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"La linea verde di Istanbul", di Carlo Petrini

Dal ponte di Galata a Gezi Park ci sono tre chilometri e mezzo. Tre minuti di funicolare per arrivare all’imbocco di Istiklal Caddesi, la strada che sfocia nella piazza Taksim. In basso, verso il Corno d’oro, il brulicare umano di sempre: traffico, cantieri aperti, tram modernissimi accanto a vecchi carretti di ambulanti. In alto, la via commerciale della Istanbul moderna. Tre minuti di funicolare sotterranea che sono stati il simbolo di una distanza tra due mondi completamente separati: da una parte la vita quotidiana assolutamente normale, dall’altra le scene di guerriglia urbana riprese dalle televisioni di tutto il mondo. La raccomandazione era di non salire con la funicolare fino là, per l’aria resa irrespirabile dai lacrimogeni, per gli scontri in corso. Fa un certo effetto vedere la piazza Taksim “liberata” dai manifestanti e il contiguo Gezi Park, dove ancora tende e striscioni colorati spiccano tra gli alberi. Quegli alberi che sono oggi il simbolo di una rivolta forse più grande di quanto ci si aspettasse. C’è aria di smobilitazione, ma si avverte anche una tensione latente. Al centro della piazza, un uomo anziano con un improbabile impermeabile di nylon giallo sta in piedi immobile e tiene in alto una grande bandiera turca. La scalinata che dalla piazza sale all’entrata del parco è ancora chiusa quasi completamente dalle barricate, c’è uno stretto passaggio attraverso il quale però le persone circolano liberamente, tra striscioni e cartelli dei più diversi schieramenti. Dentro, chi raccoglie i sacchi a pelo, chi smonta l’accampamento, chi discute seduto in cerchio.
La via Istiklal, di solito affollata, riprende lentamente ad animarsi appena poche ore dopo gli scontri tra la polizia, armata di caschi, idranti e lacrimogeni, e migliaia di giovani, arrivati qui da tanti quartieri della Istanbul metropolitana, attrezzati con mascherine antipolvere ed elmetti da cantiere. Si ha l’impressione che il fuoco covi sotto la cenere e che questa giornata di tregua, durante la quale Erdogan si è impegnato a dialogare, non sia che una tappa di un percorso più lungo a venire. Il movimento appena nato per difendere gli alberi di Gezi Park minacciati dalla costruzione di un gigantesco centro commerciale (l’ennesimo a Istanbul) è qualcosa di completamente nuovo in questo contesto. Anche all’occhio di un turista senza particolari convinzioni ambientaliste, l’idea che questa macchia di verde nel pieno centro cittadino scompaia appare del tutto illogica. Non sono soltanto concezioni urbanistiche diverse a confrontarsi aspramente, ma due filosofie di vita, in questa Turchia che cresce a ritmi impressionanti ma fatica a trovare una sintesi tra due mondi culturalmente diversi. Per anni la laicità, imposta anche con la forza dell’esercito, ha sottomesso le istanze religiose della popolazione a maggioranza musulmana; oggi le parti si sono invertite e un governo di ispirazione religiosa sottomette la moderna laicità dei giovani che guardano all’Europa e alla democrazia. Certamente Erdogan gode di una maggioranza elettorale riconosciuta, ma sa anche essere totalmente irrispettoso e arrogante di fronte a questi giovani.
La distanza tra i due mondi si avverte proprio guardando al focolaio di piazza Taksim da una parte e l’umanità immersa nelle quotidiane occupazioni dall’altra, in tutto il resto della città. C’è però un elemento che sembra unire le due anime di Istanbul nel sostegno morale alla protesta per l’abbattimento degli alberi: alle nove di sera – e poi ancora più volte nel corso della serata – le luci delle case a Beyoglu, il vasto quartiere esteso dalle sponde del Bosforo in direzione nord ovest dove tutto questo si svolge, si accendono e si spengono, e dalle finestre aperte delle case la gente batte sulle pentole con gli attrezzi da cucina, facendo salire verso il cielo un costante martellare sonoro, dal timbro metallico, simile al rumore delle cicale che cantano d’estate proprio tra gli alberi che il progetto edilizio del governo vorrebbe abbattere.
A Gezi Park c’era e c’è ancora una piccola postazione di giovani simpatizzanti di Slow Food che durante l’occupazione hanno realizzato un orto. Oggi lo hanno smantellato, preparandosi una via di fuga in vista dello sgombero finale.
Defne Koryurek, leader di Slow Food a Istanbul, mi dice: «È stato un gesto quasi spontaneo realizzare una biblioteca e un orto, basati sulla collaborazione e sulla voglia di condivisione. Quest’orto non ha padre né madre, ma è figlio del lavoro di una comunità intera. Per anni, come gruppo, ci siamo opposti ai progetti faraonici di questa città: il terzo ponte sul Bosforo, il nuovo aeroporto nella zona Nord (il più grande del mondo, ndr), e il centro commerciale che dovrebbe prendere il posto di Gezi. Sappiamo sempre cosa dire quando ci opponiamo a qualcosa. Più difficile è portare esempi virtuosi e concreti. L’orto di Gezi rappresentava il nostro modello di sviluppo, ciò che vogliamo fare con la nostra terra. E lo abbiamo curato assieme ai nostri figli, con loro abbiamo piantato semi e piante, perché siano loro a raccoglierne i frutti».
Refika Kortun ha diciotto anni, una generazione in meno di Defne. Racconta di essersi unita ai manifestanti per difendere il parco: «Gezi è occupato dai nostri sogni. L’energia che vivo in questi giorni è splendida, anche se ho paura. Qui abbiamo creato una comunità vera, come mai avevo sperimentato. Una comunità che è nata su Twitter e Facebook e che lì continuerà, anche se dovessero cacciarci da qui».
Guardare negli occhi questi giovani, la loro determinazione, la loro passione è guardare a una nuova Turchia, capace di dare valore a cose semplici ma importanti, come gli alberi di un parco.

