada 3.400 euro a famiglia.
Voce “dare”: paghiamo più tasse (288 euro a testa nel 2012) e le bollette sono salite dell’11% solo l’anno scorso. Per far quadrare i conti, il Belpaese le ha provate tutte: ha smesso di acquistare appartamenti e lavatrici, fa la spesa all’hard discount e ha negato il motorino nuovo persino ai figli promossi con la media del nove. Peccato che quest’austerity “fai da te” ci abbia fatto risparmiare “solo” 85 miliardi in quattro anni. Risultato: l’Italia ha smesso d’arricchirsi e — un euro alla volta — ha iniziato a diventare più povera.
Carta canta: la ricchezza — se ancora possiamo chiamarla cos ì — delle famiglie è calata dal 2008 del 5,7% bruciando, calcola Banca d’Italia, 520 miliardi di euro, quasi un terzo del nostro Pil. E i nostri debiti (per fortuna ancora pochi rispetto alla media Ue) hanno iniziato a correre a ritmi vertiginosi passando dal 30,8% del reddito del 2008 al 65% del 2012. La soluzione? Una sola: i conti domestici tricolori funzionano come il bilancio dello Stato. Se le entrate non crescono, si può solo tagliare. Ecco, voce per voce, dove e come abbiamo iniziato a farlo.
LA CASA
Due cuori, una capanna e una montagna di rate non pagate sul mutuo. La spending review del Belpaese è partita giocoforza dal bene pi ù prezioso che abbiamo: la casa. Il 70% degli italiani ne ha una, spesso presa a debito. E per ridurre i costi (le tasse immobiliari sono salite del 136% in un anno) in molti hanno preso il toro per le corna smettendo di pagare le rate. I proprietari “morosi” con gli istituti di credito sono cresciuti del 36% in meno di due anni. E l’Associazione bancaria italiana — per evitare una Caporetto creditizia e sociale — è stata costretta a varare una sorta di “moratoria” consentendo a chi era in difficoltà di fermare temporaneamente il pagamento degli interessi. Hanno aderito 91mila persone. E ora che il programma è scaduto, diverse migliaia di famiglie si sono ritrovate all’improvviso sull’orlo del baratro.
Qualcuno ha fatto scelte più radicali. E per pagare la scuola dei figli o i debiti, ha appeso sulla porta di casa il cartello “Vendesi”. Risultato: sul mercato è arrivata all’improvviso una valanga di appartamenti (compresi un 18% in pi ù di aste su case pignorate dalle banche). I prezzi sono crollati e i compratori, malgrado tutto, sono spariti nel nulla. Nel 2012 i rogiti sono stati il 25% in meno del 2011 e i volumi del mercato del mattone sono tornati indietro di 28 anni.
AUTO E BENZINA
L’età del parco-auto è uno degli indicatori sociologici più gettonati per misurare lo stato di salute di un paese. E nel caso dell’Italia questo termometro parla chiaro: stiamo sempre peggio. I trasporti pesano per il 13,8% sui bilanci familiari. E per ridurre le uscite siamo andati giù con l’accetta: non compriamo più auto nuove e quelle vecchie le lasciamo sempre più spesso ferme in strada o in garage. Nel 2012 abbiamo acquistato 80mila quattroruote in meno, con un risparmio netto di sette miliardi. E anche nel 2013 il mercato viaggia in retro, con un — 11% a fine maggio. Tempi duri anche per il pieno: chi può va a piedi, in bici o in tram e nel 2012, zitti zitti, gli italiani hanno acquistato 3,4 miliardi di litri di benzina in meno (—9,9%).
