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"Che cosa va chiesto a Palazzo Chigi", di Luciano Gallino

Vedere una piazza piena di lavoratori appartenenti alle maggiori confederazioni sindacali che manifestano il loro scontento per lo stato in cui versano l’occupazione e l’economia, mentre i segretari si alternano sul palco per chiedere che il governo assuma finalmente qualche iniziativa seria in tema di politiche del lavoro, è un buon segno per l’intera società – con una nube residua all’orizzonte che speriamo arrivi a dissiparsi. La marcia in ordine sparso dei sindacati italiani, durata un decennio, è costata cara ai lavoratori e all’intera economia. Lo attestano sia i dati sia molte diagnosi sugli effetti della crisi nel nostro Paese. Fra il 1990 e il 2009 la quota salari sul Pil si è ridotta di quasi il 7 per cento in Italia, ma solo del 5 in Germania, del 4 nel Regno Unito, e meno del 3 in Francia. I sette punti in meno andati al lavoro, che in moneta corrente valgono oltre 110 miliardi, sono andati ai profitti e alle rendite. Ma non si sono affatto trasformati in investimenti produttivi. Per quasi tutto il periodo gli investimenti in capitale fisso (impianti, macchinari) sono regrediti, segnando un picco negativo nel 2008-2009. Dove sono finiti profitti e rendite? In prevalenza hanno preso la strada degli investimenti finanziari. Per alcuni anni, questi ultimi hanno reso molto di più degli investimenti nell’economia reale, per cui le imprese hanno destinato ad essi i profitti, in misura maggiore che non negli altri paesi Ue. Con una ricaduta che ha nuociuto anche alle imprese. Infatti almeno l’80 per cento del Pil è formato dai consumi delle famiglie, e se a queste vengono a mancare decine di miliardi l’anno, i risultati si vedono: migliaia di serrande abbassate e d’impianti fermi.
Se mai i sindacati pensassero di presentare unitariamente al governo dei temi su cui discutere, in luogo della pioggerella di miniprovvedimenti sul lavoro che esso ha finora escogitato, c’è solo da scegliere. In primo luogo bisognerebbe chiedere al governo di mettere al primo posto nella sua agenda il tema della piena occupazione. Può sembrare chiedere troppo, di fronte ai numeri della disoccupazione. Il fatto è che se lo scopo primo della politica economica è quello di puntare alla piena occupazione, molte altre politiche ne discendono a cascata in modo preordinato, a cominciare da quelle riguardanti la crescita. Nel caso che il Pil dovesse ricominciare a crescere, ma l’occupazione no — situazione assai probabile — quei tot milioni non ne trarrebbero nessun vantaggio. La piena occupazione non è nemmeno un obbiettivo di sinistra. Uno dei libri più acuti e concreti sull’importanza economica, sociale, politica di porre la piena occupazione in cima all’agenda governativa è stato scritto tempo fa da un grande liberale (William Beveridge).
Nell’agenda del governo i sindacati uniti potrebbero pure chiedere di inserire la distribuzione del reddito e della ricchezza. Il più drammatico mutamento sociale degli ultimi trent’anni è stata la redistribuzione dell’uno e dell’altra dal basso verso l’alto che si è verificata nella Ue come in Usa. La caduta della quota salari in quasi tutti i paesi Ocse è stata soltanto un aspetto di tale redistribuzione alla rovescia, che facendo crescere a dismisura le disuguaglianze ha contribuito non poco a preparare la crisi esplosa nel 2007. I sindacati non hanno molti mezzi per premere in tale direzione, ma almeno uno di peso ce l’hanno: il contratto nazionale di lavoro. La sua funzione è stato ridotta dall’importanza che gli ultimi governi e una parte dei sindacati hanno inteso dare alla contrattazione decentrata. Ma se si vuole restituire ai lavoratori qualcosa di ciò che hanno perso negli ultimi vent’anni, è difficile individuare altre strade che non comprendano la contrattazione a livello nazionale.
Vi sarebbe ancora una richiesta da portare unitariamente al governo: elaborare una politica industriale. Ma non una politica qualunque. Piuttosto una politica che parta da una quasi certezza: i posti di lavoro andati persi dopo il 2007 non saranno mai più recuperati nei medesimi settori produttivi o affini. Il motivo va visto nel grande sviluppo che l’automazione di terza generazione ha avuto in pochi anni. Il suo punto di forza sono i robot intelligenti, capaci di fare moltissime cose che appena un lustro fa soltanto la mano dell’essere umano era capace di fare. Ora si dà il caso che l’Italia sia stato nel triennio 2010-2012 il maggior acquirente di robot industriali d’Europa, dopo l’irraggiungibile Germania. Cessata per ora, con qualche delusione, l’euforia per gli investimenti finanziari, le imprese hanno ripreso a investire in capitale fisso, dando però la preferenza ai macchinari che sostituiscono il lavoro umano. Una politica industriale che guardi un po’ più avanti dell’anno prossimo, dovrebbe quindi essere concepita per attuare una transizione ordinata di masse di lavoratori dai settori produttivi investiti dalla nuova automazione, ad altri settori sia tradizionali che innovativi, purché essi comportino un’alta intensità di lavoro e una difficile sostituibilità da parte delle macchine.
Con proposte del genere, i sindacati di nuovo uniti potrebbero riempire l’agenda del governo per lungo tempo. Tra un intervallo e l’altro della discussione, potrebbero anche cercar di diradare la nube cui ho accennato all’inizio. Va bene l’unità al tavolo del governo. Ma per far avanzare qualsiasi genere di proposta non effimera, sarebbe necessaria anche l’unità ai tavoli dove i sindacati hanno di fronte le imprese. Tale unità al momento non esiste, perché una delle maggiori federazioni a quei tavoli non ha il diritto di sedersi, o di esservi rappresentata. Potrebbe essere giunto il momento di dar attuazione per legge all’articolo 39 della Costituzione, stando al quale tutti i sindacati registrati hanno uguale personalità giuridica.

