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"Si assume nelle università", di Flavia Amabile

La notizia è questa, nelle università si assume di nuovo. Ci sono circa tremila posti nuovi di zecca per ordinari e ricercatori che il governo annuncia di aver creato con il Decreto del Fare. E’ la prima volta dopo anni di rigore e tagli, vedremo che cosa accadrà, come questo si tradurrà in bandi di concorso e chi ne beneficerà, ma con i tempi che corrono è positivo che ci siano tremila persone che avranno una possibilità.

Ecco il dettaglio dei provvedimenti sulla scuola e sull’università approvati dal consiglio dei ministri.

EDILIZIA SCOLASTICA

Un investimento straordinario di edilizia scolastica, finanziato dall’INAIL fino a 100 milioni di euro per ciascuno degli anni 2014-2016, nell’ambito degli investimenti immobiliari previsti dal piano di impiego di propri fondi. Il piano verrà adottato sulla base della Programmazione Miur-Regioni-enti locali dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, d’intesa con il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e con quello delle Infrastrutture e dei Trasporti.

– SBLOCCO DEL TURN OVER AL 50% PER UNIVERSITÀ ED ENTI DI RICERCA DAL 2014

Si ampliano le facoltà di assumere delle università e degli enti di ricerca per l’anno 2014, elevando dal 20 a 50% il limite di spesa consentito a rispetto alle cessazioni dell’anno precedente (turn over). Le singole università potranno quindi assumere nel rispetto delle specifiche disposizioni sui limiti di spesa per il personale e per l’indebitamento senza superare, a livello di sistema, il 50% della spesa rispetto alle cessazioni. Con questo provvedimento si libereranno posti per 1500 ordinari e 1500 nuovi ricercatori in tenure track sul Ffo nel 2014 Spesa prevista 25 mln nel 2014; 49,8 nel 2015 – Copertura mediante taglio spese esternalizzazione servizi per le scuole

– BORSE DI MOBILITÀ PER STUDENTI CAPACI E MERITEVOLI

5 mln per il 2013 e 2014, 7 mln per il 2015 da iscrivere sul Fondo di finanziamento ordinario delle università per l’erogazione di “borse per la mobilità” a favore di studenti che, avendo conseguito risultati scolastici eccellenti, intendano iscriversi per l’anno accademico 2013-2014 a corsi di laurea in regioni diverse da quella di residenza. Le risorse saranno suddivise tra le regioni con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano. Le borse saranno attribuite sulla base di una graduatoria adottata da ciascuna Regione per le università site nel proprio territorio.

– RENDERE PIÙ FLESSIBILE IL SISTEMA DI FINANZIAMENTO DELLE UNIVERSITÀ E SEMPLIFICARE LE PROCEDURE DI ATTRIBUZIONE DELLE RISORSE

Per questo si unificano in unico fondo le risorse attualmente destinate al finanziamento ordinario delle università (FFO) alla programmazione triennale del sistema, ai dottorati, e agli assegni di ricerca. Nello stesso provvedimento si decide di sottoporre all’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur) la valutazione dei servizi delle università e degli enti di ricerca per semplificare il sistema di valutazione attualmente in vigore.

– INTERVENTI STRAORDINARI A FAVORE DELLA RICERCA

Il Ministero favorirà interventi diretti al sostegno e allo sviluppo delle attività di ricerca fondamentale e di ricerca industriale, mediante la concessione di contributi alla spesa nel limite del 50% della quota relativa alla contribuzione a fondo perduto disponibili sul Fondo per la ricerca applicata (FAR). Si tratta di utilizzare il fondo rotativo, che si alimenta con i rientri del credito agevolato, che contiene anche risorse da destinare a contributi a fondo perduto. Gli interventi da finanziare riguardano principalmente lo sviluppo di start up innovative e di spin off universitari, la valorizzazione di progetti di social innovation per giovani con meno di 30 anni, il potenziamento del rapporto tra il mondo della ricerca pubblica e le imprese, il potenziamento infrastrutturale delle università e degli enti pubblici di ricerca.