La Repubblica 14.06.13

"Vertice sul lavoro. 100mila nuovi posti con i fondi UE", di Bianca Di Giovanni

Abbiamo un solo colpo e dobbiamo spararlo bene. Questo va ripetendo da giorni Enrico Giovannini, ministro del Lavoro nell’Italia del non lavoro. Oggi a Palazzo Chigi si cercherà di delineare la traiettoria di quel colpo, che andrà poi concretizzata in sede europea a fine mese. Nell’Eurozona ci sono circa 20 milioni di disoccupati: record assoluto dal 1995. Nel 2012 oltre 8 milioni di giovani europei non studiavano né cercavano lavoro: rassegnati al peggio. Enrico Letta ha chiesto a più riprese che si imponesse un’agenda sull’occupazione giovanile, da affiancare a quella «solita» dell’austerità dei conti. Per questo il vertice di oggi a Roma tra i ministri del Lavoro e quelli dell’economia di Italia, Francia, Germania e Spagna per l’esecutivo è già in sé un traguardo. La giornata partirà con un lunch nella sede del governo. Seguiranno incontri a vari livelli, anche bilaterali. La conclusione è fissata per metà pomeriggio. Non si attendono decisioni operative: piuttosto orientamenti su cui poter contare al consiglio europeo di fine giugno. Sul tavolo c’è la richiesta italiana di concentrare da subito la spesa delle risorse previste per il programma della « Youth guarantee». Per l’Italia si tratterebbe di avere a disposizione 400 milioni. Se si potessero utilizzare non solo per favorire stage, ma anche per crediti d’imposta alle assunzioni, in teoria si potrebbero creare i 100mila posti di lavoro a cui punta Giovannini. A questo «pacchetto» vanno aggiunte poi le risorse dei fondi strutturali europei: è già deciso che riprogrammando i fondi si potrà contare su un miliardo per l’occupazione e la lotta alla povertà estrema, cioè per l’inclusione sociale. Allo studio anche misure per il lavoro qualificato, soprattutto nell’ambito delle Università e della ricerca. DISTANZE Le differenze tra i Paesi sono profonde. La Germania ha raggiunto la piena occupazione nell’aprile scorso. Basso il tasso di disoccupazione anche in Austria. La foto si capovolge se si passa ai paesi cosiddetti periferici, anche se il problema lavoro si sta estendendo anche alla Francia, il cuore del Vecchio continente. Nonostante le distanze, Berlino non potrà permettersi di ignorare il tema, perchè la crisi sociale avrà un effetto anche sulla sua economia. Non è da sottovalutare il rallentamento del Pil che si è registrato in Germania: è probabile che gli effetti sull’occupazione si facciano sentire più in là. Le ragioni di un’iniziativa comune, poi, sono anche strettamente economiche. La perdita del lavoro a inizio carriera rappresenta una perdita di energia e di potenzialità per l’intera società. Eurofond ha stimato che il costo dei cosiddetti Neet (giovani che non studiano e non lavorano) arriva a circa 1,2 punti del Pil europeo. Molte le autorità che in questi mesi hanno espresso un forte richiamo sull’occupazione giovanile. Dal presidente Giorgio Napolitano, al numero uno della bce Mario Draghi. «Se la disoccupazione è una tragedia – ha detto Draghi – quella giovanile è una tragedia ancora più grande». Il governo italiano può ascriversi il risultato di aver inaugurato una formula finora inedita: mettere intorno allo stesso tavolo ministri delle Finanze e quelli del Lavoro. In Europa i due settori marciano separatamente, e spesso non trovano punti d’incontro. È proprio questo che si cercherà oggi a Roma: un coordinamento tra politiche macroeconomiche e quelle sul lavoro. Finora le prime hanno avuto la meglio sulle seconde. Ed ispirandosi soprattutto all’austerità imposta dai vincoli di Maastricht, alla fine le politiche di bilancio hanno contribuito ad allargare la piaga del non lavoro. La sfida di oggi è quella di invertire la tendenza. Oltre ai fondi per favorire le assunzioni, si pensa di migliorare i servizi all’impiego e soprattutto di includere nel «pacchetto» anche misure di sostegno all’imprenditorialità e ai servizi di accompagnamento nel passaggio scuola-lavoro. In particolare i ministri discuteranno oggi della mobilità del lavoro nel mercato interno ed europeo e delle possibili fonti di finanziamento da reperire nel bilancio comunitario.

