Latest Posts

Politicamente corretto… Note a margine delle dichiarazioni programmatiche del Ministro M.C.Carrozza alle Camere", di Giancarlo Cerini

Come non condividere le nobili dichiarazioni di principio rese dal neo ministro Maria Chiara Carrozza il 6 giugno 2013 di fronte alle Commissioni riunite di Camera e Senato: maggiori attenzioni e investimenti nell’istruzione per promuovere la “ricchezza” della nazione e delle persone, per uguali opportunità per tutti, per una scuola palestra di legalità, ecc. Come non essere d’accordo sulla vision che mette al centro del programma d’intenti i principi della credibilità, della trasparenza, della coesione sociale: quasi un mix di efficienza e di solidarietà, compatibile con la stagione delle “larghe intese”. Magari l’incipit è troppo connotato dal lessico degli economisti (allocare le risorse, accountability, budget, valutazione ex-post, stakeholder, benchmarking…), ma di necessità occorre fare virtù: un po’ siamo già abituati al linguaggio e oggi per convincere i “signori del Tesoro” (in Europa e in Italia) a sfondare i confini blindati della spesa pubblica bisogna essere molto credibili e dimostrare conti alla mano che ciò che si spende in istruzione ritorna – con interessi aggiunti – per lo sviluppo del paese.

Ma scavando sotto lo strato del politicamente corretto (confermato dalla richiesta di un approccio bipartisan alle riforme possibili: è necessario che i partiti parlino la stessa lingua verso la scuola) quali sono le priorità di iniziativa politica per la scuola che si intravvedono nelle dichiarazioni programmatiche del Ministro Carrozza?

Una scuola “Cenerentola”?

L’Europa è lì ad inchiodarci con i suoi obiettivi riferiti a Lisbona 2020, ove esibiamo ritardi clamorosi in tutti e sette gli indicatori (in particolare per il tasso di dispersione: dal 18% di insuccesso a 18 anni dovremmo scendere sotto il 10%; ma anche per la qualità delle competenze: dal 21% di criticità in lettura a 15 anni dovremmo scendere al 15%, per non parlare della matematica). Purtuttavia, alla scuola vengono richiesti compiti sempre più impegnativi: non è solo questione di un decimale in più nei punti Pisa o Invalsi, perché gli insegnanti si trovano di fronte ragazzi e famiglie disorientate da nuovi stili di vita, precarietà delle situazioni sociali, intreccio di storie, pervasività della comunicazione e con adulti che sembrano aver perso la capacità di aiutare i giovani a “venire al mondo” (e poi a “stare al mondo”) come ricorda la premessa delle Indicazioni/2012 per il curricolo della scuola di base, firmata da Profumo-Rossi Doria, non a caso ampiamente citata nelle dichiarazioni del nuovo Ministro.

Però…però…dopo queste aperture di credito verso gli insegnanti, si riparte … dall’edilizia scolastica. Vediamo di capire il perché. E’ pur vero che una buona struttura fa educazione (come non meravigliarsi di fronte alle buone soluzioni architettoniche adottate in alcune realtà di eccellenza del nostro paese). Prendersi cura degli spazi è dunque prendersi cura dell’educazione. Una scuola sicura, pulita, smart, tecnologicamente adeguata, esteticamente bella, si fa abitare e vivere meglio dagli allievi e dagli insegnanti. Scatta più facilmente il buon apprendimento, soprattutto se le classi diventano “ambienti di apprendimento”, luoghi per esperienze collaborative, creative, motivanti.(1).

Ma di fronte a questa consapevolezza sta il lungo cahier de doleance di una legislazione farraginosa in materia di edilizia scolastica (nei suoi passaggi statali, regionali, provinciali, comunali), nella scarsità delle risorse (a fronte nei nostri 42.000 edifici da riqualificare o rinnovare), delle procedure tecniche e contabili al contagocce… Qui c’è da fare uno sforzo straordinario, come ammette il Ministro, anche bussando alle istituzioni europee…

Intanto emerge l’idea di “controllare” meglio una governance multilivello: la decentralizzazione del sistema educativo non può mettere a rischio l’unitarietà del progetto culturale della nostra scuola. C’è una evoluzione costituzionale incerta, molte realtà territoriali procedono da sé, rischia di venire meno la garanzia dei “livelli essenziali delle prestazioni” decisiva per un diritto fondamentale come è l’istruzione. Ci sono troppe differenze tra le regioni, sembra ricordare il Ministro, e lo stesso “dimensionamento” sta assumendo direzioni troppo asimmetriche, anche se vanno rispettate le sentenze della Corte Costituzionale(2).

Riparliamo degli insegnanti…

Prendere sul serio l’autonomia delle scuole appare indicazione doverosa, ma già all’orizzonte incombono le proposte “hard” dei liberisti della Bocconi (Tabellini e Ichino ne hanno parlato in un recente phamplet per i corsivi del Corriere della Sera)(3). Il ministro sceglie la via dell’equilibrio e riparte con l’organico funzionale di istituto. E’ vero, se ne parla da ormai vent’anni -dalle prime sperimentazioni della stagione dell’autonomia negli anni ’90- ma con scarso successo. C’è anche una recente legge (la n. 35 del 2012) che rilancia l’organico di istituto e quello di rete, ma un anno fa i “guardiani dei conti pubblici” dissero NO alla quantificazione dei posti-docente IN PIU’ per poterlo realizzare.