La Stampa 17.06.13

Franceschini: «Il lavoro viene prima di Imu e Iva», di Andrea Garibaldi

Fra i commenti sui provvedimenti varati sabato dal governo, a Dario Franceschini è piaciuto questo: «Ragionevoli misure». Gran complimento, dice: «Di solito si annunciano disegni di legge con riforme epocali, noi abbiamo fatto un decreto che entra subito in vigore e inciderà nella vita di persone, famiglie e imprese».
Dovesse sottolineare uno dei provvedimenti?
«La velocizzazione della giustizia civile, per far recuperare competitività all’Italia, le misure per ricerca e università. Ma il decreto è pieno di novità, per le quali mi aspetto forti resistenze: nel mondo le lobby intervengono per chiedere di fare qualcosa, in Italia per lasciare tutto com’è».
E dopo il «decreto del fare»?
«In cima a tutto c’è da affrontare la disoccupazione giovanile. Per me, prima di Imu e Iva. Una grande operazione di defiscalizzazione per i nuovi assunti, su tutto il territorio nazionale».
Poi, gli scogli Imu e Iva.
«Sull’Imu dovremo decidere entro luglio. L’abolizione della tassa sulla prima casa è uno degli impegni del governo, anche se c’è chi vorrebbe distinguere meglio i reali bisogni. Sull’aumento dell’Iva, occorre decidere entro fine mese. Tutti vorremmo evitarlo, ma solo bloccarla fino al 31 dicembre costerebbe 2 miliardi di euro».
Lavoro, Imu e Iva sono in qualche modo legati?
«In tutto comporterebbero una manovra da 7-8 miliardi per il solo 2013. Sono troppi e bisognerà scegliere. Destra e sinistra non c’entrano. Spero che nessuno si metta a dire: “L’Imu è cosa mia” o “L’Iva è cosa tua”. Sarebbe un dibattito surreale».
Dario Franceschini oggi è ministro per i Rapporti col Parlamento. Nel 2009 fu segretario del Pd per otto mesi. Segretario fieramente antiberlusconiano. Dopo le ultime elezioni, fu il primo nella maggioranza del Pd ad affermare che l’unica strada era il dialogo con Berlusconi.
Ieri Berlusconi ha detto: «Spero che la collaborazione tra destra e sinistra possa durare».
«In verità, cerchiamo di non dare troppo peso alle cose positive o negative che arrivano ogni giorno da tutti. Il governo è retto da una coalizione improbabile, un momento pare stia per cadere, il momento dopo sembra destinato a lunga vita. Lavoriamo, finché abbiamo la fiducia in Parlamento».
Il lavoro dentro il governo fra uomini del Pd e uomini del Pdl come funziona?
«Funziona, perché viene rispettata una regola: tensioni e scontri nei luoghi propri, lontano dai riflettori. Anche sabato, in Consiglio dei ministri, su alcuni punti la discussione è stata assai animata. Ma all’esterno sosteniamo assieme le scelte finali».
Sta descrivendo un’alleanza con un futuro?
«Assolutamente no. Questo è un governo di servizio. Pd e Pdl sanno di essere avversari politici e torneranno ad esserlo. Il collante in questo momento sono le emergenze degli italiani, non certo una comune visione del futuro».
Bersani ha fatto capire che se il governo cadesse non si voterebbe, potrebbero esserci maggioranze alternative. I renziani l’hanno definita una «bordata per Letta».
«Nessuna bordata da Bersani. Solo una constatazione oggettiva. Le difficoltà nel Movimento 5 Stelle sono sotto gli occhi di tutti, può essere che un’altra maggioranza diventi numericamente possibile. In questo momento nessuno sembra voler andare alle elezioni e, siccome credo alle parole dette, tutti sostengono il governo, da Renzi a Berlusconi».
Le sentenze su Berlusconi metteranno nei guai il governo?
«Non vedo collegamenti tra la ragione sociale del governo e le sentenze, che rientrano nell’autonomia della magistratura».
Il Pd sta per andare a congresso. Con quali regole?
«Che siano quelle del 2008 o nuove regole, la scelta va condivisa più largamente possibile e va condivisa comunque con Renzi: qualsiasi modifica non concordata apparirà contro di lui».
Segretario e candidato premier devono essere la stessa persona?
«Ci sono tre poli tutti sotto il 30 per cento: il buon senso fa pensare che saranno due persone diverse. Come è accaduto anche stavolta».
Ci sono schieramenti chiari che si contrappongono?
«Mi preoccupa vedere nel Pd schieramenti determinati più da dove si proviene che verso dove si vuole andare. Sento riparlare di democristiani e comunisti…».
Che Pd vorrebbe dopo il congresso?
«Un partito di sinistra riformista, con il coraggio di fare le cose difficili che servono al Paese».

