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"L'economia ferma dei troppo ricchi e troppo poveri", di Carlo Buttaroni*

Per il premio Nobel Joseph Stiglitz, quando le disuguaglianze sociali crescono, s’innesca una spirale negativa. Nei Paesi dove i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri il prodotto interno lordo tende a decrescere. Quando si afferma una grande «classe media», invece, la prosperità si diffonde. Stiglitz, analizzando il caso degli Stati Uniti, rileva come nei due periodi storici in cui l’1% dei ricchi è arrivato a concentrare nelle proprie mani il 25% della ricchezza complessiva è poi scoppiata una terribile recessione. È quanto accaduto sia nel ’29 che nella crisi esplosa nel 2008. Due crisi, diverse nelle origini e negli effetti, ma unite significativamente dal fatto che, alla vigilia di entrambe, la polarizzazione della ricchezza aveva raggiunto quella che sembra sempre più una soglia che diventa molto pericoloso oltrepassare. Ancora, nel corso del 2010, quando l’intera nazione americana era nel pieno della battaglia contro la crisi, la piccolissima percentuale di popolazione super-ricca continuava a guadagnare il 93% del reddito aggiuntivo creato nel frattempo dalla fragile ripresa (da questa spaventosa disuguaglianza nasce nasce il movimento OccupyWallStreet, all’insegna dello slogan «Siamo il 99%»). Il problema principale di tutte le economie avanzate e altamente industrializzate, secondo l’analisi di Stiglitz e Krugman, è rappresentato dalla debolezza della «domanda aggregata», cioè la domanda di beni e servizi espressa da un sistema economico nel suo complesso. Premesso che la porzione di reddito spesa per l’acquisto di beni e servizi è, per forza di cose, maggiore nei redditi bassi, la diseguaglianza nella distribuzione dei redditi è diventata un problema strutturale. Questo perché non è semplicemente un portato delle forze del mercato, ma dipende dalle scelte di politica economica che, incentivando le rendite finanziarie e sfavorendo gli investimenti produttivi, hanno orientato le scelte imprenditoriali e industriali in tale direzione. Meno investimenti produttivi significano un’economia meno dinamica e meno florida, minata alla base delle sue prospettive di crescita. A risentirne, inevitabilmente, è la «struttura» produttiva di un sistema Paese, cioè la sua «economia reale».

I DUELLANTI L’analisi di Stiglitz è una bomba lanciata nelle retrovie neo-liberiste che partono dall’assunto opposto, e cioè che le diseguaglianze non inficiano in alcun modo la crescita. Anzi, detassare redditi e soprattutto i patrimoni immobiliari e mobiliari dei più ricchi genera un cosiddetto «effetto a cascata», che dai vertici della piramide fa discendere la ricchezza fino ai livelli più bassi, portando un arricchimento generale e una maggiore crescita. E quanto più lo Stato rimane estraneo a questo processo «naturale», liberamente guidato dalle spontanee forze economiche, tanto maggiore è il vantaggio che ne traggono l’economia e lo sviluppo del Paese (idea alla base della deregulation dei mercati finanziari, ed economica in generale). Stiglitz ritiene, invece, che il prodotto interno lordo dei paesi segnati dalle maggiori diseguaglianze nella distribuzione complessiva della ricchezza cresce con grande difficoltà e discontinuità, andando incontro a veri e propri crolli. Il motivo di questo fenomeno non risiede nella moralità del pensiero egualitario, ma in un ben individuato meccanismo economico chiamato propensione al consumo. Contrariamente a quanto generalmente si crede, infatti, nei ricchi tale propensione è più bassa, mentre il vero motore dei consumi è il ceto medio, non solo perché rappresenta una platea più ampia, ma anche perché è portato a convertire in consumi una percentuale proporzionalmente molto più elevata del proprio reddito rispetto ai ricchi. Se far ripartire i consumi è una delle principali chiavi delle economie avanzate per far ripartire l’intera economia (insieme a un aumento delle esportazioni), ecco allora l’importanza di politiche che favoriscano una più equa distribuzione della ricchezza e il rafforzamento della classe media. Esattamente l’opposto di quanto avvenuto finora. Oltretutto la crescita della disuguaglianza coincide con il depotenziamento della cittadinanza sociale e della partecipazione politica che, fino a vent’anni fa, in Italia come in Europa, era considerata un traguardo dello status inclusivo proprio del ceto medio. Ci ha pensato la crisi a spazzare via questa speranza, con il risultato che anche la democrazia si è indebolita nelle forme e nei contenuti. Adesso viene da chiedersi cosa altro serva per avere la consapevolezza della necessità di politiche completamente diverse, redistributive ed espansive, in grado di far ripartire la domanda interna? Quali ulteriori prove occorrono per comprendere l’urgenza di politiche per il lavoro fondate sulla qualità sociale, sui diritti che sostengano le famiglie e il ceto medio? E chi è più visionario: chi pensa di poter uscire dalla crisi proseguendo sulla strada del «rigore» con road map irrealizzabili o chi ritiene come Stiglitz e molti economisti premi Nobel che occorre mettere al centro politiche economiche che superino i paradigmi hanno portato alla situazione attuale? Se è vero che la crisi parte da lontano e affonda le radici nella globalizzazione, è altrettanto vero che ciò che la nutre non è l’interconnessione planetaria, ma l’arretramento della politica dal governo dalle grandi questioni economiche e sociali. Ed è anche su quest’aspetto che Stiglitz, Krugman e altri economisti, più o meno indirettamente, affondano le loro critiche. Aver sottoposto i cittadini a sofferenze incredibili sulla base di teorie e scelte politiche sbagliate. D’altronde l’inizio del nuovo capitalismo finanziario mondiale prende avvio agli inizi degli anni 70 con la scelta (politica) del governo statunitense di sospendere la convertibilità in oro del dollaro. Una decisione che ha azzerato gli accordi di Bretton Woods del 1944 che limitavano la circolazione dei capitali. Fu quello il fischio d’inizio della fase espansiva delle teorie iperliberiste, ispirate al pensiero di Milton Friedman che, negli anni 80, hanno trovato interpretazione nelle politiche conservatrici di Ronald Reagan e Margareth Thatcher, centrate sulla deregolamentazione del mercato, la privatizzazione delle aziende pubbliche, l’alleggerimento della struttura statale e dei sistemi di protezione sociale. La famosa deregulation, cioè l’abbandono del mercato da parte dello Stato, lasciandolo quindi libero di trovare il proprio punto di equilibrio, autoregolandosi, autolimitandosi e autocomponendosi. La promessa è stata mancata, ma gli effetti di quell’impostazione si fanno sentire, con il ritiro della politica dall’economia, dalla produzione, dall’occupazione, de-territorializzando i processi economici staccati sempre più dalle grandezze reali dell’industria. Processo, questo, che ha lasciato spazio alle dimensioni finanziarie della ricchezza, senza che queste abbiano necessità di passare attraverso investimenti nelle attività imprenditoriali e industriali, separando la finanza dalla produzione e assegnando all’economia una dimensione prima cartacea, poi telematica. La rottura della relazione tra capitale e lavoro è stata una conseguenza inevitabile. Come inevitabile è stato il progressivo distacco dell’economia dal territorio e dalla dimensione nazionale, che di quel legame ha sempre costituito l’aspetto politico. Negli anni 80 ha preso avvio un processo di progressiva indipendenza dell’economia finanziaria dal palinsesto pubblico e in particolare dallo stato e dalla legge. Un processo presto diventato insofferenza per la politica, il territorio, i confini, il limite, la legge e il diritto: elementi avvertiti come ostacoli al consolidamento del potere della finanza. Una finanza che, in questi anni, ha preteso sempre più «mano libera», rivendicando il potere di invadere i mercati con un rovesciamento dei rapporti di forza non solo tra capitale e lavoro ma anche tra capitalismo e democrazia. È questa la situazione che dobbiamo rovesciare se vogliamo realmente uscire dalla crisi: dare uno stop alle politiche del rigore che alimentano la crisi e rendono più forte il capitalismo finanziario. Occorre il coraggio di rovesciare i paradigmi che hanno guidato le scelte di politica economica negli ultimi anni, mettendo al centro la questione sociale, il lavoro, i diritti. E per fare questo è necessario un passo avanti della politica. Forse occorre persino una nuova Bretton Woods. E questa sì, sarebbe una rivoluzione.

