Latest Posts

"Meno tasse non è un tabù", di Ruggero Paladini

La pressione fiscale è al 44% o al 53%? Come disse Shakespeare: «as you like it». Se rapportiamo le entrate fiscali al Pil (calcolato dall’Istat) abbiamo nel 2012 il 44%. Se però argomentiamo che il 17% del Pil è composto da attività sommerse, allora rapportando il 44% a 1-0,17 otteniamo il 53%. Ovviamente anche il più incallito evasore qualche imposta finisce per pagarla, l’Iva per esempio, visto che dovrà pur mangiare, o l’Imu, difficile da evadere. Inoltre il dato statistico serve per considerazioni macroeconomiche, per confrontare Paesi diversi o lo stesso Paese nel tempo, ma non esiste un’imposta unica sul Pil. Abbiamo invece imposte dirette e indirette, contributi sociali (quelli previdenziali andrebbero considerati come risparmio obbligatorio più che imposte), imposte erariali e degli enti locali, e così via. Ogni imposta ha una sua base imponibile, e quindi una diversa pressione. Per esempio se prendiamo il più importante prelievo, l’Irpef, troviamo (nel 2012) un rapporto tra imposta netta e reddito imponibile del 19,7%. Nel 2007, anno in cui l’Irpef fu modificata, assumendo la struttura che ha ancora oggi, l’analogo dato era del 19,2%.

Ma i 41 milioni di contribuenti Irpef hanno ognuno una pressione diversa, che è zero per un quarto di essi, e che per lo 0,08% (circa 32.000 contribuenti con reddito superiore a 300.000 euro), arriva al 41,2%. Quale è la pressione fiscale sulle imprese? Consideriamo due società, una che ha utili per 100 ed una che ha una perdita di 20. La prima versa un Ires di 27,5, la seconda non versa nulla (e riporta in avanti la perdita, nella speranza di poterla recuperare dagli utili futuri). Se facciamo la somma algebrica tra i +100 ed i -20 e rapportiamo l’imposta di 27,5 otteniamo una pressione di 34,4% (e questo, direbbe Confindustria, senza considerare l’Irap e l’Imu). Ma in realtà una società ha pagato il 27,5% l’altra zero. Insomma, con le percentuali possiamo giocare a «cicero pro domo sua».
In un anno la pressione è salita di un punto e mezzo, dal 42,5% al 44%. Quello che è indubitabile è che in un anno di profonda recessione le entrate sono aumentate di oltre 17 miliardi, quasi tutti dovuti alla manovra «Salva Italia» sull’Imu. La recessione innescata dalla manovra, ampliata dal credit crunch e dal rallentamento europeo, ha fatto cadere altre entrate, ma l’effetto netto è stato in aumento. Da notare che dei circa 15 miliardi di Imu solo 4 sono quelli derivanti dalla reintroduzione della «prima casa», e questi 4 miliardi sono divenuti la bandiera di Berlusconi, oltre agli altri 4 (a regime) che deriverebbero dall’aumento dell’Iva dal 21 al 22%. Non c’è dubbio che l’aumento dell’Iva vada evitato, in un momento in cui la fase recessiva non accenna a rallentare. È difficile dire quali margini di manovra abbia il governo, che vuole rispettare il 3% di deficit; governo che ha di fronte a sé il rialzo dello spread a causa delle iniziative della Corte Costituzionale tedesca di valutare le misure approvate dalla Bce di Draghi (le Outright monetary transactions). Ma se emergessero delle risorse non c’è dubbio che dovrebbero essere usate per ridurre l’Irpef. Questa imposta grava in modo sproporzionato su lavoratori dipendenti e pensionati; una riduzione, concentrata nella fascia dei redditi tra 10.000 e 25.000 euro, costituisce un’iniezione di potere d’acquisto che verrebbe speso in misura nettamente maggiore di quanto avverrebbe con l’eliminazione dell’Imu sulla prima casa.

In effetti in questo momento considerazioni sugli effetti macroeconomici e sugli aspetti redistributivi si legano bene insieme. Vi è necessità di interventi che sostengano il reddito disponibile dei redditi medio-bassi, la cui propensione al consumo è vicina al 100%; tra questi la riduzione dell’Irpef è sicuramente una carta da giocare, anche se non è l’unica. Vi sono infatti oltre 10 milioni di contribuenti a zero Irpef, con remunerazioni talmente basse (sempre che le abbiano) da avere imposta netta nulla. L’imposizione immobiliare va invece riorganizzata per renderla più equa, ma certamente non va distorta per favorire la demagogia della destra.

