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"Concorso prof, giallo sui posti", di Mario D'Adamo

Non si è ancora asciugato l’inchiostro sul codice di comportamento dei pubblici dipendenti che si viene a conoscenza di comportamenti ostruzionistici contrari alle nuove regole. Il Tribunale amministrativo del Lazio, sezione terza bis, ha ordinato al ministero dell’istruzione di consegnare ai concorrenti che li richiedano copia delle tabelle e dei tabulati utilizzati per il computo degli 11.542 posti di insegnante messi a concorso con bando n. 82 del 24 settembre 2012 dall’allora ministro dell’istruzione, Francesco Profumo (sentenza n. 5242/2013).

Il 20 e il 26 marzo scorsi alcune candidate avevano chiesto, ai sensi dell’art. 22 della legge n. 241 del 1990 sulla trasparenza e i procedimenti amministrativi, l’accesso a tale documentazione, ma il ministero non aveva dato loro alcuna risposta e si era così formato il cosiddetto silenzio – rifiuto. Presentato ricorso al tribunale amministrativo del Lazio, la sezione terza bis lo ha accolto, ordinando al ministero di evadere la richiesta. Non bastano codici deontologici di comportamento sempre più severi per indurre nelle amministrazioni pubbliche comportamenti virtuosi, pratiche anticorruttive e di rispetto dei diritti dei cittadini, obbligando ciascun dipendente a fornire «le spiegazioni che gli siano richieste in ordine al comportamento proprio e di altri dipendenti dell’ufficio dei quali ha la responsabilità od il coordinamento» e a precisare, quando siano in gioco il segreto d’ufficio o la normativa sulla privacy, i motivi che ostano all’accoglimento di una richiesta di atti e documenti (art. 12 del codice approvato con decreto del presidente della repubblica del 16 aprile 2013, n. 62). È stato necessario proprio adire la magistratura, la quale ha comunque severamente stigmatizzato il comportamento omissivo del ministero, rilevando che, «a quasi vent’anni dall’entrata in vigore delle norme sull’accesso di cui alla legge n. 241, il silenzio-rifiuto opposto dall’amministrazione sulla determinazione dei posti complessivi messi a concorso appare improntato ad un ingiustificato ed ingiustificabile ostruzionismo». Non c’erano nemmeno elementi correlati al segreto istruttorio e aspetti riguardanti la riservatezza che lo potessero giustificare e che in ogni caso si dovevano dichiarare. Le concorrenti avevano richiesto la documentazione sui posti messi a concorso, per controllare da un lato, essendo iscritte in graduatoria a esaurimento, che i posti messi a concorso vadano a saturare tutti quelli disponibili per le nuove assunzioni e solo quelli, senza intaccare la quota loro destinata, e dall’altro, come concorrenti in graduatoria di merito del concorso, che un’eventuale disponibilità di posti inferiore alle effettive esigenze le potesse danneggiare. E lamentavano che non era stato in alcun modo chiarito se le cattedre fossero tutte quelle effettivamente vacanti e disponibili, in ogni regione e in ogni classe di concorso, per il bienni previsto e in quale misura per ciascuno dei due anni. Attraverso la documentazione esse intendono tra l’altro verificare se si sia tenuto conto delle previsioni di pensionamento e se, infine, nel fissare il numero finale di posti, si sia valutato di effettuare un egual numero di assunzioni dalle graduatorie permanenti.

Il tribunale ha anche condannato l’amministrazione scolastica al pagamento delle spese legali e di giudizio, forfetariamente determinate in duemila euro e del pagamento delle quali si dovrebbe assumere l’onere il responsabile del comportamento ostruzionistico e del conseguente danno d’immagine subito dal ministero dell’istruzione, per tacere di altri provvedimenti amministrativi che pure, se se ne ravvisassero gli estremi, gli si dovrebbero comminare.