*Carlo Buttaroni – Presidente Tecnè

L’Unità 24.06.13

"Il primato delle regole sul voto popolare", di Vladimiro Zagrebelsy

L’aspirazione dell’onorevole Biancofiore a ricorrere alla Corte europea dei diritti umani, in difesa del diritto di Silvio Berlusconi a un processo equo, non ha spazio nel sistema europeo di cui l’Italia è parte. Alla Corte europea possono ricorrere le vittime, non gli amici ed estimatori. Quella dichiarazione può dunque essere relegata tra le stravaganze. Ma non va lasciato in ombra un tema – quello delle conseguenze di condanne sul diritto dei cittadini di partecipare alle elezioni – che invece merita di essere trattato e discusso con riferimento al diritto europeo, cui l’Italia è legata. Per garantire la democraticità degli Stati europei, la Convenzione europea dei diritti umani stabilisce che le elezioni si svolgano in modo da assicurare «la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo».

In linea di principio tutti i cittadini devono poter votare e poter portarsi candidati per essere eletti. Ma se questo è il principio, in tutti i sistemi vi sono limitazioni. Basti pensare ovviamente all’età minima per essere elettori o per essere eletti.

Ma le leggi elettorali di tutti gli Stati in vario modo prevedono anche casi di esclusione dai diritti elettorali, legati a condanne penali o ad altre circostanze assimilabili alle condanne.

Proprio come, nei Paesi dell’Est europeo, la passata collaborazione con i regimi comunisti prima della caduta del sistema sovietico. Quelle limitazioni hanno dato occasione a una serie di ricorsi alla Corte europea; in tempi recenti, contro l’Austria, il Regno Unito ed anche l’Italia. Si trattava di persone che, in conseguenza di condanne penali, avevano perduto, temporaneamente o per sempre, il diritto di partecipare alle elezioni legislative. La Corte ha riconosciuto che sono giustificate, in uno Stato democratico, sospensioni temporanee e persino esclusioni definitive dai diritti elettorali, quando queste siano proporzionate, ragionevolmente collegate alle condanne riportate e non indiscriminate. Secondo questi criteri la Corte ha affermato che viola la Convenzione europea dei diritti umani, la legislazione britannica, che priva del diritto di votare tutti i condannati a pena detentiva (con solo marginali eccezioni). La resistenza del Parlamento britannico a ridurre e ad articolare i casi di esclusione dal voto ha dato luogo a un braccio di ferro con la Corte, che è ancora in corso e che si iscrive tra le manifestazioni di rifiuto della integrazione europea che caratterizza ora la politica di quel Paese. La Corte ha anche censurato il sistema austriaco, per motivi analoghi a quelli che si riferiscono alla legge britannica. Con una sentenza dell’anno scorso, invece, la legge italiana, che stabilisce i casi di interdizione dai pubblici uffici e conseguente esclusione dal diritto elettorale, è stata ritenuta proporzionata, per l’attenzione che essa presta alla natura e alla gravità del reato commesso, risultante dalla valutazione che ne fanno i giudici nel caso concreto. E il ricorso contro l’Italia è stato respinto.

