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“Pompei sprofonda ma fa il tutto esaurito al British Museum”, di Leonardo Maisano

Pompei sprofonda a Pompei per risorgere a Londra. Il paradosso di un’emigrazione culturale con pochi, o forse nessun precedente, non può essere più evidente, e per certi versi straziante, di quello che emerge dalle lettura comparata delle cronache italiane e del più aggiornato report del British Museum. Mentre il ministro Massimo Bray replica al monito Unesco riaffermando la volontà di difendere il più straordinario sito archeologico minacciato dall’incuria di un Paese viziato dalla sua bellezza, Neil MacGregor, direttore del palazzo di Great Russell street, esulta per i successi britannici di un tesoro d’Italia. Pompei, a queste latitudini, è un gran business. Sbanca. La mostra Vita e Morte a Pompei ed Ercolano s’avvia ad essere il terzo maggior evento nei 250 anni di storia del British alle spalle dei Tesori di Tutankhamen (1972) e dell’Esercito di Terracotta cinese (2007). Leonardo Maisano
LONDRA. Dal nostro corrispondente Nei primi tre mesi di apertura al pubblico sono sfilate 287mila persone e tutti scommettono che, da ora alla di fine settembre, il target di 450 mila “passaggi” sarà stato bruciato. L’attesa minima è oggi di due settimane, l’ingresso contingentato con blocchi di visitatori ogni venti minuti. Se il British museum ha avuto 1,7 milioni di ingressi dal primo di aprile ad oggi, l’impennata (più 42%) di maggio va ascritta soprattutto a quanto fece la lava del Vesuvio all’alba del 24 agosto 79. E tanto basterà per fare del Museum l’opzione preferita da turisti e non, fra quanto è offerto sotto la generica voce “intrattenimento” in tutto il Regno di Elisabetta. Si fa presto a dire che gli inglesi “saccheggiano” beni e tesori dal resto del mondo (Egitto, Cina e Italia, come indicato, sono i Paesi di provenienza dei blockbuster assoluti del British) per sviluppare il business culturale, ma basta declinare il discettare romano con i fatti londinesi, per sollevarli da qualsiasi “responsabilità” specifica contemporanea (sul passato e sui saccheggi culturali veri non ci addentriamo). Anzi l’effetto indotto di una mostra destinata a produrre un consistente utile, realizzata con munifici sponsor e con la collaborazione della Soprintendenza di Napoli e Pompei, potrebbe anche ricadere positivamente sui siti archeologici, quelli che versano nelle condizioni ripetutamente denunciate. L’exhibition londinese è, infatti, accompagnata da eventi culturali, per lo più lezioni, che ne fanno da corollario, moltiplicando l’impatto sullo spettatore, affinandone la curiosità. Ancor di più potrà fare, crediamo, il film/documentario, prima produzion nella storia del British Museum, diffuso in anteprima sugli schermi del Regno la sera del 18 giugno e destinato ad essere replicato nelle prossime settimane in tutto il mondo. È una dotta passeggiata nella mostra britannica, con interventi di esperti, corredata da una realtà romanzesca ricreata in studio per dare al visitatore la sensazione di come si viveva, di quel che accadde e di quanto rimane dopo l’eruzione del vulcano. Tutto, o quasi, ricostruito nelle sale del Museum, lontano da Pompei e da Ercolano, da quelle, intendiamo, in… carne e ossa. «Non ci sono scene girate in loco», confermano al press office del British. E forse è meglio così, nell’amara constatazione che ormai non solo i giovani emigrano a caccia di miglior fortuna, ma sembra andarsene, seppure in cartolina, anche il patrimonio culturale, alla ricerca di una gloria che se non è ancora perduta è quantomai minacciata.