Intanto, però, si ragiona sull’organico di sostegno, cui vengono dedicate parecchie pagine nella relazione del ministro. Doveroso, ma rischioso: quando si parla di handicap, il Parlamento “piange” come un agnellino -mi disse qualche anno fa una saggia e autorevole sottosegretaria – ma poi le scelte politiche diventano difficili e quasi impossibili. E’ doveroso stabilizzare il sostegno, ma anche qui occorrerebbe aprire un tavolo “vero” sul sostegno per tenere insieme: posti di sostegno (ormai 101.000 unità), mansioni necessarie (didattiche, ma anche sociali, riabilitative, assistenziali), gli orari del personale, le sinergie tra enti, le tipologie di disabilità (ormai spappolate tra handicap, DSA, ADHD, BES, ecc.). Terreno nobile di impegno, ma del tutto impopolare, come dimostra il silenzio attorno alla proposta intelligente della Fondazione Agnelli, sottoscritta pure da Caritas e Centro Erikcson).(4) Comunque se ne riparla ed è già importante farlo.

Ma è sull’intera platea degli insegnanti che si giocherà la partita vera. Sul loro numero, certamente, ma anche sulla loro qualificazione. Il fatto è che quella dell’organico funzionale rischia di diventare una sterile guerra di posizione, se non si riparte da un “tavolo” vero sul lavoro insegnante (che tenga insieme: il numero dei docenti, il loro orario di lavoro, l’abolizione delle supplenze così come sono oggi, la stabilizzazione del personale precario). Una mossa non facile, ma indispensabile, in cui governo, sindacati e insegnanti dovrebbero fare passi indietro (che sono poi passi in avanti), per riscoprire le reciproche convenienze di un accordo di solidarietà (stabilizzazione sul posto in cambio di impegno maggiore…).

Fa capolino il merito

Qui il ministro percepisce certamente la scivolosità del terreno ed evoca un “patto per la scuola” con i sindacati (per sottoscrivere alleanze decisive, come qualche volta si sono realizzate nelle relazioni sindacali nel nostro Paese). Un richiamo al possibile riassorbimento del precariato (44.000 posti nel triennio 2014-17) è controbilanciato dal riconoscimento che per il prossimo settembre 2013 le nomine saranno assai poche. E il turn-over non è tutto…

Sottovoce si parla di carriera, di svincolo dall’anzianità, di valutazione del lavoro docente. Si evocano riconoscimenti per le figure di sistema (le “posizioni organizzative”), per chi fa funzionare la scuola, per chi si impegna in imprese innovative. L’ipotesi più concreta riguarda nuove modalità di reclutamento dei dirigenti scolastici, con un riconoscimento specifico dei ruoli di staff. Si cita anche il nuovo Regolamento sul sistema di valutazione, ma in termini guardinghi, quasi per saggiarne la consistenza (il Ministro chiede una cultura della valutazione che non si limiti a misurare le performance, ma a mettere a disposizione informazioni per migliorare il sistema educativo). Ma – date queste premesse condivisibili – le soluzioni possibili sono molte e bisogna prendere decisioni urgenti.(5)

Giustamente il Ministro ricorda che per ogni riforma che si rispetti è necessario dedicare risorse e impegni alla formazione dei docenti. Un primo banco di prova è rappresentato dalle Indicazioni/2012 per la scuola di base, fresche di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, perché senza un significativo piano di accompagnamento rischierebbero di rimanere lettera morta come è successo per le tante innovazioni di questi anni.

Politiche per l’inclusione

Ma l’Europa ci incalza sulla qualità dei risultati; la dispersione ed i livelli di apprendimento sono allarmanti. E’ necessario ripartire dalla scuola dell’infanzia (ivi comprese le sezioni primavera, da potenziare), dall’estensione del tempo scuola, da un rapporto più innovativo tra la scuola e le altre agenzie educative e sociali del territorio (metodologia per cui i fondi europei sembrano più a portata di mano). Esiste già un percorso avviato nelle regioni del sud dal tandem Barca-Rossi Doria: ci si aspetta di vederne i primi frutti. Magari confrontando le metodologie: c’è che preferisce intervenire sulle condizioni “sociali” della qualità della vita dei nostri ragazzi (la coesione sociale e l’inclusione), c’è invece che spinge sulla didattica “breve” per migliorare i risultati nelle prove Ocse-Pisa.

Doveroso il passaggio sul potenziamento dell’istruzione e formazione professionale, ma con aperture assai soffici rispetto a più ruvidi richiami alla realtà provenienti da alcune parti sociali del Paese. Appare intollerabile il doppio gap italiano della più alta percentuale di giovani disoccupati (addirittura NEET: not in employement education training)(6), ma anche della carenza di determinati profili professionali (di basso livello formativo, si dirà…), a testimonianza di una sfasatura immensa tra percorsi formativi e uscite nel mondo del lavoro. Qui occorre riaprire a tutto campo la discussione, fino a lambire la scomoda prospettiva duale del sistema tedesco (dove una filiera formativa punta decisamente all’apprendistato e al rapporto diretto con il mercato del lavoro) o il ripensamento dell’intero percorso scolastico italiano, per mettere i nostri ragazzi 19enni a contatto diretto con il loro futuro possibile (all’Università, nella formazione di alto livello, verso l’Europa, negli stage). Ma per un programma del genere occorrono effettive “larghe intese” oltre che un pubblico confronto sulle scelte più utili.

Per ora siamo alle prime pagine di una possibile Agenda di politiche per la scuola. C’è un indice abbozzato di questioni aperte. Spesso sono nodi irrisolti da decenni. Ma vale la pena crederci ancora. Soprattutto per chi si cimenta con entusiasmo nel voler intravvedere un futuro positivo per la scuola, senza farsi troppo condizionare dagli insuccessi del passato(7).