In tutti questi casi, i ricorrenti lamentavano di essere esclusi dal diritto di votare alle elezioni legislative. Il diritto di portarsi candidato, pur normalmente collegato al diritto di votare, mostra però un profilo specifico. L’esclusione dal diritto di votare per ragioni legate a condanne penali, riguarda sempre e comunque un numero ridotto di persone rispetto alle dimensioni generali dell’elettorato, cosicché non si hanno conseguenze sul risultato elettorale generale. In certi casi invece l’esclusione di un candidato può incidere sulle fortune della sua lista, sull’esito delle elezioni e, quindi, sulla composizione del Parlamento. Il problema dell’esclusione di candidature alle elezioni è quindi più complesso di quello della perdita del diritto di votare. Esso non riguarda solo il diritto della persona che intende candidarsi, ma si proietta sulla stessa «scelta del corpo legislativo» da parte del popolo elettore. E’ indiscusso il diritto degli Stati di proteggere il proprio Parlamento dalla candidatura di chi si sia reso responsabile di scorrettezze e infedeltà gravi, ma si pone la questione della giustificazione e proporzione. Un caso è stato esaminato dalla Corte europea. Si trattava del presidente della Repubblica lituana, che era stato dichiarato decaduto dalla carica per gli abusi e le irregolarità commessi. In vista delle imminenti nuove elezioni del Parlamento, l’ex presidente, che godeva di un importante seguito elettorale, aveva dichiarato di volersi candidare. Era stata allora approvata una legge che impediva ai presidenti dichiarati decaduti di candidarsi. La formula era generale, ma si trattava evidentemente di legge «ad personam», contro l’unica che si trovava in quella situazione. E l’interdizione era perpetua.

La Corte europea con una sentenza del 2011 ha ritenuto che in quel caso era sproporzionata la previsione di un’incapacità elettorale definitiva e irreversibile. Era stato rotto l’equilibrio tra l’esigenza, da un lato di escludere da cariche pubbliche e in particolare dal Parlamento, persone che avevano dimostrato di non assicurare la necessaria correttezza e affidabilità e dall’altro di non limitare eccessivamente l’espressione del voto popolare. La violazione della Convenzione europea da parte della Lituania indica che la concezione europea del valore delle libere elezioni non corrisponde alla pretesa di chi ritiene che ogni limitazione e regolamentazione sia una inaccettabile violazione del principio democratico di prevalenza, comunque, della maggioranza degli elettori. Regole e interdizioni legali, non sproporzionate rispetto allo scopo legittimo, sono cautele possibili in difesa delle istituzioni pubbliche: come per l’esclusione del diritto di votare, così anche quando si tratta di escludere l’eleggibilità di chi troverebbe sostegno nell’elettorato. Esse sono destinate a operare quando non funzionano i filtri che normalmente dovrebbero essere attivati in sede politica nella formazione delle liste elettorali.