ItaliaOggi 25.06.13

"L'abuso e la dismisura", di Ezio Mauro

Un’Italia compiacente e intimidita si chiede che cosa succederà adesso, dopo la sentenza sul caso Ruby del Tribunale di Milano che condanna in primo grado Silvio Berlusconi a sette anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Nessuno si pone la vera domanda: cos’è successo prima, per arrivare ad una sentenza di questo genere? Cos’è accaduto davvero negli ultimi vent’anni in questo sciagurato Paese, nell’ombra di un potere smisurato e fuori da ogni controllo, che concepiva se stesso come onnipotente ed eterno? E com’è potuto accadere, tutto ciò, in mezzo all’Europa e agli anni Duemila?
La condanna sanziona infatti due reati molto gravi — concussione e prostituzione minorile — sulla base del codice penale, dopo un processo di due anni e due mesi, con più di 50 pubbliche udienze. L’accusa ha dunque avuto ragione, vedendo un comportamento criminale nel tentativo di Silvio Berlusconi di sottrarre una minorenne accusata di furto al controllo della Questura, imponendo ai funzionari la sua autorità di presidente del Consiglio, addirittura con l’invenzione di uno scandalo internazionale, perché Ruby era «la nipote di
Mubarak».
La difesa sostiene che non ci sono vittime per i reati ipotizzati, non ci sono prove e c’è al contrario la criminalizzazione di uno stile di vita e di comportamenti privati (le cosiddette “cene eleganti”), distorti da una visione voyeuristica e moralista che li ha abusivamente trasformati in crimine, fino alla sanzione di un Tribunale prevenuto, anche perché composto da tre donne.
Io credo in realtà che ci sia un metro di giudizio che viene prima della condanna e non ha nulla a che fare con il moralismo. Si basa su due elementi che Giuseppe D’Avanzo quando rivelò questo scandalo richiamò più volte — da solo e ostinatamente — sulle pagine di “Repubblica”. Sono la dismisura e l’abuso di potere. Di questo si tratta, e cioè di due categorie politiche, pubbliche, e impongono un giudizio politico per un leader politico che nel periodo in cui è scoppiato il caso Ruby aveva anche una responsabilità istituzionale di primissimo piano, come capo del governo italiano. «La questione — scriveva D’Avanzo — non ha nulla a che fare con il giudizio morale, bensì con la responsabilità politica. Questo progressivo disvelamento del disordine in cui si muove il premier e della sua fragilità privata ripropone la debolezza del Cavaliere, tema che interpella la credibilità delle istituzioni», perché tutto ciò «rende vulnerabile la sua funzione pubblica, così come le sue ossessioni personali possono sottoporlo a pressioni incontrollabili».
La dismisura dunque come cifra dell’eccesso di comando, grado supremo della sovranità carismatica, con il voto che cancella ogni macchia e supera ogni limite, rendendo inutile ogni domanda, qualsiasi dubbio, qualunque dovere di rendiconto. E l’abuso di potere come forma politica di quella sovranità sciolta da ogni controllo, e insieme sua garanzia perenne. Perché nel sistema berlusconiano, dice D’Avanzo, «il potere statale protegge se stesso e i suoi interessi economici, senza scrupoli e apertamente. Con l’intervento a favore di Ruby quel potere che sempre privatizza la funzione pubblica muove un altro passo verso un catastrofico degrado rendendo pubblica finanche la sfera privatissima dell’Eletto. In un altro Paese appena rispettoso del canone occidentale il premier già avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni. Nell’infelice Italia invece l’abuso di potere è il sigillo più autentico del dispositivo politico di Silvio Berlusconi. È un atteggiamento ordinario, un movimento automatico, una coazione meccanica».
Questo è ciò che ci interessa.
Il disvelamento clamoroso di comportamenti privati di un uomo politico che imbarazzano le istituzioni e addirittura le espongono al ricatto, e spingono quel leader ad alzare la posta dell’abuso, imprigionandosi ogni volta di più in una rete di richieste esose, traffici pericolosi, intermediari vergognosi, pagamenti affannosi: fino al momento in cui si avvera la profezia di Veronica Lario sul «ciarpame senza pudore» delle «vergini offerte al Drago», si costruisce un castello di menzogne sui rapporti con la minorenne Noemi, si soffoca nel taglieggiamento incrociato dei profittatori e mezzani Lavitola e Tarantini, e infine si inciampa nel codice penale sul caso Ruby, perché qualcosa di inconfessabile spinge il premier a strappare quella ragazza dalla Questura, affidandola ad una vedette del bunga-bunga spacciata per “consigliere ministeriale”, per scaricarla subito dopo da una prostituta brasiliana.
Si capisce che questo processo milanese, costruito sull’inchiesta di Ilda Boccassini, sia stato vissuto da Berlusconi come la madre di tutte le accuse. L’ex premier nei due anni del dibattimento ha potuto giocare tutte le carte della sua difesa, compreso lo straordinario peso mediatico di un leader politico che ha invocato “legittimi impedimenti” ogni volta che ha potuto spostando ad hoc persino le sedute del Consiglio dei ministri, e ha addirittura imbastito due serate di gran teatro televisivo (una prima della requisitoria, l’altra prima della sentenza) sulle reti di sua proprietà con una sceneggiatura che sembrava anch’essa di sua proprietà, per parlare direttamente alla pubblica opinione sanzionando in anticipo la propria innocenza.
Questo “concerto” aveva da qualche mese una musica di
la “pacificazione”, che è il concetto in cui l’egemonia culturale berlusconiana tenta di trasformare la ragione sociale del governo Letta, nato dall’emergenza e dalla necessità, e dunque senza radice e cultura ideologica, com’è naturale per un esecutivo che tiene insieme per un breve periodo gli opposti, cioè destra e sinistra. Questa necessità, e questa urgenza, per il Pdl e per i suoi cantori sono diventate invece qualcosa di diverso, quella “pacificazione” che dovrebbe chiudere i conti con il passato, sacralizzare Berlusconi come punto di riferimento istituzionale del nuovo quadro politico e del nuovo clima, farlo senatore a vita o vertice di un’improvvisata Costituente, in modo da garantirgli un salvacondotto definitivo.
Praticamente, è la proposta di prendere atto che lo scontro tra la legalità delle norme e delle regole e la legittimità berlusconiana derivata dal voto popolare sta sfibrando il sistema senza un esito possibile. Dunque il sistema costituzionalizzi l’anomalia berlusconiana (reati, conflitti d’interesse, leggi ad personam, strapotere economico e mediatico) e la introietti: ne risulterà sfigurato ma infine pacificato — appunto — perché nel nuovo ordine tutto troverà una sua deforme coerenza.
L’egemonia culturale crea senso comune, che in Italia si spaccia per buon senso. E dunque la destra pensava che il “clima” avrebbe prima addomesticato la Consulta, chiamata alla pronuncia definitiva sul legittimo impedimento che avrebbe ucciso il processo Mediaset, dove l’ex premier è già stato condannato a quattro anni. Poi l’“atmosfera” avrebbe dovuto contagiare il Tribunale di Milano, già avvertito fisicamente del cambio di clima dalla manifestazione dei parlamentari Pdl sul suo piazzale e nei corridoi. Infine la “pacificazione” dovrebbe salire le scale della Cassazione, per il giudizio Mediaset, sfiorare il Colle che ieri Brunetta chiamava in causa dopo aver definito la sentenza «atto eversivo», bussare alla porta di Enrico Letta (che ha già detto di no) e soprattutto del Parlamento, visti i tanti vagoni fantasma che aspettano nell’ombra delle stazioni morte il treno del decreto svuota-carceri, pronti ad assaltarlo con il loro carico di misure salva-premier, dalle norme sull’interdizione dai pubblici uffici fino all’amnistia, generosamente suggerita dai montiani. Il disegno berlusconiano prevede colpi di mano e maggioranze estemporanee, col concorso magari di quei parlamentari cannibali del Pd che nel voto segreto hanno già dimostrato di essere buoni a nulla e capaci di tutto.
Da ieri tutto questo è più difficile. La Consulta ha fatto il suo dovere, ricevendo in cambio accuse vergognose. E il Tribunale di Milano ha portato fino in fondo il processo — che è il risultato più importante — assicurando giustizia e uguaglianza del trattamento dei cittadini davanti alla legge nonostante le intimidazioni preventive. Nella sentenza c’è un giudizio di condanna durissimo, per due reati molto gravi, soprattutto per un uomo di Stato che ha rappresentato le istituzioni. Non solo: il Tribunale ha trasmesso gli atti che riguardano 32 testimoni alla Procura, perché valuti se hanno reso falsa testimonianza in dibattimento. Sono ragazze “olgettine”, a libro paga del Cavaliere, amici suoi e stretti collaboratori, funzionari della Questura come Giorgia Iafrate. Con questa decisione, il Tribunale sembra convinto di aver individuato una vera e propria rete di organizzazione della falsa testimonianza di gruppo. Sarà la Procura a valutare se è così e chi è l’organizzatore, mentre è già chiaro che il beneficiario è Berlusconi. L’influenza economica, l’abuso di potere potrebbero arrivare fin qui.
Restano le conseguenze politiche. La più netta, la più chiara, sarebbe il ritiro di Berlusconi dalla politica, come accadrebbe dovunque. Ma in Italia non accadrà. La politica è il vero scudo del Cavaliere. E il governo, con la sua maggioranza di contraddizione, è l’ultimo tavolo dove cercherà di trattare, assicurando qualsiasi cosa (la durata dell’esecutivo fino alla fine della legislatura, la personale rinuncia a candidarsi alla Premiership) in cambio di un aiuto sottobanco. Altrimenti, salterà il banco, e dopo la breve parentesi da statista, il Cavaliere tornerà in piazza, incendiandola. Perché il populismo ha questa concezione dello Stato: o lo si comanda o lo si combatte, nient’altro.

