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"Un percorso per l'Europa", di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini

Il tasso di disoccupazione in Francia è balzato al 10,8% nel primo trimestre del 2013 raggiungendo il livello più alto dal 1998, mentre i giornali hanno riportato, alcuni con grande rilievo, altri con scettica sufficienza, le dichiarazioni del presidente Hollande sulla necessità di riprendere decisamente il cammino verso l’unità politica europea. Non è possibile ignorare queste dichiarazioni per l’autorità della persona da cui provengono e perché sono pronunciate in nome di un paese che si è distinto finora nel difendere con accanimento competenze e prerogative nazionali. Tuttavia non è la prima volta che il tema dell’unità politica viene appassionatamente evocato in Francia (vedi Mitterrand) senza che ne seguano misure corrispondenti. Anche nel discorso di Hollande il richiamo all’unità europea non si accompagna ad alcuna misura specifica rivolta a rafforzarla: la retorica europeista non è un’esclusiva italiana.
Ricordiamo che le riforme realizzate sul cammino dell’unità sono state accompagnate non da discorsi appassionati ma da un percorso concreto: ad esempio le modalità di transizione dalle monete locali all’euro vennero stabilite dal Trattato di Maastricht del 1992 relativo alla creazione dell’Unione economica e monetaria.
Oggi sarebbe quanto mai necessario definire un percorso segnato da scadenze temporali
in un documento di impegno politico, così come è avvenuto per la nascita dell’euro. Un gruppo di paesi propulsori come la Francia, l’Italia e la Spagna potrebbe prendere un’iniziativa in tal senso al fine di fare pressione sulla Germania che si è sempre opposta ad una Banca Centrale sul modello della Federal Reserve, alla creazione di un debito pubblico sovranazionale e all’emissione degli Eurobond per finanziare un grande piano di sviluppo a livello continentale.
L’Europa si trova infatti di fronte ad un bivio: o diventa realmente uno Stato federale con un bilancio, una politica estera, una politica della difesa, una politica industriale ed energetica comuni oppure è destinata a disintegrarsi sotto i colpi dei mercati finanziari.
La crisi economica, politica e sociale scoppiata nel 2007/2008 ha reso evidente come la liberazione dei movimenti dei capitali avviata negli anni ‘80 abbia determinato un completo rovesciamento dei rapporti di forza sia tra capitale e lavoro, sia tra capitalismo e democrazia. Con questa crisi è crollato anche uno dei pilastri su cui si reggono la teoria neoclassica e l’ideologia liberista: il principio secondo il quale i mercati sono razionali e si autoregolano. Il mantra dell’economia, l’autoregolazione del mercato, si è dissolto improvvisamente e per molti (ma non per tutti) inaspettatamente.
Ormai è chiaro che i mercati finanziari sono meccanismi autoreferenziali che amplificano le fisiologiche fluttuazioni cicliche: essi non tendono all’equilibrio ma generano instabilità alimentando fenomeni di accumulazione “esplosiva”. Quando c’è crescita i mercati gettano benzina sul fuoco e accelerano l’espansione; quando c’è una crisi trascinano l’economia verso la depressione entrando in rotta di collisione con gli stati, con i lavoratori e con le imprese industriali, specie con quelle piccole e medie che dipendono in modo preminente dal finanziamento bancario.
Alle tendenze distruttive dei mercati finanziari si è aggiunta la sciagurata decisione di riequilibrare i bilanci pubblici che ha aggravato la fase recessiva dei paesi del Sud Europa. Di conseguenza, il sistema bancario privato ha contratto ulteriormente l’offerta di credito all’economia reale. Recessione, misure di risanamento, fughe di capitali e restrizione del credito hanno prodotto una miscela esplosiva che ha esasperato le difficoltà alimentando un circolo vizioso che potrebbe portare alla disintegrazione dell’Unione monetaria.
Il fatto è che non abbiamo più tempo: dobbiamo passare dai discorsi retorici ad azioni concrete se vogliamo salvare tutto il lavoro che ha portato alla costruzione della moneta unica europea.

