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"Idee e metodo ci sono. Basteranno?", di Antonio Valentino

Le linee programmatiche su scuola, univerità e ricerca che il Ministro Carrozza ha presentato qualche giorno fa alle Commissioni del Senato e della Camera sono un buon esempio di come si vorrebbe essere informati, e coinvolti – da chi ha responsabilità di governo della cosa pubblica – sulle cose che si vogliono fare, e perchè e come e con quali priorità.
Nelle passate settimane in verità si aveva quasi l’impressione di essere senza ministro. Essendo stati abituati da sempre (con qualche eccezione) a dichiarazioni di neo nominati che parlavano prima ancora di informarsi.
Va dato atto all’on. Carrozza che le cose dette nell’audizione appaiono tutte pensate dopo essere state studiate; e studiate anche con esperti che evidentemente sapevano quello che dicevano.
Forse, si potrebbe dire addirittura che ha studiato troppo, avendo presentato linee di indirizzo del suo dicastero la cui realizzazione probabilmente richiederebbe più di una legislatura.
Ma penso che la messa a punto di un quadro generale sullo stato dell’arte del nostro sistema scolastico e universitario fosse assolutamente necessario per meglio definire un programma di lavoro, cominciando dalle cose che non possono aspettare.

Le parole chiave
Sono condivisibili, almeno per chi scrive, le parole chiave e la cultura politica di riferimento, oltre al metodo di lavoro, che il Ministro intende seguire per il suo dicastero.

Sulle parole chiave a cui intende ispirare la sua azione (credibiltà, trasparenza e coesione – nel senso, quest’ultima, di integrazione e collaborazione ai vari livelli – delle politiche ministeriali) convincono due considerazioni di partenza che, tra l’altro attraversano in più punti il suo discorso.
La prima, sul rapporto tra diseguaglianze e sviluppo del paese, mette in chiaro che: “Un Paese con alte disuguaglianze di partenza e mercati del credito poco efficienti deprimono l’investimento in capitale umano nella parte più povera del Paese e rafforzano tali disuguaglianze di partenza, riducendo al contempo la mobilità sociale e la percezione di vivere in un contesto fruttuoso di pari opportunità. Mobilità sociale che è invece stimolata da sistemi educativi capaci di includere il segmento meno abbiente della popolazione”.
La seconda, sulla governance del sistema, ruota intorno alla necessità di una sua semplificazione al fine di garantire gambe solide ed esperte alle riforme istituzionali, oggi condizionate negativamente da un modello istituzionale cosiddetto multilevel (pluralità di soggetti istituzionali chiamati in causa per la messa in atto delle decisioni normative).

C’è da sperare che non siano solo affermazioni di buona volontà quanto si dice a proposito di credibilità e trasparenza, e cioè che “I sistemi dell’istruzione, dell’università e della ricerca non possono vivere nell’incertezza perenne tra tagli e rimodulazioni in corso d’anno” e che “quello che serve è un orizzonte temporale pluriennale in cui il budget su cui sviluppare il sistema sia coerente con le politiche, le strategie e le priorità che il Paese si impegna a perseguire…”.
Se mancano segnali concreti su queste questioni dirimenti, la credibilità delle politiche – e quindi la motivazione degli addetti ai lavori – non fa passi in avanti.

In tema di coesione è infine particolarmente apprezzabile l’impegno espresso per la tenuta unitaria del sistema che, nell’audizione, è vista “ in funzione di garanzia del principio di eguaglianza sostanziale”. E quindi collegata, da una parte, ai livelli essenziali di prestazioni – LEP -; dall’altra a un ripensamento del rapporto
tra Stato e Regioni, per un più equilibrato esercizio delle rispettive
competenze (ritorna, come si vede, il tema della governance).

Si dirà: “enunciati”. Comunque è da più di 10 anni che non si sentivano parole chiave di questo tipo. Vorrà forse dire qualcosa.

Assi fondamentali e interventi di sistema
I capitoli sugli interventi previsti (Istruzione , Università e Ricerca) si aprono, anche qui, con richiami agli assi fondamentali che il sistema scolastico è chiamato a sviluppare: l’inclusività del sistema formativo (e quindi la lotta alla dispersione scolastica, elevatissima nel nostro paese, aumento del tempo scuola -si parla addirittura di estendere il tempo pieno -, potenziamento della scuola dell’infanzia e delle sezioni primavera) e la qualità degli apprendimenti (e quindi l’impegno ad abbassare “…[i] i tassi ancora troppo alti di studenti con risultati insoddisfacenti e [i] tassi troppo bassi di studenti con risultati eccellenti”).

I passaggi successivi puntualizzano invece i tre tipi di interventi previsti (di sistema, per la valorizzazione dei docenti e sul precariato, per gli studenti) per dare gambe alle direttrici di politica scolastica.

Per gli interventi di sistema, segnalo soprattutto i seguenti punti:
• la costituzione, nell’immediato, dell’organico dell’autonomia e dell’organico di rete e nel medio periodo un vero e proprio organico funzionale (strumento di flessibilitàdel quale il sistemascolastico non può più fare a meno per garantire un servizio adeguato),
• il ripristino del fondo per le attivit aggiuntive del personale scolastico,
• interventi prioritari per l’edilizia scolastica (vero e proprio scandalo in alcune realtà del paese, anche sotto il profilo della sicurezza) a cui sono dedicati passaggi allarmanti, ma anche indicazioni operative .
• La formazione iniziale e in servizio del personale, la cui sostanziale assenza è – si dice nel documento programmatico – la principale causa del fatto che le riforme di questi anni non decollano. Chi può darle torto? Gli ultimi 4 o 5 ministri sono stati mai attraversati da questo dubbio?

Valorizzazione dei docenti: si riprende a parlare di sviluppo di carriera
Ma le linee di indirizzo più impegnative e in parte nuove – e ovviamente problematiche – si leggono a proposito della valorizzazione degli insegnanti.

Finalmente si ricomincia a parlare di sviluppo di carriera dei docenti che si pensa “svincolata dalla mera anzianità di servizio” e collegata all’avvio di un sistema di valutazione delle prestazioni professionali.
A proposito del quale si rassicura che non deve essere visto come una
volontà di “dare la pagella” ai professori o ai dirigenti scolastici, ma come necessità
da parte della scuola stessa di verificare gli esiti rispetto ad obiettivi definiti e di dare il giusto riconoscimento ai docenti meritevoli .
Sul punto, il Ministro pensa ad un vero e proprio “cursus professionale” basato sul merito.
Sul merito, non sulla meritocrazia – si vuole interpretare -.
Tutte le linee di indirizzo lasciano comunque pensare che il Ministro abbia colto la lezione delle scorse legislature in cui politiche “muscolari” e assenza di trasparenza e di visione hanno impedito addirittura di avviare una discussione credibile su questo tema.
Si indicano, sul punto, linee di azioni da realizzare da subito, come “la valorizzazione delle posizioni organizzative e delle figure di sistema (…) nei prossimi concorsi per dirigenti scolastici e dei direttori dei servizi (dal minimo riconoscimento intermini di punteggio aggiuntivo nella valutazione dei titoli ad un riconoscimento più sostanziale in termini di riconoscimento dei predetti servizi quali titoli di accesso,
…)”.
Mentre si rinvia alla fase di predisposizione dell’atto di indirizzo per il prossimo contratto nazionale di lavoro la previsione di un incremento della retribuzione base del personale scolastico. Ovviamente, “nell’ambito delle compatibilità finanziarie che il Governo indicherà”. Che non dovrà però diventare la foglia di fico degli ultimi governi.

Progressione di carriera: per cosa e per chi
Vale la pena al riguardo rimarcare gli aspetti del lavoro docente che il ministro intende soprattutto valorizzare in sede di progressione di carriera., perché su di essi andrebbe aperto un confronto e andrebbero assunte decisioni. Vediamole nell’ordine in cui sono riportate nel testo:
• la capacità innovativa dei singoli e di lavorare in team;
• le posizioni organizzative particolari della scuola (che penso si riferiscano ai collaboratori, responsabili di plesso, Funzioni strumentali e funzioni particolari del personale ATA)
• tutte le figure di supporto alla attività didattica (coordinatori di classe e di indirizzo, responsabili di dipartimento….) “che contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi di apprendimento ed alla radicalizzazione dell’istruzione sul territorio”).

