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“Il guanto di ferro”, di Bernardo Valli

I gnerali hanno messo in riga la rissosa società politica egiziana. Un golpe? Ci assomiglia. Ma un golpe bianco perché se è stata impiegata la forza militare, l’obiettivo non sembra la presa del potere. Ritenendosi i depositari della sicurezza nazionale, i generali hanno promosso un’operazione che ha come fine di mettere attorno a un tavolo tutti i litigiosi avversari che paralizzano il paese con le loro dispute e la loro incapacità, e di costringerli a raggiungere un compromesso. Il generale Abdel Fattah el-Sissi, capo del Consiglio supremo delle Forze armate, si proporrebbe di ripristinare il processo democratico minato dall’inettitudine del presidente islamista, Mohammed Morsi, e dalle imponenti manifestazioni dell’opposizione che ne chiedevano le dimissioni.
Di fronte al paese paralizzato, in preda a una crisi economica devastante, e alla minaccia di una guerra civile, il generale Sissi ha usato la maniera forte. Ha adottato uno stile da caserma. Non previsto dalla Costituzione ma iscritto nella tradizione egiziana dal 1952, da quando i colonnelli cacciarono re Faruk e proclamarono la repubblica. Da allora la società militare usufruisce di diritti particolari. Non sempre nel quadro della legge. In questo caso con la giustificazione di uno stato d’emergenza nazionale.
Il generale Sissi ha circondato il palazzo presidenziale con i carri armati e ha imposto in pratica a Morsi gli arresti domiciliari. Più tardi gli hanno comunicato che non era più il presidente dell’Egitto. Al capo dello Stato eletto un anno fa a suffragio universale diretto e, stando ai risultati e alle accuse dell’opposizione, rivelatosi incapace di governare, è stato impedito di fuggire, vale a dire di sottrarsi ai negoziati con gli avversari. I militari hanno bloccato nei loro domicili anche la guida suprema della confraternita dei Fratelli musulmani, Mohammed Badie, e il suo vice Khairat el-Shater, e li avrebbero poi costretti a partecipare a una riunione con i membri dell’opposizione, in particolare con Mohammed el-Baradei, premio Nobel ed ex funzionario delle Nazioni Unite, e i rappresentanti delle comunità musulmane cristiane. Di fatto, dopo avere lanciato un ultimatum, i generali hanno preso per il colletto i rappresentanti politici, li hanno fatti sedere attorno a un tavolo e adesso li costringono a trattare e a trovare un compromesso.
Nell’attesa che questa brusca procedura dia dei risultati, i militari progettano di creare un governo provvisorio, formato da giudici della Corte costituzionale, e guidato da un generale. L’uomo del momento è il generale Abdel Fattah el-Sissi. Ha cinquantotto anni e ha fatto tutta la sua carriera nella gerarchia militare dominata da Hosni Mubarak, il rais destituito dopo la rivolta partita da piazza Tahrir nel 2011. I suoi superiori diretti erano gli anziani generali via via sostituiti alla testa delle Forze armate. Sissi è stato designato capo del Consiglio supremo quando è stato messo a riposo il generale Tatawi, legato al vecchio regime e riluttante a riconoscere i poteri presidenziali di Morsi, non solo un islamista ma anche un civile. Abdel Fattah el-Sissi ha invece accettato il nuovo potere dei Fratelli musulmani, ed è stato nominato ministro della Difesa. Di fatto era l’esponente delle Forze armate nel nuovo potere, a fianco del primo capo dello stato non in uniforme nella storia della Repubblica egiziana.
Il generale Sissi viene descritto come un ufficiale rigoroso, profondamente legato alla società militare egiziana e alle sue regole. È anche noto per la religiosità. Si è creduto a lungo che la rigida osservanza delle pratiche religiose fosse un segno della sua appartenenza alla confraternita dei Fratelli musulmani. Ma il sospetto non era fondato. Un’affiliazione del genere non era ammessa a un alto ufficiale. Il generale Sissi è considerato uno tra gli alti ufficiali più legati agli americani. Quando l’ex capo del Pentagono Leon Panetta visitò le forze armate egiziane lo indicò come un generale in cui gli Stati Uniti riponevano tutta la loro fiducia. Sissi è anche un fine diplomatico. Dopo i carri armati, dicono coloro che lo conoscono, userà i guanti e sfodererà sorrisi.

