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"L’occasione da non perdere", di Claudio Sardo

Roma torna a sinistra. E i candidati-sindaco del Pd vincono in tutti i Comuni capoluogo chiamati alle urne. Senza le qualità di Ignazio Marino, senza la sua capacità di allargare la coalizione a tanti «irregolari» come lui, la pessima stagione di Gianni Alemanno non sarebbe stata chiusa con un verdetto così drastico.

Ma il risultato di ieri ha un’evidente valenza nazionale. Ci sono dentro i meriti personali di Emilio Del Bono a Brescia, di Giovanni Manildo a Treviso (che ha espugnato il «regno» di Gentilini), di Pasquale Cascella, firma storica de l’Unità, a Barletta, di Carlo Capacci a Imperia, di Bruno Valentini a Siena, di Emilio Gariazzo a Iglesias, di Leonardo Michelli a Viterbo, di Paolo Foti ad Avellino, di Simone Uggetti a Lodi, di Valeria Mancinelli ad Ancona. C’è il valore di Enzo Bianco, che tornerà ad essere il primo cittadino di Catania, dopo aver anche lui sconfitto clamorosamente un sindaco uscente di centrodestra. Tuttavia, non era mai accaduto che in una tornata amministrativa il risultato fosse così univoco. Il Pd ha vinto ovunque. Ha vinto nelle aree tradizionalmente di sinistra come nelle fortezze della destra. Ha vinto al Nord, al Centro e al Sud. Ha vinto nei Comuni maggiori, ma ha prevalso anche in quelli più piccoli. Almeno oggi sarà difficile dire che si è vinto «nonostante il Pd», ha sottolineato ieri Pier Luigi Bersani, che di questo successo ha fatto la semina e poi ha patito il fuoco amico, non meno degli errori e dei limiti espressi dal corpo collettivo dei democratici.

Ovviamente, riconoscere il valore nazionale del risultato di ieri non vuol dire sottovalutare la fragilità del contesto, né la crisi di sistema che ne fa da sfondo. Al ballottaggio hanno votato meno della metà degli aventi diritto. E questa astensione-record non ha nulla di ordinario. Esprime una sfiducia diffusa, un senso di paura e di impotenza, persino una rabbia sociale: e quando l’insofferenza tocca questi livelli, è in pericolo la stabilità stessa delle istituzioni. C’è un’area vasta di cittadini esposta ad avventure populiste o autoritarie: la storia insegna, e i casi di Berlusconi e Grillo, per quanto diversi tra loro, testimoniano che una simile crisi di fiducia può forzare anche oggi i canoni della democrazia rappresentativa.

Il Pd ha stravinto queste elezioni perché la base degli elettori si è ristretta. Questo è un dato ineliminabile che costringe il Pd a «restare con i piedi per terra». I cittadini hanno offerto al centrosinistra una grande opportunità. Ma va colta con umiltà e coraggio. I cittadini-elettori hanno individuato nel Pd e nel centrosinistra le sole forze di governo plausibili, la sola cerniera dell’unità del Paese. Tanti hanno bussato alla porta del Pd e dei suoi candidati-sindaco perché non sapevano a chi altro rivolgersi. E lo hanno fatto con spirito critico: hanno posto una domanda di governo, ma al tempo stesso di profondo rinnovamento. Nei contenuti, nei metodi, nelle classi dirigenti. Rinnovamento non è vuoto nuovismo, non è parlar d’altro. È costruire un tempo migliore: è ricostruire una speranza nel mezzo di una crisi che toglie speranze. Marino ha detto di sè e degli altri sindaci che sono «una squadra». Ecco l’altra dimensione necessaria, e purtroppo finora carente nel Pd: è ora di lavorare in squadra. Di divisioni personalistiche non ne possiamo più. Il congresso prossimo venturo deve consentire una battaglia aperta sui progetti per l’Italia di domani, ma deve mettere fuorigioco le rivalità ormai patologiche tra notabili.