Giusta attenzione è anche riservata al problema del precariato alla cui soluzione sono in buona misura legate – come ben sappiamo – le questioni dell’unitarietà e della qualità del sistema (oltre che dei destini di una quasi intera generazione che annualmente – quando va bene – è costretta a cambiare ambienti, studenti, colleghi e a raggiungere i nuovi posti di lavoro ad anno scolastico inoltrato: con vistosi benefici per gli studenti e per l’organizzazione della scuola).
Al riguardo il ministro intende “varare un nuovo piano triennale di assunzioni per il 2014/17, ( è previsto un turn-over complessivo di 44.000 unità)” per il quale si punta a garantire un “giusto equilibrio tra assorbimento del personale precario e concorso pubblico”.
Non mi sembra anche qui che si tratti di cosa da poco .
Insomma, sembra di capire, che si parte da buone idee e da un programma apprezzabile.

Un vuoto da colmare
Personalmente avrei inserito tra i terreni dell’impegno ministeriale anche quello di una ripresa di discussione sulle norme di autogoverno delle scuole (la riforma degli organi collegiali). Un lavoro interessante, anche se in più punti migliorabile, è stato fatto al riguardo in tempi recenti. Riprenderlo, portarlo all’attenzione dell’intero mondo della scuola penso possa contribuire alle politiche riguardanti sia lo sviluppo dell’autonomia e della rendicontazione delle scuole, sia anche il miglioramento della governance territoriale e di sistema che, nelle Linee, sono indicate come importanti e urgenti.
Ma penso che il tema possa essere ripreso, se il pianeta scuola nel suo insieme vorrà riprendere ad attivarsi per arrivare a risultati utili.
Su questo come sugli altri punti qualificanti delle linee programmatiche – See more at: http://www.scuolaoggimagazine.org/argomenti/archivio-ministro/idee-e-metodo-ci-sono-basteranno#sthash.borIJUAl.dpuf

scuolaOggi.org

"Così connessi, così distanti preferiamo l’iPad alle persone", di Jonathan Safran Foer

Un paio di settimane fa, ho visto una sconosciuta piangere in pubblico. Mi trovavo nel quartiere Fort Greene di Brooklyn, in attesa di un amico col quale andare a colazione. Sono arrivato al ristorante con alcuni minuti di anticipo e mi sono seduto fuori, su una panchina, a controllare i nomi dei miei contatti.
Una ragazza, forse quindicenne, era seduta sulla panchina di fronte, e piangeva al telefono. L’ho sentita dire: «Lo so, lo so, lo so». E andare avanti così.
Che cosa sapeva? Aveva commesso qualcosa di sbagliato? La stavano consolando? Poi ha detto: «Mamma, lo so». E le lacrime si sono fatte ancora più copiose.
Che cosa le stava dicendo sua madre? Di non restare in giro più tutta la notte? Che tutti possono sbagliare? È possibile che non ci fosse nessuno dall’altra parte e che la ragazza si stesse limitando a inscenare una conversazione complicata?
«Mamma, lo so» ha detto e ha chiuso il telefono, mettendoselo in grembo. Mi sono trovato davanti a una scelta: potevo intromettermi nella sua vita, oppure rispettare i confini tra di noi. Intervenire avrebbe potuto farla sentire peggio, o risultarle inappropriato. Ma avrebbe anche potuto alleviare il suo dolore, o risultare di aiuto, in modo schietto e ragionevole. Di primo mattino un quartiere benestante non è come un quartiere pericoloso al calare del buio. E poi si trattava di me, non di qualcun altro. Occorreva fare molte valutazioni umane.
È più difficile intervenire che non intervenire, ma è infinitamente più difficile scegliere di fare una di queste due cose che battere in ritirata a controllare l’elenco dei propri contatti su qualsiasi iDistraction preferito ci troviamo a portata di mano. La tecnologia celebra la possibilità di entrare in contatto, ma incoraggia a battere in ritirata. Il telefono non mi ha evitato il rapporto umano, ma ha reso più facile il fatto di poter ignorare la ragazza in quel momento e, molto probabilmente, mi ha incoraggiato a lasciar perdere la mia scelta di entrare in contatto con lei. L’uso quotidiano che faccio delle comunicazioni grazie alla tecnologia mi sta cambiando, sta facendo di me una persona che ha maggiori probabilità di dimenticare il prossimo. Il flusso dell’acqua scava la roccia, un poco alla volta. E anche la nostra personalità è scavata dal flusso delle nostre abitudini.
Gli psicologi che studiano l’empatia e la compassione ritengono che a differenza delle nostre reazioni pressoché istantanee al dolore fisico, occorre tempo prima che il nostro cervello possa cogliere appieno le dimensioni psicologiche e morali di una data situazione. Più distratti diventiamo, e più importanza diamo alla velocità a discapito della profondità, meno capaci diventiamo di prendere qualcosa o qualcuno a cuore, e meno probabilità abbiamo di farlo.
Tutti bramiamo l’attenzione illimitata dei genitori, di un amico, del partner, anche se molti di noi, soprattutto i bambini, si stanno abituando a riceverne molta meno. Simone Weil scrisse: “L’attenzione è la forma più rara e più pura di generosità”. Secondo questa definizione, le nostre modalità di relazione con il mondo, gli uni nei confronti degli altri, e verso noi stessi stanno diventando sempre più limitate.
Gran parte delle nostre tecnologie della comunicazione sono iniziate come sostituti inferiori di un’attività impossibile. Non potevamo incontrarci sempre a quattr’occhi, così il telefono ha reso possibile mantenerci in contatto anche a distanza. Non si sta sempre in casa, così la segreteria telefonica ha reso possibile un tipo di interazione anche senza che l’interlocutore debba stare accanto al suo telefono. La comunicazione online è nata come sostituto della comunicazione telefonica, che per chissà quale motivo era considerata troppo gravosa o sconveniente. Ed ecco i messaggi di testo, che hanno facilitato e reso ancora più rapida e più mobile la possibilità di inviare messaggi. Queste invenzioni non sono state create per essere sostituti migliori rispetto alla comunicazione faccia a faccia, bensì come evoluzioni di sostituti accettabili, per quanto inferiori.
Poi, però, è successa una cosa buffa: abbiamo iniziato a preferire i sostituti inferiori. È più facile fare una telefonata che darsi la pena di incontrare qualcuno di persona. Lasciare un messaggio alla segreteria telefonica di qualcuno è più comodo che conversare al telefono: si può dire ciò che si deve dire senza attendersi risposta. Le notizie difficili si comunicano così più facilmente. È più agevole farsi vivi senza la possibilità di lasciarsi coinvolgere. Di conseguenza abbiamo iniziato a telefonare quando sapevamo che nessuno dall’altra parte avrebbe alzato la cornetta.
Spedire email a raffica è più facile ancora, perché si ci può nascondere dietro l’assenza di un’inflessione vocale e naturalmente non c’è il rischio di imbattersi in qualcuno per caso. Gli sms sono ancora più facili, in quanto le aspettative dell’articolazione delle parole sono ancora minori, e c’è a disposizione una corazza in più dietro la quale nascondersi. Ogni passo “avanti” è stato reso più facile, appena un po’, giusto per eludere il peso emotivo di essere presente, di trasmettere informazioni invece che umanità.
Il problema dell’accettare – del preferire – i sostituti inferiori è che col passare del tempo anche noi diventiamo sostituti inferiori. Le persone abituate a dire poco si sono abituate ad avere poche sensazioni.
Di generazione in generazione diventa difficile immaginare un futuro che assomigli al presente. I miei nonni speravano che io avessi una vita migliore della loro: senza guerra e senza fame, in un posto confortevole che potessi chiamare casa. Ma quali futuri mi sentirei di escludere del tutto dalla vita dei miei nipoti? Che i loro vestiti siano prodotti ogni mattina con stampanti 3-D? Che riescano a comunicare senza parlare o muoversi?
Soltanto chi è privo di immaginazione e non tiene i piedi per terra smentirebbe la possibilità che vivranno per sempre. È possibile che molti di coloro che stanno leggendo queste parole non moriranno mai. Supponiamo, però, di avere tutti quanti un dato numero di giorni per condizionare il mondo con i nostri pensieri e i nostri principi, per trovare e creare la bellezza che soltanto un’esistenza compiuta consente di raggiungere, per lottare con il tema dello scopo della vita e lottare con le nostre risposte.
Spesso utilizziamo la tecnologia per risparmiare tempo, ma sempre più ciò assorbe il tempo che abbiamo risparmiato, oppure rende quel tempo risparmiato meno presente, intimo e ricco. Temo che quanto più avremo il mondo a portata di dita, tanto più lontano esso sarà dai nostri cuori. Ciò non significa essere pro o contro – essere “contro la tecnologia” quasi certamente è l’unica cosa più stupida dell’essere perdutamente “filo-tecnologici” –, ma è una questione di equilibrio dalla quale dipendono le nostre vite.
Il più delle volte, la maggior parte delle persone non piange in pubblico, ma tutti hanno sempre bisogno di
qualcosa che un’altra persona può dare loro, che si tratti di attenzione incondizionata, di una parola cortese o di una profonda empatia. Non c’è niente di meglio da fare nella vita che prestare attenzione a queste esigenze. Ci sono tanti modi di farlo quanti modi di sentirsi soli, ma tutti richiedono attenzione, tutti richiedono il duro impegno di una valutazione emotiva e di una compassione fisica. Tutti richiedono un’elaborazione analitica umana dell’unico animale che rischia di “prenderla in modo sbagliato”, i cui sogni offrono protezione e antidoti e parole agli sconosciuti che piangono.
Viviamo in un mondo fatto più di storia che di sostanza. Siamo creature della memoria più che ricordi, creature dell’amore più che uguali. Prestare attenzione alle esigenze del prossimo può non essere lo scopo ultimo della vita, ma è compito della vita. Può essere confuso, doloroso e difficile in modo quasi impossibile. Ma non è qualcosa che noi offriamo. È ciò che noi abbiamo in cambio del fatto di dover morire.