IL Sole 24 Ore 02.07.13

“Una donna uccisa ogni tre giorni. I sei mesi di sangue dell’Italia”, di Raphael Zanotti

L’ultimo caso riguarda una donna albanese. Cologno Monzese, palazzina in via Einaudi 9. Lei ha 31 anni. Il marito 30. Litigano, per un’altra donna. E alla fine lei viene uccisa: gettata dal nono piano della palazzina, nessuna possibilità di salvezza. Ma poche ore prima era toccato a Marta Forlani, 50 anni, uccisa a Bra, nel Cuneese, con tre colpi di pistola dall’ex marito. Il motivo? Lei aveva organizzato una grigliata, l’ex marito aveva insistito per essere invitato. Lei aveva detto: “Non è il caso”. E lui le ha sparato. Davanti agli amici.

Due episodi brutali, in un solo giorno. La Convenzione di Instanbul è appena diventata legge in Italia. Servirà a tutelare le donne dalle violenze domestiche e dagli omicidi di genere. Ma la ferocia nei confronti delle donne non sembra diminuire. La strada è ancora lunga. Quest’anno ci sono state Fabiana, 15 anni, accoltellata e data alle fiamme dal fidanzato; Hrjeta, uccisa a colpi di pistola insieme al nuovo compagno; Olga, uccisa a infilata in un cartone abbandonato sul ciglio della strada e altre 63 come loro. Donne, vittime della violenza e di una cultura del possesso che le vede, spesso, prima vittime di percosse e persecuzioni. Quindi di omicidio.

I primi sei mesi del 2013 indicano un calo di questi episodi: 66 rispetto ai 76 del 2012. Ma non si può chiedere alla statistica una risposta a un problema che è, prima di tutto, culturale. Il lavoro di raccolta dati effettuato da La Stampa è ampio. Appositamente ampio. La definizione di femminicidio, come tutte le definizioni, è inflessibile e categorica. Ma come tutte le definizioni sembra zoppicare quando deve render conto dell’enorme varietà della casistica reale. Se non si hanno dubbi sul tremendo caso di Fabiana Luzzi, la 15enne uccisa dal proprio ragazzo a Corigliano Calabro, i confini si fanno più labili in altre occasioni. Può essere considerato femminicidio il caso di Marilena Ciofalo, uccisa con una pistola dalla propria compagna gelosa? E’ femminicidio il caso della madre uccisa dal figlio violento e con problemi psichici? Rientra nella casistica la drammatica strage compiuta da Mario Albanese che, geloso per la nuova relazione della ex, ha ucciso lei, il nuovo compagno, la figlia e il suo fidanzatino? Persino la rapina finita male di una prostituta, che a prima vista potrebbe essere catalogata come un caso di criminalità comune, può nascondere un femminicidio: i rapinatori hanno scelto la prostituta perché bersaglio relativamente facile o perché donna? E la violenza perpetrata su quel corpo sarebbe stata la stessa se la vittima fosse stata un uomo? La definizione scricchiola. Soprattutto quando è necessario indagare le motivazioni di menti che, spesso, vista l’efferatezza dei delitti, paiono ai più comunque e sempre folli.

Questo lavoro è ampio, ma non ha pretesa di essere esaustivo. Le schede sui singoli episodi non renderanno giustizia delle tante vite, uniche, scippate al loro futuro. Troverete episodi che potrebbero non rispondere subito alla definizione di femminicidio, altri immancabilmente mancheranno. Questo lavoro è una banca dati da interrogare e per interrogarsi, per cercare di approfondire un fenomeno che affonda le sue radici in un terreno più ampio, e purtroppo più fertile di quanto si pensi, di quello che anche le definizioni ufficiali possono fornire.