1 N.D’Andrea, L’importanza degli spazi nell’ambiente di apprendimento e M.Orsi, La penna, il quaderno, la LIM e la lavagna, in “Rivista dell’istruzione”, n. 3, maggio-giugno 2013, Maggioli, Rimini.

2 Il privato in istruzione c’è, ha assunto dopo la legge Berlinguer (la legge 62/2000) le sembianze di un sistema

paritario, che va in un qualche modo riconosciuto dal “pubblico”. E non è corretto affermare che la scuola pubblica viene impoverita per finanziare la scuola privata. Ma cosa pretendete? Sembra incalzare nel suo report il Ministro: con l’1,2 % dei contributi di Bilancio (circa 500 ml) si dà una mano ad un sistema paritario che scolarizza circa il 12 % degli utenti. Pragmaticamente laico…

3 A.Ichino, Liberiamo la scuola, ebook Corsivi del Corriere della Sera. Forum idee per la crescita.

4 Fondazione Agnelli (Caritas e Treellle), Gli alunni con disabilità nella scuola italiana. Bilancio e proposte, Erickson, Trento, 2011.

5 G.Cerini, Riappropriamoci della cultura della valutazione, nel Dossier predisposto da Cisl Scuola in occasione del Congresso nazionale di Firenze (giugno 2013). Una analisi complessiva dell’evoluzione del sistema nazionale di valutazione è contenuta nel numero monografico 1/2013 di Voci della Scuola: G.Cerini-M.Spinosi (a cura di), Cultura e strumenti della valutazione, Tecnodid, Napoli, 2013.

6 F.Farinelli, I NEET: chi sono e cosa (non) fanno?, in “Rivista dell’istruzione”, n. 3, maggio-giugno 2012, Maggioli, Rimini.

7 M.G.Dutto, Acqua alle funi. Per una ripartenza della scuola italiana, Vita e Pensiero, Milano, 2013. Propone un approccio non rituale al cambiamento della scuola italiana, basato sul protagonismo concreto, il coraggio dell’azione e l’iniziativa professionale di tutti i soggetti chiamati a occuparsi della scuola. Con un occhio meno provinciale a ciò che accade all’estero ma anche con l’orgoglio delle eccellenze italiane.

da Scuolaoggi.org

"L'Aventino del voto", di Nadia Urbinati

Le elezioni comunali che si sono da poco concluse passeranno alla storia come le consultazioni che hanno registrato il crollo dei partiti simpatetici a visioni popu-liste e plebiscitarie (il Pdl, la Lega, e il M5S), un fatto molto importante per le implicazioni che può avere nel modo di concepire lo stato e la politica. Le elezioni passeranno anche alla storia come quelle che hanno visto un crollo della partecipazione elettorale, franata sotto il 50 per cento degli aventi diritto. Il Pd e il centrosinistra non hanno di che celebrare, anche se i loro candidati hanno vinto dovunque. Un
en plein
che lascia un retrogusto amaro. Ci si deve preoccupare di questo Aventino degli elettori? La domanda è retorica. Evidentemente ci si deve preoccupare, e la prima reazione a questa legittima preoccupazione dovrebbe essere una riflessione sul contesto socio- economico all’interno del quale si colloca questo declino della partecipazione elettorale. La crisi economica e la crisi partecipativa sono tra loro correlate, simili nella fenomenologia e negli effetti.
La crisi economica ha alimentato una psicologia della rinuncia. La sua radicalità ha tolto a molti il senso della possibilità effettiva di fare scelte lavorative e di carriera, di impegnarsi con successo per un futuro migliore o semplicemente sapendo che quel che fanno non è futile. L’idea che l’impegno individuale abbia efficacia, che ci sia un senso tangibile nel fare e sacrificarsi: questo sentimento è deperito insieme ai posti di lavoro. Ed è il segno della gravità della crisi. La comparazione tra quel che era e che è ora remunerativo fare; la riflessione al ribasso di quel che si può realizzare oggi rispetto a quel si poteva ieri: queste valutazioni comparative delle circostanze di vita sociale e di scelta portano molti italiani/e a concludere che ci sono pochi margini per rovesciare la loro condizione. In sostanza, il fare ha sempre meno potere. Il senso di futilità si è travasato anche nella sfera politica.
Anche come cittadini, molti sentono che il potere di voce che il diritto di voto dà è poco o per nulla efficace. Le barriere che ostruiscono l’intraprendenza sociale esistono anche nella sfera politica. Dove chi sta “dentro” o è “in politica” è percepito come depositario di un potere che molti, troppi, tra coloro che stanno “fuori”, sentono di non riuscire ad influenzare. Evidentemente i cittadini ordinari avvertono una lontananza tale da chi sta dentro la politica da sapere che la loro voce non arriva e se arriva non ha effetto. Si tratta di una preoccupante erosione del potere della cittadinanza.
Vi era negli anni Cinquanta una scuola americana di pensiero che sosteneva che l’apatia e la non partecipazione fossero un segno di salute della democrazia: come non si va dal medico quando si sta bene, così non si va a votare quanto non si ha nulla di cui lamentarsi. Chi tace (o sta a casa) acconsente. L’espansione sociale e il benessere a portata di mano rendevano forse plausibile questa interpretazione. Applicata all’Italia questa lettura non funziona: né per gli anni Cinquanta, quando il paese, dopo il fascismo, viveva la rinascita economica e quella democratica con comprensibile entusiasmo partecipativo; né per il presente, poiché l’astensionismo avviene in un clima di depressione economica estrema. Nella vita economica come in quella politica, se sempre più persone oggi non fanno o non cercano di fare è perché ritengono che non ne valga la pena. Questo spiega le cifre impressionanti dei giovani che non studiano e non cercano lavoro. E spiega le cifre del crollo della partecipazione elettorale.
Questo Aventino della fiducia nelle proprie possibilità e nel proprio potere è l’aspetto più preoccupante del nostro tempo. Le ultimissime consultazioni elettorali confermano il trend del senso di futilità del suffragio – sforzo partecipativo al quale non corrisponde nulla perché le cose non cambiano, le condizioni sociali restano critiche, e la classe politica resta lontana e quasi non toccata dall’opinione dei cittadini. Non c’è peggior segno di malessere psicologico di quel che viene dal senso di impotenza. Per la democrazia, soprattutto, che riposa sull’impegno volontario e libero dei cittadini di partecipare. La futilità della partecipazione al voto è figlia del senso di sfiducia nell’efficacia del voto – un senso che si è consolidato nel corso delle ultime tornate elettorali, fino a mostrarsi nelle forme radicali che abbiamo visto nel fine settimana dei ballottaggi. La maggioranza che ha vinto è conteggiata su una minoranza di partecipanti. Certo, le regole sono legittime perché è la conta dei voti che vale. Ma è lecito preoccuparsi molto del declino della legittimità morale perché quando il diritto di voto viene giudicato futile è perché gli elettori sentono di non avere potere. Una democrazia che infonde impotenza alla maggioranza dei suoi cittadini è una democrazia davvero anomala.