La Repubblica 23.06.13

"Open data, potere ai cittadini", di Alessandra Longo

Open data significa: ospedali più efficienti, strade più sicure, inquinamento sotto controllo, politica più trasparente. Decine di migliaia di nuovi posti di lavoro grazie alla crescita di servizi e aziende. È un percorso già abbracciato dai principali Paesi al mondo e al quale è chiamata ora anche l’Italia, in forte ritardo. L’ha chiesto la conferenza del G8, questa settimana, sottoscrivendo i cinque principi del l’Open Data Charter (www.gov.uk/government/publications/open-data-charter). L’ha affermato una direttiva europea sull’accesso alle informazioni nel settore pubblico, approvata in questi giorni dal Parlamento Ue. I Paesi membri hanno ora due anni di tempo per rendere disponibili i dati posseduti dalle pubbliche amministrazioni. Per l’Italia sarà un’impresa epica, dati i ritardi strutturali tecnologici che affliggono la nostra Pa. Lo sanno bene all’Agenzia per l’Italia digitale. Questo nuovo ente adesso avrà il compito – tra molte difficoltà – di traghettare l’Italia verso un futuro di trasparenza digitale che per molti Paesi è già presente.
Lo dice un rapporto di Open Knowledge Foundation, pubblicato proprio in occasione del G8: «Siamo al settimo posto su otto per accessibilità dei dati pubblici. Peggio di noi solo la Russia, che certo non è un faro per trasparenza e democrazia…», dice Ernesto Belisario, avvocato, massimo esperto di Pa digitale –. Il problema non è tanto numerico, quanto qualitativo. Le Pa hanno aperto solo dati poco utili e rilevanti: niente sulla sanità e criminalità, per esempio. Sono pochi anche gli enti che li pubblicano: solo alcune decine. Significa che per la stragrande maggioranza delle Pa, gli open data sono fantascienza». Risultato: «Secondo dati Formez, solo l’1% degli open data viene riutilizzato (ad esempio, per applicazioni e infografiche)», aggiunge.
Bisogna guardare all’estero per capire quello che ci perdiamo. «Nel Regno Unito hanno dati open da due anni sulla qualità delle cure ospedaliere. Il risultato è stato che è diminuita la mortalità del 25 per cento. Il motivo è che tutti ora sanno quali sono gli ospedali più efficienti – continua Belisario –. Il Regno Unito ha scoperto che la trasparenza ha migliorato la Sanità laddove nessuna riforma era prima riuscita». Aggiunge Raimondo Lemma, managing director del Centro Nexa-Politecnico di Torino, pioniere di open data: «In Spagna i dati catastali sono disponibili per tutti senza restrizioni. Da noi solo a soggetti accreditati e a pagamento. Ma queste informazioni, come tutte quelle sulle imprese e sul territorio, possono migliorare la pianificazione di un’attività economica». Conferma Belisario: «Questi dati consentono alle imprese di scoprire i luoghi più adatti dove aprire uno stabilimento produttivo; di vedere dove le Pa sono più efficienti su questo fronte e dove ci sono potenziali clienti».
«In Danimarca hanno pubblicato i dati sui numeri civici delle strade. Può sembrare una banalità ma ne derivano servizi per gestire con più efficienza i soccorsi durante un’emergenza – continua Lemma –. Negli Stati Uniti è già possibile, con gli open data, vedere quanto è vivibile un quartiere, per qualità dell’aria e tassi di criminalità». Questo caso di trasparenza – come altri – dà un duplice vantaggio. Uno è immediato: il cittadino può scegliere meglio. Ma un altro è di lungo periodo: scoperchiare i problemi sprona la Pa a correggerli (se non altro per evitare il crollo dell’edilizia cittadina).
È un incentivo anche alle aziende private. Il portale open data di New York City tiene traccia del rispetto delle norme sanitarie da parte dei ristoranti. Risultato: i casi di salmonella sono scesi al minimo degli ultimi 20 anni e i ricavi dei ristoranti sono aumentati del 9,3%, riporta Forrester Research. «In Italia ci sono stati buoni esperimenti: a Torino dai dati pubblici è nato un’app che dà in tempo reale la disponibilità di parcheggi. Ma c’è tanto da fare, anche solo nel settore infomobilità – dice Lemma –. Per esempio sarebbero appetibili, per la nascita di servizi, i dati geolocalizzati. Potrebbero nascerne app che ci consigliano l’autobus giusto da prendere in quel momento per raggiungere un museo prima della chiusura».
Open data è anche dare più potere ai cittadini rispetto alla macchina pubblica. Un potere di controllo sulle sue azioni, certo (in chiave anticorruzione, per esempio); ma non solo. Può essere anche «il potere di sapere che cosa fa il pubblico con i nostri dati personali», dice Lemma. Sarebbe una virata, insomma, contro una deriva che sta spingendo in senso opposto, come dimostrano le intercettazioni di massa compiute dal governo Usa: cittadini resi sempre più trasparenti agli occhi delle istituzioni. Per tutto questo – concordano Belisario e Lemma – le norme non bastano. In Italia già le Pa sarebbero obbligate a pubblicare alcune categorie di dati, dopo la legge 190 del 2012, ma «è necessario prima lavorare sui database delle Pa – spiega a Nòva24 Agostino Ragosa, direttore dell’Agenzia –. Nei prossimi mesi dobbiamo analizzare i database, standardizzare i significati dei singoli dati in base a principi internazionali, dare regole su quali pubblicare e come farlo».
«Il Governo imponga una roadmap stringente alle Pa per aprire i dati», incalza Belisario. Secondo Ragosa, dagli open data possono venire 50mila posti di lavoro e mezzo punto di Pil in più. Ma è anche un’occasione preziosa per salvaguardare la nostra democrazia. Sarebbe un peccato perderla solo per la storica resistenza della nostra Pa al cambiamento.