La Stampa 02.06.13

“La missione del governo”, di Michele Prospero

Ora anche Monti urla tutto il suo dolore contro il governo. Così fanno in tanti, ormai. Tutti vorrebbero che dal mito di un governissimo dai risvolti epocali si scendesse subito sul più prosaico governicchio che barcolla dinanzi al primo vento e perciò nella sbandata continua ogni partner tira a salvare la pelle. Eppure Monti è il meno autorizzato a scalciare in così malo modo l’esecutivo. Per gli altri partiti il cosiddetto governo di servizio era solo una dura imposizione, legata agli eventi che non lasciavano scampo. Per Monti no. Il governissimo è stato il suo grande sogno, l’obiettivo di una vita politica spericolata, almeno per l’incredibile imperizia e per l’assoluta mancanza di visione palesata ad ogni appuntamento cruciale. Ancora adesso si vanta di essere stato un protagonista della grande politica, solo per aver impedito alla destra e alla sinistra di vincere le elezioni. E però, invece di godere il plusvalore del suo epocale trionfo, Monti si agita, invoca verifiche, minaccia fulmini e saette.

Con le truppe che poco lo stimano, proprio per le dubbie sue virtù di gran condottiero, ha ben poco da alzare i toni del ricatto. Come pure Berlusconi. Con il suo inseguimento ossessivo di un salvacondotto che nessuno potrà mai dar- gli, il Cavaliere ostenta in pubblico responsabilità e minaccia in segreto sfaceli. Ma non ha alternative, è costretto ad incassare i colpi e nessuno strumento giuridico gli può mai garantire l’impunità. Monti e Berlusconi sono il passato che non torna. Entrambi cercano di tracciare un segno, di mostrare al mondo una qualche presenza. Ma Monti è un passato logorato dal rimorso, per le occasioni avute e malamente sprecate sul più bello. Berlusconi è un passato che deve scappare dagli incubi e cerca di sopravvivere imitando Le Pen, che l’erede l’ha scovata in famiglia. La frattura sulla giustizia è la sua unica carta. E le sentenze, che pure annunciano la sua rovina, sono per il Cavaliere anche una perversa oppor- tunità da afferrare. L’opportunità di dare continuità al suo partito azienda non solo con una successione studiata in un perfetto stile dinastico ma anche regalando ai posteri un tema destinato a scaldare gli animi: la guerra santa legale-illegale, giustizialismo-garantismo.

Stretto tra le bizze di Monti e la proposta indecente di Berlusconi, che è sempre la stessa, il governo farebbe bene a tornare presto con i piedi per terra. La metafisica delle grandi riforme costituzionali non partorirà che inutili mucchi di carta. Meglio sarebbe allora un bagno di realtà. Sono possibili in questo quadro politico sfilacciato solo delle manutenzioni parziali, con il ritocco della legge elettorale, e se va bene, con qualche correttivo al bicameralismo perfetto. Gli altri castellucci di carta, cioè i mirabili progetti che ricamano su magnifici sistemi presidenziali e su splendide forme di governo, non sono che vane esercitazioni scolastiche.

Il governo dia un senso ai suoi giorni, che non saranno molti, soprattutto se gli umori prevalenti nella maggioranza che lo sostiene (si fa per dire) sono quelli esternati da Monti e da Berlusconi. Neppure la leggerezza di chi disquisisce di primarie, di gazebo, di premiership sempre contendibile (anche quando si è già a Palazzo Chigi) contribuisce a far passare bene la nottata. Invece di inseguire devianti simboli (abolizione del finanziamento pubblico) e di accarezzare l’impossibile mutamento della forma di Stato, il governo concentri le sue residue energie sul principale problema di questi anni: il contenimento della crisi.

Dinanzi ad un crisi sociale dal volto drammatico, che non accenna in alcun modo a rifluire (caduta dei consumi, aumento della disoccupazione, precarietà giovanile, difficoltà competitiva dell’industria manifatturiera), il governo dovrebbe conciliare alcune misure di breve periodo, indispensabili per impedire lo scoppio di una inevitabile rivolta sociale (mantenimento dei livelli minimi del Welfare, tutela dell’occupazione, sostegno alla domanda e al consumo), con interventi strategici a utilità differita (investimenti per l’innovazione, misure per la modernizzazione tecnologica, politiche per la ricerca).