La Repubblica 13.06.13

Mozione approvata alla Camera dei Deputati su scuola, università e cultura

Ieri è stata approvata alla Camera dei Deputati la mozione Pd – Pdl che impegna il Governo a favore di Scuola, Università e Cultura. Il Pd lunedì scorso aveva presentato una propria mozione su cui c’è stata la convergenza delle forze di maggioranza. Le questioni che riguardano Quota 96 e Inidonei erano presenti solo ed esclusivamente nella mozione Pd e sono confluite in quella unitaria. Gli impegni assunti dal Governo sono di buon auspicio per la risoluzione di queste questioni.

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Testo Mozione approvata
La Camera,
premesso che:
    il recente rapporto Ocse 2012 evidenzia come la media di investimenti in istruzione dei paesi membri sia cresciuta fortemente negli ultimi anni e risulti pari al 5,7 per cento del Pil, ma l’Italia si colloca al di sotto della media, investendo solo il 4,5 per cento del Pil. Penultimi in graduatoria, davanti solo alla Slovacchia. Eppure è dimostrato che la maggiore spesa per istruzione produce rendimenti certi, come un maggior gettito fiscale ed una maggiore occupabilità e la stessa Banca d’Italia sostiene, sulla base di complesse analisi, che il rendimento medio dell’investimento in istruzione è dell’8,9 per cento;
    le indicazioni dell’Unione europea, in particolare della Strategia UE 2020 e della precedente Strategia di Lisbona e della UE 2020, sono volte a sviluppare un’economia basata sulla conoscenza, caratterizzata da riforme profonde e volta a promuovere una crescita sostenibile, intelligente, l’occupazione, l’innovazione, la competitività, il rafforzamento della coesione sociale, economica e territoriale. In un momento di crisi economica e finanziaria, come quello che attraversa il nostro Paese, risulta indispensabile ridefinire la spesa pubblica e gli investimenti, in particolar modo quelli relativi alla istruzione, formazione, università e ricerca, in linea con gli obiettivi UE 2020. Ulteriore obiettivo è creare uno spazio europeo della conoscenza che consenta a tutti gli attori (studenti, docenti, ricercatori, istituti di istruzione, centri di ricerca e imprese) di beneficiare della libera circolazione delle persone, delle conoscenze e delle tecnologie, e pertanto di supportare ed incentivare tutte le misure volte alla mobilità. Nel quadro del programma europeo «Istruzione e formazione» (ET2010) inoltre quattro sono gli obiettivi strategici: fare in modo che l’apprendimento permanente e la mobilità divengano una realtà, migliorare la qualità e l’efficienza dell’istruzione e della formazione, promuovere l’equità, la coesione sociale e la cittadinanza attiva, incoraggiare la creatività e l’innovazione inclusa l’imprenditorialità a tutti i livelli dell’istruzione e della formazione;
    il rapporto Education at a glance del 2010, relativo all’area Ocse, si evidenzia che dato che i governi, a seguito della crisi economica globale, stanno ridefinendo i loro impegni finanziari, l’istruzione è al centro di un rinnovato interesse. Sono infatti evidenti i benefici sociali ed economici dell’istruzione, ma al tempo stesso non sembra essere sufficiente semplicemente spendere di più. È preoccupante che all’aumento significativo della spesa per studente negli ultimi dieci anni non abbia corrisposto il miglioramento della qualità nei risultati dell’apprendimento. Anche il segretario generale dell’Ocse Angel Gurria nel suo editoriale in Education at a glance ha voluto evidenziare che i risultati «sottolineano la portata dello sforzo che è necessario affinché l’istruzione si rinnovi in modo da accrescere il valore dell’investimento»;
    tali investimenti, insieme ad un maggiore sostegno del sistema di apprendimento permanente, consentirebbero di perseguire, nel contempo la mobilità sociale – che nel nostro Paese è sostanzialmente bloccata – nonché la realizzazione personale e lavorativa. Grazie ad un efficace sistema di apprendimento per tutta la vita sarà possibile promuovere equità, coesione sociale e cittadinanza attiva, anche al fine di incoraggiare la creatività e l’innovazione a tutti i livelli dell’istruzione, della formazione, della ricerca e dell’economia;
    la Relazione del Gruppo di lavoro in materia economico-sociale ed europea (il gruppo dei «saggi» istituito dal Presidente Napolitano nell’aprile 2013) indica tra le priorità la lotta agli squilibri tra le aree del Paese e tra le singole scuole, messi in evidenza, tra gli altri, dai test Invalsi, dai dati Ocse Pisa, dai rapporti sulla qualità della scuola italiana di Tuttoscuola e dalla Fondazione Agnelli. Ancora oggi il successo scolastico e formativo è condizionato dalle origini socio-economiche, tanto che la probabilità di essere in ritardo alla fine delle medie da parte di uno studente figlio di genitori con licenza media è quattro volte superiore a quella del compagno figlio di genitori laureati. I divari sociali di apprendimento e le disparità in particolare nella lettura, rischiano di compromettere il percorso scolastico, specialmente degli studenti di origine più svantaggiata, generando il grave fenomeno dell’abbandono e della dispersione scolastica, come dimostra anche l’alto numero di NEET (ragazzi senza scuola e senza lavoro) tra i 15 e i 29 anni;
    va crescendo la disparità delle scuole che presentano buoni rendimenti e quelle di minore qualità, dove tra l’altro vengono spesso indirizzati gli alunni di origine immigrata, anche se nati e cresciuti in Italia;
    i «saggi» nominati dal Presidente della Repubblica, in linea con la strategia europea, dedicano un’intera sezione al ruolo strategico dell’istruzione e in particolare evidenziano che «Tutte le analisi condotte sul tema della crescita economica indicano nella disponibilità di un capitale umano di qualità uno degli ingredienti fondamentali per sfruttare appieno le nuove tecnologie, per favorire l’innovazione e l’aumento della produttività. Di conseguenza, migliorare le performance dei sistemi di istruzione e formazione è fondamentale per assicurare nel medio termine una crescita economica in grado di riassorbire la disoccupazione e la sottoccupazione di cui è afflitto il nostro Paese»;
    il Presidente del Consiglio Enrico Letta, nel discorso con cui ha chiesto la fiducia al Parlamento, ha tra l’altro sottolineato come «la società della conoscenza e dell’integrazione si costruisca sui banchi di scuola e nelle università», impegnando il Governo a ridare entusiasmo e mezzi idonei agli educatori e riducendo il ritardo rispetto all’Europa nelle percentuali di laureati e nella dispersione scolastica;
    gli elementi e i dati che sull’argomento riguardano il nostro Paese sono particolarmente preoccupanti:
     secondo le classifiche internazionali, l’Italia presenta un forte deficit in termini di qualità del capitale umano rispetto ai principali paesi europei. Esso riguarda sia le competenze maturate dai giovani al termine della scuola dell’obbligo, sia la quota di laureati sulla popolazione. Inoltre, la formazione svolta dalle imprese è significativamente inferiore a quella tipica degli altri paesi europei;