La Repubblica 04.07.13

Conti pubblici, più flessibilità per l’Italia. Ue, ok agli investimenti per la crescita”, da repubblica.it

La Commissione Ue “consentirà deviazioni temporanee dal raggiungimento dell’obiettivo di medio termine” che consentiranno spese “produttive”, cofinanziate da Bruxelles. Lo ha annunciato il presidente Josè Barroso. Oggi il commissario Olli Rehn scriverà ai ministri europei per spiegare il nuovo approccio. Giovannini: “Possibile intervento sostanzioso”. Più flessibilità per i bilanci dei Paesi con i conti in ordine, a cominciare dall’Italia. Lo ha deciso la Commissione europea. Esulta il presidente del Consiglio dei ministri Enrico Letta che su Twitter scrive: “Ce l’abbiamo fatta! La Commissione Ue annuncia ora ok a più flessibilità per i prossimi bilanci per i paesi come l’Italia con i conti in ordine”. Di fatto
Bruxelles “consentirà deviazioni temporanee dal raggiungimento dell’obiettivo di medio termine” che permetteranno “investimenti pubblici produttivi”, cofinanziati dalla Ue ha spiegato il presidente Josè Barroso.

Il deficit. Oggi il commissario agli Affari economici, Olli Rehn, scriverà ai ministri europei per spiegare il nuovo approccio. Tuttavia la Commissione Ue ha voluto sottolineare che il deficit “non può mai superare il 3%,” nemmeno con le nuove regole per gli investimenti pubblici”. Gli investimenti non verranno quindi esclusi dal calcolo del deficit, si consentirà invece di allungare i tempo per raggiungere gli obiettivi. Tradotto: l’Italia potrà spostare oltre il 2014-2015 l’obiettivo del pareggio di bilancio strutturale.

Il governo. “Siamo molto soddisfatti” ha detto il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, commentando la decisione dell’Ue: “Aspettiamo di vedere la lettera di Olli Rehn per valutare, ma sarà possibile un intervento sostanzioso”. L’Italia si era impegnata a raggiungere il pareggio di bilancio, che in termini strutturali è calcolato in una forbice tra lo 0% del Pil e lo 0,5% del Pil, pari a circa 8 miliardi di euro l’anno. “Il governo italiano – scrive Palazzo Chigi in una nota – raccoglie con grande soddisfazione un risultato importante, forse il più importante di tutti nel rapporto con le istituzioni europee. E’ il premio per la scommessa che questo governo ha fatto fin dall’inizio sul rispetto degli obiettivi di finanza pubblica”. Sulla stessa lunghezza d’onda anche il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni: “Manterremo l’impegni presi e taglieremo le tasse, ma per farlo è necessario tagliare prima la spesa pubblica”.

La decisione. Barroso ha quindi spiegato che la Commissione “ha esplorato ulteriori modi all’interno del braccio preventivo del Patto di Stabilità (cioè per chi è sotto il 3% di deficit e quindi fuori da procedura, ndr) per realizzare investimenti pubblici non ricorrenti con un impatto provato sulle finanze pubbliche”. Per questo “quando la Commissione valuterà i bilanci nazionali per il 2014 e i risultati di bilancio del 2013, considererà di consentire deviazioni temporanee del deficit strutturale dal suo percorso verso l’obiettivo di medio termine (per l’Italia è il pareggio strutturale nel 2014-2015, ndr) fissato delle raccomandazioni specifiche per Paese”. Tale deviazione “deve essere collegata a spesa pubblica su progetti co-finanziati dalla Ue nell’ambito della politica strutturale e di coesione, delle reti trans-europee e della ‘Connecting Europe Facility’ con un effetto nel lungo termine positivo, diretto e verificabile sul bilancio”.

Le reazioni. Immediate le reazioni positive dal mondo della politica. Dal Pd, Francesco Boccia e Matteo Colaninno, sottolineano il “successo del governo Letta”. Nel Pdl soddisfatto il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi secondo cui si tratta di un successo sia per il “riconoscimento del fatto che di solo rigore si può morire e che servono gli investimenti. Ed è anche il riconoscimento dei sacrifici fatti dagli italiani”. Sempre dal Pdl, Daniele Capezzone chiede ora un “taglio alle tasse”.

da repubblica.it

“Troppa ricerca, poca docenza. L’università deve rilanciare l’apprendimento dei ragazzi”, di Giovanni Scancarello

L’università deve tornare in cattedra. Secondo la commissione europea, non basta fare solo ricerca, ma bisogna restituire centralità all’insegnamento, troppo spesso relegato in second’ordine. È quanto riportato, nella relazione del gruppo di alto livello per la modernizzazione dell’istruzione superiore, presentata lo scorso 18 giugno a Bruxelles.