La Stampa 24.06.13

"Sciopero, Colosseo chiuso Bray: voglio più risorse", di Simonetta Fiori

«Il Colosseo non resterà mai più chiuso. Non può più accadere». E ancora: «Devo chiedere scusa. Se è stato offeso il direttore degli Uffizi e insieme a lui molti altri bravissimi direttori di museo, il ministro non può che scusarsi. Fanno un lavoro enorme, con uno stipendio scandalosamente inadeguato: è assurdo che si finisca per svilire i loro sforzi. Bisogna cambiare passo». ASETTE settimane dall’insediamento del governo, Massimo Bray rilascia la sua prima intervista nel giorno più lungo per il Colosseo, chiuso per assemblea sindacale fino alle 11 con i turisti rimasti fuori. Pugliese, 54 anni, laurea in Lettere a Firenze, è approdato al Collegio Romano dopo una lunga esperienza alla direzione editoriale della Treccani e alla Fondazione Italiani/ Europei. L’incontro avviene anche a pochi giorni da una circolare, firmata dalla segretaria generale del suo ministero — Antonia Pasqua Recchia — che costringe direttori di musei, responsabili di siti archeologici e funzionari della soprintendenza a una scadenza triennale. Un provvedimento che — se non corretto per tempo — finirebbe per stremare definitivamente il corpo già consunto dei Beni Culturali.
Ministro Bray, come intende intervenire?
«Il linguaggio della normativa appare molto brusco, ma voglio assicurare che tutti coloro che hanno lavorato bene resteranno al loro posto. È un impegno che intendo onorare».
Ma c’era bisogno di questa circolare? Per molti è una beffa: oltre le difficili condizioni di lavoro, anche il sospetto di corruzione…
«Il provvedimento risponde a una sollecitazione della normativa europea, poi bisogna vedere l’obbligatorietà della sua applicazione.
Ho chiesto un approfondimento su questo. Ripeto: chi ha lavorato bene non sarà spostato».
Salvatore Settis fa notare che chi ha scritto quella circolare ignora completamente cosa vuol dire conoscere un territorio e tutelarlo. E che l’effetto potrebbe essere quello di paralizzare la tutela. Lei era stato informato dalla dottoressa Recchia?
«Appena l’ho saputo, ho cominciato a pensare quali potessero essere le soluzioni più adeguate. Sicuramente bisogna mettere mano a un assetto organizzativo che in molti punti va rivisto. Anche per questo sto per nominare una commissione che si occuperà della riorganizzazione del ministero, oltre che del rapporto con i privati e dell’integrazione tra Turismo e Beni Culturali. Questa integrazione può rappresentare la vera scommessa per il futuro, anche in vista dell’Expo ».
Fermiamoci alla riorganizzazione del ministero. La tendenza degli ultimi anni è stata quella di rafforzare il corpaccione burocratico, indebolendo la parte che provvede alla tutela del territorio. Pensa di andare in controtendenza?
«Esiste un problema di pesi e misure tra burocrazia centrale e tutela del territorio, che occorre riequilibrare. Sono persuaso che bisogna potenziare le soprintendenze e le direzioni dei musei e dei siti archeologici. Abbiamo strutture che si reggono in piedi per miracolo, grazie alla tenacia di alcuni servitori dello Stato. È ovvio che non possiamo permetterci di offenderli, ma dobbiamo al contrario valorizzarli, con adeguati strumenti e un opportuno riconoscimento economico. Questo rappresenta un cambio radicale di mentalità».
Vuol dire che non accadrà più un episodio come quello della circolare di pochi giorni fa?
«Vuol dire che, più il ministero sarà una macchina efficiente, più il ministro avrà accesso rapido alle notizie, anche dalla periferia. Oggi, per comunicare, possono passare anche alcuni giorni. La scelta della commissione è anche in relazione alla spending review
che ci impone tagli molto severi: in questo modo evito di attuare i tagli così come ci sono stati chiesti».
Come funzionerà il nuovo organismo? Come lei sa, già il termine ‘commissione’ suscita molte diffidenze…
«No, qui si tratta davvero di cambiare le cose. Il modello è quello anglosassone. Personalità di alto profilo tecnico faranno una serie di audizioni con coloro che operano nel territorio. Alla fine sarà stilato un piano preciso di proposte, che il ministro porterà all’interno del governo. A questa commissione sarà affiancata una più piccola, che preparerà un codice per la manutenzione del paesaggio: anche qui occorrono regole certe».
Ma le risorse ci sono? Quelle dei Beni Culturali
sono sempre più irrisorie: lo 0,2 per cento della spesa pubblica, rispetto all’1 per cento della Francia e 1,5 per cento della Germania.
«Arrivato al ministero, ho trovato 8 mila bollette non pagate per un totale di 40 milioni di euro. Per le emergenze così frequenti in Italia, il fondo è passato da 87 milioni del 2007 ai 27 milioni del 2013. E il programma ordinario dei lavoro pubblici — quello con cui facciamo la tutela del territorio — è precipitato da 200 milioni del 2006 ai 47 milioni del 2013. Questo è il bilancio che ereditiamo. Ora mi aspetto che si trovino ben altre risorse».
Ma che cosa la induce a ottimismo?
«Sono convinto che il premier Letta voglia mettere al centro del programma di governo l’emergenza culturale. Mi ha anche chiesto di preparare un piano di lavoro».
Tradotto in cifre, quanto si aspetta? Intanto il Colosseo è rimasto chiuso per lo sciopero dei lavoratori del Mibac.
«Non posso indicare numeri. Mi aspetto però di avere le risorse per alcune priorità. Innanzitutto la questione del personale, ridotto allo stremo. E poi interventi urgenti. Entro dicembre, devono partire i cantieri per Pompei, trovando il modo di utilizzare le risorse europee. Mi piacerebbe mettere in moto un sistema virtuoso sulle dimore borboniche intorno alla reggia di Caserta. E vorrei realizzare un archivio del Novecento, utilizzando una delle nostre caserme. Molti dei nostri archivi sono in affitto, e noi paghiamo cifre assai consistenti».
La nuova commissione si occuperà anche del rapporto tra pubblico e privato. In che modo sarà formulato?
«Vorrei regole certe e capacità da parte dello Stato di controllare il lavoro dei privati: i servizi che offrono non sempre sono all’altezza. In queste settimane ho potuto fare un paragone tra le caffetterie e i bookshop del Metropolitan a New York e quelli dei nostri musei: il confronto è impressionante. Non riusciamo neppure a fare le gare per appaltare molti dei servizi: tutto questo deve finire».
La sponsorizzazione dei privati può presentare stili diversi. C’è il modello Della Valle, che sfrutta l’immagine del Colosseo per fini di marketing. E il modello del mecenate americano Packard, che ad Ercolano finanzia la manutenzione ordinaria e il suo marchio non compare da nessuna parte.
«Mi auguro che gli imprenditori italiani si convincano che si tratta di valorizzare un bene culturale, non di sfruttarlo sul piano commerciale: chi pensa esclusivamente al proprio ritorno economico non troverà nel ministro un alleato ma un freno sicuro. E regole chiare glielo impediranno».
Ora lei si deve misurare con la crisi delle fondazioni musicali.
«Da qui a una settimana potremo vedere chiudere il Maggio Fiorentino, una delle più prestigiose rassegne musicali. Stiamo cercando una soluzione che ne garantisca il proseguimento. Mi sembra però che questa ed altre vicende ci spingano verso una grande riforma. Disponiamo di 14 fondazioni, pochissime in equilibrio di bilancio: complessivamente il debito ammonta a 330 milioni di euro. Non è possibile che lo Stato sia chiamato a pagare a pie’ di lista forme di gestione non certo ottimali. È il momento di restituire alle istituzioni pubbliche la possibilità di intervenire nell’amministrazione di queste fondazioni».
Al Maxxi erano attesi nuovi fondi dai privati.
Per questo era stata chiamata Giovanna Melandri, affiancata da figure come quelle di Beatrice Trussardi e Monique Veaute. Sono arrivati questi finanziamenti?
«Ho appena ricevuto dal Maxxi il bilancio del 2012: il nostro ministero vi ha investito 3 milioni e 400 mila euro, l’attività dei privati ammonta a un milione e 300 mila euro. Nel 2013 ci si chiede un impegno maggiore. Anche qui c’è qualcosa che va rivisto. Lo Stato non può essere chiamato solo per ricavarne fondi, ma deve essere coinvolto nella gestione e nella parte scientifica. I comitati tecnici mi aiutano: erano stati colpevolmente aboliti, e io sono riuscito a ripristinarli. Significa poter contare su competenze rigorose, e non sulla discrezionalità di qualche dirigente a cui era stato dato troppo potere».
Ministro Bray, ma se domani Letta non le desse le risorse che lei si aspetta, sarebbero pronte le sue dimissioni?
«No. Più che di atti individuali, il paese ha bisogno di fare sistema. Le attese dei cittadini sono enormi, e le classi dirigenti hanno l’obbligo di non ignorarle».