Il problema vero dei prossimi mesi non si chiama Grillo (da addomesticare con il mimetismo di tagli ai costi della politica) né Monti o Berlusconi. Il grande nodo, quello che deciderà anche le sorti del governo e la sopravvivenza degli attori politici nel loro complesso, è la crisi sociale che non è stata curata, che anzi cammina sorda ed è pronta ad esplodere in una maniera rovinosa.

L’Unità 02.06.13

“I poverelli di Francesco”, di Adriano Prosperi

Lunedì prossimo papa Francesco compirà il suo primo viaggio da quando è pontefice. Papa Bergoglio andrà a Lampedusa. Dire che la notizia è importante è banale: da sempre, o almeno da quando i papi hanno cominciato a muoversi nel mondo, il viaggio papale è un evento significativo.
Lo fu quando Pio VI meritò la definizione di “pellegrino apostolico” compiendo un lungo e faticoso pergnata
corso da Roma a Vienna nel 1782 per arginare le riforme dell’imperatore Giuseppe II. E tristemente importante per il papato fu il viaggio del suo successore Pio VII quando andò in esilio a Fontainebleau prigioniero di Napoleone. Viaggi faticosi, amari, decisi da altri. Solo nel secondo Novecento è cominciata la serie di viaggi liberamente e attentamente programmati. Fu Paolo VI che dette al titolo di “pellegrino apostolico” un contenuto nuovo recandosi con una scelta strategica a Gerusalemme nel gennaio del 1964. Da allora in poi c’è stata una vera inflazione di viaggi papali: il solo Wojtyla ne ha fatti più di cento. La luce della ribalta e l’investimento di tutta la potenza dei media hanno moltiplicato l’efficacia della presenza fisica del pontefice, diventato una vera superstar del mondo globalizzato. È sembrato allora che la strada fosse se-
per tutti i suoi successori, anche se era evidente la difficoltà di gareggiare su quel terreno. Non per niente Ratzinger ha prediletto luoghi familiari a un uomo di studio, come la sua Ratisbona.
Ma oggi la scelta del papa argentino ha rovesciato la tradizione e ne ha aperta una del tutto nuova. Francesco I ha scelto un luogo periferico, una piccola isola, un luogo di vicende estreme della povertà e dell’abbandono. E così ha fatto come chi abbassa la voce per farsi ascoltare meglio. La campagna di criminalizzazione dell’immigrazione irregolare in Italia, su cui Luigi Manconi ha presentato pochi giorni fa in Senato un rapporto esauriente e agghiacciante, viene messa improvvisamente a tacere dalla destinazione scelta da papa Bergoglio. Lampedusa: qui da più di vent’anni si toccano gli estremi della sempre meno ricca Europa e del sempre più diseredato popolo dei dannati della terra. Solo nel 2011 vi sono sbarcate più di 50mila persone. Qui, nella disattenzione generale, arrivano i barconi e si registrano tragedie di naufragi e di assassinii. Quel braccio di mare che si apre dal porto di Lampedusa è un cimitero di profughi, soprattutto vecchi, donne e bambini.
Di fatto, questa volta non è la notizia del viaggio papale ma è il nome del luogo che parla. Così come parlava quella sedia vuota al concerto della sala Paolo VI del 23 giugno. Voltando le spalle ai riti della mondanità vaticana, lasciando imbarazzati e silenziosi i monsignori, papa Bergoglio andrà a Lampedusa e salirà in barca per raggiungere il tratto di mare prossimo a Cala Pisana: lancerà in mare una corona in ricordo dei tanti morti che sono caduti in vista dell’isola, quelli per i quali non c’è stato bisogno di fare posto nel sempre più affollato cimitero di Lampedusa. Questi sono fatti che parlano e dicono alcune cose elementari. Dicono che la Chiesa di papa Francesco ha intenzione di ricordare a chi si crede cristiano chi siano i “prossimi” nel senso evangelico della parola. E chi pensa che l’Unione europea sia figlia dell’ideale rivoluzionario settecentesco della fraternità e dei diritti ha l’obbligo di constatare che l’immiserirsi del progetto europeo trova nel dramma di cui Lampedusa è il teatro la sua più evidente e grave manifestazione.
La scelta papale è un sommesso ma fermo richiamo al dovere della solidarietà fra tutti gli esseri umani: esso riguarda l’Europa dei banchieri, ma riguarda in primo luogo noi italiani. E c’è da augurarsi che il gesto papale aiuti un paese che fu di emigranti a recuperare la sua memoria e a negare finalmente ogni credito al razzismo diffuso, al leghismo come ideologia e come pratica che ha pervaso tanti ambienti e tante formazioni politiche. Qui in Italia con leggi come la Bossi-Fini e con la successiva selva di decreti, regolamenti e atti amministrativi si è disseminato il paese di miserabili campi di concentramento dove i sopravvissuti alla traversata del Mediterraneo vengono condannati a scontare con lunghissime reclusioni nei Cie, il crimine imperdonabile della povertà: un paese dove è bastato il timido invito della ministra Kyenge a modificare una legge razzista sul diritto di cittadinanza risalente al 1912 per farci ascoltare oscenità intollerabili. Sarebbe bello se questo viaggio a Lampedusa di un vescovo venuto dalla fine del mondo riuscisse a far capire al mondo sordo e afono della politica italiana che è finito il tempo in cui il consenso popolare si conquistava lanciando messaggi di paura e di rifiuto. Riscoprire il filo che lega la speranza dei disperati di Lampedusa alla nostra speranza di un’Italia migliore è oggi un compito della massima urgenza.