La Repubblica 11.06.13

"La frana del cavaliere", di Massimo Giannini

Per uno schieramento politico purtroppo allenato all’autodafé e poi all’autoflagellazione è sempre pericoloso cantare vittoria. Ma stavolta, al contrario di quello che è successo tre mesi fa alle politiche, la sinistra le elezioni amministrative le ha vinte sul serio. Non basta a lenire il rammarico per la grande occasione perduta a febbraio, e neanche a sgombrare il campo dai problemi che restano, e che sono tanti. Ma la vittoria è netta, omogenea e inequivoca. Allo stesso modo in cui è netta, omogenea e inequivoca la sconfitta della destra e la scomparsa grillina. Rafforzando il risultato del primo turno di quindici giorni fa, anche ai ballottaggi la rivincita dei progressisti va al di là di ogni aspettativa. Soprattutto se si considera che avviene nel fuoco di una feroce guerra intestina. A questa prima considerazione preliminare se ne aggiungono altre due. Una, non meno importante, riguarda il rapporto tra i cittadini e il voto. Dopo queste amministrative, la dissoluzione finale della democrazia rappresentativa si è purtroppo compiuta. Il partito astensionista sfonda per la prima volta nella storia repubblicana il tetto del 50%.
L’onda della protesta, precipitata su Grillo al voto di febbraio e poi rifluita già al primo turno, non solo non si riaffaccia ma si dissolve definitivamente ai ballottaggi. L’anti-politica diventa strutturalmente a-politica. La “polis” non contesta la politica, ne fa direttamente a meno. Quasi una campana a morto non solo per i vecchi partiti, ma anche e soprattutto per i nuovi non-partiti. In attesa del test siciliano sull’esperimento Crocetta, si fatica a credere che Grillo si possa accontentare di aver vinto due ballottaggi ad Assemini e a Pomezia. Sic transit gloria mundi, se il guru Casaleggio consente il latinismo. La rivincita del centrosinistra dimostra che non tutto è perduto, in quel campo di Agramante che, a dispetto dell’inquietante spappolamento dei suoi gruppi dirigenti, conserva un confortante radicamento sul territorio, dal quale ripartire e sul quale ricostruire. Nei 92 comuni in cui si è votato tra primo e secondo turno, il centrosinistra se ne aggiudica 54, contro i 14 del centrodestra.
Per quanto Ignazio Marino abbia voluto “personalizzare” la sua campagna elettorale, il Pd espugna Roma dopo il quinquennio, nero in tutti i sensi, di Alemanno. Vince in tutti i 16 comuni capoluogo, strappandone 6 alla destra. Abbattendo a Treviso vent’anni di truculenta e xenofoba dominazione leghista, sbriciolando ad Imperia il torbido e granitico fortino di Scajola, conquistando al Nord città come Brescia e al centro-sud città come Viterbo e Iglesias. E per il resto confermando ovunque la sua supremazia, da Vicenza ad Avellino, da Pisa a Barletta. E perfino a Siena, dove si consuma lo scandalo rosso del Montepaschi, e in Sicilia, dove è in testa ovunque al primo turno e dove nel 2001 la Cdl celebrava il famoso cappotto del 61 a zero.
È un sorpasso in retromarcia, com’era già evidente dall’esito del primo turno di due settimane fa. È un “trionfo misero”, perché si produce in un Paese nel quale ormai vanno a votare poco più di quattro italiani su dieci. Ma per una forza politica che a febbraio ha buttato al vento un’occasione storica, è comunque una boccata d’ossigeno. «La nostra gente respira», dice giustamente Guglielmo Epifani. Ma se il Pd si accontenta di aver dato questo “segno di vita” per nascondere i suoi mali e rinviarne la cura, commette l’ennesimo suicidio. La frana del centrodestra è impressionante. E a spiegarla non basta solo il tradizionale deficit di classe dirigente che la coalizione forzaleghista ha sempre palesato, al centro come in periferia. Non basta solo il solito pretesto secondo cui il centrodestra