In teoria questa mossa avrebbe dovuto regalare ai conti delle famiglie una boccata d’ossigeno da 6 miliardi di euro. Peccato che gli aumenti delle accise (+22%) si siano mangiati tutto il risparmio. E forse anche per questo ben 3,2 milioni di auto, secondo l’Ania, hanno viaggiato nel 2012 senza pagare l’assicurazione obbligatoria.
IL CARRELLO DELLA SPESA
Più pasta e meno carne. Più hard discount e meno prodotti di marca. La manovra finanziaria della case tricolori non ha risparmiato nemmeno, come ovvio, il carrello della spesa. Pranzo e cena dobbiamo per forza metterli assieme. Ma visto che pesano per il 19% sulle uscite domestiche, a tavola è scattata una spending review selettiva, fatta più di bisturi che d’ascia. Obiettivo: ridurre le spese (sono calate nel 2012 dell’1,2%) senza sacrificare calorie e quantità nel piatto. L’operazione “shopping intelligente” è fatta di tante piccole malizie da scaffale: scegliamo prodotti nologo (costano il 18% in meno e le vendite sono cresciute del 5,8%) non snobbiamo gli hard discount che a marzo scorso viaggiavano a +4,8%. Compriamo più spaghetti (+ 3,6%) e meno carne di vitello (-5%) mentre il povero pollo — reo solo di essere più economico — va a gonfie vele nelle padelle del Belpaese. Resta al palo invece, succede da molti anni, il rinnovo del guardaroba. Ad aprile 2013 l’abbigliamento e le scarpe sono in calo per l’Istat del 9%.
BOLLETTE,LOTTOE FUNERALI
La spending review energetica delle famiglie italiane è stata stroncata dagli aumenti tariffari. Nel 2012 abbiamo ridotto i consumi di luce (-0,3%) e gas (-7,4%) ma il rialzo dei prezzi si è mangiato con gli interessi i sacrifici. Le persone più in difficoltà — per la centrale d’allarme interbancaria quelle in ritardo con pagamenti e assegni sono cresciute del 35% al sud e del 38% al nord-ovest — non hanno avuto altra scelta che scaglionare la spesa: gli italiani che pagano la luce all’Enel a rate sono il 30% in più, all’Eni siamo a +48%.
Per rimediare al “buco” delle bollette, siamo andati a lavorare di cesello sulle spese superflue: tra Gratta & Vinci, Superenalotto e Win for Life nei primi sei mesi del
2013 abbiamo risparmiato 500 milioni (-5,8% di spesa) alla voce dea bendata. Non andiamo più al cinema (-7,3% nel 2012) e nei musei (-5,7%). Fumiamo meno — le tasse sulle sigarette hanno reso lo scorso anno il 7,6% in meno — e visto che la salute non ha prezzo ma le medicine costano, nel 2013 per la prima volta abbiamo iniziato a sforbiciare del 6,4% pure le spese sanitarie. Si rischia di morire? No problem. Basta digitare www. funeralionline. it e sfogliare alla voce offerte. L’Italia è più povera. E anche per il caro estinto, business is business, è già boom delle esequie low-cost.