La Repubblica 02.07.13

Roberto Speranza «Scegliamo un segretario, non un candidato a Palazzo Chigi. Altrimenti rischieremmo il paradosso di un premier costretto a candidarsi segretario», di Simone Collini

«Questo è un governo nato per rispondere prima di tutto all’emergenza economica e sociale del Paese ed è dentro questo obiettivo che si trovano le ragioni del nostro sostegno», spiega Roberto Speranza definendo «simbolico» quanto avvenuto al Consiglio europeo della scorsa settimana, nel quale grazie anche all’intervento di Letta al centro dell’agenda è stato messo il tema della disoccupazione giovanile. Il capogruppo del Pd alla Camera guarda però anche al medio-lungo termine, e dice che «se il partito dovesse sbagliare il congresso non farebbe male solo al Pd ma alla democrazia italiana». E un modo per «sbagliare», aggiunge, sarebbe immaginare che il congresso serva a scegliere il candidato premier, perch é questo porterebbe «instabilità» e anche un «paradosso», dal momento che a capo del governo c’è un esponente del Pd: «Se il segretario fosse automaticamente il candidato premier cosa avverrebbe? Per paradosso potremmo trovarci di fronte a un nostro premier che si candida a segretario».
Perché, onorevole Speranza, continuare a sostenere il governo insieme a un Pdl che tenta blitz sulla giustizia e sembra interessato più alle vicende giudiziarie di Berlusconi che ad altro?
«Noi sosteniamo il governo perché la sua missione è affrontare la crisi economica e sociale, perché come ha dimostrato l’ultimo Consiglio europeo con questo esecutivo possiamo aggredire il principale nostro problema, che è la disoccupazione giovanile. Questo è l’obiettivo e ora il Pdl deve smetterla di piantare tutti i giorni bandierine, un atteggiamento inaccettabile, che non aiuta e che non è in linea con gli scopi di questo governo. Non si può immaginare che il Pd si faccia carico di tutte le responsabilità mentre il Pdl è libero di fare propaganda e una campagna elettorale permanente».
Lei parla di propaganda, loro della necessità di modificare la Costituzione anche nella parte riguardante la magistratura: serve o no una riforma della giustizia? «Serve, ma non all’interno di un processo di riforma istituzionale che deve affrontare il tema del bicameralismo e la riduzione del numero dei parlamentari. La loro è una provocazione, un tentativo scomposto, fuori luogo e totalmente irricevibile di portare dentro il processo di riforma un tema che invece va affrontato separatamente».
Dice che il Pdl deve smetterla di piantare bandierine perché questo non aiuta il governo, però non crede che anche la discussione congressuale del Pd possa influire sulla tenuta dell’esecutivo? «Questo è un congresso veramente importante e noi dobbiamo avere in testa che il futuro della democrazia italiana coincide molto con la capacità del Pd di essere all’altezza della sfida che abbiamo di fronte. Reichlin, con il suo documento, ha ben evidenziato quali sono le questioni di fondo da affrontare, a partire da qual è l’identità del Pd e quale il progetto che proponiamo per il Paese. E tutti dobbiamo sapere che se noi sbagliamo il congresso, non facciamo male solo al Pd ma alla democrazia italiana».