Non è vero che Berlusconi e il centrodestra sono in ascesa. Berlusconi non ha mai superato il collasso strategico seguito alla fine del suo governo. Non ha più un progetto per l’Italia. Non ha più un partito, perché lui stesso ne ha impedito l’evoluzione democratica. Non ha più neppure l’ambizione di guidare il Paese, come dimostra la dissoluzione dell’«asse del Nord» con la Lega. Vuole condizionare il governo, vuole sedere nel cda per proteggere il più possibile i suoi spazi. Altro che dettare l’agenda del governo Letta! La potenza di Berlusconi sta solo nelle fobie di un centrosinistra incerto sul proprio ruolo.
Non sappiamo quanto durerà il governo Letta. Speriamo che duri il tempo necessario per adottare misure straordinarie per il lavoro, per riformare la forma di governo (nel senso di un rafforzamento del governo parlamentare e, certo, non in direzione di un confuso semi-presidenzialismo), per varare una nuova legge elettorale. Tuttavia va detto che, se il Pd non avesse dato vita al governo e non si fosse assunto la responsabilità di guidarlo, non ci sarebbe stato questo risultato elettorale. Se il Pd fosse fuggito dopo il disastro delle presidenziali, a quest’ora probabilmente racconteremmo la storia di una spaventosa alternativa tra il populismo di Berlusconi e quello di Grillo.

Il Pd può e deve incidere maggiormente sull’azione del governo, deve guidarlo, senza superbia ma anche senza balbettìi. Berlusconi è stato punito perché ormai ha solo la tattica, senza strategia. Grillo è stato punito perché ha scommesso sullo status quo favorendo il Cavaliere anziché un cambiamento possibile. Il Pd deve ritrovare una «connessione sentimentale» con il suo popolo. A partire proprio dai sindaci e dai governatori. Il congresso è un’occasione da non perdere per dare al rinnovamento promesso contenuti all’altezza delle sfide storiche. Ma intanto il Pd non dimentichi i problemi concreti, il governo reale, le sofferenze e le domande di chi guarda con scetticismo alle istituzioni e dice: questa è l’ultima volta…

L’Unità 11.06.13

"La democrazia malata", di Carlo Galli

Dal voto buone notizie. Gli italiani premiano il Pd, gli dimostrano fiducia, nonostante le catastrofi elettorali e postelettorali; del governo con il Pdl danno la colpa al Movimento Cinque Stelle, mentre ai democratici riconoscono semmai spirito di responsabilità; della destra danno un giudizio molto negativo.

Dunque, non siamo morti e anzi siamo più vivi e vivaci di Grillo e di Berlusconi. In parte è vero, certamente; ma è anche vero che qui c’è, invece, parecchio da riflettere. La legittima soddisfazione per i risultati conseguiti e per la fiducia di cui il Pd ancora gode, a livello amministrativo, non deve infatti far dimenticare l’altro dato, forse ancora più importante e anzi strategico, di questo passaggio elettorale: che metà dei cittadini non partecipa al voto. Una circostanza non facilmente aggirabile come una curiosità o come una casualità.

Si può sostenere, al riguardo, e lo si è fatto, che il voto locale è sempre meno partecipato di quello politico nazionale; che nelle grandi democrazie del Nord e dell’Ovest basse percentuali di affluenza sono la norma, e che ciò, lungi dall’essere un dramma, va letto come un assenso di fatto alla vita civile e alle sue regole: il disincanto della democrazia non è quindi di per sé un suo rifiuto. Noi latini dal sangue caldo dobbiamo insomma cominciare a pensare in termini di democrazia fredda, di democrazia per default, fisiologicamente data per scontata e proprio per questo non minacciata.

Si tratta di un’analisi sostanzialmente errata. Non solo non vanno mitizzati gli altrui comportamenti elettorali, anch’essi da molti interpretati come segnali di intorpidimento della vita civile. Ma, soprattutto, va notato che il bassissimo dato di partecipazione italiano non è normale, non nasce da una lunga assuefazione a una democrazia funzionante e condivisa, e si manifesta anzi, sempre più vistosamente, come la conseguenza dell’intrecciarsi della crisi economica con la crisi dei partiti e del sistema politico. Non è, insomma, un silenzio-assenso ma un silenzio-dissenso, un tacito rifiuto del gioco elettorale, un chiamarsi fuori dalla fase decisiva e decisionale della democrazia (il voto) proprio perché la base materiale della democrazia (il lavoro) e anche la sua base ideale (l’umanesimo moderno e le sue progettualità) appaiono perdute o minacciate di irrimediabile erosione.