Il Corriere della Sera 17.06.13

"Quei piccoli schiavi tra noi", di Bruno Ugolini

Sono storie raccontate da bambine e bambini, una forma di violenza che dovrebbe suscitare lo stesso sdegno che investe gli scandali sulla pedofilia. Non vivono in qualche lontano Paese asiatico. Stanno tra noi, a Milano, a Napoli, a Palermo. Tra grattacieli e consumi di lusso. Sono una parte dell’ Italia moderna, una parte non minuscola dell’esercito dei precari. Sono 260 mila secondo i calcoli di una ricerca organizzata dall’Associazione Bruno Trentin in collaborazione con «Save the children». Ecco come si racconta uno di loro: «Facevo il pescivendolo, dalle 4 e mezza di mattina fino alle 3 tutto il tempo a portare il ghiaccio senza guanti, gli chiedevo se aveva i guanti e mi diceva: ti devi abituare, sei giovane. Avevo sempre il raffreddore. Alla fine mi ha dato 60 euro». Un altro: «Io avevo le vertigini e mi facevano salire su un’impalcatura di 20-25 metri. Il primo giorno stavo svenendo. E poi m’aggio abituato». Un terzo: «Avevo sempre la febbre quando lavoravo. Lavoravo la notte dalle 11 fino alle 11, 12 del giorno dopo, vendevo le pezze, stavo tutta la giornata sveglio perché non riuscivo a dormire a casa mia che tutti stavano svegli, non mangiavo bene. A fine mese mi davano 300 euro». Molti di loro sono bambini immigrati. Uno viene dall’Egitto, ha 13 anni e la sua giornata è così descritta: «La mattina alle 5 apre la frutteria presso la quale lavora ed emette un primo scontrino di 0,01 euro che serve per dimostrare al suo datore di lavoro che effettivamente all’alba ha alzato la serranda del negozio e ha iniziato a lavorare. La maggior parte del tempo la passa nel retrobottega a pulire le verdure e la frutta; poi svuota e riempie le cassette; quando occorre serve i clienti e porta la spesa a casa di alcuni. Fino alle 20 la frutteria è aperta, poi si chiude al pubblico, ma fino alle 23 il ragazzo riordina il negozio. Faquesto per 7giorni su 7, per un guadagno settimanale di 200 euro». Sono esperienze di lavoro, spiega la ricerca, dove nemmeno si impara un mestiere e si allontanano i minori dalla scuola. Il lavoro non diventa così certo «maestro di vita». Tra le domande poste agli intervistati una recitava «Esiste un lavoro buono?». Pochi affermano che un lavoro buono «è quello col contratto» o, comunque, «un lavoro che ti insegna qualcosa, che ti dà una giusta paga e una sicurezza per il futuro, e che magari ti lascia pure del tempo libero». Quali sono i lavori per i quali sono ingaggiati questi bambini che sembrano usciti da un romanzo di Dickens? Non sono molto diversi dai lavori destinati agli adulti. Il 18,7% fa il barista, il cameriere, l’aiuto cuoco; il 14,7% il commesso o l’aiuto generico in negozio o come ambulante; il 13,6% lavora in campagna. La ricerca testimonia come la crisi economico sociale in atto incentivi lo sfruttamento infantile. Dalle interviste emerge che le occupazioni dei minori «sono divenute prassi consuete anche in contesti non toccati dalla povertà estrema Al contempo, però, è la stessa crisi economica che impedisce ai minori di entrare nel mercato del lavoro, relegandoli in alcuni contesti in una sorta di marginalità sospesa: trascorrono il loro tempo per la strada, ma sembrano invisibili agli occhi delle istituzioni». Questa importante ricerca dal titolo emblematico Gameoverpotrebbe (dovrebbe) contribuire a far chiudere davvero questi giochi criminali, ammettendo che si possano chiamare giochi. Merito della associazione internazionale «Save the children» e merito dell’associazione Bruno Trentin. Quest’ultima, oggi presieduta da Fulvio Fammoni, non poteva battezzare meglio la prima uscita come organismo che raggruppa tutte le associazioni e gli istituti che la Cgil ha nel corso degli anni promosso nel campo della ricerca e della formazione. Un obiettivo caro, appunto, a Bruno Trentin. Un eredità inserita, come ha ricordato Susanna Camusso nella lotta per fare dell’istruzione «la prima straordinaria riforma di cui ha bisogno il nostro Paese». Cominciando a riportare i bambini nelle scuole, combattendo «l’idea che studiare è inutile». Una battaglia di civiltà che dovrebbe trovare rapidi ascolti e non essere raccolta solo da commoventi cronache.