     il tasso di abbandono scolastico in Italia è al 18,8 per cento a fronte di una media UE del 13,4 per cento e dell’obiettivo posto dall’Europa 2020 di ridurlo al 10 per cento; per quanto riguarda i laureati nella fascia di età tra i 30 e 34 siamo all’ultimo posto con il 20,3 per cento, molto lontani dalla media europea del 34,6 per cento e dall’obiettivo 2020 del 40 per cento;
     il rapporto annuale 2012 dell’ISTAT, fa emergere un vero e proprio allarme educativo. L’Italia ha un altro primato negativo in Europa: 2 milioni di giovani tra i 15 e i 24 anni non sono né a scuola, né al lavoro vivendo così in una condizione di vuoto a grandissimo rischio. Il dato cresce fino a 3,2 milioni se si apre la forbice fino ai 34 anni;
     i salari dei docenti delle scuole italiane sono tra i più bassi d’Europa. Secondo i dati Eurydice, che si riferiscono all’anno scolastico 2011-2012, un maestro in Italia guadagna al massimo 32.924 euro lordi, di media 26.359. In Gran Bretagna circa il 60 per cento in più. Un professore delle scuole medie guadagna all’anno da 24.131 euro a 36.157 (in media, 28.257). Un insegnante di liceo da 24.141 a 37.799 (la media è sotto i trentamila). Secondo il rapporto Education at a glance, lo stipendio di un docente italiano a fine carriera è di 4.000 dollari in meno rispetto alla media Ocse;
     nel sistema universitario, l’Italia coniuga tasse molto elevate (terza in Europa dopo UK e Paesi Bassi, che però vantano una spesa per studente quasi doppia) e il peggior sistema di diritto allo studio. Ottiene una borsa di studio solo il 7 per cento degli studenti, con 258 milioni di euro di fondi pubblici, contro il 25,6 per cento della Francia (1,6 miliardi), il 30 per cento della Germania (2 miliardi) e il 18 per cento della Spagna (943 milioni). In 5 anni il nostro dato è calato (-11,2 per cento), mentre è aumentato negli altri paesi (Francia +25,9 per cento, Germania +18,6 per cento, Spagna +39 per cento);
    va poi evidenziata come vera e propria emergenza la situazione dell’edilizia scolastica nel nostro Paese. Oltre il 50 per cento dei 42 mila edifici in cui vivono milioni di studenti e di operatori scolastici non sarebbe a norma e diecimila di essi dovrebbero addirittura essere abbattuti. Non è inoltre stata ancora completata l’anagrafe dell’edilizia scolastica. Su questa emergenza verrà avviata un’indagine conoscitiva in Commissione VII;
    si condividono le linee programmatiche che la Ministra Maria Chiara Carrozza ha illustrato nel corso della seduta congiunta delle VII Commissione permanenti di Camera e Senato, in linea con l’Europa, che «le politiche per l’istruzione, l’università e la ricerca sono di rilevanza strategica per il Governo. In particolare, il livello di istruzione e formazione ha un legame diretto con il tasso di sviluppo economico di una certa popolazione e di un certo paese in un dato momento storico. Tale legame è sempre esistito ma appare oggi ancora più forte per il rapido diffondersi dei nuovi modelli organizzativi e dell’uso delle tecnologie»;
    si apprezzano gli impegni contenuti nelle predette linee programmatiche relativamente alla cooperazione istituzionale tra lo Stato, le regioni e gli enti locali, nel quadro di una visione unitaria del sistema pubblico dell’istruzione, a partire dagli interventi urgenti sull’edilizia scolastica e alla piena attuazione dell’autonomia scolastica, al potenziamento e allo sviluppo dell’offerta formativa dalle sezione primavera alle scuole dell’infanzia, al tempo pieno e al tempo prolungato, all’istruzione superiore, all’alternanza scuola/lavoro e all’istruzione tecnica superiore, all’educazione degli adulti e all’educazione permanente, alle politiche per il personale con la valorizzazione professionale, la formazione in servizio, la stabilizzazione progressiva del personale precario e nuove norme di reclutamento per i giovani, l’avvio di un nuovo sistema di valutazione;
    secondo quanto previsto dai regolamenti attuativi delle riforme si sottolinea l’importanza di effettuare il monitoraggio sull’attuazione dei regolamenti ed in particolare per quanto riguarda i laboratori e la riduzione e l’accorpamento delle classi di concorso;
    si sottolineano anche gli impegni riferiti all’università, con particolare riferimento al ripristino di adeguati finanziamenti statali sia per le università che per la ricerca, insieme al definitivo sblocco delle assunzioni entro i limiti del bilancio degli atenei e degli enti di ricerca e il ripristino di livelli di autonomia responsabile degli atenei e degli enti;
    il settore dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica deve essere oggetto di un intervento diretto e urgente di riordino legislativo e di significativi investimenti finanziari con l’obiettivo di istituire un sistema unitario e integrato della formazione superiore post-secondaria che veda convivere con pari dignità e in pieno coordinamento tutte le istituzioni (università, politecnici, istituti universitari ad ordinamento speciale, accademie di belle arti, conservatori di musica, eccetera), ciascuna mantenendo la propria autonomia; in questo quadro vanno anche affrontati e risolti i delicati problemi degli istituti musicali pareggiati e quelli del personale del settore;
    si evidenzia inoltre la necessit à di nuovi investimenti per il settore della cultura: i beni culturali italiani sono una risorsa insostituibile e non delocalizzabile del patrimonio del Paese. Una parte importante del patrimonio culturale del nostro Paese è costituito da biblioteche e archivi che conservano, racchiusi in preziose raccolte di volumi e fondi documentari di estrema importanza, la memoria storica e collettiva della nazione. Occorre adeguare agli standard europei il sostegno dato alle fondazioni e istituzioni culturali, agli istituti di cultura e alle riviste culturali;
    dare riconoscimento, dignità, diritti, certezze, ai professionisti della cultura e della creatività poiché le politiche attive per la cultura e la creatività rappresentano una delle condizioni indispensabili per uscire dalla crisi valorizzando un patrimonio trascurato;
    la produzione e l’industria dello spettacolo dal vivo e del cinema italiani sono da considerare strategici per la ripresa del Paese e necessitano di adeguatezza progettuale, sia in termini di finanziamento, sia in termini di programmazione e di politica di interventi;
    il Ministro Bray nel corso dell’audizione alla VII Commissione della Camera e del Senato, illustrando le sue linee programmatiche, ha indicato le nuove politiche culturali in discontinuità rispetto al passato ed ha opportunamente ribadito che: «la cultura è un bene comune e un diritto. La tutela, lo sviluppo e la diffusione dei beni, delle attività e dei valori della cultura si collocano necessariamente al centro degli obiettivi di crescita economica, civile e sociale del nostro Paese. La cultura costituisce un bene comune di straordinaria ricchezza e complessità, che in tutte le sue diverse manifestazioni deve essere protetto e potenziato»,