«vince solo se in campo c’è Berlusconi ». L’impressione è che, su scala locale, un intero blocco sociale si stia sgretolando. Al Nord si sbriciola la base che ha cementato il patto populista tra Pdl e Lega, che ormai scompare ovunque e si dissolve nella Padania immaginata e mai realizzata. Al Centro-sud si sfarina l’impasto che ha ibridato il patto statalista tra berlusconismo e post- fascismo, che nella Capitale esplode e torna alla sua disperata e ostinata marginalità.
La sensazione è che, su scala nazionale, sia proprio il Pdl a pagare il prezzo più alto al governo delle Larghe Intese. È un paradosso assoluto, perché sembra smentire il teorema secondo il quale Berlusconi «ha in mano l’agenda del governo», e perché proprio la Grande Coalizione è stata la via di fuga imboccata dal Cavaliere fin dal giorno dopo le elezioni di febbraio, per restare seduto
al tavolo del potere e per condizionare il corso dei suoi processi. Ora questo schema, che sembrava di sicura convenienza per il centrodestra, sembra saltare sotto i colpi della disaffezione elettorale dei presunti o sedicenti “moderati”.
Questa è la ragione principale che spinge a ridimensionare la portata stabilizzatrice di queste ammini-strative. Il governo Letta sembra più solido, e lo stesso presidente del Consiglio accredita questa chiave di lettura, parlando di un risultato elettorale che «rafforza il governo». Ma più che realismo, il suo sembra un esorcismo. Le Larghe Intese, anche se al momento sembrano l’unica formula esigibile in un sistema politico ingessato e l’unica forma possibile della governabilità, sono in realtà sempre più esposte alle spinte centrifughe di un centrodestra in crisi di identità e di un centrosinistra in crisi di leadership.
Lo strano “governo di necessità” è stretto in una tenaglia nella quale lo serrano due leve uguali e contrarie. La prima leva è appunto Berlusconi: all’incognita giudiziaria, tuttora la principale minaccia per l’esecutivo, si somma adesso un collasso elettorale che rafforza l’ala dura e pura del Pdl, il gruppo dei falchi e delle amazzoni convinti che la Grande Coalizione costi troppo cara al partito e non sia gradita affatto al suo elettorato. Finora lo Statista di Arcore ha resistito al canto di queste false sirene. Ma obiettivamente, dopo queste amministrative, la pressione crescerà. L’intervista di Alfano al Foglio, per la prima volta seriamente minacciosa verso Letta e francamente penosa verso “Repubblica”, è un segnale di forte tensione, che non si può sottovalutare.
La seconda leva è Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze, pro-quota, ha vinto le amministrative, visto che i nuovi sindaci di Treviso, Brescia e Siena sono suoi fedelissimi. Ma è evidente che il tempo di Renzi non è quello di Letta. La lunga vita del premier accorcia quella del sindaco. Il patto della Torre, siglato a Firenze sabato scorso, è scritto sull’acqua, e non garantisce nulla se non una momentanea “non belligeranza” dettata solo dalla realpolitik. Anche per Renzi si avvicina il tempo delle scelte. Non a caso lui stesso evoca il drammatico precedente di Prodi e Veltroni del 2008, che consumarono lo strappo e chiusero l’avventura dell’Unione. L’altolà a Epifani sulla data del congresso fa il paio con quello di Alfano sulla “convinzione” dell’esecutivo. Per il governo Letta sono bombe a orologeria: aspettano solo una mano che faccia scattare il timer. La mano di Silvio, o quella di Matteo. Con tanti saluti alla “pacificazione”.

