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Deputati Pd “Basta demagogia, non c’è l’Imu sulle case inagibili”

Il M5S polemizza su un tema che già il dl 74 aveva sottratto alla normativa generale. “L’Imu sulle case rese inagibili dal terremoto dell’Emilia è sospesa fino a tutto il 2014. E’ inutile che il M5S provi a cavalcare in maniera demagogica questo tema. Non è vero che i terremotati dovranno pagare comunque il 50% dell’Imu sulle case gravemente danneggiate: questo problema era già stato affrontato dal dl 74/2012 e non rientra più nell’ambito della disciplina generale della fiscalità sulla casa”: i deputati modenesi del Pd Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Edoardo Patriarca e Giuditta Pini bollano come “pretestuosa” e “inutilmente allarmistica” l’ultima polemica sollevata dal Movimento 5 Stelle. Ecco la loro dichiarazione congiunta:
«Il solito modo di procedere, urlare per creare allarmismi che si rivelano non sono inutili, ma pure infondati. Ancora una volta i parlamentari del M5S hanno lanciato l’ennesima denuncia che, per colpire il Pd, ha finito invece per contribuire a far crescere nuove preoccupazioni tra chi ha già dovuto subire i colpi del terremoto. Lo ribadiamo: non è assolutamente vero che chi ha la casa resa inagibile dal sisma del 2012 debba pagare il 50% dell’Imu. La questione è già stata affrontata dall’art. 8 comma 3 del dl 74/2012 dove si dice chiaramente che il pagamento dell’Imu è sospeso fino alla fine del 2014 per “i fabbricati distrutti od oggetto di ordinanze sindacali di sgombero in quanto inagibili totalmente o parzialmente”. Quanto alla rimodulazione complessiva dell’Imu, quella dovrà essere affrontata nell’apposito provvedimento che il Governo ha già annunciato che adotterà a breve. Questa è la realtà dei fatti. Basta con letture pretestuose, allarmistiche e demagogiche».

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Agenzia Dire “Dispiace che, ancora una volta, i colleghi parlamentari del M5S prediligano una lettura strumentale e faziosa a discapito di una reale ed effettiva informazione. L’Imu e’ gia’ sospesa per i redditi dei fabbricati ubicati nelle zone colpite dal sisma del 20 e del 29 maggio 2012, purche’ distrutti od oggetto di ordinanze sindacali di sgombero in quanto inagibili totalmente o parzialmente, non concorrono alla formazione del reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e dell’imposta sul reddito delle societa’, fino alla definitiva ricostruzione e agibilita’ dei fabbricati medesimi e comunque fino all’anno di imposta 2013. I fabbricati sono esenti dall’applicazione dell’imposta municipale propria fino alla definitiva ricostruzione e agibilita’ dei fabbricati stessi e comunque non oltre il 31 dicembre 2014, cosi’ come stabilita’ dall’art 8 c.3 del Dl 74/2012”. Lo dichiarano i deputati del Pd Alessandro Bratti, Manuela Ghizzoni, Maino Marchi, Donata Lenzi e Cinzia Fontana in una nota congiunta. “All’art 6 del decreto-legge 28 aprile 2009, n. 39, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 giugno 2009, n. 77, dopo il comma 1 e’ stato inserito il seguente: 1-bis, con il quale si stabilisce inoltre che i redditi dei fabbricati, ubicati nelle zone colpite dal sisma del 6 aprile 2009, purche’ distrutti od oggetto di ordinanze sindacali di sgombero in quanto inagibili totalmente o parzialmente, non concorrono alla formazione del reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e dell’imposta sul reddito delle societa’, fino alla definitiva ricostruzione e agibilita’ dei fabbricati medesimi. I fabbricati sono esenti dall’applicazione dell’imposta municipale fino alla definitiva ricostruzione e agibilita’ dei fabbricati stessi”, concludono.

"Convergenze parallele", di Sara Ventroni

Il Governo di larghe intese è nulla in confronto alle convergenze parallele tra Beppe e Silvio. Che se ne facciano una ragione. Nel mondo delle groupie e dei devoti – quel mondo convocato in nome di una rivoluzione aziendale a reti unificate Mediaset o da un blog monologante – gli opposti destini si uniscono.
Un tripudio involontario ci mostra il volto più autentico dell’Italia, quando si sporge sull’orlo della crisi politica e finisce sempre per rifugiarsi nel carisma sgangherato.