L’istruzione superiore, vale a dire quella universitaria, pone giustamente al centro del proprio core business la ricerca, che però resta un fatto accessibile, alla fine, a pochi eletti. Per l’Europa si tratta di proseguire anche nel terziario l’apertura democratica all’istruzione che ha contraddistinto lo sviluppo della scuola secondaria di massa degli ultimi trent’anni. Per questo l’università deve prepararsi ad accogliere l’aumento della richiesta di accesso ai percorsi terziari di studio, in modo da proporsi nella prospettiva dell’aumento del numero dei laureati in Europa, atteso già con la strategia di Lisbona e rilanciato con Europa 2020. Il gruppo di alto livello, in cui partecipa anche l’italiano Alessandro Schiesaro, dell’Università La Sapienza di Roma, ha adottato 16 raccomandazioni, che rappresentano il risultato del confronto con gli stakeholder, con le associazioni professionali e degli utenti dell’istruzione superiore europea, finalizzate soprattutto a promuovere l’innalzamento della qualità della didattica. Qualità della didattica che è tale solo se mette veramente al centro l’apprendimento e lo studente. È questo il banco di prova del modello dell’istruzione superiore europea.

In Europa, affermano dal gruppo di alto livello, si vuole affermare un modello in cui le competenze vengano innanzitutto coltivate attraverso la didattica e l’insegnamento e non solo nei laboratori di ricerca. L’Europa, quindi, dopo la scuola, sceglie l’inclusione anche all’università, spostando il baricentro dall’insegnamento all’apprendimento. Si tratta di un approccio già affermato con il Processo di Bologna e ripreso con l’istituzione del framework europeo delle competenze, del sistema di accumulazione e trasferimento paneuropeo dei crediti e dei titoli di studio, del supplemento al diploma. Per Androulla Vassiliou, commissario per l’istruzione e promotrice convinta del gruppo di alto livello, tutto ciò serve perché gli «studenti siano forniti della giusta miscela di competenze necessarie per il loro futuro sviluppo personale e professionale». Mary McAleese, ex presidente della repubblica d’Irlanda e oggi a capo del gruppo di alto livello, afferma che le università dovrebbero porre maggiore attenzione al merito di chi insegna e al fatto che venga insegnato loro ad insegnare. Tra le sedici raccomandazioni è previsto infatti che le politiche di reclutamento e progressione di carriera delle università tengano conto della valutazione delle competenze didattiche dei prof, tanto quanto altri fattori, come pubblicazioni e altri titoli. Entro il 2020, si legge tra le raccomandazioni, tutto il personale docente dovrebbe aver ricevuto una formazione pedagogica certificata. Ma non solo. Particolare enfasi è posta all’apertura democratica del curricolo agli studenti. I curricoli dovrebbero essere sviluppati e monitorati in un clima di dialogo e partenariato con gli studenti, i laureati, gli stakeholder. E ancora. Le università dovrebbero incoraggiare il feedback degli studenti. Insomma la commissione ha chiesto ai suoi saggi un documento con cui dichiarare guerra alla dispersione nell’istruzione superiore così come già avvenuto nella scuola superiore. Nel frattempo però c’è da ricostruire un rapporto con i diplomati, che si iscrivono sempre meno all’università. Secondo le stime di Almalaurea sulla condizione dei laureati le retribuzioni di ingresso dei laureati in Italia sono livellate a livello di quelle dei diplomati. Perché allora laurearsi se basta il diploma? E d’altra parte l’Europa sa che non potrà giocarsi la competizione dell’economia della conoscenza senza un contributo forte in originalità e creatività che soprattutto i laureati italiani possono offrire.

da ItaliaOggi 02.07.13

“Carrozza: per il sostegno stabilizzazione di 90 mila posti e nessun taglio”, da Tuttoscuola.com

Dopo la presentazione in Parlamento delle ‘Linee programmatiche’ del ministro Carrozza il 6 giugno scorso, vi era stata la critica di un sindacato per un presunto taglio di 11 mila posti di sostegno. Critica subito raccolta da un’associazione di consumatori che aveva attaccato il ministro per contrazione di posti a scapito di alunni con disabilità.

Tuttoscuola aveva subito rilevato l’equivoco: il ministro intendeva stabilizzare in organico di diritto 90 mila posti, rispetto agli attuali 63 mila. Da questa operazione sarebbero rimasti esclusi circa 11 mila posti che avrebbero continuato a funzionare di fatto.