La Repubblica 11.06.13

"Festival di Modena. Quando filosofia fa rima con la voglia di spettacolo", di Francesco Rigatelli

Nel 2001, fra la via Emilia e il West, si aprì in Italia il secondo grande festival dopo quello di Mantova che partì nel 1997. Anche se Modena un primato lo può vantare lo stesso. Il Festival Filosofia diede infatti il via alla serie dei festival disciplinari. Perché se a Mantova importarono dall’Inghilterra l’idea di una manifestazione letteraria, sotto la Ghirlandina, da cui si buttò l’ebreo perseguitato Angelo Fortunato Formiggini facendo il gesto dell’ombrello al Duce, hanno inventato un nuovo formato poi esportato in Europa.
Non era scontato allora che la Filosofia ce la facesse da sola. Per questo la fondatrice Michelina Borsari pensò a una parola chiave ogni anno diversa. E a due parti del programma. Una strettamente filosofica, con una cinquantina di relatori sparsi tra i centri storici di Modena, Carpi e Sassuolo, di cui una decina esteri, tradotti scientificamente sulla base dei loro testi scritti inviati prima. «Se no simultaneamente li traducono come per le ceramiche», rivelò una volta l’organizzatrice. E un’altra parte di arti visive, performative, musicali. Senza dimenticare i comici: da Bergonzoni a Villaggio a Paolo Rossi e, l’anno scorso, fonte di discussioni, I soliti idioti e Fabio Volo.
Dal primo anno, parola chiave felicità, sono stati tanti i temi su cui i filosofi Remo Bodei, Massimo Cacciari, Umberto Curi, Maurizio Ferraris, Tullio Gregory, Emanuele Severino, Carlo Sini oltre a Marc Augé, Zygmunt Bauman, Serge Latouche, Bruno Latour, John Searle si sono confrontati: bellezza, vita, mondo, sensi, umanità, sapere, fantasia, comunità, fortuna, natura, fino alle cose dell’anno scorso. Sì, le cose: tornate d’attualità nella precarietà del dopo terremoto. D’altra parte a Modena, terra rossa di politica, di ragù, di motori (è anche il colore del Festival, che progetta pure dei menù filosofici per i ristoranti poiché come si ragiona a tavola…), si sta sempre con i piedi piantati a terra. Anzi, non c’è luogo più azzeccato per avverare la massima senecana secondo cui «Facere docet philosofia, non dicere». A ben ricordare la felicità fu davvero una scelta d’avanguardia in un decennio che l’ha messa in concorrenza con il pil.
E a proposito di economia, il Festival Filosofia, che ha registrato l’anno scorso 180 mila presenze, «trend in grande crescita» ha sottolineato il sindaco e presidente del Consorzio organizzativo Giorgio Pighi, è una di quelle storie di successo che si studiano nelle universit à, un caso d’investier il tredicesimo anno consecutivo il Festival Filosofia, che si tiene a Modena, Carpi e Sassuolo il 13, 14 e 15 settembre, ha appena ottenuto l’Alto patronato del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. E se l’anno scorso il primo grande evento della ricostruzione dopo il terremoto venne dedicato alle «cose», la prossima edizione propone «un tema esplosivo, dimenticato e critico dell’esperienza contemporanea», come lo ha definito l’organizzatrice Michelina Borsari sul finire della precedente. È infatti «amare» la nuova parola chiave. All’infinito. Che significa unioni tra etero e omosessuali, ma anche rispetto, carità, amicizia, benessere, nonché affetto per la cultura. L’immagine ufficiale del Festival è la scultura «Amore e psiche» di Antonio Canova e da poco è online la piazza virtuale della manifestazione, il nuovo sito, con i contenuti degli anni precedenti e alcune interviste inedite ai filosofi. mento proficuo nei beni culturali. Archetipo di questo genere di manifestazione, infatti, è come un fiammifero che accende la città attorno a sé, favorendo una riconversione creativa del contesto e l’aggregazione collaborativa delle persone del territorio e non solo. Perché, oltre ai benefici sul tessuto urbano, il Festival richiama famiglie e gruppi, di cui non tutti i componenti sono interessati alla Filosofia ma albergano e spendono. La creatività ha contagiato oltre ai ristoratori anche gli albergatori che propongono di pagare tre notti per restarne 4 e godere così tutto il programma.
Non si capirebbe però il successo di una manifestazione popolata ormai da affezionati, e non solo professoresse democratiche, come direbbe Edmondo Berselli ma pure un 40% di giovani, se non si andasse a ripescarne la causa. All’inizio degli anni 2000 c’era bisogno di sopperire al vuoto della tv. E le risorse civiche modenesi hanno deciso di riportare negli spazi aperti e di transito la parola argomentata. La risposta senza precedenti è tuttora il segnale del bisogno di nuovi momenti di socialit à e di politica che questo formato di festival temporaneo ancora non soddisfa. Tanto che quando i modenesi vogliono fare una critica alla città dicono proprio: «A Modena c’è solo il Festival Filosofia».
Anche se c’è stato un momento in cui s’è rischiato di bruciare pure quello. E dopo un gran polverone è finita come ora. Con un consorzio per salvare la situazione presieduto dal sindaco di Modena dentro cui ci sono i comuni delle tre città coinvolte, la provincia e due fondazioni locali. Una delle quali è all’origine della manifestazione ma un bel giorno lasciò scadere il contratto all’organizzatrice, provocando la dimissione in massa del comitato scientifico. Insomma, se per organigramma sono gli enti locali, a governare la struttura in realtà il vero potere a Modena è dei filosofi: se se ne vanno loro, niente più festival. “50 relatori Nomi prestigiosi che si alternano tra i centri storici di Modena, Carpi e Sassuolo, di cui una decina stranieri 40 per cento È la quota di giovani che ogni anno frequentano il Festival, la prima rassegna disciplinare che si sia tenuta nel nostro Paese L’anno scorso la rassegna ha avuto 180 mila presenze: per il sindaco Giorgio Pighi è «un trend in costante crescita» Quando gli abitanti vogliono fare una critica alla propria città dicono: «Qui c’è soltanto il Festival Filosofia».