La Repubblica 25.06.13

Aiutiamo chi nel M5S non vuole il populismo", di Alessandro Bratti

L’esperienza fatta recentemente in qualità di relatore sul provvedimento cosiddetto “decreto Emergenze” mi induce a fare alcune riflessioni riguardo al rapporto che il Partito democratico debba tenere nei confronti del Movimento Cinque stelle, o meglio dei loro rappresentanti.

La mia idea di politica, al di là dei tatticismi a volte necessari, si concretizza nel cercare nelle soluzioni decisionali ciò che è meglio non per una parte o per alcuni ma per il Paese. Non vi è dubbio che una buona soluzione nasce non da un pasticcio in cui ognuno riconosce un pezzo del suo ma da un confronto nel merito, anche aspro, che poi si concluda con provvedimenti che davvero siano efficaci e i più utili possibile per i cittadini.

Chi si sottrae al confronto delle idee è destinato a perdere! Cade la maschera e i cittadini se ne accorgono. Credo quindi che il percorso inaugurato di recente in Parlamento dove come principale partito della maggioranza abbiamo offerto alle opposizioni e, al M5s in particolare, elementi importanti su cui confrontarsi senza chiusure aprioristiche sia il metodo giusto. Nella discussione di merito si comprende chi è in grado di esprimere idee e soluzioni, chi vuole davvero rompere la liturgia vecchia e inconcludente per cui se si è all’opposizione si è sempre contro e chi è in maggioranza ha sempre ragione.