La Repubblica 24.06.13

"Perché abbiamo bisogno di politica", di Ilvo Diamanti

Ormai ci stiamo rassegnando alla precarietà. Alla provvisorietà come condizione stabile. Può apparire un discorso scontato, ma per questo è più significativo. Perché ci capita di ascoltarlo e di ripeterlo ogni giorno. In automatico. A proposito del lavoro, dei giovani, dell’economia, del mercato. Della politica. Già: la politica. Che offre rappresentanza e rappresentazione agli orientamenti e ai comportamenti pubblici dei cittadini. È il teatro della provvisorietà. Oggi: perché il domani non è pre-visto. In fondo, il governo guidato da Enrico Letta è “a tempo”. Non è stato formato per governare fino al termine della legislatura. Ma per fare le riforme necessarie a sbloccare il Paese bloccato. Per mantenere i conti in ordine, rilanciare lo sviluppo. Per rispettare i patti con l’Europa e i partner internazionali. Per riformare la legge elettorale e il bicameralismo, troppo perfetto per permettere governabilità. Per cui non è dato di conoscere quanto durerà il governo. Perché non è possibile sapere quanto tempo richiederà il rispetto di questi impegni. La legge elettorale: nella storia della Repubblica è stata “riformata” solo per via referendaria, nel 1991 e nel 1993. O con un colpo di mano, dal centrodestra, nel 2005. Per impedire a chiunque, dunque all’Ulivo di Prodi, di conquistare una maggioranza vera.
Così è impossibile ipotizzare “quando” si troverà un accordo largamente condiviso su una legge elettorale che non sia il restyling di quella esistente. E se la durata del governo dipende dalla legge elettorale, non è possibile sapere quanto possa durare. Il lavoro dei saggi serve, come quello dell’analoga commissione istituita da Monti, a “prendere tempo”. Tanto le riforme elettorali – tanto più quelle istituzionali – sono e restano una questione politica, più che di saggezza.
Naturalmente un governo serve, all’Italia. Anche se la sua agenda è scritta dalle emergenze. In equilibrio instabile fra consenso interno e vincoli esterni. Fra Iva, Imu e parametri Ue. Difficile, in queste condizioni, immaginare il futuro. Tanto più che il governo si appoggia su forze politiche in sostanziale contrasto fra loro. Berlusconiani e antiberlusconiani. Costretti a coabitare dall’assenza
di maggioranze politiche chiare e stabili. In Parlamento e nella società. Anche su questa “provvisorietà” si fonda il potere di Letta. Il punto di equilibrio di una maggioranza in equilibrio instabile. Che deve mantenere l’equilibrio, un giorno dopo l’altro. Per non precipitare. Insieme al governo di questo “Paese provvisorio” (titolo di un saggio profetico di Edmondo Berselli). D’altronde, quale “domani” propongono i partiti maggiori della maggioranza? Il Pd è in attesa delle “primarie”. Un partito con una leadership provvisoria. In attesa di Renzi. Il quale deve preoccuparsi – e si preoccupa – di questo. Perché essere considerato un leader senza esserlo formalmente, per un periodo in-certo, logora. Il Pdl. Liquidato dal leader maximo e unico. Silvio Berlusconi. Che ha deciso di ri-fondare – un’altra volta – il proprio partito personale. Tanto più e soprattutto dopo l’insuccesso alle elezioni politiche e la disfatta alle amministrative. Berlusconi, d’altronde, è, per definizione, in una situazione provvisoria. Tra un processo e l’altro. Tra un grado di giudizio e l’altro. Come può organizzare il futuro politico, per sé e per gli altri? Il centro, costruito da Monti e da Casini, non c’è più. È durato fino al voto di febbraio. Poi si è liquefatto. E oggi procede diviso. Anche se è difficile dividere quel che non c’è. Per cui, la maggioranza non ha futuro. Solo un presente.
E l’opposizione? Il M5S è l’attimo. Un non-partito istantaneo. Per linguaggio, comunicazione e modello organizzativo. Si riflette nell’immagine e nelle iniziative del leader. Il M5S. È emerso all’improvviso. Ed è cresciuto in fretta. Troppo. Anche rispetto alle attese di Grillo. Così procede incerto. Un autobus senza una mèta precisa. Molti passeggeri e abbonati, che fino a pochi mesi fa erano saliti in massa, ora scendono. Talora “cacciati” dal conducente. Più spesso, alla ricerca di un altro veicolo con cui viaggiare. Verso non-si-sa-dove.
Per queste ragioni, e non solo, neppure il Parlamento ha una durata pre-stabilita. Perché dipende dalla “missione” della maggioranza – provvisoria – che sostiene il governo. È un Parlamento di scopo, come il governo. Non si sa quanto durerà. Lo stesso Giorgio Napolitano è il simbolo della provvisorietà del nostro tempo. Lui: a quasi novant’anni, di nuovo Presidente. Costretto dall’emergenza. Dall’assenza di alternative. Egli stesso ha dettato l’agenda di questo governo – e, dunque, di questo Parlamento – di scopo. Che deve durare il tempo necessario per affrontare le emergenze – economiche e istituzionali. Giorgio Napolitano: l’uomo dell’Emergenza, non della Provvidenza. Un Presidente di scopo. Per senso del dovere. E per necessità.
Così viviamo tempi provvisori. Di passaggio. Verso non si sa dove né cosa. Sicuramente, senza più futuro. Perché il futuro è stato abolito, dal nostro linguaggio e dalla nostra visione. Finite le ideologie, che sono narrazioni di lunga durata. Oggi tutto è marketing. Storie e slogan. Da rinnovare di continuo. Il futuro: se ne sta fuggendo insieme ai giovani. D’altronde, siamo tutti giovani. Adulti e anziani: non invecchiano mai. Nessuno accetta lo scorrere del tempo. Così i giovani, quelli veri, se ne stanno sospesi. Sono una generazione né-né. Né studenti né lavoratori. In Italia sono oltre due milioni (fonte Istat). Quasi un quarto della popolazione tra 15 e 29 anni. Il livello più alto nella Ue. Secondo Eurostat, inoltre, quasi 700 mila giovani italiani, nel 2012, si sono trasferiti all’estero per lavoro. Per non parlare di quelli che ci sono andati per motivi di studio. E chissà quando e se rientreranno. D’altronde 8 italiani su 10 pensano che i giovani, per fare carriera, se ne debbano andare altrove. Comunque, fuori dall’Italia (Demos, gennaio 2013).
È questo il nostro problema più grande, oggi: l’abitudine alla “precarietà”. La rimozione del futuro. Perché il futuro è passato. Emigrato. All’estero. E ci ha lasciati qui. Sempre più vecchi, ma incapaci di ammetterlo. Noi, passeggeri di passaggio in questo Paese spaesato: abbiamo bisogno di Politica. Perché senza Politica è impossibile prevedere. Progettare il nostro futuro. E senza pre-vedere, senza progettare o, almeno, immaginare il futuro, senza un briciolo di utopia: non c’è Politica. Ma solo “politica”. Arte di arrangiarsi. Giorno per giorno.