Non un taglio di posti, bensì una notevole stabilizzazione (circa il 90% dei posti esistenti) con l’esclusione di 11 mila posti funzionanti di fatto.

Auspicavamo un chiarimento da parte del ministro, ad evitare equivoci duri a morire.

E il chiarimento – nel senso da noi interpretato – è venuto durante la replica del ministro in sede di Commissioni riunite della Camera e del Senato.

Sono esattamente 101.272 gli insegnanti impiegati in attività di sostegno nell’a.s. 2012/2013, a fronte di 98.083 nell’anno precedente. – ha dichiarato il ministro – Dei suddetti 101.272 posti, 63.348 sono posti in organico di diritto, a fronte di 37.924 posti in organico di fatto. La volontà manifestata di condurre a organico di diritto 27.000 docenti di sostegno, rappresenta un’impronta tangibile della volontà di “dare segnali immediati di attenzione al precariato,” specie quello coinvolto nel lavoro con una fascia della popolazione scolastica che necessita di continuità nel percorso didattico e relazionale.

L’incremento dei posti di sostegno in organico di diritto (da 63.348 a 90.000) non implica assolutamente una diminuzione complessiva del numero degli insegnanti di sostegno, ma ne stabilizza la posizione ampliando l’organico di diritto del sostegno (portandolo da un ormai inattuale 64% al 90%). Resta inalterato che le ulteriori esigenze saranno coperte con il cd. organico di fatto. Il costo di tale operazione e di circa 97 milioni di euro.

“La denuncia dell’ocse: il lavoro non premia i laureati, lo stato non sostiene il diritto allo studio”, di Emanuela Micucci

Gli studenti attratti dall’università diminuiscono. Eppure, con i laureati lo Stato ci guadagna. L’ultimo rapporto Osce Education at a Glance 2’13, pubblicato la scorsa settima (ww.oecd.org), mostra che i 15enni italiani che sperano di conseguire la laurea sono diminuiti dell’11% tra il 2003 e il 2009, passando dal 52,1% al 40,9%.

Se i più giovani tendono ad avere un livello di istruzione più elevato rispetto ai concittadini più anziani, appena il 15% dei 25-64enni è laureato rispetto al 32% della media dei Paesi Ocse. E sono precipitati i tassi d’ingresso agli atenei: -48% nel solo 2011, contro una media Ocse del 60%. Sebbene all’inizio degli anni Duemila si fosse verificato un aumento temporaneo: dal 39% del 2000 al 50% del 2002 e al 56% del 2006. In effetti, a leggere i dati sui livelli di remunerazione tra laureati e diplomati 25-34enni, il guadagno dei primi supera quello dei secondi solo del 22% rispetto al 40% della media internazionale e rispetto a una differenza del 68% nella fascia di età 55-64 anni (la media Osce è del 73%).

Difficilmente, quindi, i giovani dottori trovano un lavoro adeguato. Ma anche aggiudicarsi un posto con la laurea in tempi di crisi non segna grandi differenze rispetto ai coetanei con il solo diploma: tra il 2008 e il 2011, infatti, i 25-34enni disoccupati laureati sono aumentati del 2,1%, percentuale quasi in linea con il 2,2% della media Osce, mentre i diplomati senza lavoro sono cresciuti del 2,9%. E lo Stato non agevola la scelta universitaria. Meno del 20% degli studenti beneficia di interventi a sostengo del diritto allo studio: borse di studio, prestiti ci collocano agli ultimi posti nella classifica Osce. Non solo. I Paesi che stabiliscono tasse universitarie più alte dell’Italia, cioè USA, Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda sono quelle in cui il finanziamento dell’ateneo è per lo più privato e i giovani ricorrono ai prestiti d’onore per coprire le spese universitarie.

Mentre in Europa sono solo i Paesi Bassi ad avere tasse universitarie maggiori dell’Italia. Anzi, negli ultimi anni nel Belpaese si è assistito a un aumento delle tasse, tanto che l’Italia è quarta per aumento della percentuale di spesa privata con +10%, dopo il Portogallo e la Repubblica Slovacca. Ma per spesa privata complessiva l’Italia è seconda in Europa, preceduta solo dal Regno Unito sul quale pesa l’incremento del 40% di tasse universitarie dovuto alla riforma Cameron. Eppure, il rapporto Osce stima consistenti benefici sociali del conseguimento di una laurea per lo Stato: laureato italiano produce benefici pubblici 3,7 volte maggiori dai costi pubblici, in linea con la media OCSE del 3,9; mentre una donna laureata ne produce 2,4 volte maggiori, contro una media del 3. Si pensi, ad esempio, ai maggiori introiti e contributi previdenziali dei laureati.