impegna il Governo

   a portare gradualmente l’investimento per l’istruzione e la formazione almeno al livello medio dei paesi Ocse (5,7 per cento del PIL), tornando ad investire sulla conoscenza per garantire a tutti pari opportunità di apprendimento e di educazione e per promuovere una nuova crescita economica dell’Italia;
   ad agire altresì attivando processi di miglioramento della qualità a partire dalle risorse interne della scuola e dell’università;
   a definire un piano pluriennale, utilizzando l’anagrafe dell’edilizia scolastica come strumento di analisi del sistema e di programmazione degli interventi, per la sicurezza, messa a norma, l’efficienza e l’ecosostenibilità energetica, l’abbattimento delle barriere architettoniche, la dotazione di infrastrutture digitali del patrimonio scolastico, concordato e cofinanziato tra lo Stato, le regioni e gli enti locali, anche prevedendo la deroga al Patto di stabilità; sostenere l’approvazione urgente della proposta di legge finalizzata a destinare una quota dell’otto per mille del gettito Irpef;
   ad attuare pienamente il percorso dell’autonomia scolastica in modo da rendere le scuole, nell’ambito del sistema nazionale unitario dell’istruzione, in grado di essere riconosciute anche in base ai parametri europei come vere istituzioni autonome, favorendo, secondo quanto previsto dal decreto del Presidente della Repubblica n. 275 del 1999, il raccordo con il territorio, gli enti locali, le associazioni di categoria, le università, gli enti di ricerca, i musei, le imprese, favorendo anche la formazione di reti di scuole. A tal fine risultando particolarmente importante l’attuazione dell’articolo 50 del decreto-legge n. 5 del 2012 con l’assegnazione, almeno triennale, dell’organico funzionale ad ogni istituzione scolastica, anche a livello di reti di scuole;
   a sostenere l’autonomia delle scuole attraverso una programmazione certa dei finanziamenti, attraverso la definizione di un budget triennale, l’erogazione annuale tempestiva di fondi e il ripristino del Fondo d’istituito e dei finanziamenti originariamente previsti dalla legge n. 440 del 1997;
   ad attivare, rafforzare e migliorare, nell’ottica della valorizzazione dell’autonomia scolastica, il sistema nazionale di valutazione, che affiancando e sostenendo le scuole possa consentire l’affermazione della cultura della valutazione e dell’autovalutazione, qualitativa e quantitativa, al fine di definire gli obiettivi, verificare i risultati, individuare le criticità e le azioni per migliorare i risultati, in modo da dare a tutti gli studenti le stesse opportunità di apprendimento e di successo scolastico;
   a potenziare il tempo pieno e il tempo prolungato nella scuola primaria e nella scuola secondaria di II grado e ad attuare pienamente l’obbligo scolastico a 16 anni e il diritto-dovere alla formazione fino a 18 anni;
   a continuare il rilancio dell’istruzione tecnica e professionale e l’alta formazione tecnica (ITS) con la realizzazione di programmi e progetti atti a facilitare l’alternanza scuola-lavoro, i tirocini e l’apprendistato, al fine di realizzare forme innovative e laboratori, attraverso un opportuno coordinamento tra istituti scolastici, imprese, enti locali e regioni, università ed enti di ricerca per favorire la crescita;
   a definire un piano pluriennale per l’immissione in ruolo del personale precario, per dare certezza e stabilità alle scuole, prevedendo la stabilizzazione dei posti attualmente vacanti e coperti con incarichi annuali compresi quelli destinati agli insegnanti di sostegno e quelli necessari per gli organici funzionali; parallelamente curare il reclutamento di giovani laureati, rivedendo e semplificando le modalità concorsuali e l’individuazione degli esaminatori;
   ad intervenire a favore dei lavoratori della scuola della cosiddetta «quota 96», favorendo per quanto di competenza un rapido iter della proposta di legge AC 249 già assegnata alla XI Commissione permanente della Camera, consentendo così nuove assunzioni e favorendo l’allineamento all’Europa per quanto riguarda l’età anagrafica dei docenti;
   a favorire per quanto di competenza un rapido iter della proposta di legge che modifica la norma, introdotta con la «spending review» (articolo 14, comma 13, legge 135 del 2012), definendo un piano per un adeguato utilizzo del personale inidoneo, tenendo conto delle effettive condizioni di salute e delle competenze acquisite nonché, per coloro che lo richiedono e hanno i requisiti applicare l’istituto della dispensa;
   a sviluppare il piano di innovazione digitale e di formazione del personale non solo docente delle scuole, senza il quale qualunque nuova apparecchiatura rischia di rimanere inutilizzata, indirizzo che va anche nella direzione di ridurre la dispersione scolastica, creando una didattica più laboratoriale e di introdurre nella scuola un utilizzo critico dei media;
   a elaborare un piano straordinario finalizzato a riconoscere il ruolo sociale e a dare il giusto valore al personale della scuola, a partire dagli insegnanti, avviando una nuova stagione con il rinnovo del contratto di lavoro sia con la previsione dell’aumento dei salari che con la definizione di incentivi legati alla professionalità e all’impegno profuso nel migliorare la qualità e la sperimentazione di innovazione della didattica, tale valorizzazione va collegata anche alla formazione in servizio, e a una rendicontazione sociale dei risultati;
   a sostenere il percorso di internazionalizzazione e di mobilità di studenti e del personale, nell’ottica dell’implementazione della strategia UE 2020 e finalizzato alla creazione di uno spazio europeo della conoscenza e della mobilità;
   a riprendere il percorso di riforma dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, seguendo la linea strategica indicata in premessa di istituire un sistema unitario e integrato di tutta la formazione superiore post-secondaria e affrontare e risolvere i delicati problemi degli istituti musicali pareggiati e del relativo personale;
   a ripristinare i 300 milioni di euro a valere sull’FFO delle università statali alle università e i 51 milioni agli enti di ricerca e comunque a varare un programma graduale di investimenti che porti l’Italia a rispettare gli obiettivi previsti dalla Strategia UE 2020;
   ad intervenire affinché siano sbloccati le assunzioni ed il turn over, entro un quadro di sostenibilità economica dei bilanci universitari e riequilibrando il personale tra le varie fasce docenti, garantendo possibilità di carriera a tutti coloro che lo meritano;
   a destinare al tema della contribuzione studentesca universitaria e del diritto allo studio universitario un’attenta e strategica riflessione complessiva e, di conseguenza, ad adottare un nuovo quadro organico di provvedimenti legislativi e di investimenti finanziari statali, allo scopo di sostenere gli studenti universitari capaci e meritevoli le cui famiglie non sono in grado di sostenere i costi di formazione superiore e di mantenimento agli studi affinché i loro talenti possano liberamente esplicarsi nei tempi, nei modi e nei luoghi da loro scelti e così si contribuisca a riattivare la mobilità sociale per rendere la società italiana più equa e fiduciosa;
   a migliorare il sistema di valutazione dell’università e della ricerca, a partire dal ruolo dell’ANVUR, semplificando i vincoli burocratici in direzione di una piena responsabilizzazione in tutte le istituzioni, da incentivare anche con opportuni finanziamenti premiali aggiuntivi rispetto a quelli ordinari;
   a perseguire l’obiettivo di portare progressivamente la spesa pubblica per la cultura ai livelli europei, considerando la cultura un investimento fondamentale per la crescita e lo sviluppo;
   ad avviare un piano di investimenti pluriennali per la tutela dei beni culturali non limitandosi ad interventi straordinari e urgenti;
   a individuare nel settore della cultura strumenti di programmazione certi che consentano un utilizzo più efficiente ed efficace delle risorse a partire dalla riorganizzazione dei finanziamenti straordinari;
   ad avviare una politica di monitoraggio della spesa pubblica e privata in ambito culturale in grado di quantificarne il volume e di definire qualità ed efficacia degli investimenti per la realizzazione della missione pubblica;
   a rilanciare il settore dei beni culturali, rendendo più stabili anche i contributi delle istituzioni di cultura tutelate dal Ministero che hanno un forte ruolo di riferimento per la ricerca e di formazione all’interno della società.
(1-00091) «Coscia, Centemero, Santerini, Ghizzoni, Ascani, Blazina, Bonafè, Bossa, Carocci, Coccia, D’Ottavio, La Marca,Malpezzi, Manzi, Malisani, Narduolo, Orfini, Pes, Piccoli Nardelli, Raciti, Rampi, Rocchi, Zampa, Gelmini, Galan, Lainati, Longo,Palmieri, Petrenga, Abrignani, Capua, Molea, Vezzali, Biondelli, Antezza, Amoddio, Piccione».