La Repubblica 18.06.13

"Il made in Italy torna a crescere", di Luca Orlando

Il rimbalzo è minimo, ma di questi tempi è già un successo. Dopo due mesi consecutivi in rosso le esportazioni italiane invertono il trend e tornano a crescere, grazie in particolare alla “novità” della mini-ripresa degli acquisti dall’Europa. Il bilancio globale del mese, aiutato dalla presenza di una giornata lavorativa in più, vede una crescita tendenziale del 4,4%, mentre rispetto al mese precedente il bilancio è in pareggio. La crescita annua è il risultato di un aumento di oltre sei punti nei paesi extraeuropei e di un guadagno del 3,1% in Europa, crescita che interrompe nella Ue i dati fortemente negativi di febbraio e marzo e che viene corroborata dal dato Eurostat che indica un significativo +4% per le spedizioni intra-europee. Determinante per il dato del Vecchio Continente è il segno più dei nostri primi due partner commerciali, Germania e Francia, ma il dato forse più inatteso è il recupero della Spagna, con un aumento del 3,9% che inverte per la prima volta un trend negativo ininterrotto dal secondo trimestre del 2011. Il risultato di aprile delle nostre esportazioni riporta così in attivo il bilancio dall’inizio dell’anno, dopo un primo trimestre che si era chiuso in rosso dello 0,7%, primo calo dalla fine del 2009. Sul fronte delle vendite estere aprile è stato tuttavia un mese positivo non solo per l’Italia, con Germania e Francia capaci di realizzare performance analoghe o anche superiori: per Berlino le esportazioni crescono infatti nel mese dell’8,5 per cento.
Dal punto di vista settoriale la ripresa è abbastanza diffusa, con un aumento a doppia cifra per alimentari, farmaceutica e articoli in pelle e una crescita comunque robusta per abbigliamento, chimica, gomma, elettronica e mobili. Quasi un punto di crescita dell’export è “spiegato” dall’andamento dei farmaci in Belgio, in forte crescita per il contributo rilevante che arriva dalla multinazionale Janssen. «Il nostro sito di Latina – spiega il numero uno della società e presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi – ha triplicato la produzione di farmaci grazie alla scelta di Johnson&Johnson di centralizzare qui molte attività mondiali tra cui l’area Otc, e in Europa il nostro hub di riferimento è proprio il Belgio». Tra gennaio e aprile per i farmaci l’export globale cresce del 19,6% ma i guai per il settore sono altrove. «Le scelte di investimento delle multinazionali – spiega Scaccabarozzi – sono spesso legate all’andamento del mercato interno e qui l’Italia è sempre più debole, non solo per il calo dei consumi ma anche per le penalizzazioni continue che subiamo, tra cui il continuo taglio dei prezzi della sanità pubblica». Se i farmaci corrono, qualche apprensione c’è invece per la meccanica made in Italy, con i prodotti in metallo a cedere lo 0,6% mentre i macchinari crescono del 3,4%, dunque al di sotto della media.
Ma il bilancio globale, come detto, resta positivo, con maggiori incassi per 1,3 miliardi rispetto allo stesso mese del 2012. Crescita che si confronta ancora una volta con il calo delle importazioni, giù del 2,6% ad aprile, sesto calo mensile consecutivo determinato quasi esclusivamente dalla frenata dell’energia, senza la quale invece i nostri acquisti dall’estero crescono su base annua di quasi due punti. L’altra area di difficoltà resta quella degli acquisti di beni durevoli, giù di oltre tre punti soprattutto a causa dell’ennesimo crollo per le auto, in calo del 7,8% ad aprile. A farne le spese sono soprattutto Germania e Francia, che vedono le proprie vendite in Italia di Mercedes, Audi, Bmw, Volkswagen, Porsche, Renault e Peugeot ridursi in media del 20 per cento. Dall’inizio dell’anno, solo per il settore auto, la Germania ha perso in Italia 625 milioni di ricavi, poco meno di 200 la Francia. In generale, da gennaio l’Italia ha acquistato dall’estero 8,6 miliardi di euro di prodotti in meno (soprattutto energia) e se questo da un lato testimonia la cronica debolezza della domanda interna, dall’altro offre un contributo positivo alla bilancia commerciale nazionale, con un saldo che nei primi quattro mesi dell’anno è attivo per 4,6 miliardi a fronte di un passivo di oltre quattro miliardi nel 2012.