La Stampa 10.06.13

"Guai a cadere nella trappola semi-presidenzialista", di Antonio Lettieri

Sembrava che tutti fossero d’accordo sul superamento dell’indecente modello elettorale, non a caso definito Porcellum. Ora, il Pdl pone come condizione e contropartita l’abolizione del regime parlamentare e il passaggio al semipresidenzialismo. L’aspetto ricattatorio è fuori discussione. Ma, al di là delle circostanze, bisogna riconoscere che il presidenzialismo è sempre stato per la destra la madre di tutte le riforme costituzionali, essendo basato sul principio di un potere «forte», concentrato in un leader, più o meno carismatico, direttamente eletto dal popolo.
A maggio di un anno fa Berlusconi e Alfano avevano avanzato la proposta del semipresidenzialismo come «l’atto fondativo della terza Repubblica». E Giovanni Sartori scriveva: «Improvvisamente Berlusconi (che di fiuto ne ha da vendere e che non si rassegna certo a stare in panchina) tira fuori dal cappello il modello francese». L’aspetto più intrigante è che la destra italiana non ha mai guardato al modello presidenzialista per eccellenza, vale a dire, quello americano, vecchio di più di due secoli e punteggiato da una storia di grandi presidenti. Qual è il motivo di questo mancato interesse? Molto semplicemente, la ragione sta nel fatto che negli Stati Uniti è stata adottata una radicale divisione dei poteri, secondo il paradigma del costituzionalismo moderno.
I poteri del presidente sono bilanciati dagli invalicabili poteri del Congresso. Non a caso, il sistema è congegnato in modo tale che raramente la maggioranza popolare che elegge il presidente coincide con la maggioranza dei due rami del Congresso. La ragione è nella de-sincronizzazione delle cadenze elettorali, essendo la Camera dei Rappresentanti rinnovata ogni due anni e, in coincidenza, il Senato per solo un terzo dei suoi membri in carica per sei anni. Non è, pertanto, un caso che i sacerdoti di un potere centrale forte si siano costantemente orientati sul semi-preisenzialismo, che, contrariamente a quanto lascerebbe intendere il prefisso «semi », è tendenzialmente un super-presidenzialismo, nel quale il presidente, secondo il sistema riformato vigente, è eletto contestualmente all’Assemblea nazionale, sia pure con un breve scarto di tempo. Questo consente, in linea generale, al presidente di nominare il capo del governo, automaticamente confermato dalla maggioranza parlamentare, normalmente coincidente con la maggioranza che lo ha portato all’Eliseo. Il suo potere è di vita e di morte nei confronti sia del governo che del Parlamento che pu ò sciogliere «ad libitum».
La Quinta Repubblica è, in effetti, un regime eccezionale nel quadro dei regimi democratici occidentali, non a caso nato da circostanze eccezionali. Alla fine degli anni Cinquanta la IV Repubblica, dopo aver subito una dura sconfitta nella guerra coloniale in Indocina, si trovò minacciata da un colpo di stato dei generali che stavano conducendo, senza successo, la sporca guerra d’Algeria. È in queste condizioni di emergenza storica che fu chiamato alla testa del governo il generale Charles De Gaulle, che si era ritirato in una sperduta residenza lontana dalla capitale, il piccolo villaggio di Colombey-les-Deux-Eglises e.che, godendo, come capo della resistenza antifascista, di un ineguagliabile prestigio nazionale, era l’unico statista in grado di scongiurare la rivolta dei generali, e di aprire la strada all’indipendenza dell’Algeria. Da queste circostanze prese corpo nel 1962 la riforma costituzionale approvata da un referendum popolare conclusosi con una maggioranza straripante a favore della V Repubblica impersonata da Charles De Gaulle.
Quella forma eccezionale di presidenzialismo non ha trovato in Europa nessuna imitazione di rilievo, se si esclude la Russia di Putin. Secondo la costituzione russa, infatti, il capo dello Stato, eletto con voto popolare, nomina il capo del governo, confermato dalla Duma, la cui maggioranza, dopo la travagliata transizione di Eltsin, ha sempre coinciso con quella che ha eletto il presidente (prima Putin, poi Medvedev, poi ancora Putin).
Non è inverosimile che Berlusconi, nel suo costante disprezzo per la repubblica parlamentare disegnata dalla Costituzione italiana, abbia avuto presente, non senza invidia, l’incontrastato potere dell’amico Vladimir. Ma non si vede, con tutta la buona volontà, come possa essere possibile che il più occasionale di tutti i possibili governi sperimentati in Italia un governo fondato su «larghe intese» che ciascuno dei due principali partner considera provvisorie e delle quali liberarsi appena possibile possa avventurarsi su un percorso, non più di nomale riforma elettorale che ci liberi dall’indecenza del porcellum o che, più ambiziosamente poterebbe essere di tipo tedesco ma addirittura verso uno stravolgimento della costituzione e della democrazia parlamentare, che è il regime principe delle democrazie europee.