L’Unità 21.06.13

"Un Paese dove la virtù deve chiedere perdono", di Vito Mancuso

I fatti di Firenze riportati ieri da questo giornale (“Assessori, escort e coop, i segreti hard di Firenze”) non sono certo un caso isolato nel nostro paese, anzi sono convinto, e con me penso lo sia la gran parte degli italiani, che ogni nostra città o cittadina presenti una realtà più o meno analoga. Si tratta di una constatazione abbastanza inquietante, almeno per me che sono spesso chiamato a parlare di etica. Ne ho parlato l’altro giorno in una tavola rotonda promossa da Conad in occasione dell’assemblea di bilancio, all’inizio di questo mese ho tenuto uno specifico corso di etica ai futuri commissari presso la Scuola Superiore di Polizia, molte volte sono stato invitato a discuterne nei licei del nostro paese, nelle aule universitarie, nelle piazze che ospitano manifestazioni culturali. Ricordo una volta a Roma nell’aula magna della Luiss, l’Università della Confindustria, di aver dovuto rispondere alla domanda sul perché il bene dovrebbe essere sempre meglio del male se il male talora risulta più efficace, sul perché si dovrebbe essere onesti e leali anche quando è possibile non esserlo, e non esserlo risulta più conveniente. Devo dire che ogni volta, prima di prendere la parola, ho sentito sorgere dentro di me una sorta di sottile disagio, procurato dal fatto di percepire sui volti che mi osservavano il disinteresse e la noia per quell’argomento di cui stavo per parlare.
Anche per questo cito qui a mia discolpa una frase di Shakespeare: “Perdonatemi questa predica di virtù, perché nella rilassatezza di questi tempi bolsi la virtù stessa deve chiedere perdono al vizio, sì, deve inchinarsi a strisciare” ( Amleto 3,4).
“Buonista” si usa dire, cioè poco capace di incidere sulla realtà effettiva delle cose. Gli allenatori delle squadre di calcio quando mandano in campo i calciatori dicono che li vogliono “cattivi” oppure “cinici”, il che per loro significa efficaci. Non fanno che esprimere il pensiero dominante: chi è cattivo vince, chi è buono no. Come nello sport, così nella vita: chi è cattivo riesce, chi è buono no. Questo è il pensiero che abita la mente occidentale da qualche secolo a questa parte e che ha trovato la sua consacrazione teoretica nel pensiero di Friedrich Nietzsche, il filosofo preferito da Mussolini e Hitler (in un discorso alla Camera del 26 maggio 1934 il Duce si dichiarò “discepolo di Federico Nietzsche polacco germanico”, mentre il Führer si recò in visita più volte all’archivio del filosofo, gestito, e strumentalizzato, dalla sorella Elisabeth). La cosa curiosa, e per me preoccupante, è che l’interpretazione maggioritaria di Darwin vede l’uomo e la natura esattamente nella medesima prospettiva che fa della forza e della furbizia l’arma migliore per vivere, per cui oggi anche da sinistra (dove il darwinismo ha ormai sostituito il marxismo quale orizzonte teoretico) si tende a pensare l’uomo e la vita in questa prospettiva spietata e rapace.
Mi rendo perfettamente conto che queste affermazioni filosofiche andrebbero più adeguatamente argomentate, ma qui mi posso solo limitare a dichiarare che in me non suscita alcuna meraviglia il fatto che alcuni funzionari delle nostre istituzioni possano abusare della loro funzione per soddisfare appetiti sessuali, in qualche caso addirittura con i soldi pubblici: il nostro comportamento infatti discende dalla nostra mente, e la mente è guidata per lo più istintivamente dalla gerarchia esistenziale in base a cui è configurata, per cui se non c’è nulla di più rilevante della propria volontà di potenza, e se non si può arrivare alle vette letterarie e filosofiche di Nietzsche, è logico che ci si avventi su orizzonti più caserecci.
Il problema quindi non è l’immoralità pratica, che sempre ha accompagnato il fenomeno umano e sempre l’accompagnerà, ma è la debolezza del sentire etico che fonda la differenza tra moralità e immoralità sostenendo che la prima sia spesso meglio della seconda. Gli uomini hanno sempre praticato delle trasgressioni a livello etico, ma un tempo quando si era immorali ci si sentiva fuori posto (peccatori nella versione cattolica, inadempienti agli obblighi della coscienza nella versione laica), oggi si è immorali e ci si sente furbi e vincenti. E la cosa vale tanto per chi si dice cattolico quanto per chi si dice laico.
Il problema, in altri termini, è la mancanza di fondamento dell’etica. Torna la domanda che mi è stata posta da uno studente: perché il bene dovrebbe essere meglio del male, se il male talora risulta più efficace? Io penso che a questa domanda si possa rispondere solo andando ad appoggiarsi al fondamento ultimo dell’etica, e penso altresì che tale fondamento abbia molto a che fare con la fisica, con la natura intima della realtà. È infatti un clamoroso falso che la cattiveria e l’immoralità siano più produttivi e più appaganti del bene e della giustizia. Che non lo siano lo dimostrano gli stati nei quali è più bassa la corruzione (Danimarca, Norvegia e in genere i paesi del nord Europa) e nei quali corrispettivamente è più alto il tasso di benessere sociale e individuale. L’etica infatti non fa che esprimere a livello interpersonale la logica della relazione armoniosa che abita l’organismo a livello fisico e che lo fa essere in salute, l’armonia tra le componenti subatomiche che compongono gli atomi, tra gli atomi che compongono le molecole, e così sempre più su, passando per cellule, tessuti, organi, sistemi, fino all’insieme dell’organismo. Lo stesso vale per la vita psichica, tanto più sana quanto più alimentata da relazioni armoniose, in famiglia, a scuola, al lavoro, e viceversa tanto più malata quanto più esposta, magari fin da piccoli, a relazioni disarmoniche e violente. Il segreto della vita in tutte le sue dimensioni è l’equilibrio, e l’etica non è altro che l’equilibrio esercitato tra persone responsabili.
Il nostro è un paese di individui che si credono furbi perché trasgrediscono le regole dell’ordine etico e civico, ma che in realtà sono semplicemente ignoranti perché tale continua trasgressione produce il caos quotidiano dentro cui siamo costretti a vivere, fatto di approssimazione, diffidenza, nervosismo, disattenzione, e tasse elevatissime cui corrispondono servizi spesso ben poco elevati. Intendo dire che rispettare le regole, comprese quelle che riguardano la vita privata (perché chi non è fedele nel privato non lo sarà certo nel pubblico) è la modalità migliore di raggiungere quel poco o tanto di felicità che la vita può dare.
Qualche giorno fa pagando il conto in una pizzeria di Roma il cassiere mi diede dieci euro in più. Gli dissi che stava sbagliando e guardandolo potei avvertire nei suoi occhi il passaggio da uno sguardo di minacciosa difesa a una luce particolare. Finì che offrì a me e a chi era con me una grappa per festeggiare. Che cosa? I dieci euro recuperati? Credo qualcosa di più.