L’Unità 17.06.13

"Sale il Pd, cresce il non voto", di Carlo Buttaroni

Il Pd risale, il Pdl resta primo ma perde consensi, il M5S è molto al di sotto del 20%. Sono i risultati dell’Osservatorio Tecné di Carlo Buttaroni sulle intenzioni di voto degli italiani raccolte il 13 giugno. Cresce però anche l’area del non voto, alimentata dai delusi di Grillo.Il 2013 è iniziato come l’annus horribilis per il Pd: la «non-vittoria» alle elezioni politiche di febbraio e il semi-suicidio alle votazioni per il presidente della Repubblica hanno rischiato di far implodere il partito. Con la fo mazione del governo Letta, ma soprattutto con i risultati delle amministrative di fine maggio, i democratici sembrano aver ritrovato un percorso positivo. Guglielmo Epifani ha preso il timone del Pd e governa la nave democratica verso il congresso, senza fughe in avanti ma anche senza strappi. Anche tutti i sondaggi hanno ripreso a rilevare un Pd in crescita, nonostante il Pdl rimanga in testa nelle intenzioni di voto.
Nelle ultime settimane il partito di Berlusconi segna un calo, ma la curva dei consensi continua a svilupparsi molto sopra i risultati delle politiche. Dopo la sconfitta generalizzata alle comunali, in primis quella di Gianni Alemanno, il Pdl è in affanno e sono tornate a circolare voci che danno Berlusconi in procinto di rifondare il partito. Pd e Pdl sembrano essersi passati il testimone della crisi interna, anche se il momento più critico è ora quello che vive il Movimento 5 Stelle. Una débâcle alle amministrative e calo netto nelle intenzioni di voto. L’analisi dei flussi elettorali di Roma è eloquente: al primo turno per l’elezione del sindaco, più della metà degli elettori che alle politiche avevano vota- to Grillo, non si è recato alle urne. Nel ballottaggio l’astensione ha colpito il M5S per quasi il 70%.
Per il Censis, alla base dell’ondata di astensioni- smo elettorale c’è una società orizzontale, atomizzata, molecolare, incapace di aggregarsi se non per gruppuscoli che condividono gli stessi stili di vita. La disaffezione alla politica è molto profonda e deriva non solo dalla sfiducia contro la «casta», ma da una politica «ridimensionata», che non genera più quel senso di appartenenza che per decenni l’ha contraddistinta. D’altronde, la fiducia nel mercato vacilla, le specializzazioni un tempo vincenti contano sempre meno, mentre cresce un’onda di pulsioni sregolate, senza che si riesca più a individuare un dispositivo di fondo che disciplini comportamenti, atteggiamenti, valori. È in crisi l’aspirazione stessa al futuro. E dalla crisi economica nasce una crisi della democrazia alla quale ancora non abbiamo nemmeno iniziato a rispondere.
Si riscopre così l’urgenza di cercare nuovamente i fondamenti del vivere insieme e del condividere la stessa Costituzione. I livelli attuali di partecipazione dei cittadini alla vita politica sono molto al di sotto degli standard da molti auspicati. Non solo i giovani, ma i cittadini in generale non partecipano come dovrebbero. La qualità della democrazia potrebbe migliorare con un più esteso e intenso coinvolgimento dei cittadini, che tenga però conto delle diversità espressive della società attuale, che destruttura le vecchie architetture sociali, esprimendo a gran voce la voglia di partecipare per ricostruire la «cosa pubblica». Per molti prendere parte alla vita di un’associazione (sociale, culturale, religiosa o sindacale) equivale a vivere un’esperienza politi- camente rilevante, mentre per altri il sentimento di estraneità e distanza dalla politica è vissuto anche nell’atto più «classico» di partecipazione politica, cioè il voto.