Siamo davanti a un quadro sinottico. La tempistica illustra una sintonia involontaria. Mentre il popolo Cinque Stelle si convoca via web a piazza Montecitorio (un centinaio di persone in tutto, tra cui settanta addetti stampa) per un sit-in a difesa di Grillo ferito nell’onore dai virgolettati della senatrice Adele Gambaro, all’Hotel Nazionale va in scena la conferenza stampa dell’«Esercito di Silvio», un evento promosso da Simone Furlan e da un gruppetto di fedelissimi, mobilitato sullo sgocciolìo delle sentenze del Cavaliere: 19, 24 e 27 giugno. Legittimo impedimento; primo grado sul caso Ruby e Lodo Mondadori. Su tutto incombe l’eventualità di un’interdizione dai pubblici uffici.

Dunque: al motto «Io amo Silvio» risponde da Montecitorio un flebile «Io amo Beppe». E tutto si tiene. Troppo facile infierire sul costato dei cari leader, legati come San Sebastiano alla pancia del popolo. In balia dei traditori, dei giudici, dei giornalisti, ma soprattutto degli ingrati.

La parabola è sempre la stessa. L’avventura comincia con aforismi rivoluzionari pronunciati sul crinale di un disastro, discorsi a braccio contro i partiti; qualcosa di nuovo che non è di destra e non è di sinistra; un sogno armato di piede di porco per scardinare la democrazia dall’interno. Lo stile è guascone e battutaro. Il linguaggio amoreggia con le passioni o gli incubi domenicali: si scende in campo, oppure ci si fa portavoce del condominio-Italia. Orgogliosamente anti-intellettuali, Silvio e Beppe hanno una missione comune: smentire l’adagio che nessuno è profeta in patria. Allora parlano in modo semplice. Si vestono di anticomunismo e propongono l’insulto come surrogato di una formazione politica: noi siamo noi, e quelli di sinistra sono coglioni, oppure zombie.

Ma solo il leader è davvero aldilà del giudizio. E se qualcuno dissente, tocca radunare la milizia. I cattivi li chiamano talebani. Si tratta, in verità, di italianismi comuni: un popolo brancaleonico dove c’è un po’ di tutto: neofiti, destrorsi, aspiranti rivoluzionari, manettari o ultragarantisti, a seconda dei gusti. Per un Travaglio c’è sempre un Capezzone. È la legge dell’amoroso contrappasso.

I mezzi cambiano – l’altro ieri la radio a ogni grondaia di piazza, ieri la tv commerciale, oggi il web usato come la Pravda – ma il senso dello spettacolo è lo stesso: l’urlo ecumenico contro tutti, in doppiopetto o spruzzando il sudore dal palco, nasconde il sussurro dispotico della voce del padrone. Che ovviamente, poi, passa alla cassa.

E chiede il conto, stilando la lista dei cattivi da mandare al confino dietro la lavagna, o fuori dal Parlamento.

A costo di mettere in ballottaggio la propria faccia.
O con me, o contro di me.
E così arriva – immancabile come in un brutto copione – il referendum popolare, la marcetta davanti al palazzo di Giustizia o i post di fedeltà alla linea del guru. Chi mi ama mi segua. Con un corollario: chi mi ama mi appartiene, perché tutto questo l’ho fatto io.

E così, il delirio di onnipotenza finisce annacquato nei titoli, come si trattasse davvero di interesse nazionale.
Gli eletti di Berlusconi e di Grillo hanno in comune un senso di infinita gratitudine. La riconoscenza è la prima virtù. Il resto è un’opzione: ai seguaci non è dato ragionare di strategia.
Le somiglianze tra i due B. precedono la loro volontà, ma non gli obiettivi di medio termine. Solo i fiancheggiatori fingono ingenuità: Berlusconi e Grillo si appartengono come due amanti clandestini. Intanto, l’unico partito non personalistico, il Pd, annuncia che il segretario può anche non essere il candidato premier. E tante grazie dell’informazione.