Non solo per gli studiosi dell’Ocse questi benefici superebbero i costi pubblici dell’istruzione universitaria, ma anche quelli per l’istruzione primaria e secondaria. Non trascurabili, poi, i ritorni economici di un dottore: quelli pubblici sono pari a 169mila dollari per gli uomini e 70mila per le donne, quelli individuali a 155mila dollari per i laureati e 77.652 per le laureate. Ciononostante la spesa pubblica per gli studenti di livello terziario, pari a 9.580 dollari, continua ad essere molto inferiore alla media Osce di 13.528 dollari. Sebbene negli ultimi 15 anni sia cresciuta del 39%, registrando un aumento superiore all’area Osce del 15%. Aumento tuttavia ampiamente riconducibile, spiega il rapporto, a quello dei finanziamenti provenienti da fonti private.

ItaliaOggi 02.07.13

“Quota ’96 da quantificare”, di Nicola Mandelli

Si consolidano le speranze del personale della scuola, che si riconosce nel movimento “Quota 96”, di poter accedere al trattamento pensionistico con i requisiti anagrafici e contributivi richiesti dalla normativa previgente l’entrata in vigore della riforma Fornero, ancorché maturati entro il 31 agosto 2012, anzichè entro il 31 dicembre 2011. E’ l’impressione che si ricava esaminando il contenuto degli interventi finora registrati nel corso dell’esame, nella XI Commissione lavoro della Camera, dei disegni di legge (C: 249 Ghizzoni e C. 1186 Marzana) che prevedono, appunto, l’estensione della facoltà di accedere al trattamento pensionistico con i vecchi requisiti anche al personale della scuola che li ha maturati nel corso dell’anno scolastico 2011/2012. Sia i rappresentanti delle forze politiche presenti in Commissione, che alcuni membri dell’Esecutivo, hanno dichiarato di essere favorevoli alla proposta contenuta nei due disegni di legge. Al momento l’unico vero ostacolo per un rapido parere favorevole ai due disegni di legge, che peraltro confluiranno probabilmente in un testo unico, sembra essere quello dell’incertezza sul numero dei potenziali beneficiari, una incertezza che, ad avviso soprattutto del rappresentante del Governo, non consentirebbe di quantificare gli oneri finanziari che deriverebbero dal provvedimento. I numeri, di natura provvisoria, forniti dall’Inps e le prime stime svolte in via informale dal Miur – rispettivamente 9.000 e 3.500 potenziali beneficiari – non appaiono realisticamente credibili.
Chi potrebbe fornire quelli esatti, e non limitarsi alle stime, sarebbe il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, il solo che conosce l’età anagrafica di tutto il personale di ruolo e non di ruolo in servizio nell’anno scolastico 2011/2012 e, nel novanta per cento dei casi, anche la sua anzianità contributiva, i due elementi cioè assolutamente necessari per determinare i potenziali beneficiari. Ma il Miur non ha ancora fornito questi dati, nonostante che il dicastero del lavoro di cui è sottosegretario Carlo Dell’Aringa abbia più volte reiterato la specifica richiesta.

ItaliaOggi 02.07.13

L’ex vigile Rambo con la lista dei nemici spara al sindaco: “Ora regolo i conti”, di Paolo Berizzi