La Repubblica 21.06.13

Dl 43, deputati Pd “M5S sordo a proposte, avanti per i terremotati”

L’Esecutivo ha annunciato la fiducia sul provvedimento che contiene norme pro-cratere. Il Governo Letta, nonostante si sia tentato fino all’ultimo di evitarlo, porrà la sua prima fiducia proprio sulla conversione del decreto legge emergenze che contiene norme importanti a favore delle popolazioni terremotate. “I tentativi per venire incontro alle opposizioni sono stati fatti – spiegano i deputati modenesi del Pd Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Giuditta Pini e Edoardo Patriarca – il rischio reale, però, è che di questi tatticismi facessero le spese coloro che vivono e lavorano nell’area del cratere. Domani alla Camera voteremo la fiducia e, poi, come già annunciato, ci impegneremo affinché ciò che è rimasto fuori da questo provvedimento possa essere ricompreso in provvedimenti di prossima discussione”. Ecco la nota comune dei deputati modenesi del Pd:
«I tentativi per venire incontro alle richieste delle opposizioni sono stati fatti e sono stati più d’uno. Il tempo però, come ha rimarcato il ministro Franceschini, era ormai talmente risicato che, se si fosse continuato con questa melina, si sarebbe messa seriamente a rischio la conversione stessa del decreto. All’Esecutivo, quindi, non restava che porre la fiducia, la prima nella storia di questo Governo, pena la decadenza di norme che sono essenziali per chi vive e lavora nella zona del cratere sismico. La fiducia verr à votata domani alla Camera dei deputati. Queste ultime ore di tatticismi parlamentari non cambiano nulla nel merito della questione. Anche se i tempi si sono dilatati, il lavoro dei nostri parlamentari al Senato è stato buono. Si sono conseguiti risultati importanti che il tentativo di ostruzionismo del Movimento 5 Stelle ha messo seriamente a rischio. Se non passa la conversione del decreto, facciamo notare, tutte le imprese e i cittadini dovranno pagare immediatamente tasse, bollette e contributi e vengono bloccati cantieri e progetti perché i Comuni non hanno le risorse e il personale necessario al disbrigo delle pratiche. Ciò che è rimasto fuori da questo provvedimento, lo abbiamo già ribadito, potrà rientrare in provvedimenti di prossima discussione. E’ un nostro preciso impegno. Quanto alla questione della detassazione degli indennizzi assicurativi, nonostante qualche deputato “penta-stellato” abbia avuto la sfrontatezza di accusarci di raccontare menzogne, ribadiamo quanto ha confermato lo stesso sottosegretario De Vincenti: le norme già ci sono, il Governo deve semplicemente applicarle. Piuttosto che insultarci, sarebbe più utile per le popolazioni terremotate che i parlamentari a 5 Stelle tenessero alta l’attenzione, insieme a noi, perché questa interpretazione autentica di norme già esistenti venga al più presto tradotta nella pratica».