La Repubblica 24.06.13

"L’Italia non è la Francia", di Carlo Galli

Modificare la Costituzione può significare l’attivazione del potere costituente, che realizza una piena discontinuità sistemica e ordinamentale: è quanto è accaduto, attraverso una guerra civile, nel passaggio dallo Statuto albertino alla Carta repubblicana. Oppure può significare una profonda sostituzione degli assetti materiali della costituzione vigente.
Un ri-orientamento di fatto dei poteri sociali verso nuovi rapporti e nuovi valori. È quanto è avvenuto nel travagliato passaggio dal compromesso keynesiano fra capitale e lavoro che reggeva la fase centrale e finale della Prima repubblica alla flessibilità e alla subalternità normativa del lavoro che insieme alla disciplina di bilancio imposta all’Italia dall’interpretazione austera delle regole dell’euro connota la Seconda repubblica. Infine, può significare la riscrittura, secondo le procedure previste, di alcune parti della costituzione, come si è iniziato a fare per un input governativo che avrà il suo esito conclusivo nella discussione e nella decisione parlamentare, in commissione e in aula.
Al di là del giudizio che si può dare sull’uso dell’art. 138 per modificare (sia pure senza stravolgerle) le stesse procedure della modifica, è chiaro che le trasformazioni della costituzione non possono essere troppo estese, perché se lo fossero si scriverebbe un’altra costituzione, il che non è possibile se non a patto di una lacerazione radicale dell’ordinamento. E non basta salvaguardare i Principi fondamentali della Carta: alla sua essenza qualificante appartengono tutta la prima parte e quelle Sezioni e quei Titoli della seconda in cui si delinea la fisionomia complessiva della repubblica. Ogni intervento non può che essere correttivo di questa fisionomia e dell’impianto complessivo dell’ordinamento, e non può rivoluzionarla.
Quindi, i suggerimenti di modificare la forma di governo da parlamentare a semipresidenziale sono di assai dubbia praticabilità, data la grande distanza che intercorre fra un’ipotesi che colloca il baricentro del potere nelle due teste del potere di governo, con due distinte forme di legittimazione (popolare per il Capo dello Stato che, dotato di caratteristiche iperpolitiche vicine al plebiscitarismo, orienta pesantemente l’azione dell’esecutivo; e parlamentare per il Primo ministro), e un’altra ipotesi, quella italiana, che fa del Parlamento il centro della politica. Se da molti segni si può sostenere che da gran tempo le due Camere hanno perduto centralità, e che quindi perché la crisi del parlamentarismo non blocchi l’intera vita politica del Paese è necessario rinvenire un diverso principio d’ordine che metta in sicurezza il processo politico e l’inerente capacità decisionale, non è per nulla detto che tale principio debba e possa essere il semipresidenzialismo, che sbilancia e riscrive l’intero ordinamento. È infatti sufficiente a tal fine che la figura del Presidente del Consiglio venga rafforzata con l’attribuzione del potere di nomina e di revoca dei ministri, e che si introducano la fiducia politica della sola Camera bassa, eletta a suffragio universale, e la sfiducia motivata. In tal modo il Presidente del consiglio si trasforma in primo ministro, relativamente al sicuro dall’instabilità parlamentare, ma al tempo stesso l’impianto dei poteri dello Stato resta equilibrato, e non va perduto il potere neutro di garanzia, a geometria variabile, del Capo dello Stato eletto dal Legislativo allargato. Si ricordi che la Francia può fare a meno del Capo dello Stato «neutro» solo perché ha nell’amministrazione un potere di fatto stabilizzante, sottratto alla politica e garante della continuità repubblicana; mentre nulla di simile ha il nostro Paese, che politicizzando radicalmente il Capo dello Stato otterrebbe verosimilmente risultati di instabilità sistemica e di assenza di garanzie per la neutralità dell’ordinamento.
E ci si ricordi soprattutto che se è ovvio che il sistema istituzionale non può essere riformato per cambiare il sistema elettorale, dovrebbe essere altrettanto ovvio che se il sistema politico (i partiti) non funziona (perché la costituzione materiale, modificata, è sfuggita di mano alla politica), se non è vitale il nesso fra i cittadini e la cosa pubblica, se questa collassa sotto poteri o privati o esterni al circuito politico nazionale, al controllo dei cittadini, allora il semplice cambiare la costituzione non ridarà forza alla politica; piuttosto, renderà l’Italia simile all’ammalato di Dante, che si gira vanamente nel letto credendo così di sfuggire al male, e «con dar volta suo dolore scherma».

L’Unità 23.06.13

"Cnr, i novant’anni della ricerca Il compleanno si festeggia il 25 giugno. Occasione per rilanciare il sapere", di Pietro Greco