L’Unità 14.06.13

"Il cortocircuito del razzismo", di Chiara Saraceno

Il cortocircuito operato dall’infausto augurio della leghista padovana ai danni di Cécile Kyenge è istruttivo. Impone una riflessione che non si limiti a rilevare, riducendola a fenomeno marginale e individuale, la grossolana maleducazione di una persona.
Una persona che non è in controllo né dei propri umori né delle proprie parole. Con quella frase, la signora (signora?) ha assimilato tutti i maschi neri a stupratori e tutti gli stupratori a neri. Chi chiede rispetto per i neri è quindi automaticamente complice di stupratori, tanto più se è nera essa stessa e rivendica orgogliosamente l’esserlo. Per indurla a ragionare, e per «farle abbassare le arie», l’unica è farle subire la violenza e l’umiliazione di uno stupro.
Questo corto circuito è esemplare, nella sua forma estrema, dell’atteggiamento razzista. Il diverso è sempre pericoloso e peggiore. Non conta che gli stupratori (o i ladri, o i violenti) appartengano a tutte le etnie e i colori della pelle. Non conta neppure che la maggior parte degli stupri, come dei femminicidi, avvengano per mano di un parente o conoscente. Lo straniero, il diverso da sé, tanto più se identificabile anche dal colore della pelle o da altri tratti fisici ben riconoscibili, è l’emblema di ogni pericolo e nequizia. Anche l’ultimo passaggio – l’augurio che anche Kyenge diventi vittima di uno dei “suoi” – fa parte della stessa logica. Donna e nera, e per giunta ministro: il soggetto perfetto per diventare il capro espiatorio di ogni frustrazione, l’incarnazione della vendetta contro le proprie paure.
Il fatto che sia una donna ad augurare a un’altra, sia pure vista come estranea e nemica, di essere stuprata, mostra quanto il razzismo, la costruzione dell’altro come nemico, produca una reificazione dei soggetti, di cui non si coglie né l’individualità né l’umanità e per i quali non si può provare neppure solidarietà. È un’esperienza ben nota nelle guerre, specie etniche, quando la diversità – religiosa, etnica – viene ipostatizzata al punto di cancellare la comune, sottostante umanità.
Dolores Valandro, la leghista padovana, probabilmente non sa che atteggiamenti come il suo non giustificano solo maltrattamenti e discriminazioni contro i neri (o i romeni, o qualche altro gruppo etnico-nazionale visto come pericoloso e nemico). Chi ha questi atteggiamenti spesso ha una visione delle donne (anche delle “proprie”) come esseri umani inferiori, da abusare a piacimento, anche fino al femminicidio. Quindi mettono in pericolo anche lei, sia pur “bianca” e italiana, ad opera non dei temuti “neri”, ma dei suoi simili, soprattutto ideologicamente e politicamente. Le ricerche sul razzismo, infatti, segnalano che c’è un nesso stretto tra razzismo estremo e sessismo altrettanto estremo.
Fanno bene i responsabili della Lega a prendere le distanze dalle affermazioni della propria iscritta, come fecero pochi mesi fa con Borghezio. Ma dovrebbero anche interrogarsi sul tipo di cultura che hanno lasciato crescere ed hanno spesso legittimato in tutti questi anni, con il loro linguaggio scomposto, le invettive contro gli immigrati, condite da compiaciuti vezzi celoduristi. È un lavoro di riflessione critica che peraltro ci riguarda tutti, nella misura in cui abbiamo troppo a lungo sopportato atteggiamenti linguisticamente e concettualmente violenti che, invece di contrastarlo, hanno creato un terreno favorevole a un clima relazionale e culturale pericoloso per tutti, in particolare per le donne, di ogni colore e posizione sociale. I razzisti estremi in Italia sono una minoranza, anche se rumorosa. Ma il razzismo strisciante, selettivo verso questo o quel gruppo, è molto più diffuso e non meno problematico.