"La vera anomalia", di Pietro Spataro

La Sentenza della Corte Costituzionale è la conferma di una anomalia che l’Italia si porta sulle spalle da un ventennio e che non è mai stata risolta. In sostanza, anche nel caso Mediaset, c’è stato da parte di un premier un uso ad personam del suo ruolo e di quello dei ministri e contemporaneamente la negazione del principio di collaborazione tra i poteri dello Stato che è alla base della democrazia.

Questo vulnus è stato compiuto utilizzando arbitrariamente una delle leggi personali volute da Berlusconi per difendersi dai processi: il legittimo impedimento. Certo, sapevamo già tutto. Per anni abbiamo assistito a rotture istituzionali, forzature politiche, scontri con gli altri organi dello Stato, attacchi al sistema democratico e tentativi di spezzare l’equilibrio costituzionale. Ma leggere le parole con le quali la Corte Costituzionale respinge il conflitto di attribuzione voluto dal leader del Pdl rende tutto più chiaro e più drammatico: Berlusconi ha tentato, maldestramente, di fermare i giudici convocando una riunione di governo proprio nel giorno che egli stesso aveva concordato, sulla base dei propri impegni, per essere ascoltato in udienza. Un comportamento inammissibile e giustamente sanzionato perchè incompatibile con il ruolo di un presidente del consiglio.

L’ingorgo giudiziario di Berlusconi rischia nei prossimi giorni – tra il processo Ruby e quello per la compravendita dei parlamentari – di scaricare tensioni improprie sul sistema politico. Anche se è del tutto evidente l’estraneità del governo di Letta al percorso processuale del Cavaliere, anche se è chiaro, contrariamente a quel che scrivono i fustigatori del «grande inciucio», che nessuno scambio c’è stato, c’è o ci sarà, resta da capire quale sarà il comportamento del leader del Pdl e dei suoi uomini al governo in questo passaggio così delicato. Per il momento, nonostante la tensione evidente ieri anche al termine del Consiglio dei ministri, sia l’uno che gli altri denunciano con durezza il solito «accanimento» dei giudici ma confermano leale sostegno al governo. Se questa linea durerà nel tempo è difficile prevederlo perché le incognite sono troppe e perché il Cavaliere ci ha abituato alla sua imprevedibilità. È difficile però immaginare una rottura contro natura, visto che le performance elettorali del Pdl alle amministrative e le curve dei sondaggi non incoraggiano una prova di forza senza sbocco.
In ogni caso non è detto che una crisi di governo finisca con il voto anticipato perchè il Paese, travolto da una crisi senza precedenti, ha bisogno di altro che una nuova inutile guerra elettorale all’ombra del Porcellum. Deve essere chiaro a tutti.
Questa vicenda, comunque vada a finire, ci dice tuttavia che quell’insostenibile anomalia non può restare come una cappa sul Paese. Intanto è fuori discussione un fatto: se la Cassazione confermerà la condanna di Berlusconi, e quindi anche la sua interdizione dai pubblici uffici, quella sentenza andrà applicata in ogni sua parte. Non sono accettabili trattamenti di favore per nessuno perché la legge è uguale per tutti, ed è uguale anche per Silvio Berlusconi.