Il Consiglio Nazione delle Ricerche (Cnr), che con i suoi 8.000 dipendenti e la sua gamma di attività in tutto lo scibile umano è il massimo ente scientifico del nostro Paese, compie novant’anni. Il compleanno sarà festeggiato il prossimo 25 giugno a Roma, alle ore 11 nell’aula convegni della sede centrale dell’ente alla presenza del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Non è una festa di compleanno qualsiasi. È piuttosto un’occasione, che non va sprecata, per rilanciare – anzi, per rifondare – la politica di ricerca del nostro Paese sulla base delle due grandi indicazioni che, un secolo fa, mossero il genio di Vito Volterra prima a pensare e poi a creare il Cnr: da un lato progettare l’unico sviluppo possibile per il nostro paese, quello fondato sulla conoscenza; dall’altro fondare questo modello di sviluppo su una struttura di ricerca pubblica dotata di massa critica e dei caratteri di internazionalità, interdisciplinarità e gelosa autonomia.
All’inizio del secolo scorso il senatore Vito Volterra è già un ricercatore molto conosciuto per le sue capacità sia nel campo della matematica pura (è un gigante dell’analisi funzionale), sia nel campo della fisica matematica (ha ottenuto risultati brillanti nel campo della teoria della luce e dell’elasticità) sia in un campo che ha praticamente fondato, l’applicazione dei modelli matematici all’ecologia. Ma è anche un «politico della ricerca» considerato tra i migliori al mondo. Partecipa infatti al Consiglio internazionale delle ricerche e, con i grandi della scienza europea, condivide due idee: la scienza è la nuova leva dello sviluppo culturale, civile ed economico del mondo; la scienza è un’impresa globale, che travalica i confini delle nazioni.La prima guerra mondiale – non a caso definita la «guerra dei chimici» – rafforza la prima convinzione: la conoscenza scientifica si trasforma in tecnologia d’avanguardia. Ahimé anche in tecnologia militare. Ma riduce a pezzi la seconda: la comunità scientifica europea si è divisa e la gran parte degli scienziati, Volterra compreso, si è prestata a servire gli «interessi nazionali».
È da qui che bisogna ripartire, una volta che la guerra finisce. Ed è da qui che Volterra riparte per riproporre la sua politica della ricerca. La sua analisi è semplice. L’Italia non è nel novero dei Paesi più ricchi e avanzati. Anche il conflitto lo ha dimostrato. Ma in quel novero può (deve) rientrare. Per farlo deve far leva sull’innovazione tecnologica, figlia della ricerca scientifica. Dunque, l’Italia deve dotarsi di un sistema di ricerca robusto e integrato con quello degli altri paesi europei. C’è un’unica possibilità: l’intervento dello stato. Sono le istituzioni pubbliche che devono creare un’organizzazione che consenta a una massa critica di ricercatori di fare a tempo pieno e in condizioni di autonomia e libertà sia scienza fondamentale sia scienza di base. Nulla deve distrarli, neppure la didattica che sottrae tempo ai docenti universitari.
Malgrado Volterra sia persona autorevole e influente sia nella comunità scientifica sia nella comunità politica, il suo progetto fa fatica ad affermarsi. Ma Volterra non è tipo da arrendersi facilmente. E alla fine la spunta. Il 18 novembre 1923 il Consiglio Nazionale delle Ricerche vede finalmente la luce. E lui, Vito Volterra, ne è il presidente.
Sembra quasi uno scherzo della storia. Perché il governo che fa nascere il Cnr è quello di Benito Mussolini. E il capo del fascismo persegue una linea politica che è l’esatto opposto dei caratteri con cui Volterra vuole modellare la sua creatura. È centralista, mentre il Cnr rivendica autonomia. È autarchico, mentre il Cnr vuole integrarsi nel sistema di ricerca internazionale. Non ha una cultura scientifica, mentre Volterra pensa l’Italia intera debba in ogni dimensione – civile, sociale, economica – far leva sulla cultura scientifica.
L’esito è scontato. Non passano tre anni e Volterra è già fuori dal suo Cnr. Il Duce, nel tentativo di salvare la faccia davanti al mondo, chiama alla presidenza un italiano molto noto: Guglielmo Marconi. Qualche anno dopo Volterra è tra i pochissimi docenti che rifiuta il giuramento al regime ed è costretto a lasciare anche l’università.
Sotto la direzione dell’inventore della radio, il nuovo grande strumento di comunicazione di massa, il Cnr cresce. Ma non diventa il sale di una nuova Italia, moderna, fondata sull’innovazione e sulla a scienza. Non è questo l’obiettivo del regime fascista.
Bisogna aspettare la fine dl regime e del secondo conflitto mondiale perché il progetto di Volterra possa ripartire. Non mancano le difficoltà. Eppure in pochi anni il Cnr cresce e raggiunge almeno tre obiettivi.
Come agenzia, finanzia molti progetti scientifici. Alcuni dei quali consentono a quella italiana di ritagliarsi un ruolo di prestigio nella comunità scientifica internazionale. Il Cnr, per esempio, dà un importante contributo alla creazione del Cern, il laboratorio di fisica delle alte energie che è la prima istituzione in assoluto di un’Europa che vuole diventare unita dopo secoli di guerre laceranti.
Come ente pubblico che fa ricerca in proprio e in settori sempre più vasti: dalla matematica alle scienze umane. Il rapporto tra ricerca di base e ricerca applicata trova un buon equilibrio con i Progetti Finalizzati.Come incubatore di nuove iniziative: è dalle costole del Cnr che nascono sia istituzioni di grande qualità sia nell’ambito della ricerca di base (come l’Infn, l’Istituto nazionale di fisica nucleare) sia di ricerca applicata (il Cnen, il Comitato nazione per l’energia nucleare o il Progetto San Marco con cui Luigi Broglio fa dell’Italia il terzo paese a inviare un satellite nello spazio).
Non sono mancati negli ultimi anni le polemiche sul Cnr. Molte sono state del tutto pretestuose. Come quelle che hanno dipinto l’Ente come una sorta di carrozzone improduttivo. Malgrado il continuo taglio di fondi e le continue riforme (a costo zero) il Cnr è tra i primi centri di ricerca al mondo per produttività.
Le riforme, appunto. Negli ultimi vent’anni sono state diverse. E di diverso segno. Una, quella tentata una decina di anni fa da Letizia Moratti, ha teso a erodere l’autonomia dell’Ente e, nel medesimo tempo, a ridurlo a una sorta di grande centro di sviluppo tecnologico per le imprese italiane. Ma l’allora presidente, Lucio Bianco, seppe resistere con grande dignità e notevole efficacia.
Restano gli interrogativi per il futuro. Quale ruolo per il Cnr? Non è semplice rispondere a questa domanda. Neppure per un presidente, Luigi Nicolais, e un ministro per la ricerca, Maria Chiara Carrozza, certamente competenti. L’ente non ha più la funzione di agenzia. Ma deve continuare a svolgere ricerca, di base e applicata, ad ampio spettro. Deve inoltre recuperare la capacità di incubare e gemmare nuove piste di ricerca. Nuove iniziative. Perché se non lo fa il Cnr non lo fa nessuno. Per realizzare tutto questo Luigi Nicolais e Maria Chiara Carrozza dovranno recuperare risorse. E non sarà facile. Ma potranno operare al meglio se terranno presenti le indicazioni di Volterra: autonomia, interdisciplinarità e internazionalità. E soprattutto se si porranno nella prospettiva di Volterra: fare del Cnr la leva per portare il paese, dopo trent’anni di declino economico, nell’era della conoscenza. Perché, proprio come un novant’anni fa, l’Italia non è nel novero dei Paesi più avanzati. E solo puntando sulla scienza può sperare di recuperare il tempo perduto.