Perché in quelle basi della democrazia non si ha più fiducia, o quanto meno non si ha fiducia nei soggetti politici che dovrebbero garantirle: i partiti.

Non disincanto della democrazia, quindi, ma disagio della democrazia, insoddisfazione per la democrazia così com’è, per il volto – soltanto elettorale, non sostanziato di vita civile, di coesione sociale, di progresso morale – che presenta ai cittadini. Per metà degli elettori la cittadinanza democratica attiva – l’esercizio del diritto di voto – non è più interessante perché la politica è debole, perché non risolve i problemi, perché non li nomina o li nomina invano.

E non c’è nulla di freddo – anzi c’è una altissima temperatura potenziale – in questa astensione; non c’è assuefazione alla democrazia ma una minacciosa insofferenza verso di essa; non c’è fisiologia ma patologia in questo sciopero elettorale che crea di fatto una massa maggioritaria di italiani che si chiama fuori perché si sente fuori, perché è fuori, dal sistema politico, ma non certo dalla politica. È infatti, una massa di manovra a disposizione dell’imprenditore politico che saprà unificare con pochi simboli potenti e vincenti le molte e disparate ragioni di sofferenza e di insofferenza che oggi se ne stanno mute, acquattate nel fin troppo chiaro enigma dell’astensione.

Se la buona notizia del voto è che il Pd è la speranza della maggioranza di coloro che ancora sperano nella democrazia, la cattiva notizia del non-voto è che questi, nel tempo delle crisi, non sono più, o quasi, la maggioranza degli italiani. E che la democrazia stessa sta diventando non tanto fredda quanto piuttosto un’opzione minoritaria, un orizzonte che si va restringendo e forse perdendo.

Se la politica, i partiti, il Pd, non corrono ai ripari.