Il Sole 24 ore 18.06.13

"Un nuovo New Deal per creare lavoro", di Laura Pennacchi

Dopo l’allarmato vertice di Roma e nell’imminenza del Consiglio Europeo di fine giugno, ora che tutti in Italia e in Europa finalmente riconoscono l’emergenza lavoro e il governo Letta con il «decreto del fare» pare avere acquisita la consapevolezza che l’asse strategico debba essere il rilancio della domanda interna, chi da molti mesi lancia l’allarme non può certo essere tacciato – è l’accusa di Renzi – di «terrorismo psicologico». L’indicazione della Cgil – secondo cui, in assenza di interventi e limitandosi a proiettare nel futuro i gravi trend in atto, solo nel 2076 si tornerebbe ai livelli occupazionali del 2007 – costituisce la pura e semplice estrapolazione ai prossimi sessanta anni di tendenze già denunziate nello scorso gennaio nel «Libro Bianco per un Piano del lavoro 2013 Tra crisi e grande trasformazione» edito da Ediesse. Ora, semmai, il problema è l’opposto: che, cioè, le proposte che vengono avanzate siano all’altezza dell’eccezionalità della situazione occupazionale denunziata e unanimemente riconosciuta, siano cioè proposte di aggressione del problema e non di mero aggiustamento rimanendo alla sua superficie. Occorre superare prudenze e timidezze, senza limitarsi a ricette – quali incentivi fiscali e decontribuzioni per favorire le assunzioni e ridurre il costo del lavoro, maggiore concorrenza, ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro – del tutto tradizionali, rivelatesi già largamente inadeguate e insufficienti a produrre lo scarto occupazionale richiesto. Non è che manchino anche proposte innovative, quali la «garanzia giovani» propugnata dall’Unione europea o la staffetta in job sharing giovani/anziani. Quello che manca è una visione d’insieme che collochi una «terapia occupazionale shock» entro il rovesciamento di paradigma, richiedente politiche pubbliche fortemente innovative, necessario a rompere con l’ortodossia deflazionistica dell’austerità autodistruttiva. Per questo la relazione va invertita. Non bisogna partire da un indiretto shock fiscale richiedente risorse finanziarie immense, nell’ipotesi di Brunetta per di più da coprire con un enorme taglio di spesa pubblica per servizi e prestazioni secondo il più classico modello neoliberista «meno tasse, meno Stato, più mercato». Bisogna partire da un diretto shock occupazionale, il quale richiederebbe, in proporzione, molto meno risorse e sarebbe assai più efficace, posto che le simulazioni del Cer contenute nel Libro Bianco mostrano la maggiore costosità degli incentivi fiscali rispetto alle misure di spesa e la minore efficacia in termini di impatto sul Pil e sull’occupazione. Il carattere solo «indiretto» e «permissivo », piuttosto che «diretto» e «promotore », che assume lo stimolo pubblico nelle misure tradizionali ricordate parla di una persistente prudenza e timidezza. Ma la gravità, la durata, la straordinarietà dell’impatto occupazionale di una crisi che in Italia anche nel 2013 porterà a una caduta del Pil vicina al 2% reclamano l’adozione di un approccio alternativo, che si distacchi dalla tradizione, rompa con i tabù, rovesci il paradigma dominante. In questione è, primariamente, il carattere «diretto» e «promotore» che il Piano del lavoro deve avere, conseguente al suo essere parte di una strategia pubblica espansiva complessiva, una strategia da big push trainato dall’operatore pubblico, l’unico in questa fase – in cui gli operatori privati sono paralizzati da aspettative negative di reddito e di profitto – in grado di rilanciare gli investimenti (del resto drammaticamente caduti negli ultimi anni) e di creare occupazione. Deve risuonare forte e chiaro il monito di Keynes che per situazioni eccezionali ideava politiche eccezionali, fondate sulla triplice idea di «socializzazione dell’investimento, socializzazione della “banca”, socializzazione dell’occupazione », idee seguite anche oggi negli Usa da Obama, il quale punta sugli investimenti pubblici, crea una banca pubblica nelle infrastrutture, forza verso il basso il livello della disoccupazione. In sostanza, di fronte alle dimensioni raggiunte da quella che i democratici americani non esitano a definire job catastrophe la quale revoca in dubbio la «civiltà del lavoro» e con essa la legittimità del capitalismo, lo Stato non può limitarsi a creare le condizioni di contesto, deve guidare, indirizzare, trainare intervenendo direttamente. La sfida, infatti, è duplice, perché si tratta di rilanciare la crescita e l’occupazione e, al tempo stesso, cambiarne in corso d’opera qualità e natura, cogliendo l’occasione unica che con la crisi globale, insieme a mille difficoltà, ci si presenta: congiungere la spinta per la creazione diretta di lavoro con la spinta per la generazione di un nuovo modello di sviluppo. La scala di tutto ciò non può che essere europea e comporta una inversione dell’austerità deflazionistica, ma gli ambiti per i quali si può e si deve già agire a livello nazionale sono non marginali La creatività istituzionale del New Deal, così come l’inventiva del Piano del lavoro della Cgil del 1949 e quella con cui Ernesto Rossi coniugava la sua proposta di «Esercito del lavoro» alla generalizzazione del servizio civile, possono essere le fonti di inesauribile modernità a cui ispirarsi. L’idea del lavoro da creare deve essere molto ampia, comprensiva di attività spesso considerate non lavoro e non retribuite. I progetti vanno costruiti su una miriade di esigenze, dalle reti alla ristrutturazione urbanistica delle città, dalle infrastrutture alla riqualificazione del territorio, dai bisogni emergenti – attinenti all’infanzia, l’adolescenza, la non autosufficienza – al rilancio a fini di sviluppo del welfare state, per il quale, invece, vanno contrastate le persistenti intenzioni di privatizzazione, per esempio in sanità. Si può partire dai bisogni più urgenti: riassetto idrogeologico del territorio, risparmio energetico, ristrutturazione edilizia, approfondimento della riqualificazione e manutenzione del patrimonio scolastico (due edifici su tre hanno più di trenta anni di cui solo il 22% è stato ristrutturato, mille scuole sono state costruite nell’Ottocento e più di tremila tra la fine del 1800 e il 1920, di quasi settemila edifici non si conosce neanche la data di costruzione). L’apporto occupazionale che può dare la pubblica amministrazione può essere immediato e a costo zero. Per avere 90mila giovani occupati in più, basterebbe estendere a tutta Italia la proposta che il presidente Enrico Rossi, in aggiunta al progetto GiovaniSì (tirocini e praticantati retribuiti, contributo per l’affitto, servizio civile, aiuti per attività autonome e professionali) ha formulato per la Toscana: consentire di andare in pensione nei prossimi tre anni a 20mila dipendenti pubblici oggi costretti dalla riforma Fornero a prolungare l’attività lavorativa, con una riduzione del loro costo medio da 32mila euro a testa a 24mila e un risparmio medio di 8mila, ogni tre lavoratori in pensione si recupererebbero 24mila euro, pari al costo di un giovane appena assunto, con la possibilità di assumere nel triennio 7mila giovani