All’interno del Movimento Cinque stelle vedo tanti giovani e colleghi che hanno il desiderio di partecipare ai processi costruttivi delle norme. A volte non si è d’accordo, ma su tante questioni si trovano delle basi comuni. Poi però vedo una parte il cui unico obiettivo non è questo ma esattamente quello originario, della trattativa con Bersani per intenderci, il cui «mantra» è distruggiamo la partitocrazia. Soggetti guidati forse dall’esterno, a cui non interessa il merito di ciò che si sta facendo ma il cui obiettivo è di cercare di compiacere una base elettorale che sta subendo una forte emorragia, perpetuando slogan distruttivi e degni della peggior politica. Questa oggi è la parte che controlla il Movimento Cinque stelle. In una parte del Partito democratico colgo a volte una reazione quasi infastidita quando si cerca questo confronto. Viene giudicata una perdita di tempo. Io non la penso così! Non si tratta di lavorare per costruire una nuova ipotetica maggioranza, cosa su cui io sono molto scettico, ma di fare una operazione verità nell’ambito delle forze del cambiamento. Se davvero il M5s è una forza innovativa così come esso si definisce lo si deve misurare nei fatti concreti e per il momento, al di là di qualche piccolo episodio, ha dimostrato di essere una forza conservatrice con una forte connotazione populista. Compito nostro far emergere invece quella forza propulsiva e anche di novità che quel movimento incarna e contribuire ad indirizzarla nel tempo verso un’idea riformista della società.

L’Unità 24.06.13

"L’eredità di Berlusconi", di Maria Cecilia Guerra

Una strana situazione quella in cui si trova il governo Letta, costretto a cercare risorse per scongiurare l’aumento dell’Iva. Ma da dove viene questo aumento dell’Iva che nessuno vuole? È una storia molto complessa, ma emblematica, che è bene non dimenticare. Per ripercorrerla occorre ritornare al maggio-giugno 2011, quando la sconfitta alle amministrative, prima, e ai referendum, poi, segnarono l’inizio della fine del governo Berlusconi. Il Pdl cercò di reagire alla sconfitta con la bandiera delle tasse, imponendo a Tremonti, additato come rigido guardiano dei conti pubblici, una proposta di «riforma fiscale» confusa, imprecisa e contraddittoria, ma che faceva balenare l’idea di tagli, soprattutto Irpef, per tutti. A questa delega venne poi giustapposta, alla fine di giugno, un ulteriore pezzo di «riforma assistenziale», che avrebbe dovuto finanziare la prima, quella fiscale, con tagli alle prestazioni sociali.
Ma ormai neppure il governo Berlusconi, che l’aveva tenacemente negata, poteva evitare di considerare gli effetti che la crisi stava esercitando sui conti pubblici. Parte quindi il tormentone delle manovre estive del 2011. Il governo in carica fatica a scegliere su chi e come scaricare i costi delle manovre che pure è costretto a fare.
È in questo contesto che appare la sorpresa: alla delega fiscale-assistenziale viene aggiunto una norma finale che prevede che dal riordino della spesa sociale e dalla «eliminazione o riduzione dei regimi di esenzione, esclusione e favore fiscale che si sovrappongono alle prestazioni assistenziali» devono derivare almeno 4 miliardi di euro per il 2013 e 20 miliardi di euro annui a decorrere dal 2014. Sono miliardi che di fatto non esistono: non è pensabile di ricavare 20 miliardi da una spesa sociale che è in Italia, complessivamente, di poco superiore ai 60 miliardi. Né è possibile pensare di ricavarli da una delega fiscale nata per ridurre e non per aumentare le imposte.
Ciononostante questi 20 miliardi vengono contabilizzati come maggiori entrate nella manovra attuata con il decreto legge 98/2011 del 6 luglio. Il decreto dispone infatti una copertura a futura memoria, assistita da una clausola di salvaguardia: se il governo (il governo che verrà)non troverà, entro il 30 settembre 2013, questi 20 miliardi attraverso i tagli al sociale ipotizzati dalla delega fiscale-assistenziale, i soldi si troveranno con un taglio lineare (del 5% nel 2013 e del 20% a decorrere dal 2014) di tutte le agevolazioni fiscali. È bene ricordare che più di metà di queste «agevolazioni» sono date dalla somma di solo tre tipologie: le detrazioni per redditi di lavoro e pensione, quelle per carichi familiari e le aliquote ridotte Iva per i beni di prima necessità. Il conto dei tagli di queste agevolazioni (che avrebbe quindi comportato anche un aumento delle aliquote ridotte dell’Iva dal 4 al 4,8% e dal 10 al 12%) sarebbe ricaduto prevalentemente sulle famiglie più povere, sui nuclei con figli, e, per quanto riguarda l’Iva, anche sui ceti medi.
Il tutto viene poi anticipato di un anno, con la manovra del 13 agosto dello stesso anno (decreto-legge n. 138 del 2011). La copertura prevista si arricchisce però di una ulteriore possibilità: in alternativa ai tagli lineari delle agevolazioni e ai «risparmi» della delega fiscale-assistenziale, è ipotizzato anche un aumento delle aliquote delle imposte indirette, incluse le accise. È bene ricordare che, con lo stesso decreto legge di agosto 2011, nel frattempo, si aumenta comunque l’aliquota dell’Iva dal 20 al 21%.
Il governo Monti, subentrato a quello Berlusconi a metà novembre 2011, si ritrova con questo problema da dirimere. Con il decreto Salva Italia del 6 dicembre 2011 trova coperture per circa 4 dei 20 miliardi ballerini. Mantiene la scadenza del 30 settembre 2012 per trovare quelli mancanti, ipotizzando che li si possa trovare non già con un taglio lineare delle agevolazioni ma, piuttosto, con una loro razionalizzazione, e prevede come clausola di salvaguardia l’incremento delle aliquote Iva in due tempi, di cui il primo a decorrere dal 1° ottobre 2012. Ritira la delega fiscale-assistenziale, ma lascia sempre, come possibile copertura alternativa all’aumento dell’Iva, il taglio alle spese sociali già ipotizzato dal governo Berlusconi.
Con il successivo decreto legge95 del 6 luglio 2012il governo Monti interviene nuovamente, sia riducendo l’esigenza di copertura (che viene abbassata a 6,56 miliardi annui a decorrere dal 2013) sia modificando la tempistica degli aumenti dell’Iva (posticipandone il primo incremento al 1 luglio 2013). Rimanda poi alla legge di stabilità 2013 l’indicazione delle misure che possono evitare questo aumento dell’Iva, con la spending review o con i tagli alla spesa sociale o con i risparmi derivanti dal riordino di enti ed organismi statali.
E’ proprio per effetto delle norme contenute nella legge di stabilità per il 2013 chel’aumento dell’Iva sull’aliquota ridotta, inizialmente prevista, viene scongiurato e quello sull’aliquota ordinaria viene ridotto dai due punti ipotizzati ad uno solo, dal 21 al 22%, a partire dal primo luglio 2013. Nel frattempo, la legge delega fiscale prevista dal governo Monti, che prevedeva la famosa razionalizzazione delle agevolazioni fiscali, nonché la revisione delle rendite catastali, è stata bloccata in Parlamento dal Pdl.
E qui siamo. Il cerino è ora nelle mani del governo Letta.