La Repubblica 14.06.13

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Terremoto, detassazione dei rimborsi delle assicurazioni nell'area colpita: dichiarazione dell'assessore regionale Gian Carlo Muzzarelli

«A nostro parere la detassazione degli indennizzi assicurativi per le aziende e le famiglie danneggiate dal terremoto è già legge dello Stato. Siamo anche convinti che le sue disposizioni rientrino nelle misure autorizzate dalla Unione Europea e che quindi la norma sia pienamente operativa». Lo ha ribadito l’assessore regionale alle attività produttive Gian Carlo Muzzarelli in merito alla detassazione dei rimborsi delle assicurazioni nell’area del sisma.
Per Muzzarelli: «l’articolo 12 bis della legge 122/ 2012, infatti, è tuttora in vigore e stabilisce che non concorrono alla formazione del reddito imponibile ai fini delle imposte sul reddito e dell’imposta regionale sulle attività produttive, le plusvalenze e le sopravvenienze derivanti da indennizzi o risarcimenti per danni connessi agli eventi sismici».
«Di conseguenza, la situazione è – conclude Muzzarelli – chiara e, con l’approvazione al Senato dell’emendamento che ricomprende nella detassazione anche i contributi, il finanziamento fino al 100% dei beni danneggiati è da considerare esentasse. A questo punto è perciò auspicabile che non emergano interpretazioni capziose e burocratiche per svuotare il contenuto e la lettera della legge e che tutti concorrano a rasserenare i cittadini e le imprese, garantendo giustizia, stabilità e certezza delle norme».