La partecipazione, che sia attraverso attività in- dividuali o di gruppo, si associa alla consapevolez- za di un’appartenenza collettiva, al perseguimento di un obiettivo. Una maggiore partecipazione rende i cittadini più informati e competenti, dà voce ai valori e agli interessi di fasce meno rappresentate, lascia meno spazio ai gruppi di pressione portatori di interessi particolari. E anche la sanzione sociale, come quella nei confronti delle degenerazioni che hanno segnato le recenti stagioni politiche, ne uscirebbe rafforzata.
Il grado di centralità o marginalità sociale è
un elemento determinante, in grado di facilitare o inibire il coinvolgimento dei cittadini nella sfera politica.
Chi è istruito, ha un reddito medio-alto ed è inserito in una rete di rapporti, ha più facilità ad avvici- narsi alla sfera politica mentre, a scoraggiare i cittdini, è spesso una politica che vive lontano dalla quotidianità. L’apatia politica nasce, cioè, anche co- me effetto in chi, pur disposto a partecipare, ritiene che farlo non modificherebbe sostanzialmente le decisioni che riguardano la società nel suo complesso, né darebbe risposte ai suoi bisogni concreti. In sostanza, quindi, partecipa attivamente alla vita politica chi ha (o ritiene di avere) possibilità di incidere su scelte e indirizzi concreti.
Per questo motivo, da tutte le analisi emerge con chiarezza una configurazione piramidale della partecipazione politica che corrisponde alla configurazione sociale dove, partendo dal basso, sono coinvolte quote di popolazione progressivamente sempre minori. Al vertice di questa piramide c’è un nucleo piuttosto ridotto di cittadini che, alla luce di diversi indicatori di partecipazione, sono fortemente impegnati nella sfera politica. Subito al di sotto, si trova una più ampia fascia composta dall’«opinione pubblica attenta», meno coinvolta del vertice, ma che segue con attenzione i dibattiti sulle questioni politiche. Un terzo e quarto livello, ancora più ampio, è composto da quei cittadini socialmente marginali, generalmente poco informati, scarsamente interessati e solo occasionalmente coinvolti nelle vicende della vita politica. La sfida della società contemporanea è a questi due ultimi livelli e riguarda anche (e soprattutto) il futuro della democrazia. Una sfida che può vincere soltanto una politica capace di ricostituirsi in «agenzia di senso», mobilitante anche per quella parte periferica della società, dalla voce inascoltata, Anche se inespresso, sottaciuto o sussurrato, si sente il bisogno di una politica che sappia farsi interprete dei bisogni dei cittadini più fragili, lontani da quel centro sociale cui la politica, negli ultimi anni, è sembrata interessarsi in maniera esclusiva. Bisognerebbe fare tesoro di quei momenti passati in cui le reti politiche territoriali costituivano agenti di mobilitazione, capaci di fornire occasioni per partecipare anche a quelle fasce di popolazione meno direttamente coinvolte. Solo un rinnovato interesse e una reale attenzione alle fasce di popolazione marginalizzate può far allargare nuovamente il perimetro politico. Su questo si gioca il
futuro della nostra democrazia.