L’Unità 24.06.13

"La Costituzione di Casaleggio", di Marco Olivetti

In un’intervista pubblicata ieri nell’inserto domenicale del Corriere della Sera, Gianroberto Casaleggio ha sintetizzato il «manifesto costituzionale» del Movimento 5 Stelle. Contenuti e toni si ispirano al pensiero democratico radicale, adeguato all’epoca di Internet. Al centro vi è l’idea che «la democrazia rappresentativa, per delega, perderà significato. È una rivoluzione prima culturale che tecnologica». In questo contesto, «muta la natura» del Parlamento: i suoi componenti «devono comportarsi da portavoce, il loro compito è sviluppare il programma elettorale e mantenere gli impegni presi con chi li ha votati», con la conseguenza che dovrà essere introdotto il recall dei deputati. Ma l’agenda costituzionale pentastellata è assai articolata e richiede una revisione dell’«architettura costituzionale nel suo complesso in funzione della democrazia diretta», e occorrerà introdurre «il referendum propositivo senza quorum, l’obbligatoriet à della discussione parlamentare delle leggi di iniziativa popolare, l’elezione diretta del candidato che deve essere residente nel collegio dove si presenta, l’abolizione del voto segreto, l’introduzione del vincolo di mandato».
Secondo Casaleggio, la democrazia diretta è leaderless e il concetto di leadership è incompatibile con essa. Così come la segretezza, che deve cedere il passo in via generale alla trasparenza, che in futuro «diventerà obbligatoria per qualunque governo o organizzazione». In tale contesto «il parlamentare o il presidente del Consiglio è un dipendente dei cittadini, non può sottrarsi al loro controllo, in caso contrario non si può parlare di democrazia diretta e forse neppure di democrazia ».
Alle interessanti ma per nulla nuove (si vedano il cartismo, i movimenti svizzeri per la democrazia diretta, alcuni filoni del pensiero comunista, ecc.) proposte di Casaleggio è possibile opporre almeno tre ordini di obiezioni.
In primo luogo la democrazia diretta postula la partecipazione permanente dei cittadini alla vita pubblica. Ma questa si scontra con l’esigenza della divisione del lavoro, che è alla base di ogni società organizzata: in virtù di essa solo una parte relativamente ridotta di cittadini può dedicarsi a tempo pieno magari per un periodo limitato alla gestione della cosa pubblica. Oltre alle sfide che il lavoro e la complessità della vita urbana contemporanea pongono al cittadino, vi è la legittima aspirazione a ricercare la felicità anzitutto nella vita privata, mentre il tempo che è possibile dedicare alla politica è ridotto, salvo che nella dimensione locale.
Del resto, la riprova di questa sfida viene proprio dalla crisi della democrazia dei partiti: al di là delle tendenze oligarchiche di questi ultimi (tendenze a cui non sono sottratti i movimenti), la realtà delle democrazie contemporanee evidenzia proprio una riduzione della partecipazione dei cittadini nei partiti politici. Cosa ci assicura che grazie a Internet non sar à più così e che attraverso la rete sarà possibile una partecipazione ordinata (da popolo, non da folla) alla vita della polis? E come tutelare i cittadini che decidono di partecipare solo occasional-
mente, specie qualora essi siano la larga maggioranza dell’elettorato?
La seconda obiezione si riferisce all’idea assai schematica che i parlamentari possano ridursi a portavoce di programmi predeterminati in sede elettorale. Se ciò deve senza dubbio avvenire per i grandi principi orientatori della linea politica di un partito, questa tesi tace sul fatto che la realtà si modifica continuamente e che sorgono ogni giorno problemi nuovi (si pensi ai governi eletti nella prima metà del 2001, chiamati a governare dopo l’11 settembre).
Come è possibile governare un Paese con deputati «ingessati» sulle proposte sulla base delle quali sono stati eletti? E se si muove dall’idea che i movimenti o partiti che competono nell’arena elettorale esprimono solo una parte degli interessi presenti nella società, come è possibile raggiungere compromessi (che, come osservava Kelsen, sono essenziali in democrazia) in un sistema in cui i parlamentari sono vincolati al mandato degli elettori e al programma su cui sono stati eletti?
Ma l’obiezione più radicale riguarda proprio l’idea centrale di Casaleggio: quella della democrazia diretta come forma di democrazia alternativa alla rappresentanza. Certo, il guru del M5S non arriva a teorizzare la soppressione del Parlamento (come Schmitt, Lenin e Mussolini), ma preconizza una sua radicale trasformazione, che investirebbe la politica democratica nel suo complesso.
La riflessione contemporanea sulla democrazia partecipativa, tuttavia, sta percorrendo un’altra strada: quella dell’integrazione, correzione e arricchimento della rappresentanza con istituti come l’istruttoria pubblica delle leggi e il dibattito pubblico (che sono stati previsti dalla legislazione regionale in Emilia-Romagna e Toscana). E su questa linea non è impossibile correggere istituti come il referendum e l’iniziativa legislativa, ma alla condizione di non coltivare l’irrealistica illusione di un corpo sociale capace di autogovernarsi unicamente attraverso queste procedure e una rete di cittadini portavoce.
Che la leadership sia un ingrediente ineliminabile della democrazia contemporanea è del resto un dato acquisito da Hermens in poi e ciò è vero nei movimenti ancor più che nei partiti. La pratica del Movimento 5 Stelle in questi mesi (Grillo e Casaleggio docent) ne è una conferma.
L’Unità 24.06.13