"Un miliardo al lavoro e posti all'Università", di Bianca Di Giovanni

«Se non c’è il lavoro, il Paese non si salva: io mi impegno a lavorare incessantemente per rimetterlo al centro di tutte le politiche del governo». Enrico Letta coglie l’occasione del congresso della Cisl per indicare di nuovo la bussola del suo governo. L’occupazione al primo posto, soprattutto quella giovanile. Da 40 giorni lo ripete in tutte le sedi. Intanto negli uffici dei ministeri si prepara il prossimo decreto, ribattezzato del fare, da portare al consiglio Ue di fine giugno. Filtrano le prime cifre. Dai fondi Ue si reperirà un miliardo per l’occupazione giovanile e il contrasto alla povertà per le famiglie con un Isee inferiore a 3mila euro annui. Inoltre si ritaglieranno altri 3 miliardi per il sostegno alle imprese. A dare i numeri è il ministro per la coesione territoriale Carlo Trigilia, che ieri in Parlamento ha fatto il punto sulla riprogrammazione delle somme non spese. In particolare 500mila euro saranno destinati alla riduzione del cuneo contributivo per l’assunzione dei giovani per due anni. Si ipotizza una copertura totale degli oneri che oggi sono a carico del datore di lavoro. Inoltre il decreto dovrebbe contenere incentivi alla auto-imprenditorialità, nonché ai progetti di servizi alle cooperative giovani, e infine un credito d’imposta per l’assunzione di giovani laureati tecnico- scientifici di alta qualità. Il cuneo fiscale è stato indicato da letta come una vera «zavorra». Cesare Damiano chiede di diminuirlo, non solo sui giovani, ma anche sugli ultra cinquantenni che hanno perso il posto. Solo l’anno prossimo, con margini ai manovra più ampi, si potrà pensare a un taglio generalizzato del cuneo, come chiede Confindustria. Per ora si tratterà soltanto delle nuove assunzioni, che ha spiegato Enrico Giovannini intervenendo la scorsa settimana al convegno dei giovani imprenditori di Santa Margherita. L’impegno «solenne» sul lavoro di Letta trova una sponda importante sul Colle. Giorgio Napolitano invia alla Cisl un messaggio forte. Parla della sfida che i sindacati si trovano di fronte in questo preciso momento storico. «Riuscire a tenere insieme la prioritaria difesa dei diritti e della dignità del lavoro – spiega il presidente della Repubblica – con l’individuazione degli interventi e degli strumenti innovativi per superare la drammatica caduta dell’occupazione specie giovanile». QUALITÀ L’emergenza sarà al centro del vertice, domani a Roma, tra i ministri del Lavoro e delle Finanze di Francia, Germania e Spagna e Italia. Occupazione per il governo Letta vuol dire anche formazione. Il premier spiega che si deve puntare sulla qualità del lavoro. «Dobbiamo farlo nelle modalità giuste – spiega davanti alla platea Cisl – cercando di spingere il lavoro di qualità, a tempo indeterminato » Tanto che il decreto in arrivo conterrà una sezione dedicata al capitale umano. Si prevede la cancellazione del limite del turn over del 20% per le assunzioni nelle Università: la soglia aumenta al 50% per gli enti di ricerca nel 2014. A queste misure si affiancherà l’assunzione di mille ricercatori annunciata dalla ministra Maria Chiara Carrozza. Sul lavoro si conferma poi la revisione della riforma Fornero sul fronte dell’apprendistato e della flessibilità in entrata, oltre alla riforma dei servizi all’impiego. Il ministro del Lavoro ha sottolineato, tuttavia, che la maggiore flessibilità dovrà essere controbilanciata con più formazione. Il disegno di legge sulle semplificazioni arriverà tra venerdì e sabato prossimi. Anche questo provvedimento conterrà molte parti. Tra le diverse deleghe che saranno date al governo, tre riguarderanno codici per scuola, Univesità e ricerca. Nel provvedimento verrà abrogata la responsabilità solidale fiscale negli appalti. «La disciplina della responsabilità solidale fiscale, pur perseguendo l’obiettivo di contrastare l’evasione fiscale, con attenzione al fenomeno dell’utilizzo di lavoratori in nero, si dimostra inefficace e produce al contempo pesanti oneri amministrativi sulle imprese oneste – si legge nella relazione che accompagna l’articolo sull’abrogazione – La verifica dell’ esistenza di rapporti di lavoro in nero non potrà mai essere accertata dal professionista, ma solo da un effettivo controllo sul territorio da parte dell’Amministrazione finanziaria». Il meccanismo oggi in vigore dell’autocertificazione ha avuto «l’effetto pratico di obbligare le imprese che stipulano contratti di appalto e subappalto» ad introdurre «costose procedure interne», continua la nota. Procedure che hanno determinato «la sospensione dei pagamenti da parte dei committenti/appaltatori a favore di appaltatori/subappaltatori, aggravando cosi la situazione in cui si trovano le imprese, già molto difficile a causa della stretta creditizia e dei ritardi dei pagamenti da parte della Pa».

L’Unità 13.06.13

"Terremoto, indennizzi falcidiati dalle tasse", di Ilaria Vesentini

«Una situazione paradossale», affermano gli industriali modenesi terremotati. «Una penalizzazione assurda», rincarano la dose gli artigiani nel cratere emiliano. Nella conversione in legge del decreto 43, il cosiddetto decreto emergenze licenziato ieri sera dal Senato, non è infatti passata la detassazione degli indennizzi assicurativi, ma solo quella dei contributi pubblici per la ricostruzione. Dunque, gli imprenditori previdenti che si erano tutelati con una polizza assicurativa e hanno ricostruito grazie agli indennizzi, su quei rimborsi dovranno pagare le tasse (che incidono mediamente per il 50% tra Irap, Ires e altre imposte), cosa che invece non toccherà a chi non era assicurato e grava in toto sulle spalle della collettività.
«Una scelta sorprendente e incomprensibile», è il commento a caldo dell’assessore alle Attività produttive dell’Emilia-Romagna, Gian Carlo Muzzarelli, arrabbiato dopo un anno di battaglie a Roma per vedere riconosciuti i diritti di famiglie e imprese danneggiate, «perché la defiscalizzazione dei rimborsi assicurativi era già legge dello Stato con l’articolo 12 bis del decreto 74 di giugno 2012, poi convertito nella legge 122 e si trattava solo di rendere la norma più chiara per evitare interpretazioni burocratiche e inutili contenziosi». Lo stesso premier Enrico Letta, nella sua visita alle zone emiliane terremotate il 30 maggio scorso, si era impegnato a fare in modo che lo Stato non togliesse con una mano ciò che con l’altra aveva dato.