Il vero problema però è come intervenire per evitare che questa situazione si ripeta in futuro. Per farlo, diciamolo senza giri di parole, non servono le scappatoie. Quindi, togliamo di mezzo la questione della ineleggibilità che poggia su una vecchia legge del 1957 quando i poteri economici erano altri e non c’erano società private titolari di concessioni pubbliche e che comunque divide i giuristi sull’interpretazione.
Il problema è fare finalmente una nuova legge che regoli il possibile conflitto di interessi e che renda incompatibile con la carica pubblica chi esercita il controllo di un’azienda che opera in concessione. Starà al soggetto in questione, come ha spiegato bene su queste pagine Massimo Mucchetti nei giorni scorsi, decidere se tenersi l’azienda e rinunciare al Parlamento oppure se tenersi il seggio e vendere il pacchetto azionario.
Sarebbe un modo limpido di risolvere l’anomalia del caso Berlusconi ma anche quelle che possono crearsi. È possibile farlo oggi, con questo governo? Pare assai difficile.
Ma questo resta un tema centrale sul quale il centrosinistra deve finalmente misurarsi con coraggio e con coerenza, non rinunciando a dire la sua in questo Parlamento a prescindere dalle tante disavventure giudiziarie del Cavaliere.

L’Unità 20.06.13

"Pacchetto lavoro coi fondi EU. Sgravi al sud per gli under 29", di Massimo Franchi

Il pacchetto «lavoro» sarà discusso nel Consiglio dei ministri di mercoledì. In questi ultimi giorni il ministro Enrico Giovannini sta limando i dettagli, sia sul piano delle risorse che su quello dei provvedimenti. Sul piatto non ci sarà più di un miliardo mentre molte altre norme saranno a costo zero, come quelle di modifica «con il cacciavite» della riforma Fornero. Le risorse comunque saranno quasi totalmente reperite da fondi europei e regionali. Ieri Giovannini ha incontrato le Regioni per ribadire la richiesta di «usare» i fondi europei regionali per la decontribuzione sulle assuzioni a tempo indeterminato al Sud per i giovani. La partita è complessa: il governo punta ad una decontribuzione totale ma d’altro canto vorrebbe anche allargare la norma non solo alle quattro regioni più in difficoltà (Sicilia, Calabria, Puglia e Campania) ma anche ad altre quattro: Abruzzo, Molise, Sardegna e Basilicata, regioni che fino al 2013 fanno parte dei territori aiutati dai fondi della Commissione europea. Trovare l’equilibrio fra risorse ed estensione sarà il compito principale del ministro Giovannini. L’altra parte, più corposa, del pacchetto riguarderà le modifiche alla riforma del lavoro Fornero. La richiesta pressante di imprese (grandi e soprattutto piccole) è quella di ridurre le rigidità introdotte sui contratti a tempo determinato. La pausa fra un contratto e l’altro, innalzata da Fornero a 60-90 giorni, per i giovani fino a 29 anni sarà drasticamente ridotta a 10-20 giorni a seconda del settore: le imprese del turismo, ad esempio, chiedono di essere esentate. I sindacati invece chiedevano di demandare alla contrattazione i tempi, cercando di spuntare in cambio stabilizzazioni e limiti al numero dei contratti. La mediazione trovata dovrebbe non scontentare nessuno. Altra rigidità che sarà tolta è quella sulla causale dei contratti, la spiegazione della mansione e della ragione per cui si viene assunti. Sempre per i giovani fino a 29 anni la causale sarà abolita per i contratti fino a 18 mesi. Nella rete instancabile di incontri e pareri (ieri Giovannini ha incontrato anche il segretario della Fiom Maurizio Landini) i sindacati saranno convocati prima di mercoledì a palazzo Chigi. Passati pochi giorni dalla manifestazione unitaria di sabato, sarà Enrico Letta a spiegare a Cgil, Cisl e Uil i provvedimenti decisi. Susanna Camusso, ma anche Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, puntano comunque a discutere e chiedere modifiche. Si torna poi ad aprire il delicato fronte della sicurezza sul lavoro. Il decreto legge varato dal governo modifica parecchie norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro, come l’eliminazione dell’obbligo di redazione del Duvri (Documento unico di valutazione dei rischi da interferenze) da parte del datore di lavoro committente per le attività in appalto. Misure che trovano unitariamente contrari Cgil, Cisl e Uil. «Riteniamo sia inopportuno che tra le priorità del governo ci siano interventi di alleggerimento degli adempimenti in materia di prevenzione, fra l’altro non discusse con i sindacati, a partire dagli appalti, la valutazione del rischio nelle piccole imprese, il lavoro edile, che in questi anni e ancora in questi ultimi giorni, fanno registrare il più alto numero di infortuni gravi e mortali», spiegano in una nota Fabrizio Solari, Fulvio Giacomassi e Paolo Carcassi a nome dei tre sindacati.