L’Unità 17.06.13

"Quando le banche prestano a se stesse", di Tito Boeri

I sempre più numerosi italiani che, in quanto capifamiglia o imprenditori, si sono visti recentemente negare un prestito dalla loro banca, speriamo saltino a piè pari in questi giorni le pagine di economia
dei giornali. leggerle con cura rischierebbero un travaso di bile. Gli articoli che costeggiano le quotazioni di Borsa narrano tre vicende apparentemente slegate tra di loro, ma che hanno un comune denominatore: in barba al conclamato merito di credito e al forte incremento delle sofferenze bancarie, le nostre maggiori banche continuano a finanziare chi ha ampiamente dimostrato di saper unicamente accumulare debiti su debiti non mettendoci nulla o quasi di tasca sua. E se trascuriamo l’incompetenza dei nostri banchieri e le loro ambizioni politiche, l’unica spiegazione che è possibile dare per questo comportamento è che le nostre banche prestano solo alle società di cui sono azioniste.
La prima vicenda è quella che vede Banca Intesa e Unicredit offrire il loro sostegno a Marco Tronchetti Provera nella sua contesa per mantenere il controllo di Pirelli, società di cui è attualmente il monarca assoluto (abbinando la carica di Presidente a quella di Amministratore delegato) pur detenendo meno del 5 per cento del capitale, grazie al solito gioco di scatole cinesi. Tronchetti Provera in questi anni non ha certo dato grande esempio delle sue capacità manageriali, producendo debiti a mezzo di debiti sia con l’operazione Telecom che con gli immobili di Pirelli Real Estate, ora Prelios. Nonostante questo, coi suoi 61.000 euro al giorno, continua a essere uno dei manager più pagati in Italia. Per evitargli la fine degli esodati, Banca Intesa e Unicredit hanno finanziato in questi giorni un’Opa di 80 milioni di euro sulla Camfin, la holding di 15 dipendenti immediatamente a monte di Pirelli, acquisendo quote nelle altre società della piramide per un investimento complessivo non lontano dai 250 milioni di euro. L’operazione ha portato all’uscita di scena dei soci antagonisti di Tronchetti Provera, i Malacalza, che hanno venduto le loro quote. Diabolico soprattutto il perseverare di Banca Intesa che oggi è disposta a finanziare un oneroso leveraged buyout del gruppo per tenere Tronchetti Provera in sella, dopo averlo già salvato in occasione della sua uscita dalla disastrosa operazione in Telecom.
La seconda vicenda è quella del presunto risanamento … di Risanamento, società immobiliare quotata in Borsa. Banca Intesa, Unicredit, Banco Popolare, Mps e Bpm, intervenuti per evitare che la società portasse i libri in tribunale, hanno dapprima concesso a chi aveva portato la società sull’orlo del fallimento, Luigi Zunino, il diritto di poter esercitare un’opzione per riprendersi il controllo di Risanamento. Era stato del resto proprio grazie a Banca Intesa, Banco Popolare e Unicredit, che Zunino aveva potuto gestire un impero (coinvolto in diverse vicende giudiziarie) e accumulare debiti per 3,5 miliardi di euro mettendo di tasca propria e di sua moglie solo 421.000 euro. Oggi addirittura le banche sarebbero disposte a finanziare un’Opa di Zunino su Risanamento, che gli permetterebbe di riprendere il controllo della società ancora prima e a costi molto più contenuti che esercitando l’opzione. È una vicenda che ricorda il rientro vent’anni fa di un altro discusso immobiliarista, Salvatore Ligresti, alla guida di Premafin, grazie a un aumento di capitale sostenuto da Mediobanca. Sappiamo poi com’è andata a finire. Anche in questo caso, dunque, la storia si ripete. E i precedenti sono tutt’altro che incoraggianti.