La parola ora passa a Montecitorio. «Ci aspettiamo che il passaggio alla Camera sani questa grave carenza e reintroduca una reale parità di trattamento tra tutte le aziende danneggiate», afferma il numero uno di Confindustria Emilia-Romagna, Maurizio Marchesini. L’ipotesi più probabile sembra però essere il reinserimento dell’emendamento all’interno di altri provvedimenti come il decreto “del fare” o la legge di stabilità. «Il lavoro e l’impegno della Regione continueranno fino a quando non saranno soddisfatte tutte le richieste avanzate al Governo dal Tavolo regionale per la crescita», ha assicurato Muzzarelli, riconoscendo per altro i passi avanti fatti dal Dl 43 in fase di conversione: la deroga al patto di stabilità; la proroga delle assunzioni di personale e delle agevolazioni fiscali e contributive; l’esenzione dalle norme del codice civile per le imprese terremotate che hanno riportato perdite di esercizio per evitare di abbattere il capitale sociale.

Il SOle 24 Ore

"Astenuti. Quando la democrazia funziona al 50 per cento", di Filippo Ceccarelli

Aiuto: sotto il 50 per cento degli elettori la democrazia, o quel che ne resta, smobilita. Meglio
accorgersene tardi che mai. Però quanti allarmi del lunedì riecheggiati a vuoto; quante vane geremiadi sull’apatia, la rabbia e la sfiducia che andavano intrecciandosi con l’eterno individualismo italiano, con quell’istinto di furba noncuranza e anarcoide “particulare” che già spinsero Guicciardini a scrivere: «E spesso tra ‘l palazzo e la piazza è una nebbia sì folta o uno muro sì grosso… «.
Spesso, si badi, non sempre. E non solo perché l’esercizio del voto è stato a lungo, per legge, «un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno ad un suo preciso dovere verso il Paese». Una norma prevedeva addirittura per gli astenuti l’esposizione in una specie di gogna, l’albo comunale, così come la menzione “Non ha votato” era da registrarsi nel certificato di buona condotta.
Nel 1993 la nascente Seconda Repubblica cancellò quella legge e quelle sanzioni, peraltro mai applicate, delegando la questione al dettato costituzionale che all’articolo 48 definisce il voto un “dovere civico”. Per la verità, i Padri costituenti discussero se considerarlo un dovere anche “morale”. Chissà cosa penserebbero oggi nell’apprendere che tra le ragioni della scarsa affluenza al primo turno per il Campidoglio c’è chi ha segnalato il derby Roma- Lazio.
Era quell’Italia un paese appassionato di elezioni, oltre che di partite. Il record della partecipazione, 93,8 per cento, fu toccato nel 1953; e neanche a farlo apposta, proprio al termine di quella campagna elettorale Nicola Adelfi scrisse sull’Europeo che oltre al simultaneo svolgersi del Mese mariano, dell’incoronazione di Elisabetta II d’Inghilterra e all’uscita del Millecento Fiat, anche – e proprio! – la sconfitta calcistica dell’Italia da parte della selezione ungherese (3 a 0) aveva contribuito ad affollare le urne, galvanizzando gli elettori comunisti e suscitando in quelli di destra il desiderio di una rivincita per l’orgoglio nazionale ferito.
Tutto insomma incoraggiava il voto, dopo vent’anni di dittatura. I partiti, è vero, ci mettevano del loro, le foto d’epoca illustrano uno sforzo organizzativo commovente e capillare, camion, pullman, istituti religiosi, accompagnamento ai seggi di ammalati e di anziani. Le passioni e le tensioni ideologiche, l’esistenza di “nemici per la pelle” facevano
il resto.
Così fino agli albori del “riflusso”, che corrisponde alle politiche del 1979, l’astensione non andò oltre il 7-8 per cento. Ma adesso che quella modesta quota si è moltiplicata per sei e che l’assenteismo sta per sfondare il 50 per cento, diventa un’impresa anche solo chiedersi cosa diavolo ha gonfiato a dismisura il partito invisibile della fuga e cosa c’è dietro l’attrazione del vuoto, l’energia dell’assenza, il potere della collera che si fa estraneità, disgusto, rifiuto. Altro che “disaffezione”, come pure per
anni si è cercato di edulcorare il fenomeno.
E certo colpisce la povertà di analisi, di coraggio e fantasia al riguardo. Per cui le spiegazioni sono tante, o meglio sono troppe, che poi sarebbe un modo per dire che la faccenda è scivolosa, e quando le cause si confondono con le conseguenze vuol dire trovarsi nel cuore della crisi democratica.
Certo, anche al netto della fine del partito di massa, non ha giovato l’inflazione di referendum falliti, né la periodica tiritera «Andate al mare» (Craxi) o «Restate a casa» (Berlusconi) e neppure l’imprevidente scorciatoia «non partecipo quindi vinco» con cui un po’ tutti, compresi i vescovi, hanno finito per demoralizzare le scelte dei cittadini.
Allo stesso esito devono poi aver contribuito le ricorrenti recriminazioni sui costi delle elezioni e sui presunti brogli, oltre al caos dei sistemi di voto, che in Italia sono sette, record europeo di complicazione. Senza contare la pigrizia e la voglia di non sporcarsi le mani, il ribellismo e l’ignoranza, la stanchezza, il menefreghismo e la passività.
Ma è anche possibile che su un altro piano c’entri una politica ridotta ad annunci, consacrazioni e risse da talk-show, certe asprezze maggioritarie, una legge elettorale definita una “porcata” dal suo stesso autore, donde le bellone beneficate dal sovrano, i ladri nominati in Parlamento per non finire in galera e quanto porta il “dovere civico” a essere percepito come un inutile rito, un goffo alibi, comunque un’espressione ormai lontana dalla vita e dal cuore. E neanche più Grillo riesce a scaldare le urne.
E tuttavia nella diserzione di massa può esserci qualcosa di ancora più inconfessabile, tipo il calcolo che nel tempo della casta e dell’antipolitica, gli opposti estremismi della Terza Repubblica, le elezioni si vincono al ribasso: quanta meno gente vota, tanto più alta la probabilità di acchiappare il successo. Inutile dire che sopra, sotto e dietro tutte queste patologie s’indovina l’ombra del più inesorabile istinto di morte. E se la democrazia ha qualche opportunità di rinascere, ma in forme davvero nuove, è esattamente con esso che toccherà fare i conti.