L’Unità 10.06.13

"La flessibilità non è l'antidoto alla crisi", di Carlo Buttaroni*

La Contea del Fermanagh è una delle sei contee dell’Irlanda del Nord. È la più lontana dalla capitale Belfast e, con i suoi 55mila abitanti, anche la Contea meno popolata. Qui la crisi si è fatta sentire duramente. Moltissime attività hanno chiuso e la disoccupazione ha colpito le famiglie più che altrove, lasciando ferite difficili da rimarginare. In questo luogo, il 17 e 18 giugno si svolgeranno i lavori del G8, summit degli otto Paesi che rappresentano il 13% della popolazione mondiale e, soprattutto, pi ù del 53% della ricchezza globale. L’amministrazione locale ha scelto di ridurre questo contrasto così forte con una scelta shock: far diventare il percorso dei grandi della terra un set cinematografico degno di Hollywood. Poster e grandi adesivi raffiguranti scaffali ordinati e pieni di merce, famiglie sorridenti e impegnate a fare acquisti, Un inno alla finzione, un restyling surreale, la povertà nascosta con tecniche di fotomontaggio. Il caso, inevitabilmente, ha scatenato polemiche di ogni tipo. La reazione è piuttosto di sgomento e profonda riflessione. Quella che stiamo vivendo è la crisi economica più discussa, studiata e analizzata della storia. Ma sembra invisibile, impalpabile, nonostante statistiche e numeri ne proiettino l’ombra sulla quotidianità. Questo mettere la testa sotto la sabbia è stato anche fautore dell’affermarsi di teorie come, ad esempio, quelle che riguardano la flessibilità (del lavoro e dei salari) come antidoto alla crisi del mercato del lavoro e della crescita economica. Il 14 e 15 marzo scorso, parlando di fronte ai Capi di Stato e di governo dei 27 Paesi dell’Unione Europea, il presidente della Banca. Centrale Europea, Mario Draghi, ha espresso convinzione sulla necessità di uno stretto legame tra la dinamica delle retribuzioni reali e la produttività del lavoro, e che esso debba essere realizzato mediante una riforma della contrattazione collettiva che conferisca al contratto aziendale il compito di stabilire questa relazione. L’approccio di Draghi, senz’altro positivo, rimanda alla «regola aurea>, del periodo keynesiano del secondo dopoguerra, secondo la quale le retribuzioni reali devono crescere al pari della produttività del lavoro. Peccato che Draghi non volesse, però, riproporre il pensiero di Keynes, quanto evidenziare come i Paesi virtuosi e con i conti pubblici «in ordine>, abbiano fatto crescere i salari reali meno della produttività (riducendo, quindi, il costo del lavoro per unità di prodotto). Al contrario, quelli con i conti «in disordine”, hanno registrato una dinamica della produttività debole e anche una modesta crescita dei salari reali ha fatto crescere il costo del lavoro per unità di prodotto, riducendone la competitività. Per risolvere la crisi, quindi, occorre rendere più flessibili i salari. E naturalmente i lavoratori. Eppure, le analisi economiche delle istituzioni internazionali e gli stessi dati ufficiali (Oecd e E urostat) evidenziano che, negli ultimi venti anni, un po’ ovunque le dinamiche tra le due variabili siano state divergenti. La produttività è cresciuta (poco) e si è allontanata sempre più dai salari reali, che invece si sono mossi verso il basso. La soluzione al problema è individuata, ancora una volta, nella flessibilità, in particolare in quella contrattuale sui salari che dovrebbero indurre una crescita della produttività, o almeno una dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto tale da non ridurre la competitività. Un messaggio politico che attribuisce ai salari la responsabilità della mancata crescita della produttività. Un’interpretazione che confligge, però, con la