«NO AL BLOCCO DEI PUBBLICI» Critiche questa volta al Parlamento arrivano dalla Cgil. Ieri le commissioni Affari costituzionali e Lavoro della Camera hanno approvato un parere favorevole alla proroga al 31 dicembre 2014 del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti. Ma con due condizioni: la prima è che non ci siano ulteriori misure che congelino gli stipendi degli statali; la seconda è che il governo apra immediatamente, dopo l’entrata in vigore del decreto, la trattativa sulla contrattazione collettiva per quanto riguarda la parte normativa. «Dopo i quattro già passati, un altro anno di proroga del blocco della contrattazione è assolutamente inaccettabile e la manifestazione di sabato prossimo di Cgil Cisl Uil lo sosterrà con forza», attacca in una nota la Cgil nazionale.

L’Unità 20.06.13

"Il vestito nuovo dell’Epuratore", di Francesco Merlo

La macchina del fango, che per Berlusconi è un armamentario di giornali e tv, per Grillo è il web, ma il metodo dell’epurazione è lo stesso. La macchina del fango, che per Berlusconi è un armamentario di giornali e televisioni, per Grillo è il web, il post, la rete, ma il metodo dell’epurazione è lo stesso e infatti la Gambaro è “tossica” come Biagi e Santoro erano “criminosi”. Così il web diventa una parodia del tribunale del popolo, anche se lo spettacolo è più simile alla lapidazione che all’arbitrio dei giudici: «Chi è senza peccato scagli il primo post».
Contro l’epurata, come sempre, si esercitano i solerti esecutori. I Crimi, i Morra, i Lombardi, i Colletti, gli Incerti, i Nesci sono gli epigoni grotteschi dei cekisti di Beria e delle guardie rosse di Mao, stanano gli epurandi, premiano la delazione, si eccitano nell’accusa, digrignano i denti come i capi-plebe del Sinedrio, sono gli impunti all’ombra del capo che nel dissidente intravede la propria fine e dunque lo ridicolizza o, addirittura, prova a dargli del ladro che ruba sui rendiconti, così come i sovietici e i fascisti provavano a dargli del matto.
Certo, nell’Italia di oggi l’epurazione è uno sfratto e Grillo più che lo Stalin delle purghe conosce l’Orietta Berti di «e qui comando io / e questa è casa mia». Nel suo codice, che è quello del teatro di varietà, chi non applaude disturba, sovverte l’ordine di sala: «si accomodi fuori». Ma se l’Italia è cambiata, le parole sono le stesse: epurare, purificare, depurare e dunque trasformare il dissentire, “non sentire” allo stesso modo, nel dissidére, “sedersi a parte”: via, sciò, dalli all’untore. E però l’epurato non è più l’eretico che anticipa la storia, come Sacharov per Breznev e come
Il manifesto di Pintor e Parlato che portò via dal Pci la fiammella della sinistra illuminista. Oggi è un licenziato, buttato fuori da un padrone più che da un tiranno o da un partito o da una setta. Non rinnegato come Kautsky, ma disoccupato come Fini; non impazzito come il Koestler nel buio a mezzogiorno ma esodato come Bocchino sul quale (ricordate?) si rovesciarono le battute grevi sul cognome che oggi è la cifra stilistica del grillismo e del giornalismo della vecchia destra da casino e da forca che Grillo ispira.
Non c’è nessun motivo che giustifichi l’epurazione, ordigno di guerra pesante, «chi non è con me è contro di me», la sostituzione dell’intelligenza con la scimitarra o «con il calcio nel culo» diceva Bossi quando, prima di essere epurato, epurava mostrando il dito medio a Giafranco Miglio inviato come una «scorreggia nello spazio», e poi a Formentini, a Pagliarini, all’intera Liga Veneta… Eppure, quello stesso Bossi, ora sotto epurazione, dice: «Bisogna esser forti per non epurare». Scopre, finalmente e sulla sua pelle, la saggezza: «Quelli che la pensano come noi sono quelli che non la pensano come noi» scriveva Sciascia. E Lyndon Johnson, più sboccato: «Meglio averli dentro la tenda che pisciano fuori, piuttosto di averli fuori che pisciano dentro». Borges arrivava alla dissidenza da se stesso: «Mi sono iscritto al partito conservatore. Ma una volta affiliato al conservatorismo, il trionfo radicale mi ha fatto piacere».