"Intervento pubblico essenziale per l'equilibrio", di Daniele Checchi

Il mondo sviluppato sembra accorgersi con sorpresa che lo sviluppo turbolento del ventennio precedente la crisi del 2007 ha allargato i divari di reddito all’interno dei paesi: basti ricordare che la quota di reddito guadagnata dall’1% più ricco è cresciuta sistematicamente in tutti i paesi dell’area sviluppata (in Italia dal 6% del 1984 al 9% del 2004, negli Stati Uniti dal 9% al 16% nello stesso periodo). La ricerca accademica (ivi compreso il progetto Gini) si è pertanto interrogata sulle cause di questo aumento della diseguaglianza e delle connessioni col funzionamento delle dinamiche sociali e politiche all’interno dei diversi paesi. Tra le cause l’attenzione si è focalizzata sulla formazione scolastica da un lato e sul funzionamento del mercato del lavoro dall’altro. Il generalizzato conseguimento di istruzione secondaria, accompagnato dall’innalzamento della frequenza universitaria, ha prodotto una riduzione della diseguaglianza misurata in termini di credenziali educative, cui però non si è accompagnato un parallelo declino della diseguaglianza misurato in termini di qualità della formazione ottenuta. Paesi caratterizzati da sistemi scolastici poco omogenei (sia territorialmente sia curricularmente, come per esempio l’Italia) non riescono a compensare i divari di origine familiare nella formazione delle competenze, e questo si traduce in un meccanismo di mantenimento della diseguaglianza nel tempo.
Nel mercato del lavoro entrano quindi generazioni in media più istruite, ma al loro interno non meno diseguali in termini di capacità effettive. E queste stesse generazioni si trovano a fronteggiare mercati del lavoro che sono regolati in modo molto diverso: alcuni paesi assicurano minimi salariali (per via legislativa o per via contrattuale), altri paesi favoriscono la frammentazione degli orari e/o delle durate contrattuali, altri ancora assicurano sostegno più o meno generoso ai disoccupati. Tuttavia in molti paesi la legislazione sul mercato del lavoro negli ultimi vent’anni ha provveduto a flessibilizzare le condizioni lavorative principalmente (o esclusivamente) dei nuovi entranti, creando artificialmente un dualismo nei diritti ma anche (e principalmente) nei livelli retributivi. La dimensione generazionale della diseguaglianza appare particolarmente pronunciata nei paesi dove la crescita della popolazione si è completamente arrestata (Giappone, ma anche Italia) rendendo più difficile l’individuazione di possibili politiche redistributive. Non è forse casuale che negli stessi paesi si sia osservato il declino (o persino la scomparsa) della tassazione sulle eredit à, che in linea di principio rappresenta lo strumento principale di redistribuzione tra generazioni.