Il Sole 24 Ore 23.06.13

"Quando Renzi vincerà il gran ballo comincerà", di Eugenio Scalfari

Ci sarebbero oggi molti temi da passare al vaglio; riguardano i mercati, la liquidità, l’accoppiata Iva-Imu, il lavoro, la corruzione. Ma il numero uno dal quale partire riguarda una persona ed un nome. Strano a dirsi: non è Berlusconi, è Matteo Renzi, sindaco di Firenze e probabile candidato alla segreteria del Pd e alla leadership di quel partito. Scioglierà la riserva il primo luglio prossimo ma dall’aria che tira la sua decisione sembra affermativa. E se dirà sì, vincerà perché non ha veri avversari capaci di sbarrargli la strada.
Renzi propone un partito con “vocazione maggioritaria”. Queste due parole significano un partito che combatta da solo per un riformismo radicale con forti venature di liberismo, ma attento anche a non perdere voti a sinistra; sensibile quindi ai temi del lavoro, ad un nuovo “welfare”, a incentivi alle imprese, alla diminuzione del cuneo fiscale, ad un ribasso dell’Irpef, al taglio di ogni finanziamento pubblico ai partiti.
Cercherà di recuperare voti dal grillismo in decadenza e dagli elettori che hanno abbandonato Berlusconi rifugiandosi nell’astensione ma che non voterebbero mai un partito con connotati socialdemocratici. E infine un partito che non metta le dita negli occhi a Berlusconi (Renzi ha dichiarato che voterà contro la sua ineleggibilità perché vuole sconfiggerlo politicamente e non per via giudiziaria).
Una legge elettorale con premio a chi prenda consensi almeno del 40 per cento dei votanti. Questa è la “vocazione maggioritaria”.
La definizione non l’ha inventata Renzi, la coniò e ne fece la sua bandiera nelle elezioni del 2008 Walter Veltroni. Incassò il 34 per cento dei voti e fu giudicata dall’allora nomenclatura di quel partito (nato pochi mesi prima) una sconfitta, mentre a guardar bene le cose era una vittoria avendo raggiunto la cifra massima che il Pci di Berlinguer aveva toccato a metà degli anni Settanta.
Veltroni, in pura teoria, dovrebbe dunque essere lui il candidato che incarni la vocazione maggioritaria ma — vedi caso — si è autorottamato sotto la spinta di Matteo e quindi è fuori concorso.
Dunque Renzi. Tutto bene? Tutti contenti? Parrebbe di sì, con qualche eccezione, ma non stiamo a cincischiare e ad asciugare gli scogli, Renzi vincerà e Berlusconi con i processi e le sentenze se la vedrà per conto proprio. Se decidesse di andarsene in pensione ad Antigua o in qualche altro sito ameno, Matteo gli farà certamente un regalino, un dolcetto, un ricamo, insomma una gentilezza.
Ma Letta e il suo governo? Questo è il punto. Non pensate male: Matteo ha stima di Letta. Lo lascerà lavorare fino a quando avrà realizzato lo scopo per il quale il governo è stato nominato ed è sostenuto dalla strana maggioranza che conosciamo.
Lo scopo, ecco il punto. Su questo Matteo ha idee chiarissime: deve fare quelle tre o quattro cose che la gente si aspetta in tempi di vacche magre: un po’ più di lavoro ai giovani, un po’ di soldi agli esodati, un po’ di cantieri per opere pubbliche locali, l’abolizione del patto di stabilità per i Comuni virtuosi, Senato federale senza poteri di fiducia. E poi a casa. Quando? Mica subito. Diciamo che le elezioni si faranno a primavera del 2014. Letta può lavorare tranquillo fino a Natale prossimo, poi a marzo campagna elettorale e Renzi premier nel prossimo maggio. Questo è quanto.
C’è un punto però: dal prossimo primo luglio, cioè tra una settimana, quando Renzi scioglierà la riserva, tutti gli interessati in Italia e in Europa (e anche in America) sapranno quello che accadrà poi. E comincerà il ballo: sullo “spread”, sui tassi di interesse, sulla speculazione contro il nostro debito sovrano, sull’evasione fiscale, sul rigorismo tedesco e via enumerando. Un ballo che durerà almeno un anno, per cui quelle “tre o quattro cose” che Letta dovrebbe fare entro il prossimo marzo finiranno nel pallone. Il fatto che il congresso riguardi soltanto la carica di segretario del partito non cambia le cose perché se Renzi lo diventerà avrà la guida di una gamba del tavolo parlamentare, e che gamba!
Dunque niente Renzi? A me era antipatico, poi a Firenze, nel corso della nostra “Repubblica delle Idee” l’ho conosciuto e mi è parso simpatico; ma le cose stanno esattamente come ho fin qui esposto. Se si presenta vince, se vince comincia il ballo (al quale anche Berlusconi parteciperà). Allora gli scogli bisognerà asciugarli e francamente non vedo nessuno che ci possa riuscire. *** Ma i mercati — mi si obietterà — sono agitati anche adesso, da qualche giorno le Borse perdono colpi in Europa, ma anche a Tokyo e anche a New York; lo “spread” italiano (e quello spagnolo) hanno perso terreno, il nostro veleggiava verso i 240 punti e adesso è di poco sotto ai 300; il dollaro è debole rispetto all’euro, la Fed fa intravedere che tra sei mesi potrebbe cessare l’acquisto di titoli di Stato e aumentare il tasso di sconto. Draghi dal canto suo è alle prese con i falchi della Bundesbank, dietro ai quali, secondo i sondaggi, c’è il 48 per cento degli elettori che vorrebbe l’uscita della Germania dall’euro.