L’Unità 19.06.13

"Il Big Bang dei Cinque Stelle", di Piero Ignazi

I Parlamentari 5 Stelle si stanno avvitando in una spirale autodistruttiva. Potevano rappresentare un nuovo modo di fare politica. Fuori da rigidità burocratiche, correnti e portaborse. Tentativi di questo genere, a volte ingenui, a volte furfanteschi, sono stati fatti nel passato, ma in Italia hanno attecchito solo in piccoli gruppi. Con il travolgente successo del Movimento 5 Stelle nelle elezioni di febbraio sembrava che la “politica dei cittadini” entrasse nel Palazzo. Un’occasione irripetibile per imporre un nuovo modo di fare politica e di stare nelle istituzioni: come sbandieravano i grillini, i nuovi eletti si ponevano al servizio dei cittadini, della collettività e, addirittura, della nazione. Questa illusione è durata poco. Ed adesso siamo alla vigilia del Big Bang.
Come si sia arrivati a questo, non dipende certo dal desiderio di arricchimento dei vari parlamentari, versione contemporanea del tradimento di classe lanciato contro chiunque, in tempi lontani, abbandonava i partiti storici della sinistra, a incominciare da quelli comunisti. In effetti, è sorprendente come, anche nell’era postmoderna, e in movimenti che si voleva esprimessero lo spirito di questi tempi, risuonino accuse così antiche, e tutto sommato risibili.
Alla radice dello scontento dei grillini c’è invece un problema antico come la politica: la pulsione al comando senza limiti da un lato, e il desiderio vitale di esprimere le proprie opinioni, dall’altro. Il delirio di onnipotenza che ha travolto Beppe Grillo lo ha portato ad una logica saturnina di divorazione continua e insaziabile dei propri figli. Tutto ciò non è nuovo, anzi. Ci rimanda ai momenti di grande trasformazione, alle rivoluzioni in cui il leader “deve” eliminare i dissidenti e purificare il corpo sano del partito per lasciar spazio ai veri credenti. In questo il M5S assume veramente il connotato di un movimento rivoluzionario. Solo che la sua energia trasformativa l’ha rivolta verso se stesso, dimenticando tutto quello che esiste al di fuori. Le aspettative di cambiamento, sia sul piano programmatico, con proposte precise e concrete, sia nell’adozione di uno stile politico aperto, dialogico e franco, ripulito dalle incrostazioni di questo ventennio, sono andate deluse.
Si possono trovare le cause di tutto questo nell’egocentrismo di Grillo, nel successo troppo violento e ingestibile, nell’improvvisazione della struttura organizzativa, nella pochezza e inesperienza degli eletti. Ma se il M5S è arrivato a questo dipende anche dal fatto che non ci sono linee guida a cui un partito deve attenersi. In Italia ogni proposta di legge sui partiti fa gridare allo scandalo come se si volessero limitare le libertà politiche fondamentali. È ora di superare questo atteggiamento, comprensibile nel primo dopoguerra, del tutto fuori posto ora. In tutti i paesi democratici, e soprattutto in quelli di recente democratizzazione dell’Europa centroorientale, sono state adottate norme sul ruolo e sul funzionamento dei partiti. La ragione è semplice. Si vuole garantire una effettiva democrazia interna ai partiti per mettere al riparo i partiti stessi, e come side-effectanche
il sistema politico, da tentazioni autoritarie o cesariste. In Germania, paese che per primo ha introdotto una legge sui partiti, chi non si adegua ai principi democratici non solo viene penalizzato finanziariamente con il blocco dei fondi pubblici (che sono previsti, e in abbondanza) ma, in caso di gravi violazioni, viene poi sottoposto alle restrizioni previste dall’ufficio per la Protezione della Costituzione del ministero dell’Interno. L’autonomia organizzativa dei partiti non è certo limitata da norme generali concepite al solo scopo di garantire diritti di espressione e procedure democratiche interne. Quello che viene tenuto sotto controllo è la pulsione autoritaria della leadership. Una pulsione che è quasi naturale e che può quindi avere bisogno di essere imbrigliata dall’esterno. Fin qui i partiti italiani non ci sono riusciti ed anzi sono scivolati verso forme organizzative che oscillano dal cesarismo (Gianfranco Fini ai tempi d’oro di Alleanza nazionale) al plebiscitarismo carismatico (Umberto Bossi e Silvio Berlusconi), fino al personalismo in sedicesimo di Antonio di Pietro. E adesso tocca al M5S.
La sua deriva autoritaria dimostra che il virus del comando senza freni alligna ancora. A questo punto servono norme che impediscano l’ulteriore discredito della politica. Se anche chi si poneva come l’antidoto alla vecchia politica crolla così, la disaffezione salirà alle stelle. Intervenire con la forza della legge per ripristinare regole di “agibilità” democratica nei partiti è una necessità vitale per un migliore funzionamento del nostro sistema.