Quanto era lunga la «lista della spesa» di Giuseppe Pegoraro? Chi altro ancora doveva punire, dopo avere ferito a colpi di pistola in Comune il sindaco Laura Prati e il suo vice Costantino Iametti, questo Rambo di provincia («ottimo tiratore», dicono i poliziotti) sospeso dal servizio perché taroccava gli straordinari? Uno che ama le armi (le deteneva regolarmente) e da ex comandante dei vigili si è trasformato in uno spietato vendicatore pianificando una strage e trascinando Cardano al Campo in una mattinata di inferno. Uno che, di fronte al magistrato, per giustificare la furia omicida cita i latini: fiat iustitia ne cives ad arma ruant, “sia fatta giustizia o i cittadini prendono le armi”. «La frase è scolpita su una facciata del Palazzo di Giustizia di Milano — ha sostenuto Pegoraro durante l’interrogatorio in Procura — . Provavo odio verso il sindaco e il vice, e non solo loro. Volevo farmi giustizia».
«Aveva dentro una rabbia enorme, non ne faceva mistero», conferma Paolo Dametto, agente della polizia municipale ed ex collega di Pegoraro. È mezzogiorno. Due ore e mezza dopo il raid in Municipio. Piazza Sant’Anastasio è ancora transennata. Gli otto cerchi di gesso disegnati sull’asfalto dagli uomini della Scientifica indicano la posizione dei bossoli sparati con una pistola calibro 7,65 dall’uomo che doveva «regolare i conti». Ventotto gradini. La scalinata che dalla strada sale su al palazzo del Comune. In mezzo, il monumento ai “caduti cardanesi di tutti le guerre”. La folle guerra personale di Giuseppe Pegoraro inizia alle 8. Sessantuno anni, celibe, senza figli, una casa a Busto Arsizio dove vive solo e custodisce una santabarbara (fucili, carabine, pistole, coltelli). Eccolo l’ex vicecomandante della stazione dei vigili di Cardano al Campo. Eccolo l’ex tutore dell’ordine finito sotto processo (condanna in primo grado per truffa e peculato assieme a altri sei dipendenti comunali) perché barava sugli orari di lavoro e gli straordinari, e per questo, su decisione del primo cittadino, era stato sospeso e poi reintegrato come amministrativo.
Ieri è la giornata dedicata agli incontri del sindaco coi cittadini. Pegoraro lo sa bene e sfrutta l’occasione per «regolare i conti» con la persona che, nella sua visione distorta, accecata dal livore, ne avrebbe stroncato la carriera (un anno fa gli era stata ritirata la qualifica di polizia giudiziaria e l’arma di ordinanza). Lei è Laura Prati, 49enne eletta nel 2012 con una lista civica di centrosinistra, molto impegnata nella lotta contro il femminicidio. Pegoraro — «ama le armi e i film di guerra» lo descrive un ex collega — aspetta le 9,30. Entra in Comune armato di due pistole. Esibisce i documenti e chiede un incontro con la Prati. E’ il «suo» momento: varcata la soglia dell’ufficio, apre il fuoco. Scarica tre proiettili addosso al sindaco, colpendola all’addome e a un braccio. Poi si dedica al vice, Costantino Iammetti, 76 anni: altri cinque colpi, tre vanno a segno. Entrambe le vittime, ricoverate negli ospedali di Varese e Gallarate, sono in prognosi riservata ma non in pericolo di vita.
Pegoraro, riferisce un addetto comunale, «sembrava impazzito, nessuno riusciva a fermarlo». Ci prova un agente, un ex sottoposto di Pegoraro. Lo rincorre fuori dal Municipio: il killer si volta e spara, il vigile risponde; un fuoco di proiettili (otto in tutto) esplosi in piazza, tra la gente, tra le grida. Senza altri feriti.
Pegoraro sale sulla sua Peugeut 106 rossa. A bordo ha altre armi: carabina con binocolo, fucile a pompa, due coltelli da caccia, 700 proiettili, molotov. Percorre 150 metri, ferma la macchina in via Mameli ed entra nella sede locale della Cgil: è il sindacato a cui l’ex vice-comandante si era rivolto per la vertenza con l’amministrazione comunale. Forse nella «lista della spesa» — parole di un investigatore per indicare l’elenco degli obiettivi di Pegoraro — c’è anche un sindacalista. Di certo c’è una ex collega vigilessa.
Nell’ufficio, una decina di persone. L’uomo ordina a tutti di uscire: poi lancia una molotov, che però non esplode. Il raptus del killer non si placa. Risale in auto, parte a tutta velocità ma, a causa di un pneumatico forato, è costretto ad abbandonare la vettura nella zona residenziale al confine con Gallarate. Polizia e carabinieri gli stanno addosso e l’uomo prosegue la fuga a piedi: imbraccia la carabina, ha il fucile a pompa a tracolla. Nei tasconi della divisa militare, pistole e coltelli. Apre di nuovo il fuoco, contro una Volante. A bloccare Pegoraro è Gianluca Dalfino, il vicequestore di polizia che guida il commissariato di Gallarate. Lo sorprende alle spalle: lui prova a voltarsi impugnando la carabina. Troppo tardi, è a terra. Dice a sera Dalfino: «Con 4 armi e 700 munizioni era deciso a fare una strage, e forse alla fine si sarebbe suicidato».

La Repubblica 03.07.13