L’Unità 18.06.13

"Campagna elettorale permanente", di Claudio Tito

Silvio Berlusconi è sempre in campagna elettorale. O almeno ne prepara sempre una. Anche quando non si vota. È quello che gli riesce meglio. Questo governo, del resto, certo non potrà durare cinque anni. Come ha detto il presidente della Repubblica, nasce su una alleanza fisiologicamente «a termine ». E il capo del centrodestra si premunisce. Pur appoggiando questo esecutivo, ha bisogno di prenderne le distanze.
Trattarlo di fatto da “governo amico”. Attacca l’Unione europea, i trattati economici che sono alla base dell’Ue per prendere di mira Palazzo Chigi. Il Cavaliere non muove le sue pedine sulla base di un interesse nazionale. Il suo orizzonte si limita quasi sempre ai confini più o meno angusti del suo tornaconto. In questo caso politico.
Dopo la pesante sconfitta subita alle ultime elezioni amministrative, l’ex presidente del Consiglio punta a riconquistare centralità all’interno della “strana maggioranza” e anche nel suo stesso partito spaccato in una molteplicità di correnti. Fino a due settimane fa appariva come il vero e proprio king maker della
coalizione, una sorta di azionista di maggioranza virtuale pur sprovvisto di tutte le fiches necessarie. Un “socio” capace di indirizzare l’azione del governo e inserire nell’agenda di Palazzo Chigi tutti i punti propagandati dal Pdl in campagna elettorale: dalla cancellazione dell’Imu alla sospensione dell’aumento dell’Iva, appunto. Ma le urne della scorsa settimana ci hanno consegnato un’Italia un bel po’ diversa da quella disegnata da Berlusconi. Le sue prerogative sono state messe in discussione proprio dagli italiani e non dagli alleati. La sua centralità è stata posta fuori asse dalle urne. Una circostanza che il Cavaliere non può accettare e allora rispolvera i toni da comizio per recuperare la guida del “patto di sindacato”. È come se a Enrico Letta dicesse: anche se abbiamo perso, io sono ancora determinante e tu devi ascoltarmi. Anzi: non posso pagare io le scelte di questa compagine facendo perdere consenso al Popolo delle libertà. E contestualmente – nella sua infinita campagna elettorale è come se si rivolgesse anche ai suoi elettori per rammentare: solo io posso fare certe cose, solo io posso battermi contro Bruxelles in vostra difesa.
Peccato che quando a Palazzo Chigi c’era lui, le promesse dichiarate non siano state mantenute. Adesso cerca di far dimenticare che la firma sul Fiscal compact, sottoscritto formalmente da Mario Monti, l’ha di fatto messa lui. Stressare i tempi per il raggiungimento del pareggio di bilancio è stata una sua scelta. La lettera con cui la Bce commissariava di fatto l’Italia dopo un triennio disastroso l’ha ricevuta lui. Ora fa finta di niente e chiede a questo governo di ribellarsi a Bruxelles, disattendere gli impegni che lui ha
assunto, sforare la soglia del 3% nel rapporto deficit- Pil e sostanzialmente ignorare la montagna di debito pubblico che pesa sulle spalle di tutti noi. Minimizzando quei quasi trecento miliardi di titoli di Stato che scadono ogni anno.
Scorda anche però che quando a Palazzo Chigi era seduto lui, le sue manovre economiche non erano certo costruite secondo le direttrici che ora indica. L’ultima di quelle operazioni, ad esempio, era composta per due terzi – ben due terzi – da imposte e non da tagli come invoca adesso. Solo a parole ha accettato il braccio di ferro con la Cancelliera tedesca Angela Merkel, perché ad ogni consiglio europeo si è sempre defilato. Interpretando forse a suo modo la frase che qualche tempo fa aveva pronunciato il ministro degli Esteri polacco Sikorski: «Oggi temo la potenza tedesca meno dell’inazione tedesca».
Sostenere, poi, che per i partner europei è impossibile cacciarci dall’Unione e dall’euro, significa non tenere presente quanto sia bassa la credibilità dell’Italia dopo il suo “ventennio” e quanto sia ancora rilevante la quota di debito pubblico detenuto all’estero. E solo se la nuova leadership italiana è affidabile continueranno a comprarlo. Significa anche occultare ai cittadini che uscire dalla moneta equivale ad assestargli un colpo pesantissimo.
Ma, appunto, la logica che segue il capo del centrodestra è un’altra. Vuole riposizionarsi. Cerca di riagguantare la sua centralità politica. Anche perché proprio domani si apre per Berlusconi la più delicata delle stagioni processuali. Prima la decisione della Corte costituzionale sul legittimo impedimento nel caso Mediaset, poi la sentenza per la vicenda Ruby e entro 8-9 mesi la Corte di Cassazione emetterà il suo giudizio sempre su Mediaset e quindi sulla possibilità di interdire il Cavaliere dai pubblici uffici. Tutte circostanze che impongono al Cavaliere di tenersi a portata di mano tutte le carte. Per giocarle al momento opportuno. Chiedere di bloccare l’aumento dell’Iva e cancellare l’Imu, a prescindere dallo stato di salute dei nostri conti pubblici e dai possibili danni collaterali, nasce dunque solo ed esclusivamente da queste esigenze. A cui magari si aggiunge anche un monito ai suoi ministri. Un modo per ricordare che la linea non cambia, anche per loro, e che se vorranno essere ammessi nel nuovo partito, nella Forza Italia 2.0, allora sarà bene che ascoltino le sue parole senza altre tentazioni.