La Repubblica 19.06.13

"La macchia umana sull’Europa", di Barbara Spinelli

Se almeno avessero le loro divinità antiche: forse i Greci capirebbero meglio quel che vivono, l’ingiustizia che subiscono, l’abulica leggerezza di un’Europa che li aiuta umiliandoli da anni, che dice di non volerli espellere e nell’animo già li ha espulsi. Le divinità d’un tempo, si sapeva bene che erano capricciose, illogiche, si innamoravano e disamoravano presto. Su tutte regnava Ananke: l’inalterabile Necessità, ovvero il fato. A Corinto, Ananke condivideva un tempio con
Bia, la Violenza. L’Europa ha per gli Ateniesi i tratti di questa Necessità. Forse capirebbero, i Greci, come mai a Roma s’è riunito venerdì un vertice di ministri dell’Economia e del Lavoro, tra Italia, Spagna, Francia, Germania, per discutere il lavoro fattosi d’un colpo cruciale, e nessuno di essi ha pensato di convocare la più impoverita delle nazioni: 27 per cento di disoccupazione, più del 62 per cento giovani. Sono i tassi più alti d’Europa. Forse avevano qualcosa da dire, i Greci, sui disastri della guerra che le istituzioni comuni continuano a infliggere con inerte incaponimento, e senza frutti, al paese reo di non fare i compiti a casa, come recita il lessico Ue.
La Grecia è la macchia umana che imbratta l’Europa, da quando è partita la cura d’austerità. Ha pagato per tutti noi, ci è servita al tempo stesso da capro espiatorio e da cavia. In una conferenza stampa del 6 giugno, Simon O’Connor, portavoce del commissario economico Olli Rehn, ha ammesso che per gli Europei è stato un «processo di apprendimento ». In altri paesi magari si farà diversamente, ma non per questo scema la soddisfazione: «Non è stata cosa da poco, tenere Atene nell’euro»; «Dissentiamo vivamente da chi dice che non è stato fatto abbastanza per la crescita». Poi ha aggiunto piccato: «Sono accuse del tutto infondate».
O’Connor e Rehn reagivano così a un rapporto appena pubblicato dal Fondo Monetario: lo stesso Fmi che con la Banca centrale europea e la Commissione è nella famosa troika che ha concepito l’austerità nei paesi deficitari e dall’alto li sorveglia. L’atto di accusa è pesante, contro strategie e comportamenti dell’Unione durante la crisi. La Grecia «poteva uscirne meglio», se fin dall’inizio il debito ellenico fosse stato ristrutturato, alleggerendone l’onere. Se non si fosse proceduto con la micidiale lentezza delle decisioni prese all’unanimità. Se per tempo si fosse concordata una supervisione unica delle banche. Se crescita e consenso sociale non fossero stati quantità trascurabili. Solo contava evitare il contagio, e salvaguardare i soldi dei creditori. Per questo la Grecia andava punita. Oggi è paria dell’Unione, e tutti ne vanno fieri perché tecnicamente rimane nell’euro pur essendo outcast sotto ogni altro profilo.
Addio alla troika dunque? È improbabile, visto che nessun cittadino può censurare i suoi misfatti, e visto il sussiego con cui è stato accolto il rapporto del Fondo. L’ideale sarebbe di licenziarla fin dal Consiglio europeo del 27-28 giugno, dedicato proprio alla disoccupazione che le tre Moire della troika hanno così spensieratamente dilatato. Il Parlamento europeo non oserà parlare, e quanto alla Bce, le parole di Draghi sono state evasive, perfino un po’ compiaciute: «Di buono, nel rapporto FMI, è che la Banca centrale europea non è criticata ». Il Fondo stesso è ambivalente, ogni suo dire è costellato di ossimori (di asserzioni
acute-stupide, etimologicamente è questo un ossimoro). Il fallimento c’è, ma è chiamato «necessario». La recessione greca è «più vasta d’ogni previsione », ma è «ineludibile». Il fato illogico regna ancora sovrano, solo che a gestirlo oggi sono gli umani.
In realtà c’è poco da compiacersi. L’Unione non ha compreso la natura politica della crisi – la mancata Europa unita, solidale – e quel che resta è un perverso intreccio di moralismi e profitti calcolati. Resta l’incubo del contagio e dell’azzardo morale.