L’Unità 11.06.13

"L'Italia non tutela i suo figli. Minori sempre più poveri", di Luciana Cimino

Un «Paese socialmente disintegrato». L’allarme del Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Vincenzo Spadafora, che ha presentato ieri al Parlamento la Relazione annuale dei suoi uffici, non potrebbe essere più netto: «Se la classe dirigente di questo Paese non modifica l’approccio verso i temi dell’infanzia e dell’adolescenza, noi consegneremo alle future generazioni un Paese socialmente disintegrato e responsabile di essere rimasto indifferente nei confronti di una parte rilevante e strategica del proprio capitale umano». Spadafora parla chiaramente di «fallimento » delle politiche sin qui adottate. A partire da quell’«atteggiamento quasi caritatevole » tenuto dalle istituzioni sino ad ora e che andrebbe subito sostituito da «un’azione organica di lungo periodo, che dimostri di cogliere il valore cruciale delle giovani generazioni». Il Garante porta come prova i dati Istat: quasi due milioni di minorenni in uno stato di povertà relativa, 17,6% dei bambini e degli adolescenti. I17% è invece in una condizione di povertà assoluta. Di questi la maggioranza vive al Sud dove maggiore è l’incidenza della povertà se la famiglia è numerosa. Tanti non hanno nemmeno più accesso al servizio sanitario di base. Si amplifica quindi anche il rischio di esclusione sociale. Secondo l’Unicef, nella classifica del benessere di bambini e adolescenti l’Italia occupa il 22° posto su 29 Paesi «ticchi ». Inoltre è anche il Paese, dopo la Spagna, con il tasso di Neet (coloro che non studiano né lavorano) più elevato d’Europa. L’11% dei giovani tra 15 e 19 anni non frequentano né scuola né corsi di formazione e non lavorano. Questi numeri fanno dire al Presidente del Senato Pietro Grasso che il paese non si trova più «di fronte ad un “disagio sociale” ma dobbiamo parlare di una vera e propria “questione sociale” da porre al centro dell’attenzione e dell’azione pubblica». Il presidente di Telefono Azzurro, Ernesto Caffo, parla di «disimpegno» delle istituzioni, soprattutto economico con un continuo taglio di fondi. «La spending review ha tolto ossigeno alle associazioni no-profit – aggiunge il Garante – I tagli hanno determinato una completa deresponsabilizzazione del settore pubblico, e molti non ce la fanno più». «Non basta dire che le risorse non ci sono perché c’è la crisi. In Germania e Francia la crisi la stanno affrontando investendo proprio sui più giovani. Berlino destina alla famiglia e all’infanzia il triplo delle risorse di Roma, Parigi oltre il doppio». A tal proposito parla anche sospensione dell’Imu: «È propaganda politica. Si fa credere alle famiglie che risparmieranno e invece si toglie loro molto di più» e chiede al governo un completo cambio di passo; Grasso risponde che non c’è dubbio vi sia bisogno di una «inversione di rotta in materia di spesa pubblica destinata ai minori e alle loro famiglie ». Una questione particolare, poi, è costituita dai bambini in carcere con le madri detenute o quella dei minori che compiono reati. «Stiamo lavorando affinché questi bambini vivano accanto alle loro mamme in una condizione di tutela, di vigilanza ma in una sorta di carcere attenuato », ha detto sul primo punto il Guardasigilli Anna Maria Cancellieri che intende anche «avviare l’elaborazione di un ordinamento penitenziario minorile più moderno, accompagnato da un coerente corpo di norme sull’esecuzione delle pene ». I nodi da sciogliere li elenca il Garante. Unire le competenze, per prima cosa. «Il Consiglio dei ministri deve assegnare al più presto le deleghe sui temi che riguardando i minori. I partiti devono fare un passo indietro rispetto alla divisione, perché non ci sia uno smembramento di queste responsabilità in troppi ministeri. Non chiediamo un ministero dell’Infanzia ma almeno che ci sia un coordinamento delle deleghe». Questo comporterebbe anche una maggiore razionalizzazione delle risorse. Quindi ridefinire le priorità di spesa e ricostituire l’Osservatorio nazionale sull’infanzia e adolescenza e varare un nuovo Piano infanzia, definire i livelli essenziali di assistenza sanitaria e gli investimenti sulla scuola. «La classe dirigente continua a non comprendere che tali investimenti possono essere un antidoto per uscire dalla crisi. Oltre a rispettare i diritti dei bambini e degli adolescenti, investire oggi su di loro significa domani avere un numero inferiore di famiglie povere da sostenere, meno sussidi per i disoccupati, meno spese per disagio sociale e detenuti ».

L’Unità 11.06.13

"La normalità del non voto come negli Usa", di Elisabetta Gualmini

In Italia non andare a votare è diventata una cosa normale. Siamo tutti un po’ più americani. Metà dei cittadini – anche meno – ci vanno stabilmente, l’altra metà spesso sta alla finestra a guardare. Nemmeno il sindaco, il leader politico più a contatto con le magagne della vita quotidiana ci appassiona. Per andare al seggio ci vogliono buonissimi motivi, solide ragioni. L’abitudine non è più un movente idoneo.
Nemmeno nel Nord, un tempo primo della classe, quando il senso civico si traduceva in senso del dovere elettorale, il quale a sua volta spingeva a «turarsi il naso» per sostenere il meno peggio.

Sta qui uno dei tre fattori che spiegano la vittoria netta del centrosinistra: undici comuni capoluogo su undici. Lo avevamo già visto all’opera durante il primo turno delle amministrative. È il fenomeno dell’astensionismo asimmetrico: la fuga a gambe levate dalla politica che però stavolta colpisce in maniera di gran lunga prevalente il centrodestra. Un elettorato, quello del Pdl, meno incline a mobilitarsi secondo logiche di fedeltà ad un partito (semmai a un leader che questa volta non c’era) rispetto a un elettorato che, anche se si rimpicciolito, non sceglie facilmente la via dell’uscita. L’hanno spiegato bene D’Alimonte e Cataldi sulle pagine del «Sole 24 Ore» con riferimento a Roma. Rispetto al primo turno delle comunali del 2008, Marino ha perso il 33% dei voti ottenuti allora da Rutelli, mentre Alemanno è stato abbandonato addirittura dal 46% degli suoi elettori di cinque anni fa, i quali sono rimasti quasi in blocco a casa. Un fenomeno simile si è ripetuto anche al secondo turno, aumentando il divario tra i due, quando sono arrivati anche un po’ di voti aggiuntivi, ma quasi solo a Marino, da elettori che al primo turno avevano scommesso su candidati usciti di scena. In dimensioni inferiori, sono capitate cose simili in molte delle città al voto. Perché quasi dappertutto i candidati locali del centrosinistra apparivano stavolta più presentabili.