La Repubblica 18.06.13

"Il destino dell’uomo tonno nella gabbia in mezzo al mare", di Adriano Sofri

Bisognerebbe essere Giacomo Leopardi, che figurò il dialogo di un cavallo e un bue, o dell’asinaio con l’asino, a scrivere il dialoghetto morale fra l’uomo e il tonno, fra l’uomotonno e il tonnouomo. I quali sono animali nobili ambedue, e specie protette: benché i tonni rossi – pinnazzurra – prossimi all’estinzione, mentre gli umani africani si moltiplicano, sicché fra il perdere il carico dei tonni e il mancare di soccorso alla deriva degli umani il peschereccio che li traina ha la scelta facile e quasi inevitabile. E solo per ipocrisia gli spettatori, quali siamo per lo più voi e io, lo deplorano, concorrendo a fissare il valore di mercato degli uni e degli altri, e i primi mangiamo di gusto, e non vogliamo sapere dei secondi. Nel maggio del 2007 comparve quel faccia a faccia fra gli uomini ammarati e i tonni deportati, e il capitano del peschereccio spiegò che i tonni dentro la gabbia valevano un milione, e i 27 somali attaccati fuori non valevano niente, e lui niente ci poteva. Questa volta gli umani del peschereccio devono essersela vista brutta davvero, se hanno tagliato la corda e perduto il tesoro di tonni pur di non caricarsi della zavorra di centodue umani. Si può disputare se gli animali umani siano superiori ai tonni, se non per possanza fisica – paragone impensabile – per intelligenza e lungimiranza. Ma il confronto è complicato dalla divisione intestina che oppone gli umani, ed è ignota ai tonni.
Pescatori e loro imprenditori e clienti; e migranti umani, e tonni. I quali sono migranti formidabili, che se ne vengono in quattro mesi dall’America al Mediterraneo — senza mai fermarsi, pena morir soffocati — in cerca dell’acqua luminosa e calda per riprodursi. I migranti umani vengono anche da lontano, per deserti e città cattive, e si attentano nell’acqua chiudendo gli occhi, immaginando di là una terra di delizie, o almeno di salvezza: e nell’acqua si aggrappano alla gabbia dei tonni, e una volta in salvo li aspetta la gabbia per umani, nella quale, dopo mesi forzati a star fermi fino a soffocare, avverrà loro perfino di rimpiangere il cielo aperto sopra quel madornale salvagente che imprigiona i tonni, e il luccichio argentato, e gli occhi fraternamente spalancati. Ghiotti ai palati giapponesi, del resto, e preziosi a cavarne valvole cardiache, tanto sono duttili gli animali umani. Allevati in gabbia, per ingrassare, che ancora non si sa riprodurli cattivi, i tonni rossi sono catturati e trascinati per mare nella direzione inversa a quella dei gommoni di migranti umani — che non chiamo disperati, perché occorre sperare forte per mettersi in quel viaggio — fino a disporli muso contro muso, invidiandosi. Si chiama stabulazione, l’ingrasso in quei recinti acquatici, e vuol dire la stalla, promossa a stabulazione per umani, per ingrassare i tonni catturati e tenere a galla gli umani catturandi. Muoiono lungo il viaggio umani e tonni, i quali sono, benché grandissimi, delicatissimi di conformazione e chissà anche di sentimenti. Separati dai soccorritori, andranno gli uni e gli altri al loro destino, cioè alla loro destinazione. Il centro di identificazione ed espulsione, che non è cambiato se non in peggio quanto alla cella, ma ha rinunciato, gran passo, al nome di accoglienza. La camera della morte, ora mobile, per i grandi pesci a sangue caldo, che, quando le quotazioni del mercato di Tokyo saranno più propizie, verranno fucilati dai macellatori subacquei e issati a bordo, dove, come mostrano i documentari — “Warning: slaughtering cruelty” — sussulteranno ancora dopo che sarà stata loro segata via testa e pinna caudale, e del resto a Lampedusa, mai abbastanza lodata (e tenuta a distanza), agli scampati umani verrà data subito una scatoletta di tonno,
ma pinna gialla, o di delfino spacciato per tonno, così che si cancelli presto dal loro animo il turbamento di quel faccia a faccia alla gabbia. Gli antichi avrebbero saputo trarne un racconto mitologico, ma gli antichi sapevano
di uomini che sfidavano i venti e le onde per seguire virtù e conoscenza e di dei che all’occorrenza si mutavano in tonni, e da noi Dio è morto o pressoché, e anche la marina maltese, e resta solo la marina nostra e la Guardia Costiera.
Si potrebbe, forse, suggerire un doppio uso, per così dire interno ed esterno, delle gabbie per tonni e per umani, e farle dotare dai costruttori di accessori come maniglie o libri sacri in confezioni impermeabili. Anche perché lo stupore indignato suscitato dai 95 vivi e i 7 o più morti appesi alla gabbia, di cui anche il presente scritto è un esemplare, è indebolito dalla ripetizione, e già in quel 2007 qui Francesco Merlo scrisse degli uomini-tonno: «Sgranate, sino a indovinare il viso e le espressioni, la foto degli uomini-tonno: per un momento potrebbe persino sembrare che sorridano. Più verosimilmente gli uominitonno mostrano i denti». Incremento dei tonni all’ingrasso e dei fuggiaschi alla deriva potrebbe assegnare alla gabbia per tonni il privilegio perduto che fu di santuari e chiese, di offrire asilo e rifugio ai perseguitati e gli inseguiti. Invece che negare asilo a chi fugge incolpevole, e incarcerare per un anno e mezzo chi ha commesso il reato d’esser venuto a un mondo come questo.
Se non basta a concludere alla superiorità del tonno sull’uomo, la fa però probabile, astenendosi il tonno dal cannibalismo, salvo che negli allevamenti, dove esso è indotto dai governanti umani. Tecnicamente, non c’è confronto: avendo l’uomo ridotto i tonni al lumicino, e proponendosi ora, in extremis — la scienza procede in extremis, per quella desolazione che gli uomini chiamano pentimento, ed è una pungente nostalgia di un piatto perduto — di moltiplicarli miracolosamente, come ha saputo fare di spigole, orate, salmoni e rombi, coltivate nella taglia dei ristoranti e nel sapore proprio alle nuove generazioni. A far ingrassare il tonno prigioniero di un chilo occorrono oggi 25 chili di aringhe e sgombri, se si trovino, e se no l’equivalente in alici e sardine. A far ingrassare una profuga etiope basterebbe molto meno, ma non se ne caverebbe giovamento alcuno, nemmeno a inscatolarla. Anche lei, tuttavia, se non un valore, ha un suo costo, quando si tratti di rimpatriarla in aereo, verbo magnanimo, che fa della terra da cui è fuggita a rischio della vita e dell’onore, la sua patria.