Ebbene sì, i mercati sono allarmati per tutti questi “rumors” ai quali bisogna aggiungere anche la crisi di governo in Grecia, ipotesi tutt’altro che incoraggiante. Ma sono cosucce, pinzellacchere come avrebbe detto Totò. Ci fanno misurare che cosa accadrebbe quando il gran ballo ripartisse avendo l’Italia come epicentro.
Intanto noi dobbiamo risolvere, entro la settimana che comincia domani, il problema del rinvio dell’Iva per almeno sei mesi, che porta con sé l’abolizione dell’Imu (il problema del rimborso è di fatto archiviato). Per fare queste operazioni ci vogliono, secondo una stima attendibile, otto miliardi che non ci sono. Letta e Alfano hanno deciso di attendere Saccomanni il quale venerdì aveva incassato l’uscita formale dell’Italia dalla procedura di infrazione per eccesso di deficit. Gli effetti concreti di quell’uscita — che valgono una disponibilit à di risorse per mezzo punto di Pil, pari a una decina di miliardi — si produrranno a gennaio 2014, ma il tema dell’Iva è invece immediato ed è richiesto con forza dal Pdl, dal Pd, dai commercianti e dagli industriali.
Scrivendone domenica scorsa dissi che Saccomanni avrebbe trovato la soluzione. La conosceremo domani o al massimo martedì, ma mi sento di confermare quanto scrissi la settimana scorsa: il ministro del Tesoro, d’intesa con Letta, proporrà il solo rinvio dell’Iva e delle rate Imu all’autunno (ottobre-novembre). Per l’Imu l’imposta sarà abolita e sostituita con un’imposta sugli immobili quale esiste in tutti i paesi dell’Occidente, nel quadro d’una riforma generale del fisco. Per l’Iva si manovreranno le aliquote per scelte merceologiche secondo criteri di equità. Nel frattempo, entro le prossime quaran-tott’ore, ci vogliono dai 3 ai 4 miliardi per rinviare l’Iva di sei mesi e indennizzare i Comuni per il rinvio dell’Imu. Non avendo “tesoretti” da mettere sul tavolo, ci vorranno nuove imposte o tagli equivalenti. Una soluzione sarebbe di colpire le rendite, un’altra di alienare o cartolarizzare beni pubblici di facile spendibilità: sarebbe un taglio “una tantum” ma anche il rinvio Iva è un “una tantum”.
Credo che sarà questa la strada. Si tratta di una scelta di forza maggiore e anche Alfano — dopo aver schiarito l’ugola con qualche colpo di tosse — dovrà rassegnarsi e digerire il rospetto. È molto piccolo rispetto a quanto può arrivare. *** Aggiungo, per chiuderla qui, che se le politiche economiche hanno un senso, all’eventualità di una politica meno espansiva della Federal di Bernanke (o del suo successore) la Bce dovrebbe agire in senso opposto. Se Bernanke chiude il rubinetto perché spera che l’America stia superando la crisi, Draghi deve mantenerlo
aperto affinché i mercati non sentano la stretta. E se il cambio euro-dollaro vedesse un indebolimento controllato della moneta europea, per esempio attorno a 1.20 dollari per un euro, sarebbe un fenomeno positivo per le nostre esportazioni e una politica anticiclica come è compito della Banca centrale.
Ci vuole una ferma e prestigiosa pressione di Letta e di Hollande (con l’appoggio di Obama e di Cameron) nei confronti di Merkel e di Schäuble, e della Corte di Lussemburgo nei confronti di quella di Karlsruhe. Insomma un’azione politica di lungo raggio che è la condizione permanente per consentire a Letta di fare quelle “tre o quattro cosucce” delle quali c’è estremo bisogno.
Post scriptum.
La notizia sulla quale richiamo l’attenzione dei lettori è la decisione di Mediobanca di metter fine alla politica dei patti di sindacato che, per oltre mezzo secolo, hanno ingessato il capitalismo italiano in una situazione di oligopolio finanziario e industriale.
Mediobanca uscirà gradualmente ma senza ripensamenti da quasi tutti i patti di sindacato o alleggerirà molto la sua presenza. I sindacati dei quali si tratta sono la Telecom (Telco), la Rizzoli, la Pirelli, l’-I-talmobiliare. Nelle Generali scenderà del 3 per cento restando azionista col 10.
Si tratta d’una novità assai importante che aumenterà la concorrenza e attirerà fondi di investimento e investitori istituzionali esteri. Dopo mezzo secolo Mediobanca toglie le bende a un sistema che era ormai mummificato, si tratta di un evento positivo che come tale va valutato.