E qual è secondo lei il modo per non “sbagliarlo”?
«Intanto trovo molto intelligente l’impostazione proposta da Epifani, di un congresso cioè che parta dal basso, da una discussione nei circoli. Non si può esaurire il tutto in chi dovrà fare il segretario nazionale, in uno schierarsi muscolare con questo o quello».
Nel partito si discute se il leader debba essere automaticamente anche candidato premier: la sua opinione qual è? «Che quando si tratter à di scegliere chi deve guidare la coalizione alle prossime elezioni avremo tutto il tempo e le modalità democratiche per farlo. Oggi dobbiamo scegliere il segretario, cioè chi nei prossimi anni si assumerà l’impegno di guidare un soggetto collettivo, di dargli un preciso profilo politico. Dopodiché la carica di candidato premier sarà contendibile, così come è stato in passato».
Ma perché sarebbe sbagliato immaginare che il segretario sia automaticamente candidato premier?
«Perché rischieremmo di trovarci di fronte a un paradosso».
Cioè?
«Se il segretario fosse automaticamente il candidato premier cosa avverrebbe? Che per paradosso potremmo trovarci di fronte a un nostro premier che si candida a segretario».
Per Renzi magari sarebbe un paradosso che il segretario del Pd non possa aspirare a cambiare il Paese, non crede?
«Se Renzi vuole assumere la guida del Pd ha tutte le carte in regola per candidarsi. Ciò che è sbagliato è immaginare che dentro il congresso Pd si sceglie il candidato premier. Per farlo ci saranno primarie ad hoc come si è già fatto quando Bersani, da segretario, ha reso la candidatura a premier contendibile dentro la coalizione e dentro il partito ».
Con primarie aperte: sarà così anche per il prossimo segretario o a decidere saranno soltanto gli iscritti?
«Io penso che non dobbiamo avere paura di aprirci, di confrontarci con l’elettorato più ampio possibile».

L’Unità 01.07.13

“Ora sciogliere il nodo fiscale”, di Ruggero Paladini

«Autunno. Già lo sentimmo venire/nel vento d’agosto,/nelle piogge di settembre/ torrenziali e piangenti/e un brivido percorse la terra…». Quando Vincenzo Cardarelli scriveva questi versi non pensava alle nubi fiscali che si addensano sul Paese, ma forse alla vecchiaia. Per il momento il governo sta guadagnando tempo. Ha rinviato la rata dell’Imu sulla «prima casa» e l’aumento dell’Iva al 22%. Soprattutto il rinvio dell’Iva è sacrosanto; ci manca solo che in un momento in cui la fase recessiva non è ancora terminata si aumenti l’imposta che ha l’impatto più pesante sulla domanda interna.