La Repubblica 03.07.13

“La maturità a prezzo di saldo lo scandalo dei diplomifici dove l’esame costa 8 mila euro”, di Conchita Sannino

Un volo verso Capodichino, e un diploma. Un assegno staccato da papà, e un “titolo di studio”. «Dai, lo sanno tutti come funziona. No?». Ma sì, forse ha ragione il rampollo ventisettenne di una famiglia veneta che, libero di sfogarsi dopo il faccia a faccia con gli investigatori, consegna la sua fotografia ad un amico che lo aveva accompagnato per farsi una gita. «Quante domande, ma facciamola finita… Io mi sono iscritto qui a Nola perché da noi sappiamo che se ti iscrivi giù, al “Luca Pacioli”, non hai problemi. Paghi. Seimila. Settemila euro. Qualche poverocristo di qui mi ha confessato che pagava a rate. Non ti fai vedere per un anno. Non frequenti. Nessuno ti rompe. E alla fine dell’anno, arrivi, copi il compito, ti prendi il tuo bel diplomino. Lo so io, e qui non lo sanno?».
È andata così per almeno duemila studenti, negli ultimi due anni, e solo in una ristrettissima area: il Nolano, ad alta densità di scuole-bluff. Più che diplomifici, associazioni per delinquere: perché i primi dovrebbero produrre diplomi, le altre solo denaro per sé e per gli altri carta straccia, benché le si attribuisca un valore. Sono aziende scolastiche in apparenza, e scatole vuote. Che, però, da anni riescono a gabbare lo Stato, il ministero, l’Ufficio scolastico regionale: grazie anche a sciatterie o autentiche complicità ben pagate, come dimostrano gli arresti, ad aprile, a carico di ispettori del Provveditorato.
È andata così per troppo tempo, racconta l’inchiesta della Procura di Nola, che ad aprile ha colpito con sequestri e misure cautelari per 15 persone le scuole Luca Pacioli e Vittorio Emanuele di Nola e la Achille Lauro di Torre Annunziata. Va ancora così, è il sospetto nutrito dalle indagini delle Fiamme Gialle di Torre Annunziata, anche in altri presìdi-satelliti collegati: sia in Campania, sia nel resto d’Italia. È un affare da 10 milioni di euro l’anno, stima approssimata per difetto. La prova di una sostanziale impunità è nel clamoroso blitz svelato da
Repubblica: il colonnello Carmine Virno rimanda i finanzieri alla “Pacioli”, l’altro ieri, e trova oltre 550 ragazzi che fanno l’esame di maturità senza registri di classe, senza documentazione, in un clima definito di «diffusa illegalità». Com’è stato possibile? Grazie al solito duello tra istituzioni. Doppio pronunciamento: di segno opposto. L’Ufficio scolastico regionale revoca subito la “parifica” a quell’istituto: anche perché le carte mostrano falsi di ogni natura, distruzione di atti. Ma il “Pacioli” fa ricorso al Tar del Lazio che sospende lo stop. Così, tutto torna a posto. Benvenuti, ragazzi. Addio incubi, zero notti passate a studiare. È una passeggiata, la sfida con l’esame di Stato. Peccato che stavolta ci siano gli uomini in divisa, nelle aule, a complicare la gita.
Così interviene anche il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza. «La vicenda dell’istituto paritario “Pacioli” di Nola è molto grave. Auspico che si faccia presto piena luce sul caso, sul quale il ministero e l’Ufficio scolastico regionale stanno facendo approfondite verifiche». Il ministro annuncia anche che intende «rivedere la normativa che disciplina questi istituti, prevedendo un regime diverso, più restrittivo ». Eppure, basterebbero semplici regole. Com’è pensabile che un allievo che risieda a Sassari o ad Aosta possa frequentare sul serio, e con profitto, una scuola del Nolano? Ma anche le analoghe, doverose, intenzioni dei predecessori della Carrozza si sono dissolte nelle nebbie parlamentari.
Per anni, sono state solo comitive rumorose e goliardiche di ragazzi, quelle che invadevano con i vari dialetti l’area del nolano. Erano portatori di “economia locale”. Si sceglievano anche vetture con autista, andavano in cerca di un po’ di fumo e qualche locale “carino”. Tutto nel pacchetto diploma finto più esotica incursione. Tutto per diecimila euro, compreso il viaggio.
Una storia lunga, quella di diplomi e lauree, un tanto al chilo. Radicata in ambienti di camorra: sia tra i promotori, sia tra i destinatari. Dallo storico blitz al vecchio Settembrini, lì dove Rosetta Cutolo, la sorella del sanguinario padrino di camorra Raffaele, e altri camorristi di rango avevano conseguito titoli di studio restando inesorabilmente analfabeti, ai diplomifici riveduti e corretti dove — fino a qualche anno fa — un osannato Nicola Cosentino partecipava all’inaugurazione di nuovi e prestigiosi “indirizzi”, in compagnia di un’ampia rappresentanza istituzionale e di un delegato del Ministro.
Oggi, il procuratore capo di Nola, Paolo Mancuso, evita accuratamente ogni riferimento al merito dell’inchiesta, e osserva: «C’è una normativa francamente incomprensibile, che disciplina gli obblighi di presenza di esaminandi “esterni” e degli “interni”. E questo favorisce un più agevole ricorso all’illegalità. Un fenomeno in crescita. Non escludo ci siano altri istituti “Pacioli” in giro per l’Italia».