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“DA MARGINALI A PROTAGONISTI”, di MICHELE SMARGIASSI
Non sono rinunciatari, votano non votando. Non sono muti spettatori, ma attori politici decisivi. Gli astenuti sono diventati astensionisti, figure inedite ma determinanti dello scenario politico italiano. Per Elisabetta Gualmini, presidente dell’Istituto Cattaneo di Bologna, quando un italiano su due non va alle urne non è più il caso di parlare di “non scelta”.
Come è cambiato il non votante, professoressa?
«L’astenuto tradizionale, l’elettore stanco, malato, pigro o indifferente, esiste ancora. Ma accanto a lui è cresciuto l’astensionista razionale, analitico, sofisticato: il cittadino critico che considera il non voto come una opzione politica».
Da dove viene l’“astensionismo attivo”?
«Il votante tradizionale tendeva a scegliere, nel menù elettorale, il partito più vicino ai propri ideali e interessi, salvo delusione. Ma la velocità e l’abbondanza dei canali di informazione, oggi, stringe i tempi e approfondisce il “pentimento” post-elettorale. La domanda politica si fa sempre meno elastica, più esigente. Se sul menù della scheda l’elettore non trova il “suo” candidato congruo, decisivo, ficcante, tende a prefigurarsi la delusione, e a scegliere l’astensione».
L’astensionista può tornare a votare in qualsiasi momento?
«In molte democrazie è così: c’è rimescolamento costante
fra elettori attivi e astenuti. Da noi c’è più inerzia: l’astensionismo tende a diventare cronico, chi non vota una volta tende a non votare più. Paradossalmente, è l’elettorato più fedele… I dati storici lo dimostrano. Il picco della partecipazione furono le politiche del ’76, quando la paura del “sorpasso” del Pci sulla Dc riempì i seggi. Dal ’79 in poi, però è calata costantemente, senza altalene. Ma è possibile che un populismo più aggressivo di quelli che conosciamo possa riuscire a invertire la tendenza».
Chi è l’astensionista medio?
«L’astenuto era tradizionalmente anziano, donna e giovane. A partire dagli anni Novanta, la quota dei giovani è cresciuta più delle altre componenti. Il movimento Cinquestelle è riuscito solo a rallentare la tendenza fra i giovani, ma in modo non permanente, tant’è che alle amministrative, che sono elezioni meno “potenti” delle politiche, lo scivolamento nel non voto è ripartito».
Tuttavia, secondo lei, anche questo non-voto sta diventando politicamente consapevole di se stesso.
«Gli astensionisti, a differenza degli astenuti, vogliono “dire” la loro scelta. Lanciano messaggi e si attendono di leggere risposte, se non altro per confermare di avere avuto ragione. Sono cittadini sempre meno marginali e socialmente deboli, il baricentro geografico dell’astensione emigra al centronord, quello anagrafico verso i giovani, quello sociale verso le classi colte e benestanti. L’astensione è uno degli elementi della fluidità politica, accanto a un elettorato attivo che alle ultime politiche ha cambiato scelta in quattro casi su dieci».
Proporrebbe allora di sostituire, nei risultati elettorali, le percentuali sui votanti con quelle sugli elettori?
«Le percentuali descrivono solo i rapporti di forza. Dovremmo cominciare a parlare di cifre assolute, è questa la misura del consenso reale dei partiti».
Non è più vero che “chi non vota non conta”?
«L’astensionismo conta eccome. Dal suo apparente silenzio minaccia i partiti, li spaventa, li domina. Sono gli astensionisti, ormai, che decidono chi vince e chi perde. Sono loro che dettano l’agenda, sono i nuovi protagonisti della scena politica».