In realtà in una fase come questa la misura dovrebbe essere quella opposta: una diminuzione temporanea (fino alla fine dell’anno, ad esempio) dell’Iva, per stimolare i consumi, sperando che nel 2014 inizi una ripresa.

Ovviamente ciò non è possibile, visto gli impegni presi dal governo in sede europea. La difficoltà di rispettare il vincolo del 3% sul deficit si vede chiaramente dalla copertura del miliardo di minori entrate per il rinvio dell’Iva, in buona misura basato sull’aumento degli acconti delle imposte dirette. Un acconto è semplicemente un anticipo: un miliardo in più quest’anno e un miliardo in meno l’anno prossimo. Ma quando l’acconto arriva al 100% o più, vuol dire che si sta raschiando il fondo del barile. E questo è ancora poco; infatti nel 2013 un aumento dell’Iva, per metà anno, vale un paio di miliardi, mentre l’eliminazione dell’Imu sulla «prima casa», richiesta a grande voce dalla destra, ne vale quattro. Per ora i mancati introiti della prima rata sono stati coperti con manovre di tesoreria, in quanto se vogliamo si è trattato di un rinvio della rata d’acconto. Ma è facile dedurre che, se sono emerse difficoltà nel coprire un miliardo di mancate entrate dell’Iva, le difficoltà si moltiplicherebbero per quattro nel coprire le mancate entrate dell’Imu. Si levano lamentele sul fatto che il governo non riesca a tagliare la spesa pubblica. Basta definirla improduttiva ed il gioco è fatto: un taglio alla spesa improduttiva per definizione è un fatto positivo, che non può che fare del bene all’economia. Purtroppo nel bilancio dello Stato non ci sono capitoli contrassegnati dalla scritta «spesa non produttiva», e guarda caso, coloro che sostengono i tagli di spesa poi sono estremamente vaghi nell’indicare di che cosa si tratti. Vedremo cosa accadrà in Parlamento, visto che il governo si è detto disponibile ad esaminare eventuali alternative per la copertura dell’Iva.

Entro la fine di agosto devono essere prese decisioni che riguardano cinque miliardi, che impattano sul deficit di quest’anno: quattro riguardano l’Imu (della restituzione dell’Imu 2012 sembra che non se ne ricordi più nessuno a destra) e uno riguarda lo spostamento dell’Iva fino a fine anno (per il 2014 si vedrà). È molto improbabile che si trovino coperture dal lato della spesa; non perché non ci siano settori dove è possibile realizzare significativi risparmi, come è il caso degli acquisti di beni e servizi a livello di tutta la Pubblica amministrazione, ma perché è difficile che le misure di una vera spending review diano frutti immediati.

Si parla di ritornare sulle varie forme di sgravi fiscali, detrazioni, e via enumerando (le cosiddette tax expenditures). In effetti quando il governo Berlusconi stabilì l’aumento dell’Iva, lo fece come alternativa ad un taglio delle tax expenditures. Ora anche in questo caso è necessario chiarire che il grosso di queste minori entrate
derivano da poche voci: le detrazioni Irpef per lavoro o per familiari a carico, e le aliquote Iva al 4% e 10%. Si tratta di voci che hanno un impatto redistributivo molto forte, in quanto costituiscono un elemento essenziale del carattere progressivo della nostra Irpef, e attenuano significativamente il carattere regressivo dell’Iva.
A mio avviso, il nodo gordiano va tagliato dicendo che l’eliminazione dell’Imu non è possibile, né è coerente con l’impostazione federalista della quale, a chiacchiere, la destra si riempie la bocca. L’Imu va ristrutturata, come del resto ha dichiarato Letta in Parlamento. Vanno riviste le rendite catastali, in modo da rendere l’imposta più equa; vanno detratti i mutui ipotecari e vanno risolti i problemi di tutti quelli che, per vari motivi, si trovano a pagare un Imu non «prima casa», anche se hanno solo un immobile.

L’Unità 01.07.13