La terza vicenda è quella che vede un pool di banche creditrici (Intesa, Unicredit, Ubi, Bpm e Mediobanca) impegnate a sostenere l’aumento di capitale di Rcs MediaGroup, gruppo editoriale che ha accumulato un miliardo di debiti negli ultimi 10 anni e che era a un passo dal portare i libri in tribunale. Trattandosi del gruppo che pubblica il maggiore concorrente di questo giornale, mi astengo da un giudizio di merito sul piano. C’è comunque una postilla molto eloquente sul trattamento di favore riservato dalle nostre banche ai soliti noti. Banca Intesa ha deciso non solo di partecipare all’aumento di capitale per una quota superiore a quella che le spetta, ma anche di remunerare i membri del patto di sindacato alla guida di Rcs che le cederanno i loro diritti di opzione, quando il valore di questi diritti inoptati dovrebbe tendere rapidamente a zero. Chissà cosa ne pensano gli azionisti di Intesa di questo regalo.
La ragione per cui le nostre banche si dissanguano per partecipare a imprese che sono fonti di sicure perdite è che vogliono rimandare la pulizia dei loro bilanci. Essendo al contempo azioniste e creditrici di queste società, hanno tutto l’interesse a tenerle in vita. Quando una banca interviene in un’impresa sia con capitale che con credito si instaura un conflitto di interessi e una distorsione a favore di questa impresa. Perché se l’impresa di cui la banca è proprietaria o ha una quota di minoranza perde, la banca perde due volte. Perde in termini di sofferenza e perde
in termini di mancati dividendi. E quindi la banca stessa farà di tutto per evitare che ciò accada, concedendo spesso credito quasi illimitato alle imprese di cui è proprietaria.
Il credit crunch che stiamo vivendo rende questo sistema insostenibile perché tiene in vita moltiplicatori di debito e impedisce di fornire linfa vitale a chi oggi potrebbe creare lavoro e valore. Sarebbe bello se il “decreto del fare” contenesse una semplice norma che vieti al sistema bancario la partecipazione in società industriali e in servizi di pubblica utilità e che promuova la cessione di questi crediti incagliati a chi ha meno conflitti di interesse e, a differenza delle banche, se ne intende di ristrutturazioni. Bene che il sistema bancario si specializzi nell’intermediazione finanziaria e nel credito, dato che è proprio il core business di una banca la concessione di credito. Sono misure a costo zero per le casse dello Stato che libererebbero risorse fondamentali per il nostro sistema produttivo. Ma non troviamo alcuna traccia di queste misure negli 80 provvedimenti varati due giorni fa dal Consiglio dei ministri. Ci sono tante cose, come al solito senza priorità, da fare, ma non fermeranno certo il declino. Mentre il movimento 5Stelle, che ha il merito di avere contribuito a denunciare i conflitti di interesse che paralizzano il nostro sistema finanziario, è anch’esso impegnato in una lotta di potere. Al posto delle parti correlate, si confronta con partiti collegati verso cui singoli o interi gruppi di parlamentari possono migrare col proprio seggio e diaria, ma la sostanza non cambia. Di piani industriali per il rilancio di un progetto e soprattutto di un Paese, di cose da imporre nell’agenda politica sfruttando il proprio peso parlamentare proprio non c’è traccia. La lotta per il potere, fine a se stesso, deve essere tremendamente più avvincente anche per loro.