La Repubblica 23.06.13

"Tasse, scontro nel governo. Replica Alfano-Franceschini", da unita.it

Prima l’ultimatum di Angelino Alfano, poi un fuoco di fila di dichiarazioni di esponenti Pdl che sempre più esplicitamente minacciano la vita del governo, cui replicano altrettanti esponenti Pd. Fino alla nota del ministro Dario Franceschini che ricorda al segretario pidiellino che lanciare diktat contro il governo significa «lanciarli contro se stesso», visto il ruolo di primo piano ricoperto nell’esecutivo dallo stesso Alfano.

Torna a scaldarsi il clima sull’Iva, con il primo palese scontro tra ministri dei due principali partiti, mentre si avvicina la scadenza di mercoledì 26, giorno in cui è fissato il Consiglio dei Ministri che dovrà prendere una decisione sull’aumento di un punto che – senza interventi – scatterebbe il 1 luglio. Ma Enrico Letta con i suoi collaboratori resta fiducioso che un’intesa si troverà, anche perchè in caso contrario «si va a sbattere». «Dovremo trovare un punto di mediazione – ragionano dallo staff del premier – altrimenti ognuno si dovrà assumere le sue responsabilità. L’imbuto si sta stringendo, o troviamo una convergenza o si va a sbattere». Del resto, ricordano da palazzo Chigi, che questo fosse un governo di mediazione dovrebbe essere chiaro a tutti: «Non è nè il governo del Pd nè quello del Pdl, e dunque nessuno può pensare di attuare il proprio programma elettorale. Tutti devono sapere che devono rinunciare a qualcosa».

E tutti devono sapere che ciascuna forza politica della maggioranza si porta il suo peso di responsabilità: il messaggio lanciato da Dario Franceschini, in una nota di cui è stato ovviamente informato anche Letta, è chiarissimo. «Siamo arrivati alla perfezione di ‘diktat’ al governo pronunciati da esponenti che del governo fanno parte. Evidentemente lanciano ultimatum a se stessi», nota il ministro per i rapporti con il Parlamento leggendo le parole del collega Alfano. Che peraltro, fanno notare uomini vicini al ministro, «non è che quando si discute delle coperture e delle difficoltà di trovare una soluzione sia in un’altra stanza…». Da palazzo Chigi usano toni più soft, riconoscono che Alfano «ha anche il ruolo di segretario del partito e in un week end elettorale è comprensibile che alzi la voce». Insomma, per lo staff di Letta «le fibrillazioni per ora rientrano nella fisiologia di un governo composto da forze politiche così distanti». Tanto più «quando arriva il momento di chiudere su un provedimento». Ovviamente, «il problema vero nascerebbe se non si trovasse un’intesa». Che Letta continua ad auspicare e a ricercare: «È nostro interesse adottare provvedimenti che oltre a dare respiro al Paese diano anche respiro a tutte le forze che ci sostengono», spiegano da palazzo Chigi. Dunque tutte le opzioni sono ancora in campo, con il rinvio di tre mesi che in molti considerano scontato, verificando ancora se ci sia la possibilità di arrivare fino a sei mesi.

Ma al tempo stesso bisogna ricordare i vincoli in cui ci si muove: «Nel discorso programmatico Letta è stato chiarissimo, i vincoli europei non si toccano, e dunque nel 2013 i saldi restano invariati». Tradotto, per ogni intervento che comporti spese, «bisogna trovare le coperture. E le si trovano solo in due modi: o tagliando altre spese, o aumentando altre tasse». Un modo per rispondere alla litania di comunicati targati Pdl che tuonavano contro nuove tasse, ad esempio l’aumento delle accise o la Robin Tax per le Pmi nel ‘Dl Farè. Perchè Letta una certezza ce l’ha: «L’idea che questo governo possa sforare il 3% è assurda. Se qualcuno chiede di farlo, sappia che non saremo certo noi il governo che lo farà».

L’Unità 22.06.13

"Le tre malattie che fiaccano Mr. Mercato", di Francesco Guerrera

I vecchi marpioni di Wall Street si riferiscono al mercato come se fosse una vecchia conoscenza e lo chiamano «il Signor Mercato». Negli ultimi giorni, questo signore di bella presenza ma di una certa età ha avuto problemi di salute che potrebbero presagire un crollo più serio. Dopo anni in cui era stato trattato con i guanti bianchi, Mr. Market è stato malmenato in tre continenti: dagli Usa alla Cina e persino in Europa.