23.06.13

"La vera priorità", di Michele Prospero

Il lavoro è democrazia. Con questo slogan si è svolta la manifestazione unitaria dei sindacati a piazza San Giovanni. È tornata così a parlare, dopo le nefaste consuetudini di divisioni e di accordi imposti con firme separate, quella parte di società che più paga la crisi ed è meno rappresentata. Non c’è nulla di più semplice nella galassia della comunicazione che la rimozione del lavoro, delle sue parole, dei suoi simboli, dei suoi riti.

Senza lo spirito di lotta, e quindi senza il ritorno visibile dei sindacati nello spazio pubblico, il lavoro non esce dalla naturale spirale del silenzio. E, nel vuoto della rap- presentanza politica, crescono la rabbia, la sensazione di impotenza nei confronti di un fato inarrestabile. Dopo sei anni ininterrotti di crisi-contrazione e di duri sacrifici che si susseguono senza aprire alcuno spiraglio positivo, è un bel segnale che il lavoro si mobilita. E la recuperata soggettività del lavoro fa molto bene anche alla democrazia perché la rende immune da insane sensazioni di panico e dagli spasmi di decadenza, che sempre accompagnano la crisi verso gli abissi.

Con le sue politiche immediate, il governo dovrebbe anzitutto impedire che il malessere sociale e la crisi democratica si intreccino. Non conduce certo molto lontano l’illusione che al primo posto dell’agenda di un governo di emergenza occorra mettere il tema dei costi della politica. L’antipolitica vince perché c’è un disagio sociale profondo che non trova risposte efficaci e per questo genera ansia, suscita rivolta sorda in ogni segmento della cittadinanza. L’antipolitica è in tal senso un sintomo, non la causa della volontà nichilistica di ribellione diffusa.

Non durerebbe molto a lungo il governo se pensasse che sopravvivere significa accontentare un po’ la piazza (con i tagli simbolici dei finanziamenti ai partiti) e accordare poi udienza al palazzo con le sue richieste di cedimenti sul terreno della legalità (aggirare le stringenti procedure per la decadenza del parlamentare Berlusconi in caso di condanna definitiva del reo). Con queste alchimie, navigherebbe solo per un po’, prima di urtare contro gli scogli e affondare in maniera rovinosa.

Dalla piazza del lavoro organizzato viene indicata al governo la sola strada giusta per conservare la democrazia in un tempo di crisi. In un Paese che spicca nel mondo per la assoluta mancanza di crescita, gli investimenti disponibili vanno indirizzati avendo come priorità inderogabile il lavoro. Il lavoro, che per intere generazioni manca o è precario, intermittente, privo di valore va imposto come la grande emergenza. Va tutelato il lavoro, che i media descrivono come un’isola di assoluto privilegio quando invece da vent’anni subisce una eccezionale perdita di salario, di diritti, di capacità di consumo, di protezioni sociali minime.

La tendenza storica del capitale – si sa – è quella di cercare una espansione che procede «con la messa in libertà» del lavoro, cioè con la spinta, scriveva già Marx, a «rendere più liquido il lavoro», che deve sbrigarsela con una esistenza che «diventa sempre più precaria». Al mercato, che richiede «un lavoratore attivo, ma con una occupazione assolutamente irregolare», ci si può opporre solo con il sindacato, cioè con «una cooperazione sistematica tra i lavoratori occupati e quelli disoccupati». Questa consapevolezza del sindacato (l’obbligo cioè dell’unità di garantiti e non garantiti, contro ogni spinta corporativa) deve essere ancora più forte in condizioni di crisi.

Proprio perché manca lo sviluppo, tocca alla politica combattere la diseguaglianza come agente principale di incertezza, come fattore di squilibrio economico e quindi in sostanza come causa essenziale di decrescita. Non serve certo, per invertire il lungo ciclo recessivo, recuperare vent’anni dopo la vetusta ricetta di Blair, appassita in tutte le culture progressiste d’Europa. Servono invece politiche pubbliche espansive concepite a partire dal lavoro e dalla sua nuova domanda di eguaglianza.

È durata molto poco l’infatuazione dei ceti produttivi del microcapitalismo (due milioni di imprese, con 14 milioni di addetti) per le commedie di Grillo, cui si erano rivolti (come il 40 per cento degli operai!) dopo le delusioni cocenti provocate da Berlusconi e Bossi. La promessa grillina di mandare tutti a casa per poi dedicarsi alla decrescita felice, alla povertà dolce, non è certo una miracolosa ricetta per riaprire i capannoni, per recuperare ai laboratori le commesse che mancano, per indurre la pubblica amministrazione ai pagamenti dovuti.

Dopo il fallimento dei due comici, l’impresa farebbe bene a non fuggire di nuovo nelle illusorie narrazioni dell’antipolitica e a trattare invece con il lavoro le condizioni per la ripresa. Il 70 per cento della produzione è destinata al mercato interno (locale, regionale). È quindi pura miopia non cogliere la centralità del salario e dei diritti dei lavoratori per favorire anche la crescita. La democrazia è lavoro.

L’Unità 23.06.13