letteratura scientifica che indica, invece, nell’innovazione il fattore fondamentale per la crescita della produttività, unitamente all’aumento della domanda aggregata. Come sempre la scarsa produttività del lavoro è strettamente associata alle norme che riguardano la protezione all’impiego. E qui c’è l’altra parte del messaggio: I Paesi con minori tutele fanno registrare dinamiche di produttività del lavoro più positive. Peccato che non vi sia traccia di una relazione significativa tra variazione dell’indice di protezione all’impiego e dinamica della produttività. Piuttosto sembrerebbe il contrario: riducendo l’indice di protezione all’impiego si attivano dinamiche meno favorevoli alla produttività del lavoro. I Paesi che hanno maggiormente ridotto le protezioni, infatti, sono quelli che mostrano dinamiche meno favorevoli, e ciò sembra riguardare soprattutto i Paesi europei, dove nell’ultimo decennio sono state avviate politiche per il lavoro che, in entrata, favoriscono forme contrattuali meno stabili, e in uscita, rendono meno costosi e più fattibili i licenziamenti. L’Italia è uno di quei Paesi dove la riduzione delle protezioni all’impiego è stata maggiore, e dove la produttività del lavoro ha visto una dinamica particolarmente negativa. Dalla fine degli anni Novanta sono state introdotte norme che hanno progressivamente ridotto le protezioni dei lavoratori eppure si è registrata una riduzione nei tassi di crescita della produttività. Il risanamento delle finanze pubbliche continua a essere l’unica priorità nonostante le ricette sinora diffuse non solo hanno dimostrato di non essere in grado di curare la malattia, ma sviluppano resistenze a ogni nuovo approccio che potrebbe contribuire a uscire dalla crisi. Si possono fare le riforme del mercato del lavoro, alzare o abbassare i tassi d’interesse, aumentare l’iva, mettere nuove tasse, istituzionalizzare l’equilibrio di bilancio, ma fino a quando non si cambierà modo di intendere lo sviluppo, il sistema sarà sempre soggetto a crisi cicliche, a oscillazioni, alla pressione dei mercati e alle speculazioni finanziarie. È possibile reagire al deterioramento economico e sociale solo percorrendo un cammino di riforme, fondato sul riconoscimento del valore del lavoro e dell’impresa, del welfare e dell’ambiente, del sapere e della giustizia sociale. Bisogna superare la logica quantitativa della produzione, usando criteri di valutazione innovativi: investire per produrre meglio, riducendo gli sprechi e aumentando l’efficienza con cui si usano le materie prime, a cominciare dall’energia. Recupero come parola d’ordine: ad esempio, con «piani casa» che puntino a recuperare gli edifici già costruiti, anziché a costruirne di nuovi; più infrastrutture sociali, più scuole, pi ù trasporti pubblici. La redistribuzione della ricchezza, dei diritti e dei poteri: sono questi i punti di forza su cui agire per costruire uno sviluppo solido e più giusto. Anziché ridurre le tutele nei confronti dei lavoratori, bisogna spostare il peso degli equilibri sociali dalla finanza all’economia reale, occorre assumere la salvaguardia e la qualificazione del sistema di Welfare come fattore di crescita, ridisegnando un ruolo attivo delle politiche pubbliche nel governo dell’economia. Se si pensa che la soluzione sia quella di realizzare negozi di cartapesta, con poster raffiguranti famiglie felici e botteghe piene, significa che è stato toccato il punto di non ritorno di un modello di pensiero non più sostenibile. Da qui, anche per l’Italia, un monito alle scelte da compiere. Osserviamo bene le sliding doors che ci danno l’anteprima del nostro futuro. E stiamo bene attenti a distinguere tra finzione e realtà.
*Presidente Tecnè