La Repubblica 18.06.13

Baruffi e Ghizzoni “Il Governo verso l’interpretazione autentica”

Importante risultato ottenuto in Commissione Ambiente della Camera in tema indennizzi. Nuovo passo avanti in Commissione Ambiente della Camera dei deputati verso la detassazione degli indennizzi assicurativi per chi ha subito danni dal sisma 2012: il sottosegretario allo Sviluppo economico De Vincenti, incalzato dai parlamentari Pd, si è impegnato a recuperare la misura attraverso un atto di interpretazione autentica della norma. “In sostanza – spiegano i parlamentari modenesi Pd Davide Baruffi e Manuela Ghizzoni – il Governo ha riconosciuto che il principio era già inserito nel vecchio dl 74 e si tratta ora solo di esplicitarlo. Presenteremo, quindi, un ordine del giorno specifico che impegna formalmente l’Esecutivo a procedere su questa strada”

“Per la prima volta un rappresentante del Governo si impegna formalmente a risolvere la questione della detassazione degli indennizzi assicurativi per via interpretativa, senza necessità di doverla inserire in un ulteriore provvedimento”: i parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi e Manuela Ghizzoni si dicono soddisfatti di quanto accaduto, nel tardo pomeriggio di oggi, in Commissione Ambiente della Camera dove è cominciato l’esame per la conversione in legge del decreto 43, quello contenente, tra le altre cose, misure a favore delle zone terremotate dell’Emilia. Il sottosegretario allo Sviluppo economico De Vincenti ha ammesso che nella normativa precedente (il primo dl 74 convertito poi in legge) già era contenuto il principio della detassazione delle indennità assicurative e che, ora, il Governo si impegna a renderlo immediatamente applicabile con un provvedimento che ne farà, di fatto, l’interpretazione autentica. “E’ solo in seguito a questo ulteriore impegno del Governo – spiegano Baruffi e Ghizzoni – che abbiamo accettato di ritirare il nostro emendamento, anche perché, come chiarito dal relatore Bratti e dal presidente di Commissione Realacci, esiste il pericolo reale che, se la normativa dovesse tornare al Senato per un nuovo voto, non si riesca a concludere la conversione in legge del provvedimento entro l’ultimo termine utile, ovvero lunedì 24 giugno. E in questo modo verrebbero dispersi tutti gli importanti risultati che il lavoro dei nostri colleghi al Senato ha consentito di inserire nel provvedimento, a cominciare dalla proroga per il pagamento delle tasse e l’allentamento del patto di stabilità per i Comuni. Non ci accontenteremo, però, – concludono Baruffi e Ghizzoni – presenteremo uno specifico ordine del giorno, un atto formale in grado di impegnare esplicitamente l’Esecutivo a procedere sulla strada della interpretazione autentica”.