"La scuola vista dai ragazzi. Paure e un Invalsi democratico", di Luciana Cimino

Si aspettavano qualche migliaio di risposte, ne sono arrivate quasi 100mila. La consultazione studentesca elaborata dalla Rete degli Studenti e somministrata nelle scuole di tutta Italia ha visto una partecipazione massiccia. Quella che ne è uscita è una piattaforma politica ma anche il ritratto di una generazione. I risultati sono stati presentati ieri mattina alla Sala Mercede della camera dei Deputati, davanti alla FlC-Cgil, a associazioni della scuola e organizzazioni studentesche e ad alcuni parlamentari.

«Volevamo rovesciare il rapporto tra chi scrive le riforme e gli studenti, alle leggi calate dall’alto contrapponiamo un forma di democrazia partecipata, un modello che però in questi anni non è mai stato preso in considerazione», dice Roberto Campanelli, coordinatore nazionale dell’Unione degli studenti. Il referendum è partito il 15 aprile per finire il 4 maggio.

«Interrogare sulle ansie di una generazione, che vive pure la crisi, ha un valore non solo politico ma anche culturale». Difatti il principale problema evidenziato dagli studenti con il 73.4% delle indicazioni è la paura della precarietà e l’incertezza nel futuro lavorativo. Tutte le altre “paure” (come la qualità dello studio o la sicurezza degli edifici scolastici) scompaiono davanti alla precarietà senza superare il 9%. E’ anche una generazione che ha chiari limiti e pregi dell’autonomia scolastica ma che decisamente non vuole l’ingresso dei privati negli istituti (il 62 per cento). Il 26 per cento comprende che c’è bisogno dei fondi dei privati per le economie delle università ormai disastrate ma chiede che la didattica e la ricerca rimangano pubbliche.

Più del 52 per cento chiede il “reddito di formazione” sulla base del modello scandinavo. Il 77 per cento vorrebbe stage legati agli studi realizzati mentre sul numero chiuso il 30% pensa che debba rimanere in facoltà come Medicina, Architettura, Odontoiatria, il 12 lo estenderebbe ovunque mentre la maggioranza, il 57% immagina università aperte. Domanda anche sulle valutazioni, Invalsi e Ava: per il 48 per cento dovrebbero essere più democratiche, il 27% le trova “da contrastare”. Riguardo al diritto allo studio, settore particolarmente ridimensionato negli anni a causa degli tagli, più del 45 per cento degli intervistati risponde che con le borse di studio debbano essere sostenuti gli studenti privi di mezzi.

Che debbano essere attribuite su scala nazionale (e non regionale, come è adesso) mentre il 25% ritiene che vada anche dimostrato il merito. Il prestito d’onore (cavallo di battaglia degli ex ministri Gelmini e Profumo) è apprezzato solo dal 3,65 per cento. A tal proposito ieri la Rete della Conoscenza ha anche presentato le sue 10 proposte per il diritto allo studio, dalla gestione di alloggi e mense ai criteri di assegnazione delle borse.

«Abbiamo provato a ragione a lungo termine, l’esigenza è adesso quella di costruire forme di partecipazione efficaci che coinvolgano anche associazioni della scuola e coordinamenti studenteschi per incidere in maniera immediata e per lanciare un grande dibattito pubblico sull’istruzione»

L’Unità 12.06.13

"Il governo: “L’aborto va garantito” stop all’obiezione di coscienza selvaggia", di Maria Novella De Luca

Ci sono volute nove mozioni presentate da tutti i gruppi parlamentari, la campagna capillare e sottotraccia di “#save194”, le inchieste giornalistiche che negli ultimi mesi hanno raccontato come, di fatto, in Italia l’aborto sia tornato ad essere clandestino, ma finalmente ieri il governo si è mosso. Spezzando un muro di silenzio che durava da anni, mentre decine di reparti di interruzione volontaria di gravidanza venivano chiusi uno dopo l’altro, svuotati da un ricorso in massa di medici, anestesisti e infermieri verso l’obiezione di coscienza. Ieri, seppure con cautela, il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, al termine di una lunga giornata di discussione parlamentare, ha accolto e si è impegnata a verificare tutti i temi proposti nelle mozioni dei diversi gruppi politici, da Sel al Pd, dal Pdl al M5S a Scelta Civica, che sull’aborto si è invece spaccata al suo interno. Esattamente come prevede la legge 194 del 1978, il Governo ha annunciato di voler vigilare, attraverso le regioni, «affinché i servizi di interruzione volontaria di gravidanza vengano garantiti», pur nel rispetto del diritto all’obiezione di coscienza. Un diritto che negli ultimi anni però è entrato in pieno conflitto con l’altro diritto, previsto da una legge dello Stato, e cioè la possibilità per le donne di abortire con sicurezza in ospedale.
Soltanto un inizio naturalmente, anche se molti (anzi molte) firmatarie delle mozioni, da Donata Lenzi del Pd, a Marisa Nicchi e Titti Di Salvo di Sel, fino a Irene Tinagli di Scelta Civica, hanno detto che si tratta di un primo passo, per certi versi straordinario, dopo tanto silenzio. «Si conferma che la 194 è un diritto acquisito». Mentre sono state bocciate in aula quelle mozioni, più restrittive della Lega, di Fratelli d’Italia e di quella parte di Scelta Civica, che spezzandosi in due, aveva firmato il testo di Paola Binetti.
In concreto il neo ministro della Salute Beatrice Lorenzin ha sottolineato che le mozioni presentate «provenivano da culture diverse e mi è sembrato giuste accoglierle tutte, ma il mio compito sarà quello di vigilare affinché ci sia piena applicazione della legge 194 su tutto il territorio nazionale». Il ministro Lorenzin ha quindi specificato che secondo i dati in suo possesso, «non è il numero degli obiettori di coscienza a provocare i disagi sulla 194, visto che le regioni già prevedono la mobilità del personale». Dati in contraddizione con la realtà però, anche se è proprio la legge 194 che prevede questi scambi tra ospedali. Purtroppo la mobilità non viene quasi mai garantita, anzi le Asl, quando non hanno più personale disponibile si affidano alle strutture convenzionate, come in Puglia, o assumono medici a contratto, facendo lievitare in modo abnorme i costi della sanità. «Aprirò un tavolo con gli assessori regionali per verificare l’efficienza della 194, e affinché non ci siano discriminazioni né per gli obiettori né per i non obiettori, e a fine luglio presenterò la relazione al Parlamento con tutti i dati aggiornati».