E però quella di Bossi non è una storia di (im)purezza ideologica ma di finte lauree e di signorine in cerca di ribalta, di soldi pubblici finiti in comodato, di diamanti e appartamenti. Nel leninismo, che pure praticava il furto e l’esproprio proletario, il cerchio magico come crapula di famiglia non era previsto. E la Chiesa non epurava e non bruciava i ladri, ma gli eretici. Perfino nella mafia, dove l’epurazione è annientamento fisico anche dei figli e dei nipoti, i ladri vengono abbandonati e non epurati.
Bossi sa bene che le epurazioni della Lega sono sempre state ingiunzioni padronali, sgomberi. Ecco perché cacciandolo, la Lega caccia il padrone e si spegne: è la signora messa alla porta dalle serve. Non ci sarà mai un Kruscev del dito medio e neppure un Gorbaciov dell’ampolla padana, nessuno storico racconterà il celodurismo diviso, come la filosofia di Hegel, in una corrente di destra e una di sinistra che si epurano a vicenda perché, come diceva Nenni, «c’è sempre un puro, più puro di te, che ti epura».
In una normale democrazia il dissidente è l’avversario che rafforza anche il capo perché lo affronta con la dialettica, libro contro libro, intelligenza contro intelligenza. La scorciatoia dell’epurazione che rimanda alla purezza religiosa e quindi all’inquisizione oggi è anche ridicola perché non ci sono più le fornaci delle ideologie, delle chiese politiche, e forse non ci sono neppure gli ideali …
In Italia poi anche l’epurazione di guerra è stata «una burletta» scrisse Alessandro Galante Garrone: «Si sarebbe dovuto procedere dall’alto. Invece ci si accanì contro gli applicati d’ordine e gli uscieri, o magari il capofabbricato che aveva indossato la divisa per vanità».
Gli storici ancora si dividono sull’amnistia di Togliatti che liberò i fascisti, sulla resistenza che divenne desistenza, sullo Stato fascista che si mutò in democristiano, sull’epurazione del signor Piscitello (pesce piccolo appunto) raccontata da Vitaliano Brancati. Avventizio al Comune, fu convocato dal podestà fascista che doveva epurarlo dall’ufficio perché non iscritto al partito. Per iniziativa della moglie, che non lo voleva più avventizio («avventizio, sei solo un avventizio», gli gridava attraverso la porta del bagno), Piscitello si fabbricò allora un’identità fascista, addirittura di marciatore su Roma. Poi, finita la guerra, il podestà, post fascista senza essere stato antifascista, di nuovo doveva epurarlo perché Piscitello addirittura aveva marciato su Roma. E Piscitello inutilmente presentò un certificato medico dal quale risultava che già a quei tempi aveva il morbo di Parkinson e che dunque mai avrebbe potuto marciare, ma solo marcire.
Come si vede, l’epurazione all’italiana era già stata commedia e infatti al cinema la portarono sia Paolo Stoppa sia Alberto Sordi. Del resto, è stato commedia sbracata anche Storace che, presidente della commissione di Vigilanza della Rai negli anni bui del Berlusconi padrone di tutto, si compiaceva del soprannome di Epurator poi esteso anche alla figlia che, ignara e innocente, divenne Epurina. Ebbene, alla storia dell’epurazione all’italiana, che è ferocia senza grandezza, Grillo non porta nulla di leggero e di pulito, ma solo il ghigno truce di chi non sa ridere di sé e festeggia il neopresidente della vigilanza Rai Roberto Fico, infilandogli in tasca un pizzino con i nomi dei giornalisti da epurare, ovviamente approvati dal web-sinedrio. Primo: Floris. Secondo:…