A loro vantaggio, hanno giocato al secondo turno anche le crescenti aspettative di vittoria. Al primo, complici i sondaggi basati sulle intenzioni di voto in ambito nazionale, tutti favorevoli a Berlusconi, gli elettori «attivi» del centrodestra potevano nutrire buone speranze che i loro candidati ce l’avrebbero fatta. Ma i risultati hanno segnalato un vento in direzione contraria, con l’effetto di deprimere ulteriormente i potenziali sostenitori del Pdl e rimotivare quelli del Pd.

Non solo. E così arriviamo dritti ad un altro fattore che ha portato i candidati Pd a vincere. La maggiore capacità di includere gli elettori di candidati arrivati terzi o quarti, anche nei capoluoghi in cui vi era pochissimo scarto tra primo e secondo. Il Pd è riuscito a creare cartelli e accordi locali ad hoc contro i candidati avversari. In molti casi il flusso dal Movimento 5 stelle o da liste civiche è stato «naturale», non ha avuto bisogno di essere favorito da accordi tra ceto politico, ha seguito la logica descritta dalla teoria di Anthony Downs, del voto dato al candidato meno distante rispetto al preferito. In altri «la politica» ha fatto la sua parte.

Ad Avellino, ad esempio, la vittoria del Pd è l’esito di un referendum contro il candidato di Ciriaco De Mita (Udc) che ha visto ordinatamente confluire i voti del Pdl, contraddicendo Downs (!), sul candidato Pd, un po’ come ad Imperia, dove la débâcle di Erminio Annoni va trasferita dritta dritta al suo principale sponsor Scaiola. A Brescia, invece, dopo la deludente (o degradante) prova di governo del sindaco uscente, il candidato Pd ha stretto una formale alleanza con una lista «civica» guidata dall’ex-socialista Laura Castelletti.

Insomma, il centrosinistra ha superato la prova, con candidati spendibili a livello locale, di gran lunga più credibili rispetto ai competitori pidiellini, a leghisti ormai fuori tempo massimo, ai 5 stelle introvabili. La previsione del premier Letta che aveva azzardato un risultato «molto positivo» da queste elezioni – se intesa nel senso di segnare uno stop all’incontenibile propensione di Berlusconi a scrivere l’agenda del Governo, in quanto azionista in ascesa – si è rivelata azzeccata.

La Stampa 11.06.13

"Pensioni, Fornero al palo", di Franco Bastianini

Quella che inizierà il 17 giugno sarà una settimana di passione per le migliaia di docenti e di personale Ata della scuola per i quali la riforma Fornero aveva escluso dalla possibilità di poter fare valere, ai fini dell’accesso al trattamento pensionistico, i requisiti anagrafici e contributivi richiesti dalla previgente normativa perché non posseduti alla data del 31 dicembre 2011.

L’ufficio di presidenza della commissione lavoro della camera ha posto all’ordine del giorno dei lavori la proposta di legge n. 249, presentata il 15 marzo 2013, primo firmatario Manuela Ghizzoni (Pd). E un impegno a risolvere il problema è stato espresso anche dal ministro Carrozza, nel suo intervento programmatico davanti al parlamento. La proposta di legge, costituita di soli due articoli, prevede che le disposizioni in materia di requisiti per accedere al trattamento pensionistico di anzianità e/o di vecchiaia e di regime delle decorrenze vigenti prima dell’entrata in vigore dell’art. 24, comma 14 del decreto legge 201/2011 (per la pensione di anzianità non meno di sessanta anni di età e trentasei di contribuzione, o indipendentemente dall’età anagrafica, quaranta anni di contribuzione; la pensione di vecchiaia sessantacinque anni di età per gli uomini e sessantuno per le donne, unitamente a non meno di venti anni di contribuzione), devono essere estese anche al personale della scuola che ha maturato tali requisiti entro l’anno scolastico 2011/2012. Quanto alla copertura finanziaria di tale estensione, è indicata in un contributo di solidarietà dell’1 per cento sulla parte di reddito superiore al limite di 150.000 euro lordi annui.