Condonare subito il debito, come chiedevano tanti esperti, significava premiare la colpa. E poi all’Europa stava a cuore proteggere i creditori, dice il rapporto del Fondo, più che scongiurare contagi: dilazionare le decisioni «dava tutto il tempo alle banche di ritirar soldi dalle periferie dell’eurozona». La Banca dei regolamenti internazionali cita il caso tedesco: 270 miliardi di euro hanno abbandonato nel 2010-11 cinque paesi critici (Grecia, Irlanda, Portogallo, Italia, Spagna).
Ma la vera macchia umana è più profonda, e se non riconosciuta come tale sarà ferita che non si rimargina. È l’ascia abbattutasi sull’idea stessa dei beni pubblici, guatati con ininterrotto sospetto. È qui soprattutto che salari e lavori sono crollati. E la democrazia ne ha risentito, a cominciare dalla politica dell’informazione. Il colmo è stato raggiunto la notte dell’11 giugno, quando d’un tratto il governo ha chiuso radio e tv pubblica – l’Ert, equivalente della Bbc o della Rai – con la tacita complicità della troika che esigeva licenziamenti massicci di dipendenti pubblici. Non che fosse una Tv specialmente pluralista, ma perfino chi era stato emarginato (come l’economista Yanis Varoufakis) ha accusato i governanti di golpe. Le televisioni private, scrive Varoufakis, sono spazzatura: «un torrente di media commerciali di stampo berlusconiano: templi di inculcata superficialità» da quando inondarono gli schermi negli anni ’90.
Il giorno dopo l’oscuramento di Ert (2700 licenziati) c’è stata una manifestazione di protesta a Salonicco. Tra gli oratori l’economista James Galbraith, figlio di John Kenneth, e il verdetto è spietato: cinque anni di crisi son più della seconda guerra mondiale condotta dall’America in Europa, più della recessione combattuta da Roosevelt. E la via d’uscita ancora non c’è.
Perché non c’è? Galbraith denuncia un nostro male: la
mentalità del giocatore d’azzardo.
Il giocatore anche se perde s’ostina sullo stesso numero, patologicamente. Continuando a ventilare l’ipotesi dell’uscita greca l’Europa ha spezzato la fiducia fra gli Stati dell’Unione, creando una specie di guerra. Ci sono paesi poco fidati, e poco potenti, che non hanno più spazio: i Disastri di Goya, appunto. Non è stata invitata Atene, alla riunione romana, ma neppure Lisbona: la sua Corte costituzionale ritiene contrari alla Carta due paragrafi del piano della troika, e da allora anche il Portogallo è paria. «Ci felicitiamo che Lisbona prosegua la terapia concordata: è essenziale che le istituzioni chiave siano unite nel sostenerla», ha comunicato la Commissione due giorni dopo la sentenza, rifiutando ogni rinegoziato. Mai direbbe cose analoghe sui verdetti della Corte tedesca, giudicati questi sì inaggirabili.
Macchie simili non si cancellano, a meno di non riscoprire l’Europa degli esordi. Non dimentichiamolo: si volle metter fine alle guerre tra potenze diminuite dopo due conflitti, ma anche alla povertà che aveva spinto i popoli nelle braccia delle dittature. Non a caso fu un europeista, William Beveridge, a concepire il
Welfare in mezzo all’ultima guerra.
Le istituzioni europee non sono all’altezza di quel compito, attualissimo. Tanto più occorre che i cittadini parlino, tramite il Parlamento che sarà votato nel maggio 2014 e una vera Costituzione. È necessario che la Commissione diventi un governo eletto dai popoli, responsabile verso i deputati europei. Una Commissione come quella presente nella troika deve poter esser mandata a casa, avendo generato rovine. Ha perso il denaro, il tempo e l’onore. Ha seminato odio fra nazioni. Ha precipitato un popolo, quello greco, nel deperimento. Si fa criticare da un Fmi malato di doppiezze. È affetta da quello che Einstein considerava (la frase forse non è sua, ma gli somiglia) il sommo difetto del politico e dello scienziato: «L’insania che consiste nel fare la stessa cosa ripetutamente, ma aspettandosi risultati differenti».