La Repubblica 20.06.13

"Quei temi troppo belli per gli esami di maturità", di Marco Lodoli

Una vera prova di maturità, un vero confronto con le paure e le speranze di una giovinezza che sta per lasciare il porto quasi sicuro della scuola e avventurarsi nel mare aperto e tempestoso della vita adulta: così mi suonano queste tracce su cui i nostri diciottenni hanno dovuto ragionare.
UNA vera prova di maturità, un vero confronto con le paure e le speranze di una giovinezza che sta per lasciare il porto quasi sicuro della scuola e avventurarsi nel mare aperto e tempestoso della vita adulta: così mi suonano queste tracce su cui i nostri diciottenni hanno dovuto ragionare. Di sicuro sono serviti i testi scolastici, la preparazione di migliaia di ore passate in un banco, le lezioni appassionanti o un po’ noiose degli insegnanti, ma stavolta mi sembra che ai candidati sia stato chiesto uno scatto di personalità, la dimostrazione di non essere stati assenti o distratti mentre il mondo, in questi anni, in questi mesi, produceva i suoi problemi e le sue contraddittorie soluzioni. Bisogna aver studiato, ma bisogna anche aver letto i giornali, le riviste, aver navigato sui siti di informazione, aver discusso e litigato con gli amici, aver sentito crescere una nuova consapevolezza. Bisogna aver sentito che la giovinezza è pronta a caricarsi di qualche responsabilità, che è finita la lunga epoca della spensieratezza totale.
La letteratura ci spiega che la vita è un
viaggio, e che è necessario essere pronti per affrontarlo con gli strumenti e i sentimenti migliori: Claudio Magris, grande conoscitore della letteratura mitteleuropea, invita a comprendere che ogni scrittore è anche un pellegrino, che ogni libro importante è un’avventura conoscitiva, un viaggio verso l’ignoto. La vita non è un villaggio- vacanze, un posto dove tutto è già preordinato per organizzare al meglio la distrazione: è un percorso accidentato, con molte salite e molti imprevisti. Omero, Dante, Cervantes, Melville, Collodi, tanti grandissimi scrittori hanno raccontato questa avventura esistenziale, ognuno a modo suo ha rinnovato la meravigliosa metafora del viaggio fuori e dentro di sé. Insomma, la letteratura non è un giardinetto fiorito, ma un percorso che sale e abbraccia sempre più mondo, un invito a partire, a seguire la propria prua.
Ma anche il tema sul rapporto tra l’individuo e la società di massa mi appare ben pensato. Ogni ragazzo percepisce il rischio dell’annichilimento dei propri talenti, dello scioglimento della propria unicità nell’indistinto di un gregge protettivo e infelice. È uno degli argomenti che più viene dibattuto nell’adolescenza, perché la paura della solitudine è pareggiata dal timore di non essere niente, solo un numero in una statistica, solo un corpo che vaga in un centro commerciale. La pressione del consumismo, delle mode, dell’impersonalità è avvertita a volte come una protezione e a volte come una minaccia, comunque come una questione decisiva con cui confrontarsi.
E naturalmente anche il tema del mercato e della democrazia tocca nervi scoperti: ogni ragazzo ormai sa che l’economia neoliberista lo scaraventerà prestissimo in mezzo a una spaventosa compravendita di qualità. Sa che anche la democrazia china il capo davanti all’onnipotenza del mercato, che gli Stati sembrano subire quelle regole feroci. C’è molto da ragionare
sul rapporto difficile tra libertà e produzione, tra speranze individuali e brutalità finanziarie, tra vita e performance. Però, ripeto, bisogna aver letto qualcosa in più rispetto alle belle antologie scolastiche, bisogna dimostrare di aver tenuto gli occhi aperti e la mente attenta alle trasformazioni veloci degli ultimi anni. Non è scontato che in classe si sia affrontata l’impetuosa crescita delle economie emergenti e il declino altrettanto rapido delle nostre economie europee, basate fino a ieri sulla difesa dei diritti dei lavoratori e oggi costrette a rivedere crudelmente tutti i propri principi.
Insomma, tanti argomenti di bruciante attualità, tante proposte stimolanti. Speriamo che i nostri ragazzi in quest’ultimo periodo abbiano non solo studiato a fondo i programmi, ma abbiano anche allungato lo sguardo fuori dalle finestre della scuola, su un paesaggio che rassicura poco, in tumultuosa metamorfosi, nel quale già da domani dovranno cominciare a camminare.

La Repubblica 20.06.13