Sulla base dei dati contenuti nell’anagrafe del ministero, i docenti e il personale amministrativo, tecnico ed ausiliario interessati al provvedimento dovrebbero essere tra i 3.500 e i 4.000. Se la proposta dovesse diventare legge, gli interessati avrebbero tempo fino al 2015, salvo l’autorizzazione alla permanenza in servizio oltre i 65anni, per accedere al trattamento pensionistico con i requisiti richiesti e posseduti al 31 agosto 2012. Intanto la Corte Costituzionale ha fissato al prossimo 19 novembre l’udienza, su ricorso della Cisl scuola davanti al giudice del lavoro, per accertare l’eventuale incostituzionalità della norma Fornero.

da ItaliaOggi 11.06.13

Quel Maggio «da chiudere», di Luca Del Fra

“Credo che l’intenzione sia chiudere il maggio musicale. Prima dell’estate probabilmente”. Parla pacatamente, la rappresentante del teatro fiorentino e le parole volano come pietre attraverso la grande sala Santa Cecilia dell’Auditorium di Roma, dove ieri si è svolta la manifestazione delle Fondazioni Lirico Sinfoniche, i nostri grandi teatri lirici, organizzata dai sindacati Cgil, Cisl, Uil, e Fials.

Non è stata una manifestazione facile, anche con qualche contestazione: il termometro insomma della emergenza che attraversano i nostri grandi teatri lirici oramai da tempo in sofferenza. Si soppesano, talvolta con rabbia, gli errori e si prova a dare qualche risposta, per evitare che una gloriosa tradizione lirica come la nostra si spenga, così. Tant’è che a una iniziativa sindacale hanno voluto partecipare e intervenire svariati sovrintendenti, che sarebbero in realtà la controparte – Bruno Cagli Santa Cecilia di Roma, Rosanna Purchia San Carlo di Napoli, Cristiano Chiarot della Fenice di Venezia -, e una sparuta rappresentanza di politici, nonché l’Agis.

L’emergenza sotto gli occhi di tutti è acuta in tre teatri, oltre Firenze, il Carlo Felice di Genova e il Lirico di Cagliari, ma gli altri non se la passano affatto bene: una situazione che si è venuta a creare anche attraverso una serie di provvedimenti legislativi contraddittori tra loro che dal 2005 a oggi secondo Silvano Conti della Cgil hanno ridotto l’intero settore «in un caos organizzato, un polpettone sconclusionato».

Conti ha ricordato la solenne bocciatura venerdì scorso da parte del Consiglio di Stato del decreto attuativo della Legge 100/ 2010, il provvedimento voluto manu militari dall’allora Ministro per le Attività Culturali Sandro Bondi per salvare la lirica e che non solo ne sta solo accelerando la crisi, ma è anche giuridicamente non impeccabile.

«Spero che questa sentenza – si è augurato Matteo Orfini della commissione cultura alla camera per il Pd – segni un definitivo stop a quella legge di riforma, che non riformava nulla. Oggi almeno alla camera ci sono altri numeri e si può fare di meglio». E su questo tema lo sfida Cecilia D’Elia di Sel, ricordando che la vera alternativa non giace sulle ginocchia delle larghe intese.

La maledizione delle nostre istituzioni culturali è la perpetua emergenza, ma da affrontare senza gli strumenti, visto che a livello politico si stenta a riconoscere, e la recente relazione del Ministro Massimo Bray alle camere non sembra aver dato un colpo d’ala. A partire dai sindacati, non a caso, tutti chiedono un tavolo di crisi: «che riguardi tutto lo spettacolo – ha insistito Maurizio Roi dell’Agis -, in grado di gestire ogni singolo settore e caso nella sua specificità, di dotarlo di ammortizzatori sociali con le eccedenze dell’Empals, e di varare una seria riforma», perché se la lirica è in tempesta, non è che il teatro di prosa o il cinema navighino in acque tranquille.