Questo non significa che la società non si sia data strumenti di redistribuzione che rendono meno penosa la carenza di reddito (fino ad arrivare alla povertà). La formazione delle famiglie è uno strumento potente per attenuare le diseguaglianze dei redditi che si formano nel mercato del lavoro, in quanto permette di compensare almeno parzialmente i divari di genere, di istruzione ed in parte anche di età. Tuttavia tale ruolo si è andato attenuando nel corso del tempo per almeno due ragioni: la prima è per la crescente omogamia (cioè formazione di coppie con partner sempre più simili, in termini di istruzione ma anche di capacità di guadagno) che si traduce in polarizzazione: coppie “ricche” di lavoro e di reddito sono compresenti a coppie povere o disoccupate; la seconda è che al crescere dell’incidenza di divorzi e separazioni anche questo meccanismo basilare di redistribuzione viene a scomparire. E non dimentichiamo che la famiglia è comunque un rimedio solo parziale, in quanto redistribuisce all’interno di uno stesso asse familiare, ma non tra “dinastie”, preservando quindi la disuguaglianza nel tempo. Per queste ragioni l’intervento pubblico, attraverso tassazione e/o pagamento di sussidi, rimane lo strumento attualmente più efficace nel contenere la diseguaglianza dei redditi che tende a generarsi sul mercato del lavoro.

Il Sole 24 Ore 24.06.13

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“L’Italia dei redditi disuguali”, di Barbara Bisazza

L’Italia è tra i paesi che registrano le maggiori disuguaglianze nella distribuzione dei redditi, seconda solo al Regno Unito nell’Unione europea e con livelli di disparità superiori alla media dei paesi Ocse. Non solo: nel nostro paese la favola di Cenerentola si avvera con sempre minore frequenza, nel senso che le coppie tendono maggiormente a formarsi tra percettori di reddito dello stesso livello; inoltre, gli estremi si allontanano, ovvero i ricchi sono sempre pi ù ricchi e i poveri sempre più poveri. E la ricchezza si sposta sempre più nei portafogli della popolazione più anziana, a scapito delle giovani generazioni (si veda il grafico in alto a destra).
Sono queste le tendenze di fondo per l’Italia, che emergono dallo studio “Gini-Growing inequality impact” commissionato dalla Ue, nell’ambito del VII Programma quadro, a un pool di gruppi di ricerca di diverse università europee: un progetto, finanziato con oltre due milioni di euro e sviluppato per circa tre anni, i cui risultati saranno pubblicati in due volumi entro dicembre.
La disparità nella distribuizione dei redditi è stata misurata con l’indice di Gini: si tratta di un indice di concentrazione il cui valore può variare tra zero e uno. Valori bassi indicano una distribuzione abbastanza omogenea, valori alti una distribuzione più disuguale, con il valore 1 che corrisponderebbe alla concentrazione di tutto il reddito del paese su una sola persona.
Dallo studio emerge che, alla fine della prima decade degli anni Duemila, l’Italia ha un indice di Gini pari a 0,34: ovvero, due individui presi a caso nella popolazione italiana hanno mediamente, tra di loro, una distanza di reddito disponibile pari al 34% del reddito medio nazionale.

I 30 paesi considerati nello studio sono stati classificati per macrogruppi, a seconda delle dinamiche registrate tra gli anni Ottanta e la prima decade del Duemila. Ci sono i paesi continentali europei (Germania, Francia, Austria, Belgio e Lussemburgo) che presentano un indice di disuguaglianza tra 0,26 e 0,30, praticamente costante e ben al di sotto del valore italiano (si consideri che, data la struttura dell’indice, una differenza di pochi centesimi di punto si traduce in differenze di reddito significative); un secondo gruppo è quello dei paesi nordici, che presenta un trend crescente di disuguaglianza trainato principalmente da Finlandia e Svezia, ma a partire da valori più bassi; c’è poi il gruppo delle economie di mercato (tra cui Usa, Australia, Regno Unito), tendenzialmente con un welfare poco generoso, in cui le disuguaglianze tendono a essere elevate.
L’Italia fa parte del gruppo dei paesi mediterranei, nei quali si evidenziano livelli di disuguaglianza abbastanza alti. La situazione italiana era molto meno disuguale negli anni Sessanta e, da metà anni Settanta, finché c’è stata la scala mobile (nel 1992 l’indice di Gini era di circa 0,27). Poi l’indice di disuguaglianza è schizzato verso l’alto, rimanendo in seguito abbastanza piatto.
Un ultimo gruppo è quello dei paesi dell’Est: prima della caduta del muro di Berlino (1989) avevano livelli simili a quelli dei paesi nordici, poi le reazioni sono state diverse da paese a paese.
Lo studio ha considerato gli effetti dei livelli di istruzione e delle dinamiche del mercato del lavoro sulla generazione della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi, che a sua volta incide sui comportamenti sociali e politici. La progressiva scolarizzazione nei paesi sviluppati, nell’arco dell’ultimo secolo, ha ridotto le disuguaglianze nei livelli di istruzione: in Europa le generazioni nate negli anni Venti completavano in media nove anni scolastici; quelle nate a metà degli anni Ottanta sono arrivate in media al diploma di scuola superiore (14 anni scolastici). Ma questo non si è tradotto in una effettiva riduzione anche delle disuguaglianze nei redditi. Perché? È cambiato il mercato del lavoro: i nuovi entrati sono più istruiti, ma nel contempo meno garantiti, e quindi meno in grado di risparmiare e accumulare ricchezza, che a sua volta può nel tempo assicurare redditi da capitale e da proprietà.