La Repubblica 03.07.13

“Ufficio sfoghi”, di Massimo Gramellini

Lo relegheranno a caso di ordinaria follia. Un vigile urbano avanti con gli anni che viene accusato di timbrare il cartellino anche per i colleghi. Il processo, la condanna, la destituzione dall’incarico. E intanto il virus nazionale del vittimismo che gli monta dentro, fino a catalizzarsi intorno a un bersaglio in carne e ossa: la sindaca di un paese del Varesotto, teatro di tutta vicenda. Per trasformarla in tragedia manca l’ultimo requisito: il porto d’armi che consente a quest’uomo di mantenere un arsenale di carabine e fucili a pompa. Giuseppe Pegoraro si presenta in Comune, spara al primo cittadino, ferisce anche il secondo, e quando viene infine messo nelle condizioni di non nuocere, le sue prime parole sono quelle di un giustiziere della notte cresciuto a rancore e telefilm: «Adesso ho regolato i miei conti».

Ordinaria follia. E però quanti Pegoraro, per fortuna senza porto d’armi, solcano ogni giorno le strade del nostro scontento? Quanta rabbia intrisa di mania di persecuzione, alla ricerca spasmodica di un capro espiatorio da sacrificare sull’altare di un regolamento di conti scambiato per giustizia? L’essere umano funziona così da quando frequenta il mondo. A non funzionare più è la comunità che un tempo assorbiva un po’ di questo disagio. Il prete, il medico condotto, il circolo comunista, la famiglia patriarcale. Non facevano miracoli, ma erano camere di decompressione, sfogatoi legalizzati in cui scaricare malumori e risentimenti prima che montassero fino all’impazzimento. Oggi gli sfogatoi sono i social network, ma senza contatto fisico la solitudine fa in fretta a diventare malattia.