In America, le parole chiare ma preoccupanti di Ben Bernanke – un altro signore di bella presenza – questa settimana hanno fatto calare la pressione a Mr. Market.

Il capo della Federal Reserve ha detto che, tra pochi mesi, la banca centrale americana incomincerà a tagliare lo stimolo che sta pompando nei mercati dai tempi della crisi finanziaria.

Bernanke ha pure aggiunto che la Fed vorrebbe chiudere il rubinetto degli aiuti l’anno prossimo perché l’economia americana sta finalmente raggiungendo velocità di crociera.

In teoria, il messaggio dovrebbe essere stato positivo. Una di quelle scene hollywoodiane in cui il paziente – in questo caso il prodotto interno lordo Usa – si sveglia dal coma, abbraccia la famiglia, ed esce dall’ ospedale piangendo lacrime di gioia.

Ma il signor Mercato, ed i signori del mercato, non l’hanno presa così. Il Dow Jones Industrial Average è crollato di 500 punti mercoledì e giovedì. In meno di un mese, questo barometro delle borse mondiali ha perso più del 4%, trascinandosi dietro indici di mezzo mondo – dall’ Hang Seng di Hong Kong al MIB di Milano, che è calato di quasi l’8% dall’inizio dell’ anno.

«Mr. Market ci sta dicendo che non crede che l’economia americana può continuare a marciare senza la spinta della Fed», mi ha detto uno dei veterani della borsa di New York.

Fino a qui, il ragionamento non fa una grinza: la ripresa americana è lentissima in gran parte perché i consumatori ed il mercato immobiliare, i grandi motori dell’ economia Usa, stanno mancando all’appello.

Ma il ritiro degli aiuti Fed presagito da Bernanke – il famoso «tapering» di cui parlai due settimane fa – sta avendo degli effetti sui mercati che non hanno quasi niente a che fare con l’economia reale.

Uno dei risultati meno appetibili delle politiche di stimolo della banca centrale americana è stato quello di scatenare un’onda di speculazione. Non contenti dei tassi d’interesse bassissimi offerti dai beni del tesoro, e aiutati dal costo stracciato del debito, investitori di tutti i tipi si sono buttati su beni ad alto rischio.

D’improvviso, le obbligazioni «spazzatura» (il nome è tutto un programma…) emesse da aziende con bilanci ballerini sono diventate super-popolari. Lo stesso è valso per le azioni di mercati emergenti come il Brasile e la Tailandia e le divise di paesi ad alta crescita ma con tanti pericoli, quali le Filippine e l’India.

L’ intervento di Bernanke ha cambiato le carte in tavola. «E’ stato come se uno avesse gridato “fuoco” in un cinema pieno di persone», è stato il commento, un po’ esagerato, di un banchiere mio amico. Gli investitori sono corsi tutti verso l’uscita di sicurezza riscoprendo beni-rifugio come il dollaro.

L’America non è più amica di Mr. Market ma il signore azzimato non ha tante alternative in Asia o in Europa.

La Cina è in crisi per la prima volta in almeno un decennio. Un Paese che nell’ economia globale ha ricoperto il ruolo che Andrea Pirlo ricopre nella Nazionale – una certezza di cui non ti devi mai preoccupare – sta diventando un’ incognita che può essere o spettacolare o pericolosa, tipo Mario Balotelli.

La combinazione di un rallentamento economico e inflazione che sale è una miccia accesa che il nuovo regime di Pechino sta facendo fatica a spegnere.

Le voci dall’ interno parlano di un Pil che sta crescendo «solo» del 5-6%, meno delle stime ufficiali e, soprattutto, molto meno del 9-10% a cui la Cina ed il resto del mondo si erano abituati. Ma con l’inflazione in agguato, le autorità cinesi non possono usare il manuale degli anni passati che prevedeva aiuti enormi da parte del governo e delle banche statali.

Anzi, la banca centrale cinese sta strizzando le banche per evitare che prestino soldi in maniera inconsulta. Nel frattempo, però, le imprese ed i consumatori made-in-China sono a corto di denaro per investire e spendere – una situazione che esacerba il rallentamento economico. E’ un circolo vizioso che potrebbe portare a cambiamenti fondamentali e conseguenze geopolitiche di enorme importanza.

E poi c’è l’Europa. E’ estate e Mr. Market, che è americano doc, con le scarpe da tennis bianche e i pantaloncini bermuda un po’ stretti, potrebbe pensare a rilassarsi nel vecchio continente, magari nel Mediterraneo.

Dunque vediamo un attimo: la Grecia è di nuovo nella crisi totale e la comunità internazionale ha persino minacciato di tagliare gli aiuti se il governo di Atene non manterrà le sue promesse di austerità.

La Spagna, magari? Be’ lì la disoccupazione è a livelli da terzo mondo, molte banche sono tra la vita e la morte e la crescita è anemica. «What about Italy?», potrebbe chiedere Mr. Market. Sta meglio delle prime due ma, diciamoci la verità, tra incertezze politiche ed un’ economia in retromarcia non sembra proprio un’isola felice.