La Repubblica 12.06.13

"Lavoro, tre linee d'intervento", di Davide Colombo e Giorgio Pogliotti

Sgravi sulle assunzioni dei giovani, semplificazione dei contratti a termine e dell’apprendistato. Sono questi i principali assi d’intervento del pacchetto lavoro che sta avendo un’accelerazione e potrebbe vedere la luce già questo fine settimana, in anticipo rispetto alla scadenza di fine mese, alla quale ha fatto ríferímento il ministro Giovannini con l’obiettivo di «dare un segnale forte nella lotta alla disoccupazione». Le riflessioni dei tecnici ruotano attorno a tre strumenti tradizionali: il credito d’imposta, gli sgravi contributivi (a tempo e con scalettature varie), i finanziamenti in conto capitale ai datori che assumono giovani. Le valutazioni in corso riguardano la quantificazione economica dell’intervento e le compatibilità europee; la durata e la portata delle misure potranno essere definite solo quando si conosceranno i saldi dell’operazione. Tra le ipotesi che stanno prendendo corpo c’è un intervento di fiscalizzazione per due anni degli oneri contributivi a carico dell’impresa che assume un giovane con contratto a tempo indeterminato (per i anno se l’assunzione è con contratto a tempo determinato), intervento che avrebbe un costo complessivo di 1,1 miliardi di euro (si veda Il Sole 24 Ore di ieri). Il nodo principale da sciogliere è quello delle coperture necessarie per gli incentivi che dovranno essere finanziati con le risorse disponibili, dal momento che il Governo ha escluso il ricorso ad una manovra estiva per reperire nuove risorse Una delle leve fondamentali su cui si punta è rappresentata dalla riprogrammazione dei fondi comunitari, da cui si capirà anche su quale dote si potrà contare. Molti soldi fanno parte dei nuovi fondi strutturali europei che partono dal 2014, ma l’Italia e altri Paesi hanno ancora soldi da spendere del precedente programma 2007-2013. «È su questo riorientamento che il Governo sta lavorando per sostenere il piano per l’occupazione giovanile» ha spiegato il ministro Giovannini. L’ultimo resoconto del ministero della Coesione territoriale segnala che l’Italia ha speso il 4o% delle risorse programmate. Quanto alla nuova tranche, Giovannini ha sottolineato che l’impegno del Governo nei prossimi sei mesi è quello di preparare piani operativi affinché da gennaio vi siano le condizioni perché siano «immediatamente spendibili », anche se molti di questi fondi sono regionali e «quindi serve l’accordo delle Regioni». Il pacchetto lavoro conterrà anche interventi a “costo zero”, per correggere alcune parti della legge Fornero, con un ulteriore ritocco alle norme sui contratti a termine (si prevede una riduzione dei tempi di intervallo per i rinnovi e un’estensione del dispositivo della acausalità) ed una nuova semplificazione dell’apprendistato. «Sappiamo di dover aiutare le imprese ad utilizzare in questo momento di particolare incertezza tutti gli strumenti – ha aggiunto il ministro -, dal lavoro a termine all’apprendistato e anche incentivare l’allungamento dellavita lavorativa. La risposta alla crisi non può essere fatta solo di contratti a brevissimo termine». Si sta ragionando anche sulla sperimentazione della staffetta generazionale, anche se si sta ancora valutando il rapporto costibenefici, visto che lo Stato dovrebbe farsi carico del pagamento dei contributi figurativi per íl lavoratore anziano in part-time (altrimenti avrebbe la sua pensione penalizzata), che dovrebbe progressivamente lasciare il posto ad un giovane. Nel decreto potrebbe entrare anche lo sconto del 6% sui pagamenti dilazionati dei contributi all’Inps da parte delle imprese e alcune norme di semplificazione come quella che prevede l’acquisizione d’ufficio del Dure il Documento unico di regolarità contributiva, rilasciato per i contratti pubblici di lavori, forniture e servizi ha validità di 18o giorni dalla data di emissione e non dovrà essere richiesto per ogni singolo contratto, mantenendo la propria validità nei confronti di tutte le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori. Intanto oggi al tavolo sugli ammortizzatori sociali tra il sottosegretario Carlo Dell’Aringa e i rappresentanti delle Regioni, si parlerà dello sblocco delle risorse per la cassa in deroga.

Il Sole 24 Ore 12.06.13

"La messa è finita", di Ilvo Diamanti

Vent’anni dopo la Seconda Repubblica è finita. Questo mi sembra il senso “politico” di questa consultazione. Che ha le specificità e i limiti di un voto “locale”, ma assume comunque un significato politico “nazionale”.
Non solo perché ha coinvolto quasi 7 milioni di elettori, in 564 comuni. Tra cui, 16 capoluoghi di provincia e 92 città con oltre 15 mila abitanti. Ma perché, a mio avviso, conferma la svolta dalle elezioni politiche di febbraio. Segna, cioè, la fine della “rivoluzione” partita vent’anni fa, nel 1993, proprio dalle città. Dove, per la prima volta, si era votato “direttamente” per il sindaco. Quando, prima del ballottaggio, Silvio Berlusconi, “sdoganò” i post-fascisti, annunciando che, se, vi avesse risieduto, a Roma avrebbe votato per Gianfranco Fini. Ma la “rivoluzione” si produsse e riprodusse, soprattutto, nel Nord. In particolare, a Milano. La città di Mani Pulite dove Marco Formentini, candidato della Lega, divenne sindaco. Dove Silvio Berlusconi fondò Forza Italia, il suo “partito personale” e “aziendale”. Che l’anno seguente vinse le elezioni politiche. Aggregando Alleanza Nazionale, nel Centro Sud, e la Lega nel Nord. Così Milano conquistò l’Italia. E la “questione settentrionale” divenne “questione nazionale”. Il capitalismo popolare, della piccola impresa, rappresentato dalla Lega, insieme al capitalismo mediatico, finanziario e immobiliare, interpretato da Berlusconi. Conquistarono l’Italia. Complice l’Alleanza Nazionale del Sud.
Vent’anni dopo, quel percorso sembra finito. Il Forza-leghismo (come l’ha definito Edmondo Berselli) ha perduto la sua Bandiera. Il Nord. Il territorio. Il Centrodestra, in queste elezioni, è stato “s-radicato”, proprio dove era più “radicato”. Nei luoghi della Lega. A Treviso, per prima. La città di Gentilini — e del governatore Zaia. Ma la Lega ha perduto anche nelle città vicine a Verona. Feudo del Nuovo leghismo di Tosi.
Tutto il Centrodestra, però, si è “s-radicato”. Ovunque. I dati, al proposito, sono impietosi. Nei 92 comuni maggiori dove si è votato, prima di queste elezioni, il Centrodestra aveva 49 sindaci (di cui 2 la Lega da sola). Nel Nord “padano”, in particolare, amministrava 16 comuni maggiori (compresi i 2 della Lega), sui 28 al voto. Oggi la Lega è scomparsa. E il Centrodestra, guidato dal Pdl, ha “mantenuto” solo 14 città maggiori, in Italia, cioè meno di un terzo. E 3 nel Nord. In pratica: è quasi sparito. In questi giorni ha perduto le roccheforti residue. Da ultima, Imperia – il feudo di Scajola. Per prima – e soprattutto – Roma. La Capitale. Il Centrodestra è affondato anche nel Centrosud e nel Mezzogiorno. Sconfitto a Viterbo, e nei principali capoluoghi siciliani dove si votava. A Messina, Catania, Ragusa, Siracusa. È questa la principale indicazione “politica” di questo voto “ammi-nistrativo”: la sconfitta del Centrodestra. Insieme al declino – simbolico e politico – del territorio. Eppure non è stato sempre così. Cinque anni fa, appena, il centrodestra governava ancora in alcune importanti capitali. A Milano, Palermo, Cagliari. Roma. Ora le ha perdute. Tutte. Cos’è successo, in questi ultimi anni? Ha pesato, sicuramente, il declino dei riferimenti sociali ed economici: l’impresa e gli imprenditori – ma anche i lavoratori – della piccola impresa. Il capitalismo finanziario e speculativo. La crisi globale li ha stremati. E li ha posti reciprocamente in conflitto. Inoltre, l’invenzione del Pdl non ha “coalizzato” Fi e An. Li ha svuotati entrambi. Ne ha fatto un solo, unico contenitore “personale”. La Lega, invece, si è “normalizzata”. È divenuta “romana”. Così, al Centrodestra è rimasta solo l’immagine – peraltro sbiadita – del Capo. Berlusconi. In ambito politico nazionale. Mentre a livello locale non è rimasto praticamente nulla.
La svolta oltre la Seconda Repubblica è sottolineato dal crescente peso dell’astensione, cresciuta notevolmente, rispetto alle elezioni precedenti. A conferma che la messa è finita. In altri termini: il voto non è più una fede. Così, occorrono buone ragioni per votare un partito o un candidato. E, prima ancora, per andare a votare. Negli ultimi vent’anni, il non-voto è stato, in parte, assorbito dal voto di protesta. Intercettato dalla Lega, ma anche da Berlusconi. Canalizzato, alle recenti elezioni politiche, da Grillo e dal M5S. In questo caso non è avvenuto. Al primo e a maggior ragione al secondo turno. Per ragioni fisiologiche – non ci sono preferenze da dare, i candidati si riducono a due, molte sfide appaiono segnate. Ma anche perché “non votare”, in una certa misura, è un modo per votare. E conta molto, visto lo spazio che gli viene dedicato dagli attori e dai commentatori politici.
Alla fine della Seconda Repubblica, così, riemerge il Centrosinistra. E soprattutto il Pd. Considerato in crisi, dopo il voto di febbraio. Ma soprattutto dopo-il-dopo-voto. Fiaccato “da” Berlusconi – regista delle larghe intese. “Da” Grillo e dal M5S – vincitori delle elezioni politiche. In questa occasione, il Pd, insieme al Centrosinistra, ha vinto ovunque. O quasi. In tutte e 16 le città capoluogo. In 21 comuni maggiori del Nord (su 28), 10 (su 12) nelle regioni rosse e in 22 nel Centro-Sud (su 52). Mentre il Pdl si è sciolto e la Lega è scomparsa. Mentre il M5S ha eletto il sindaco a Pomezia — seconda città del MoVimento, per peso demografico, dopo Parma. E va in ballottaggio a Ragusa. In altri termini, “resiste” ed “esiste”, ma non avanza, come nell’ultimo anno.
Un altro segno del cambio d’epoca. Perché se il territorio declina, come bandiera, torna ad essere importante come risorsa politica e organizzativa. E favorisce i “partiti” che ancora dispongono di una struttura e di persone credibili e conosciute, presso i cittadini. In altri termini, il Pd è un partito personalizzato, a livello locale. Ma è diviso e impersonale, a livello nazionale. Gli altri, il Pdl e lo stesso M5S, sono partiti personali in ambito nazionale. Ma senza basi locali. Così la competizione elettorale diventa instabile e fluida, come quel 50% di elettori senza bussola e senza bandiera. Per questo nessuno può né deve sentirsi al sicuro. Non il Pdl, partito personale e senza territorio, gregario di una Persona alle prese con troppi problemi personali. Ma neppure il Pd. Partito personalizzato, sul territorio, ma im-personale, a livello nazionale. La Seconda Repubblica bipolare fondata “dalla” Lega e “su” Berlusconi: è finita. Ma la Prima Repubblica, fondata “dai” e “sui” partiti, non tornerà. Da oggi in poi, ogni elezione sarà un “salto nel voto”.