La Stampa 03.07.13

“Il faraone rimasto solo”, di Bernardo Valli

Quel che accade in Egitto in queste ore è un disastro e una grande lezione. Da un lato c’è il rischio di un dissenso prolungato. Con un aggravamento della crisi economica e sociale; e dall’altro si è arrivati a una tappa inevitabile, a un appuntamento previsto, nel processo avviato dalla primavera araba. Il fallimento degli islamisti, usciti vittoriosi dalle urne ma rivelatisi incapaci di gestire la cosa pubblica, è infatti la scontata dimostrazione che lo zelo religioso non abilita a governare. L’illusione su un possibile passaggio dalla moschea al potere non è svanito del tutto, ma è senz’altro appassita. I Fratelli musulmani non sono stati capaci di rispondere alle aspirazioni di piazza Tahrir, che si è riempita di nuovo per recuperare la rivoluzione tradita. Dopo avere votato lo scorso anno per Mohammed Morsi molti egiziani chiedono adesso le sue dimissioni, la formazione di un governo provvisorio e nuove elezioni. Più che un presidente dimezzato Morsi è un presidente via via spennato. Perde un ministro dopo l’altro. Il quinto ad abbandonarlo è stato quello degli esteri, Mohammed Kamel Amr. Persino il procuratore generale Talaat Abdallah, appena nominato, è stato rimosso dall’Alta Corte, che ha ridato l’incarico al predecessore. E per Morsi è stato uno schiaffo. Come non è stato piacevole ricevere le brutali dimissioni di Alaa el-Hadidi, il suo portavoce, passato all’opposizione.
Il dramma investe il palazzo presidenziale, dove si moltiplicano le diserzioni. Il ministero degli interni non è neppure in grado di fornire uomini per difendere i luoghi pubblici perché i poliziotti non ubbidiscono agli ordini. In quanto all’esercito non sembra ansioso di ritornare al governo, dopo la pessima prova che ha dato di sé nell’anno successivo alla destituzione di Hosni Mubarak. Vuole esercitare il potere ma stando tra le quinte. Un privilegio non facile da imporre. Il quiz politico egiziano, cos ì come si presenta in questi giorni, non è di facile soluzione.
Per ora non è tanto evidente la lezione di realismo, sull’impossibilit à di governare col Corano, quanto il disastro politico, sociale ed economico. Con l’annesso rischio di uno scontro frontale tra le forze in campo. Entro oggi Mohammed Morsi, stando all’ultimatum delle Forze armate, dovrebbe allacciare un dialogo, se non proprio raggiungere un’intesa, con l’opposizione, raccolta sotto il nome di “tamarod”, la ribellione. Ma quest’ultima rifiuta. Dice: né fratelli musulmani, né ritorno al vecchio regime, né esercito. In realtà le forze laiche non sono insensibili all’atteggiamento dei militari giudicato favorevole a una rapida rinuncia di Mohammed Morsi alla presidenza. Dopo avere denunciato a lungo il potere dei generali, l’opposizione applaude gli elicotteri militari che sventolano la bandiera egiziana. Il generale Abdul Fattah el-Sisi, capo del Consiglio supremo delle Forze Armate, si è lanciato in dichiarazioni che hanno suscitato l’approvazione di piazza Tahrir. Ma in queste ore egli deve comportarsi più da diplomatico che da militare.
I generali, che gestiscono direttamente più di un terzo dell’economia nazionale (dal turismo al petrolio), sono coscienti dell’incapacit à di governare degli islamisti. Ma scartando dal potere i Fratelli musulmani rischiano di far precipitare la situazione. Per quanto spennato, con le dimissioni che gli piovono addosso da tutte le parti, Mohammed Morsi resta il leader, sia pur provvisorio della confraternita, la quale continua a rappresentare la più importante forza politica dell’Egitto. I comizi dei partigiani di Morsi si moltiplicano. Mohammed Baltagy, un esponente di rango, ha difeso davanti a un pubblico armato di bastoni e spranghe di ferro, la legittimità del presidente eletto e ha detto che gli oppositori dovranno passare sui corpi dei suoi sostenitori. I Fratelli musulmani non possono rinunciare a un potere conquistato dopo ottant’anni di lotta. Guardano con diffidenza le incerte, ambigue prese di posizione dei generali e denunciano il “colpo militare”. Si sentono assediati anche dagli islamisti radicali del partito Nur, unitisi ai laici nel chiedere le elezioni anticipate. L’impressione è che il fronte religioso stia franando.
I militari sono la sola forza stabile, da cui dipende l’immediato futuro del paese. Ma essi si trovano davanti a un’equazione in apparenza insolubile: salvare la legittimità rappresentativa, di cui Morsi è l’espressione, e rispondere al tempo stesso alle richieste di un’opposizione imponente, le cui radici affondano nella rivoluzione del 2011, che ne chiede le dimissioni. È l’impossibile formula evocata anche da Barack Obama, trasformatosi in una Sfinge americana. Come salvare il risultato del suffragio universale, quindi Morsi, e soddisfare i manifestanti che non lo vogliono? Se la situazione dovesse precipitare, e gli scontri si trasformassero in qualcosa di simile a una guerra civile, l’esercito dovrà assumersi, sia pur riluttante, le responsabilità di governo, imponendo l’ordine. Un’uscita di scena di Morsi, con il consenso degli stessi responsabili dei Fratelli musulmani, potrebbe essere una soluzione provvisoria. La più opportuna ma non la più facile. Il generale Abdul Fattah el – Sisi punta probabilmente su questo. Spetta a lui trovare il compromesso per far ripartire una primavera araba bloccata.