C’è sempre la Germania, no? L’efficienza teutonica ecc. ecc. Non c’è dubbio che la Germania è il proverbiale monocolo nella terra dei ciechi. Ma negli ultimi mesi persino la locomotiva tedesca è stata rallentata dalla crescita nell’ euro che rende più care le esportazioni dei beni «in Deutschland hergestellt».

Povero Mr Market, con questi chiari di luna, sarà difficile dormire sonni tranquilli.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal.

La Stampa 21.06.13

"La sfida europea sulla Tv pubblica", di Giovanni Valentini

È forse giunto il momento per riconsiderare il servizio pubblico non come una semplice azienda per produrre pubblicità e profitto, da risanare sul piano economico e di bilancio, quanto piuttosto come una risorsa e un investimento da affiancare ad altre risorse dello stato: la scuola e la ricerca. (da “Televisione” di Carlo Freccero – Bollati e Boringhieri, 2013 – pagg. 144-145)
Con la drastica e contestata decisione di chiudere d’autorità la tv pubblica, senza neppure interpellare il Parlamento, il governo greco s’è assunto la responsabilità di mettere in discussione un modello di televisione che rappresenta una specificità europea. E ora l’esecutivo di Samaras è costretto a tornare suoi propri passi, per annunciare la riassunzione temporanea di duemila dipendenti ed evitare addirittura di entrare in crisi. Il “caso Ert” non riguarda perciò soltanto la Grecia, ma coinvolge l’intera comunità dell’Unione e quindi anche noi cittadini italiani, con la Rai e tutti i suoi problemi di riforma e di “governance”.
È piuttosto stupefacente che, anziché riferirsi al modello della mitica Bbc inglese, della tv pubblica tedesca, francese o perfino spagnola, il nostro establishment economico-finanziario d’ispirazione liberista o iperliberista abbia colto al volo l’occasione per riproporre una privatizzazione tanto avventurosa quanto impraticabile. E va registrato con soddisfazione l’esordio di Roberto Fico, neo-presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza in nome e per conto del Movimento 5 Stelle, che ha lanciato subito un altolà preventivo: “La Rai non si svende, meglio rinunciare ai caccia F 35”.
Forse sarebbe stato preferibile che Fico dicesse senz’altro “la Rai non si vende”. Ma accontentiamoci pure per il momento di questo impegno, auspicando magari che il “bagno istituzionale” possa favorire un atteggiamento più responsabile e costruttivo tra i parlamentari di Beppe Grillo.
Se c’è un Paese in Europa e nel mondo in cui la tv pubblica può e deve avere un ruolo e una funzione, questo è proprio l’Italia berlusconiana o post-berlusconiana del “regime televisivo”, del duopolio Rai-Mediaset, della concentrazione televisiva e pubblicitaria, del conflitto d’interessi. Con tutti i suoi limiti e difetti, ma anche con le sue risorse e competenze professionali, tecniche e manageriali, la Rai resta pur sempre la nostra più grande aziende culturale e rappresenta per di più la “pietra angolare” dell’intero sistema dell’informazione nazionale. Al di là dei suoi cancelli, da qui dipende essenzialmente la possibilità di favorire quel “riequilibrio delle risorse” a cui si richiamò il presidente Carlo Azeglio Ciampi nel messaggio alle Camere con cui respinse la scellerata legge Gasparri, ancora in vigore e in attesa di abrogazione, a favore di tutti gli altri media, vecchi e nuovi.
Per la sua storia e per lo spazio che occupa nel circuito dell’informazione, della cultura e dell’intrattenimento, la Rai costituisce un asset strategico in un settore nevralgico della vita collettiva per la formazione e l’aggregazione del consenso. Se la comunicazione in generale, e quella televisiva in particolare, è “l’acqua della democrazia”, allora bisogna concludere che il servizio pubblico dev’essere inteso e gestito come un “bene comune”. E per restituirlo dunque alla sua originaria funzione pedagogica, secondo il modello europeo, va riformato, ristrutturato, rilanciato, non venduto né tantomeno svenduto: anche perché, come osserva in un paper Maurizio Mensi, professore di Diritto dell’informazione e della comunicazione all’Università Luiss di Roma, “il canone non costituisce una specificità italiana” e poi “l’eventuale privatizzazione della Rai non comporterebbe affatto l’automatica soppressione del canone d’abbonamento”, ma questo passerebbe eventualmente ai privati che subentrassero nella concessione.
Dal rapporto di Symbola e Unioncamere che verrà presentato la prossima settimana, risulta nell’ultimo anno una crescita del 3,3% delle imprese che compongono il nostro sistema produttivo culturale, in controtendenza rispetto al resto dell’economia. E a conferma di questa funzione anticiclica, nel 2012 il suo valore aggiunto ammonta a 75,5 miliardi di euro, pari al 5,4 del totale. La cultura, dunque, non solo “si mangia” ma alimenta anche attività come il commercio, il turismo, i trasporti e perfino l’edilizia o l’agricoltura.
Sarebbe un grave errore cedere un patrimonio collettivo come la Rai, per raccogliere tre o quattro miliardi di euro, secondo le stime di Mediobanca. Bisogna invece investire sull’informazione e sulla cultura, riqualificando il servizio pubblico radiotelevisivo in quanto volano di tutto questo comparto. A condizione, naturalmente, di liberarlo definitivamente dal giogo della partitocrazia e di restituirlo ai cittadini, come reclama la proposta di legge popolare sostenuta da “Move On Italia” e da altre organizzazioni della società civile.