La Repubblica 19.06.12

Beni culturali: Pd, al via esame proposta su professionisti

“La Commissione Cultura ha avviato oggi l’esame della proposta di legge per il riconoscimento dei professionisti dei Beni culturali. Siamo soddisfatti che il primo provvedimento legislativo a cui lavorerà la Commissione sia questa iniziativa alla quale il PD lavora da tempo in collaborazione con le associazioni del settore allo scopo di sanare una situazione di inaccettabile umiliazione per tanti lavoratori che da decenni vedono negata la propria professionalità. Ci impegneremo affinché il provvedimento venga approvato il prima possibile da una larga maggioranza perché è necessario dare risposte adeguate e rapide alle giuste aspettative dei professionisti dei Beni culturali”.

Lo rendono noto Marianna Madia, Manuela Ghizzoni e Matteo Orfini, deputati democratici promotori dell’iniziativa legislativa.

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COMUNICATO STAMPA
Soddisfazione degli archeologi dell’Associazione Nazionale Archeologi per la ripresa dell’iter del ddl 362. Incardinato oggi in Commissione Cultura alla Camera, il disegno di legge Madia/Ghizzoni/Orfini che, emendando il codice dei beni culturali, riconosce la professione di archeologo. E l’Ana, Associazione
Nazionale Archeologi, non nasconde la sua soddisfazione per la ripresa dell’iter del ddl 362 che la prematura conclusione della sedicesima legislatura aveva bruscamente interrotto.
“A questo punto, afferma Salvo Barrano, presidente dell’ANA,- ci appelliamo a tutte le forze politiche perchè il DDL diventi rapidamente legge, colmando così una grave lacuna. Concordiamo, in tal senso, con la relatrice e firmataria del disegno di legge, on. Manuela Ghizzoni, sulla necessità di assegnare al più presto la sede legislativa, considerata l’urgenza di aprire nuovi scenari professionali nel settore dei beni culturali in Italia e la concorde
partecipazione della associazioni di settore nella stesura del testo.

“Dal Parlamento vogliamo un messaggio chiaro: questo piccolo emendamento a costo zero è un’occasione per dimostrare la capacità della politica di saper trasformare le parole in fatti – conclude Barrano”.

Dl Imu-Cig: Boccia (Pd), via libera a emendamento Coscia per personale scuole enti locali

Primo passo per superare criticità manovra Fornero per esodati di tutto il comparto. La commissione Bilancio, dopo la sospensione della discussione in Aula sul Dl IMU-Cig, è intervenuta modificando il parere del governo e dando il via libera all’emendamento dell’on. Coscia in base al quale i contratti di lavoro nella scuola degli Enti locali – sottoscritti per esigenze temporanee e sostitutive per il personale educativo e scolastico di asili nido e scuole d’infanzia – possano essere prorogati o rinnovati fino al 31 luglio 2014.
“In questo modo – spiega il presidente della Commissione, Francesco Boccia – è stato di fatto ristabilito il concetto che l’anno scolastico (per il momento degli enti locali) termina secondo il calendario dei tempi della scuola e non secondo l’anno solare. L’emendamento riguarda esigenze temporanee o sostitutive ma rappresenta un primo passo verso la risoluzione di alcuni nodi contenuti nella manovra previdenziale dell’ex ministro Fornero relativi alla scuola statale e sollevati dal Comitato 96: la norma Fornero prevede infatti, del tutto erroneamente, pensionamenti a gennaio anziché settembre. La questione è oggetto di una specifica proposta di modifica avanzata dalle colleghe Gnecchi e Ghizzoni della quale si sta già occupando la Commissione lavoro”, conclude Boccia.

"Quando un esame di Stato uguale per tutti gli studenti?", di Andrea Gavosto*

Vale la pena ritornare sulla decisione del ministro Carrozza, che con un decreto ha pochi giorni fa modificato i test di ingresso ai corsi di laurea a numero chiuso o programmato: medicina, professioni sanitarie, veterinaria, architettura. La vicenda, infatti, al di là degli aspetti tecnici e delle conseguenze immediate per gli studenti, ha messo in luce un importante nodo critico che riguarda il futuro dell’istruzione secondaria e universitaria in Italia.