IL Sole 24 ore 24.06.13

"I monumenti diventano la fabbrica del futuro", di Bruno Ugolini

“Sembra una battuta. Nasce da un interrogativo. Pensate che cosa farebbero gli americano se possedessero al centro di New York, il Colosseo. Organizzerebbero ogni giorno e ogni sera uno spettacolo. Teatro, cinema, concerti. E attorno a quell’enorme spazio un museo, una biblioteca. Altro che i poveracci travestiti da centurioni. Una fabbrica di cultura ma anche una preziosa fonte di reddito. Trattasi di un pensiero improvvisato scaturito dall’ascolto di interessanti interventi (Paolo Guerrieri, Ronny Mazzocchi, Danilo Barbi, Silvano Andriani, Nicola Cacace), coordinati da Laura Pennacchi. È un confronto che prende lo spunto da un ponderoso volume curato dalla stessa Pennacchi. Trattasi del Libro bianco per il piano del lavoro 2013 (Ediesse), composto da numerosi saggi affidati a economisti di scuole diverse. Un’opera che ha accompagnato e accompagna l’ambiziosa iniziativa del sindacato. Anche se per ora questo «piano» non ha trovato l’eco meritata. Un po’ ripercorrendo le sorti di quel primo progetto voluto da Di Vittorio nell’altro secolo e accolto, spiega Pennacchi, «con freddezza da Togliatti e con opposizione da De Gasperi». Eppure rappresenta la smentita, come osserva Susanna Camusso, a quanti dipingono oggi la Cgil «come un’organizzazione che vuole stare sull’Aventino, non disponibile a governare le trasformazioni». Eppure qualcosa comincia a muoversi, come dimostra un altro confronto svoltosi a cura del «Diario del Lavoro» di Massimo Mascini. Qui hanno interloquito con le idee della Cgil sindacalisti, imprenditori, rappresentanti del governo. Tra gli altri: Gaetano Sateriale, Riccardo Sanna, Pierangelo Albini, Pierpaolo Baretta, Davide Calabrò, Carlo de Masi, Massimo Forbicini, Alessandro Geno vesi, Michel Martone, Guido Mulè, Paolo Pirani, Gianni Salvadori, Walter Schiavella, segretario generale della Fillea Cgil. Una mobilitazione intellettuale che può accompagnare la strategia rivendicaiva unitaria, testimoniata nella potente manifestazione di sabato a Roma. Preciso subito che la battuta iniziale sul Colosseo è suggerita solo da alcuni spunti del «piano». Ovverosia dal tentativo di delineare un assetto del cosiddetto «post fordismo», attraverso la ricerca di settori innovativi: turismo, tecnologie, beni culturali, beni sociali, energia, politiche ambientali e green economy, città, territorio e infrastrutture, agricoltura, scuola, istruzione, formazione. Senza dimenticare, certo, quel che ancora é possibile nell’industria manifatturiera. Un campo vasto con la ripresa di un ruolo determinante dello Stato attraverso le sue molteplici articolazioni. Non lo Stato moloch, lo Stato padrone, ma uno Stato regista. Come avviene in Usa, in Germania. Non un Gosplan, spiega Pennacchi, «che il governo scrive una volte per tutte e per tutti e nessuno applica». Un progetto affidato a un confronto nazionale con il governo e alla contrattazione territoriale con Regioni e Comuni. E aperto a forze sociali, imprese, istituzioni, università. Una pluralità di interlocutori, un tessuto di partecipazione attiva. La domanda d’obbligo è sempre quella relativa alle risorse necessarie. E la Pennacchi risponde citando le complesse argomentazioni contenute nel Libro bianco ma anche proponendo un primo esempio: una tassa di scopo, un contributo di solidarietà. Con la convinzione che i cittadini, quei padri e quelle madri che conoscono bene il bisogno di lavoro dei figli, risponderebbero volentieri a un appello ben finalizzato. Con la consapevolezza che quel che urge non è tanto uno shock fiscale quanto uno shock occupazionale. Certo per invadere terreni nuovi e inesplorati occorre rivalutare, come spiega Guerrieri, la figura di chi rischia e «intraprende». E occorre affrontare con serietà la tematica della produttività onde competere sul piano internazionale. Anche nei settori manifatturieri tradizionali. Verrebbe voglia di riprendere a questo proposito alcuni saggi presenti nel Libro bianco sulle questioni relative alla partecipazione dei lavoratori ai processi produttivi (Mimmo Carrieri e Giacinto Militello, Salvo Leonardi, Leonello Tronti). Una partita decisiva per lo sviluppo non tradizionale nonché via maestra anche per innalzare la produttività del sistema. Perché una produzione di qualità ha bisogno di un lavoro di qualità, forte e consapevole, non umiliato e spogliato di diritti.

L’Unità 24.06.13