La Repubblica 17.06.13

"Moro, 35 anni dopo la Procura di Roma riapre l’inchiesta", di Miguel Gotor

Ancora troppi i misteri irrisolti. Il ruolo dei servizi dietro le Br. Dal rapimento e dalla morte di Aldo Moro sono trascorsi ormai trentacinque anni. In questo arco di tempo si sono svolte ben sei inchieste giudiziarie e hanno lavorato per oltre un decennio due Commissioni di inchiesta parlamentare, dotate di poteri inquirenti, che hanno raccolto una gran mole di testimonianze e di documenti.
In realtà, pochi eventi come la vicenda Moro hanno potuto godere di una simile mobilitazione giudiziaria e politica, ciò nonostante il convincimento che si tratti di un mistero ancora insoluto e destinato a rimanere
tale è certamente prevalente presso l’opinione pubblica.
Per quale ragione? Anzitutto per una forma di pigrizia intellettuale e civile. Sulla vicenda Moro sono uscite centinaia di pubblicazioni, alcune di ottimo livello, ma è come se fossero scritte sulla sabbia perché l’onda lunga degli interessi ideologici partigiani o delle memorie individuali e di generazione da preservare cancella di continuo i risultati raggiunti. E allora bisogna ogni volta cominciare da capo, senza che sia possibile avanzare sulla strada di una dimensione civica
della verità storica. In secondo luogo, la dietrologia alimenta un fiorente mercato editoriale e cinematografico che non accenna a scemare garantendo evidenti interessi commerciali. Infine, l’idea di mistero è in se stessa deresponsabilizzante perché consente a tutti gli attori di rimanere immobili nei propri convincimenti come tante statue di sale: il mistero obbliga a un atteggiamento fideistico che richiede obbedienza davanti all’inspiegabile, ossia l’opposto di un’attitudine critica che implica sempre l’assunzione di una responsabilità.
Siamo persuasi che l’unica strada oggi percorribile sia quella accidentata e faticosa della ricerca storica e sarebbe bene che gli studiosi fossero messi nelle migliori condizioni per praticarla potendo godere della piena disponibilità di accesso ai fondi conservati presso gli archivi dei tribunali e delle commissioni parlamentari. Certo, la nuova azione della magistratura potrà essere utile perché raccoglierà nuovi documenti e testimonianze, ma ci permettiamo di dubitare che sarà in grado di somministrare una giustizia qualitativamente migliore rispetto a quella esercitata
sin qui. Una verità giudiziaria che prova ad accertare se stessa trentacinque anni dopo i fatti rischia di essere così fragile da risultare evanescente, il frutto tardivo e quindi avariato di un Paese ammalato.
In realtà, sia l’ipertrofia inquirente, sia quella memoria-listica restituiscono tutto intero il trauma determinato dal rapimento e dalla morte di Moro: non costituiscono dunque una soluzione, ma il sintomo di un problema da affidare alla cura paziente degli storici e alla libera discussione critica dei loro risultati.

La Repubblica 17.06.13

Carpi in B, on. Ghizzoni e Patriarca “Ragazzi, davvero bravi!"

I parlamentari carpigiani del Pd si congratulano con la squadra che ha centrato la B. Il Carpi calcio ha centrato lo storico risultato del passaggio alla serie B. I parlamentari carpigiani del Pd Manuela Ghizzoni ed Edoardo Patriarca si congratulano con i giocatori e il management della squadra locale che, con determinazione e impegno, sono riusciti a portare a compimento l’impresa. Ecco la loro dichiarazione:

«Una grande gioia per tutti i carpigiani. Bravi i ragazzi della squadra e bravo anche tutto il management che, con determinazione, impegno e naturalmente spirito di sacrificio, sono riusciti a conseguire un risultato per molti versi storico. La serie cadetta era alla portata della nostra squadra, ci abbiamo creduto, ed ora arriva la promozione che, pensiamo, possa trasformarsi anche in una opportunità pure per il tessuto economico della città. Peccato che, a Lecce, dopo la partita, si sia visto il lato peggiore di certe tifoserie, ma questo non toglie nulla al risultato sportivo conseguito dai nostri ragazzi. Ancora una volta, bravi!».