Due i punti controversi su cui è intervenuto il nuovo ministro: la data dei test, che da luglio slitta nuovamente a settembre, almeno per il prossimo anno accademico; il calcolo del cosiddetto bonus maturità, che nelle intenzioni del suo predecessore, Francesco Profumo, attribuiva fino a 10 punti sulla base del voto di maturità, ricalcolato però in relazione alla distribuzione dei voti nella medesima scuola nell’anno scolastico precedente.

Perché questo accorgimento? Non è un’inutile complicazione? No: sappiamo, infatti, da tempo che i voti dell’esame di Stato non sono confrontabili fra territori diversi e scuole diverse (o anche all’interno della stessa scuola), dipendendo da quanto la commissione è di manica larga o stretta. Nelle regioni meridionali la percentuale di 100 o 100 e lode è significativamente più elevata che al Nord, senza che questo corrisponda necessariamente a maggiori conoscenze e competenze. Per porre rimedio alle evidenti iniquità che si sarebbero determinate negli esiti dei test di ammissione universitaria, Profumo aveva deciso che il voto finale dell’esame non fosse preso al suo valore facciale, bensì rapportato agli esiti nella stessa scuola un anno prima. Così, se una scuola tradizionalmente registrava voti bassi, per la particolare severità delle commissioni o per una qualità media non elevata degli studenti, non era necessario arrivare al 100 per ottenere il bonus massimo, ma poteva essere sufficiente un 90.

Questo meccanismo, che tecnicamente si chiama «normalizzazione» del voto, ha sollevato moltissime critiche, a mio parere largamente ingiustificate. Vero è, però, che il meccanismo non era stato ben spiegato dal ministero, generando sconcerto e sospetti fra gli studenti, già preoccupati dalla prospettiva di fare il test due settimane dopo la fine della maturità.

Con lo slittamento a settembre dei test, ora sarà invece possibile – e questo è certamente un miglioramento – confrontare il voto di maturità individuale non con quelli della scuola nell’anno precedente, ma con quelli assegnati nello stesso anno dalla stessa commissione d’esame. La normalizzazione permetterà quindi di alzare i voti degli studenti finiti con esaminatori particolarmente «tosti» e, per converso, abbassare quelli che hanno avuto la fortuna di finire con commissioni di manica larga. Così si conserva lo spirito originario dell’intervento di Profumo, anche se neanche la correzione statistica permette di eliminare del tutto le differenze legate ai diversi criteri di giudizio di ciascuna commissione.

E veniamo alla questione realmente importante. Questo dibattito – solo in apparenza di lana caprina – sul voto di maturità e sui test di ammissione all’università ha, invece, messo in luce la contraddizione fra l’attuale esame di maturità (modificato sì nel corso dei decenni, ma in fondo improntato a vecchie concezioni) e la necessità delle università di poter confrontare le capacità di studenti che provengono da scuole e regioni diverse: un’irrinunciabile esigenza di equità nel caso di corsi ad accesso limitato. Man mano che altri corsi di laurea (ad esempio, quelli economici) richiederanno forme di selezione in ingresso – non necessariamente una scelta lungimirante in un Paese dove solo il 55% dei diplomati si iscrive all’università, ma resa necessaria dalla riduzione delle risorse – la contraddizione si farà più acuta.

In astratto, è difficile dire se sia preferibile un test di ingresso all’università o un esame di maturità comunque profondamente da riformare. Che fra le due prove vi sia, però, una certa ridondanza a me pare evidente. Poiché un esame finale alle superiori deve comunque esserci (non tutti i diplomati, infatti, si iscrivono all’università) e poiché fra due anni dovremo rivederne gli attuali meccanismi, a suo tempo introdotti sperimentalmente dal ministro Gelmini, non è forse giunto il momento di riflettere seriamente su come rendere i risultati dell’esame di Stato finalmente confrontabili su scala nazionale? Solo così elimineremo lo scarto fra l’epopea emotiva che la vecchia maturità ancora rappresenta e la sua – sempre più scarsa utilità come strumento di valutazione delle competenze dei diplomati.

*Direttore della Fondazione Giovanni Agnelli

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