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Roberto D’Alimonte “URNE VUOTE? NON È UN MALE” , di CONCETTO VECCHIO
Professor D’Alimonte, lei sostiene che il calo dei votanti non è per forza un male.
«Un alto livello di partecipazione non è necessariamente sinonimo di buona democrazia. Prenda il sindaco di Londra, Johnson: è stato eletto con un’affluenza del 38 per cento, quello di New York, Bloomberg, per tre volte con una percentuale di votanti al di sotto del 40 per cento. Da noi alle ultime politiche ha votato il 75 per cento, 15 punti in meno rispetto al 1979, quando è iniziata la parabola discendente della partecipazione al voto, ma ancora 5 punti in più rispetto alle ultime politiche in Germania, dieci in più rispetto all’elezione di Cameron in Inghilterra e sedici in più rispetto alle politiche del 2012 in Giappone».
Ma da noi l’astensione è sempre stata vista come un fenomeno negativo.
«Il voto era obbligatorio. C’è questo imprinting che risale al ’48, quando la Dc, preoccupata della possibile affermazione dei comunisti, enfatizzò il dovere delle urne, specie tra i ceti popolari e i contadini, con la minaccia che il mancato voto sarebbe stato registrato sul certificato di buona condotta. Nei piccoli paesi meridionali i nomi dei non votanti finivano addirittura esposti negli albi comunali».
Quali sono gli altri motivi del calo della partecipazione?
«La fine delle ideologie, con la scomparsa dei partiti di massa; l’invecchiamento della popolazione, i vecchi non vanno a votare; la crisi economica, che ha alimentato rabbia e protesta, ma allo stesso tempo ha privato la classe politica delle risorse per alimentare il voto di scambio. Le chiedo: la partecipazione frutto del voto di scambio era buona o cattiva? Alle ultime regionali solo il 13% dei lombardi ha espresso una preferenza, contro l’84% dei calabresi. Ora non mi pare che la qualità della democrazia in Lombardia sia minore che in Calabria».
Quindi oggi va a votare chi è davvero motivato?
«È motivato diversamente. Ad esempio a livello locale conta molto la spinta di votare i candidati che si conoscono, che danno affidamento. Il che spiega perché Grillo non sfondi nelle amministrative. Siamo diventati più laici, il che comporta che il voto è diventato più fluido, più volatile, e questo non riguarda solo gli spostamenti tra i partiti, ma anche l’astensionismo, che è determinato dal ciclo economico e politico, ma anche dalle persone in campo. La personalizzazione è un dato di fatto con cui bisogna fare i conti. Ci dobbiamo abituare ad un astensionismo che salirà e scenderà a seconda delle circostanze».
Quindi quel 45 per cento di votanti a Roma sta indicare che Alemanno e Marino siano stati percepiti come candidati deboli?
«La mia sensazione è che né Alemanno né Marino erano sufficientemente appealing. Del resto su Alemanno c’erano sondaggi che testimoniavano uno scarso gradimento per il suo operato».
Ma c’è una soglia sotto la quale l’astensionismo diventa allarmante?
«Beh, se andasse a votare solo il 10% bisognerebbe porsi delle domande, ma un sindaco eletto con il 45% dei voti da un punto di vista funzionale è pienamente legittimato, e lo dimostrano gli esempi stranieri che le ho fatto».
Grillo ha ballato una sola stagione?
«È presto per dirlo. Dopo le politiche, in cui ha toccato l’apice, grazie agli errori fatti dagli altri partiti, in particolare dal Pd, a cui ha sottratto tanti voti insieme alla Lega, è cominciata la discesa, ma non sappiamo ancora dove si fermerà».

La Repubblica 13.06.13