MANCANO I PROGETTI

Ma è l’allarme di Firenze ha destare i maggiori timori: circola l’idea di creare una bad company e liquidare il teatro affossato dai debiti della recente gestione. Una ipotesi forse remota, ma la recente proposta di creare una cooperativa fatta ai lavoratori del Maggio da Matteo Renzi – in quanto sindaco di Firenze anche presidente del teatro -, ha fatto squillare furiosi campanelli d’allarme.

Per ora il commissario straordinario Francesco Bianchi ha proposto altri 120 licenziamenti: messa così l’alternativa sembra essere o liquidiamo i lavoratori o liquidiamo direttamente il teatro e facciamo pure prima.

Ecco il vero nodo, fino a oggi per cercare di salvare il Maggio Musicale, uno dei nostri maggiori e più illustri teatri lirici, non sembra esser- ci alcun progetto: altrettanto succede per il Lirico di Cagliari – «È possibile che dobbiamo essere noi lavoratori a dire al sovrintendente che se taglia la produzione poi ci tagliano anche le risorse pubbliche. Perché ci mandano degli incompetenti a dirigerci!», inveiscono i rappresentanti -, o al Carlo Felice di Genova, dove al terzo anno tra cassa integrazione di solidarietà e vari altri sacrifici chiedono a gran voce un piano, un’idea di teatro.

L’Unità 11.06.13

"Rossi Doria: 3 scuole su 4 fuori norma, ci vorrebbe un new deal da miliardi di euro", di Alessandro Giuliani

Importanti ammissioni dal Miur, tramite il sottosegretario all’Istruzione: ultimamente solo interventi tampone sulle cose più macroscopiche, come le vie di fuga o gli impianti elettrici, ma abbiamo 44 mila edifici e servirebbe un investimento delle banche europee e internazionali con la Cassa Depositi e Prestiti. Oltre che snellire le procedure.
La situazione dell’edilizia scolastica italiana è davvero difficile. A sostenerlo, da diversi anni, sono associazioni, operatori, sindacati, studenti. E ora anche il ministero dell’Istruzione. Che attraverso il sottosegretario Marco Rossi Doria, nel corso di un intervento a Radio Anch’Io, in una puntata dedicata ai diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, ha “snocciolato” numeri e concetti importanti.
Il primo riguarda la pericolosità degli istituti. Ebbene, Rossi Doria ha detto chiaro e tondo che non riguarda una minima parte di esseri. Ma che oggi addirittura “tre edifici scolastici su quattro sono parzialmente fuori norma”. Per poi ricordare chedi recente “sono stati fatti soltanto degli interventi tampone sulle cose più macroscopiche, come le vie di fuga o gli impianti elettrici”, ma “abbiamo 44 mila edifici, abbiamo finalmente un’anagrafe dettagliata di tutti i lavori da fare”. Solo che “ci vorrebbe un investimento tipo new deal per molti miliardi di euro. Sarebbe peraltro una misura anticiclica in termini economici”.
E ancora: “stiamo cercando un investimento delle banche europee e internazionali insieme con la Cassa Depositi e Prestiti – ha aggiunto – e stiamo cercando di fare un unico fondo per rendere più snelli, insieme agli enti locali, le procedure per l’edilizia scolastica”. Ancora una volta, quindi, il Governo non potrà che lavorare sulle emergenze. Per il resto, che con il passare degli anni diventa sempre più emergenza, si attendono interventi esterni. I quali, però, vista la situazione economica che viviamo, risultano davvero difficili da riscontrare. Morale: al di là delle tante buone intenzioni del ministro Carrozza, che sin dal primo giorno del suo insediamento al dicastero di viale Trastevere ha messo l’edilizia scolastica a norma in cima alle priorità, la situazione dell’adeguamento degli edifici scolastici rimane sempre critica. In certi casi da allarme rosso.
Rossi Doria, infine, ha parlato della “dispersione scolastica”, ricordando che il Miur ha da poco “investito 120 milioni di euro per fare 210 prototipi nel mezzogiorno. Il sistema – ha concluso – va sburocratizzato”. Anche perché nel frattempo ogni anno si allontanano dai banchi di scuola quasi il doppio degli alunni che ci indica l’Unione Europea come soglia massima.

La Tecnica della Scuola 11.06.13