La Repubblica 12.06.13

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“La felicità del naufrago”, di FRANCESCO MERLO

Ha perso e dice che le elezioni sono inutili, ma festeggia la vittoria a Assimisi e a Pomezia. È l’unico leader che non usa la dialettica ma la “trialettica” lo strambo Grillo, protagonista dello scialo, il più grande e rapido spreco della storia.
OVVIAMENTE non è il primo che, stremato e dissanguato, si dispera e dà la colpa al sistema: «Le elezioni sono oscene e non servono a niente». E non è neppure il primo che nega l’evidenza della sconfitta e festeggia perché, pur essendo il Movimento quasi cancellato, «Mario Puddu è il nuovo sindaco di Assemini, provincia di Cagliari, e Fabio Fucci è il nuovo sindaco di Pomezia, provincia di Roma». E però Grillo è il primo che fa tutte e due le cose insieme, il primo che al tempo stesso si dispera e festeggia, il primo che mentre proclama «che le elezioni in Italia non cambiano mai nulla» annunzia che «il cammino del Movimento 5 Stelle all’interno delle istituzioni è lento, ma inesorabile».
Insomma, se gli altri si accontentano di due minuti di faccia tosta, lui se ne prende quattro, perché di facce toste ne ha appunto due. La prima faccia tosta è antisistema: «La vittoria (degli altri ndr) è di Pirro», «questo o quello pari sono», «il tempo delle elezioni è come il tempo dei Pavesini» , «sale il disgusto» … La seconda faccia tosta è invece celebrativa e trucca i risultati.
A Catania, a Messina, a Siracusa,… dove era
addirittura il primo partito, ora il movimento non ha guadagnato neppure un rappresentante nei consigli comunali, e però «Mario e Fabio ad Assimisi e a Pomezia… ». Sembra la gioia del naufrago che dopo aver distrutto la sua preziosissima barca si sente all’asciutto perché, in mezzo al mare in tempesta, ha messo i piedi su una tavoletta.
«È la gioia dello scialo come vita marcita, gesto inconsulto, malessere cieco» disse Vasco Pratolini per spiegare appunto il suo “Scialo”, che fu il romanzo (romanzo?) del grande spreco di una generazione, quella che si regalò al fascismo. E Pratolini forse prefigurava Grillo nel dilapidatore italiano «senza l’intimo coraggio necessario per guardarsi fino in fondo come realmente è». Infatti Grillo, cieco e sordo a stesso, non si vede e non si sente e sinceramente si stupisce quando viene contestato da qualche parlamentare che in via ordinaria controllava perché l’eletto dal popolo «era consapevole — ha scritto ieri — che l’opportunità unica che gli è stata offerta non è per i suoi meriti».
Dunque ieri, in preda al suo sincero stupore da scialo, Grillo ne ha cacciato un altro, Adele Gambaro, uno di quei parlamentari che «invece crede di essere diventato onorevole per chissà quali divine investiture, e usa il progetto di milioni di italiani per promuovere se stesso e assicurarsi un posto al sole». Insomma «non vale proprio niente». Per favore «si accomodi fuori ».
La Gambaro lo aveva messo a nudo nel tg di Sky ma aveva messo a nudo anche se stessa: «Stiamo pagando i toni e la comunicazione di Grillo, i suoi post minacciosi. Mi chiedo come possa parlare male del Parlamento se qui non lo abbiamo mai visto. Noi facciamo il lavoro e lui ci mette in cattiva luce. Il problema del Movimento è Grillo…. Credo che altri abbiano le mie stesse idee…». Sono banalità sacrosante. Ma non è la Gambaro che raccontandole ha fatto saltare le regole. Non è il suo coraggio che ha liberato la verità del movimento nel movimento È stato “lo scialo”.
Neppure Pratolini era arrivato a immaginare uno scialatore così rapido e radicale nello sfinirsi, nel dissanguarsi, nel passare dal 30 per cento al tre per cento. Davvero uno scialo così enorme e così rapido non si era mai visto. Grillo ha esibito la forza e l’ha subito distrutta. La sua non è una sconfitta ma una dissipazione senza uguali nella storia d’Italia che pure è ricca di ardenti fuochi fatui, come l’uomo qualunque di Giannini e la Lega di Bossi, e di grandi dilapidazioni di consenso, come Mario Segni e Achille Occhetto, pur sempre piene di dignità benché veloci. Ma solo Grillo in appena tre mesi è stato quasi cancellato in quella Sicilia che aveva conquistato con una strepitosa guerra-lampo. Anche a Ragusa, unica città dove il grillino andrà al ballottaggio, il consenso è passato dal 40 al 15 per cento. E si sa che la Sicilia anticipa, amplifica ed è la Cassazione delle sorprese elettorali.
Lo scialo, dunque. Sino a ieri davvero Grillo li controllava tutti con il pugno di ferro, anche la Gambaro. Ma dopo lo scialo non potrà più tenere in riga i suoi soldatini perché, per dirla con i paradossi del linguaggio grillesco, per dirla cioè come la direbbe Grillo, ormai il movimento ha più parlamentari che voti.
Perciò, mentre butta fuori la Gambaro, Beppe Grillo comincia a buttare fuori anche se stesso. Sfidandoli tutti, si sfida: «Vorrei sapere cosa pensa il Movimento 5 Stelle, vorrei sapere se sono io il problema».
Certo, il gran finale dello scialo vorrebbe che anche Grillo come la Gabanelli e Rodotà venisse via via maltrattato e infine tradito come un amante indegno. La sceneggiatura vorrebbe che il gran fustigatore del web scomparisse fustigato nel web. E vedere tutti quei parlamentari vagare in cerca d’autore sarebbe ancora scialo: crudeltà di scialo.
Beppe Grillo che dissipa se stesso fino a rendersi inutile, fino a rendersi vano? In fondo è Montale che ispirò Pratolini: «La vita è questo scialo / di triti fatti, vano / più che crudele».

La Repubblica 12.06.13