La Repubblica 21.06.13

"I Sindacati uniti chiamano il Governo", di Felicia Masocco

Decine di migliaia di lavoratori sono attesi oggi a Roma, chiamati da Cgil, Cisl e Uil perché la «centralità» del lavoro, refrain che tardivamente impegna le agende politiche, non può ignorare chi l’emergenza la vive sulla propria pelle. Chi un lavoro l’aveva e l’ha perso, chi si ritrova nel limbo della cassa integrazione, chi nel mondo della produzione non riesce neanche a metterci piede. Basta dare un’occhiata ai dati, si tratta di milioni di persone. Solo i cassintegrati a zero ore sono 520 mila: 460 milioni di ore di attività perse in soli cinque mesi, dall’inizio dell’anno a maggio. Produzioni ferme, uffici, negozi e cantieri chiusi e per chi si ritrova «fuori» una perdita secca di reddito pari a 1,7 miliardi, più o meno 3.300 al netto delle tasse, per ogni singolo lavoratore. A fare i conti è l’osservatorio sulla Cig della Cgil. «Il trend ci porta anche quest’anno al miliardo di ore di cassa integrazione – pronostica il segretario confederale Elena Lattuada – Si sommeranno alle 4,4 miliardi di ore messe a segno negli ultimi cinque anni ». Ancora: l’anno scorso i licenziamenti hanno superato un milione (1.027.462, dati del ministero del Lavoro) rispetto al 2011 l’aumento è stato del 13,9%. Infine ben 6 milioni di lavoratori attendono il rinnovo del contratto. Ma questo è anche il Paese in cui aziende sane come l’Indesit chiudono stabilimenti e se ne vanno altrove o dove, come la Fiat a Pomigliano, provvedono ai picchi di produzione facendo lavorare due sabati in più con turni di straordinario invece di utilizzare gli operai che ancora sono in cassa integrazione. Casi tratti dalle ultime di cronaca, ma moltissimi altri potrebbero essere citati.DUE CORTEI Nei due cortei romani ci saranno persone da tutta Italia che in mattinata sfideranno l’afa per ritrovarsi in piazza san Giovanni. E il giorno della ritrovata unità sindacale, certo un fatto importante se ci sono voluti 10 anni per rivedere Cgil, Cisl e Uil di nuovo insieme nella grande piazza romana. L’auspicio è che dall’unità venga più forza per le richieste da girare al governo: provvedimenti urgenti sul lavoro, sul fisco, i contratti e finalmente una politica industriale. Da Cgil, Cisl e Uil una «chiamata » per l’esecutivo impegnato a trovare la quadra tra i soldi che non ci sono e le tante priorità cui far fronte. Al governo i sindacati chiedono di muoversi in fretta senza lasciarsi irretire dalle velleità di questa o quell’anima della maggioranza. Susanna Camusso ieri è stata chiarissima: dal governo continuano ad arrivare «molti annunci e la sensazione è che i dossier si moltiplichino e non si decida sui singoli capitoli», ha detto il segretario Cgil a Radio24. «Non si è deciso qual è il punto vero su cui concentrarsi », ha aggiunto, spiegando che si parla di Imu, Iva e così via e questo «dà l’idea di stare ancora dentro la campagna elettorale». Per esempio: se va bene puntare a non aumentare l’Iva «ciò che non va bene è l’idea che siccome bisogna intervenire su quello bisogna abolire anche la tassa sulla proprietà della casa». A riprova di quanto i timori della leader sindacale siano fondati ecco che arriva Daniele Capezzone (Pdl): «I diktat della Cgil vanno respinti al mittente», dice il presidente della commissione Finanze della camera. «Fermare l’aumento Iva costa per il 2013 appena 2 miliardi; l’intervento su Imu prima casa e agricoltura ne cosa altri 4, quindi in totale servono 6 miliardi » conclude. È del tutto evidente che la campagna elettorale continua. «Il governo deve avere molto coraggio», incalza Raffaele Bonanni, segretario della Cisl. «Se vogliono piantare una grande bandiera – avverte – la devono piantare sul terreno della questione fiscale. Non siamo convinti né dell’Iva, né dell’Imu, noi vogliamo un vigoroso taglio di tasse per lavoratori, pensionati e imprese che investono, perché questo è quello che serve al Paese». È quello che i sindacati e i lavoratori diranno oggi. Alla manifestazione partecipano o aderiscono le forze politiche di sinistra. Ci sarà il segretario del Pd, Guglielmo Epifani, che della Cgil è stato a lungo segretario e ci saranno il leader di Sel Nichi Vendola, quello di Prc paolo Ferrero, adesione anche da Riccardo Nencini, segretario del Psi. I due cortei, cui è prevista una partecipazione di almeno 100 mila lavoratori, partiranno all 9.30 da piazzale dei Partigiani e piazza della Repubblica: dal palco di piazza san Giovanni parlerà il segretario generale dei sindacati europei (Ces) Bernadette Segol e dopo Angeletti, Bonanni e Camusso.

L’Unità 21.06.13