La Repubblica 03.07.13

“Non dimenticare le stragi naziste”, di Carlo Smuraglia

Caro direttore, la vicenda delle stragi nazifasciste del 1943-45, che riguarda circa 15.000 vittime, è spesso oggetto di trattazioni prive di completezza d’informazione.
Finora non c’è stata una vera assunzione di responsabilità da parte del Governo italiano circa la vicenda dei fascicoli «occultati», che tanto danno hanno provocato, ai fini delle indagini. È vero, anche, che dal 2006, quando cioè ha terminato i suoi lavori (ed è finita la legislatura) la Commissione di inchiesta parlamentare, istituita proprio per scoprire le cause del mancato utilizzo e dell’occultamento di quasi mille fascicoli, non si è riuscito a ottenere che il Parlamento discutesse sulle relazioni conclusive della Commissione stessa.
Mi permetto però di segnalare alcune iniziative che costituiscono a mio parere dei significativi passi in avanti per mantenere viva l’attenzione su questi tragici fatti e per ottenere finalmente verità e giustizia.
Un libro recente di Buzzelli, De Paolis, Speranzoni, La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in Italia (ed. Giappichelli – 2012), non solo contiene una completa ed esauriente ricostruzione dei fatti e delle vicende connesse alle stragi suddette, ma riporta, alla fine, un’ampia bibliografia di ben tredici pagine.
E tra breve, uscirà, per le edizioni Carocci, un volumetto curato dall’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia) intitolato: Le stragi nazifasciste del 1943-1945 tra memoria, responsabilità e riparazione, che prende spunto dal Convegno che l’Associazione ha tenuto, in una sala del Senato, il 29 gennaio 2013, con relatori illustri, foltissimo pubblico e particolare attenzione, anche della stampa.
L’Anpi (che Franco Giustolisi continua a ritenere parte di una presunta «congiura del silenzio») ha avviato una petizione popolare per chiedere, appunto, che si discuta finalmente la vicenda in Parlamento e ha svolto la sua Festa nazionale, a Marzabotto, nel giugno 2012, dedicandola a tutte le vittime delle stragi e tenendo, in quella sede, un forum sul tema, molto partecipato da studiosi ed esperti e anche da rappresentanti di Associazioni delle vittime delle stragi.
Per non parlare dei ripetuti e molteplici incontri che si sono svolti al ministero degli Esteri, con diverse Associazioni e con l’Anpi in prima persona, per discutere sul come ottenere giustizia, risarcimenti, riparazioni. In una di queste riunioni, recentissima, erano presenti anche rappresentanti della Germania; e con loro e con i dirigenti italiani si è discusso di un progetto dell’Anpi stessa e del Insmli (Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia) per la redazione di un completo Atlante delle stragi, di cui si chiede alla Germania il finanziamento. Il sottoscritto ha quindi consegnato al ministero degli Esteri, così formalizzandola, una serie di richieste da far valere presso il corrispondente ministero tedesco, tra cui anche l’esecuzione, in Germania, delle sentenze italiane.
L’Anpi, inoltre, ha contribuito alla presentazione di un ampio documento, sottoscritto da un intero gruppo parlamentare, su tutta la vicenda, per ottenere che si discutesse in Aula, si accertassero finalmente le responsabilità e si contribuisse anche a «riparare», ove possibile. Purtroppo quell’interpellanza è decaduta per fine legislatura e ora se ne sta predisponendo un’altra, cercando di raccogliere molte firme e di esercitare una seria pressione perché finalmente si discuta tutto a viso aperto.

Certo, ci sono ancora molti vuoti, quello del dibattito parlamentare mancato, quello di una chiara assunzione di responsabilità «italiana» per la vicenda dei fascicoli occultati, quello dei ministeri competenti che non si sono adoperati perché le sentenze emesse dai Tribunali militari italiani fossero eseguite ovunque, e dunque anche in Germania, quello di coloro che (penso al Tribunale di Stoccarda che archivia vicende per le quali, in Italia, sono stati irrogati otto ergastoli, con sentenze definitive) preferiscono rimuovere una pagina storica veramente terribile. Sono vuoti che stiamo cercando di colmare, con fatica e con impegno (non da soli: penso ai commossi interventi, a Marzabotto e a Sant’Anna di Stazzema, dei Presidenti della Repubblica dell’Italia e della Germania), talora cercando accordi conclusivi con la Germania (ricordo la relazione del gruppo di storici italo-tedesco, che è stata presentata nel novembre scorso e che, pur con qualche parte discutibile, rappresenta una fase saliente del cammino che si sta cercando di percorrere). E da una più ampia informazione, ripeto, non potrà che derivare un vantaggio non solo per il nostro lavoro, ma per l’attesa e l’ansia di verità e giustizia che anima ancora coloro che hanno vissuto, direttamente o indirettamente, gli effetti di questa enorme tragedia.

*Presidente nazionale dell’Anpi

Il Coriere della Sera 02.07.13