L’Unità 10.06.13

"L’anno nero delle retribuzioni. I salari reali hanno perso 500 euro", di Mariolina Iossa

Questo emerge dalle tabelle contenute nell’appendice alla Relazione annuale di Bankitalia, secondo le quali il calo più evidente è quello che riguarda le retribuzioni dei dipendenti della pubblica amministrazione, passate da 31.964 a 30.765, e che quindi perdono 1.200 euro a causa principalmente del blocco dei contratti. Adesso lo dice anche la Banca d’Italia. I salari perdono denaro sonante in termini di potere d’acquisto e le retribuzioni sono più povere. Tra il 2011 e il 2012, gli stipendi reali, quindi al netto dell’inflazione, hanno perso l’1,9 per cento, scendendo in media per unità di lavoro dipendente da 25.130 euro a 24.644 euro, quasi 500 euro in meno nelle tasche dei dipendenti in un anno. Questo emerge dalle tabelle contenute nell’appendice alla Relazione annuale di Bankitalia, secondo le quali il calo pi ù evidente è quello che riguarda le retribuzioni dei dipendenti della pubblica amministrazione, passate da 31.964 a 30.765, e che quindi perdono 1.200 euro a causa principalmente del blocco dei contratti.

Addirittura oltre i 1.200 euro perde il credito. In questo settore si passa infatti da 42.551 euro di retribuzione lorda reale per unità di lavoro dipendente a 41.336 anche a causa del turn over e dell’uscita verso la pensione di lavoratori con retribuzioni alte che sono stati sostituiti da giovani con salari molto più contenuti. Nella pubblica amministrazione, invece, come si è gia detto, è in atto il blocco del turn over. Fino al 2014, è possibile assumere al massimo il 20 per cento delle persone che escono dal lavoro, sia in termini di lavoratori che di spesa, oltre a quello dei rinnovi dei contratti e quindi del recupero dell’inflazione. Tra il 2009 e il 2012 le retribuzioni reali dei dipendenti pubblici hanno perso in media quasi 2.000 euro all’anno, passando da 32.654 a 30.765 euro lordi reali.

Hanno poi perso potere d’acquisto le retribuzioni reali in tutti i comparti ma nell’industria in senso stretto il calo è stato molto più contenuto con 240 euro persi in media, da 28.619 a 26.379, e quasi l’1 per cento in meno, mentre in agricoltura si sono persi oltre 400 euro (da 14.402 a 13.984) e nei servizi oltre 600 (ma nel comparto sono considerati anche i salari dei dipendenti pubblici). Scendono ovunque le retribuzioni reali, scendono in media per unità anche nella sanità e nell’assistenza sociale, con un decremento che va da 28.141 euro lordi reali all’anno a 27.138. Nel commercio si passa da 23.358 a 23.014 e nei servizi di alloggio e ristorazione da 19.942 a 19.525. Fanalino di coda per le retribuzioni sono sempre le attività di famiglie e convivenze, quindi anche i collaboratori domestici, i badanti, i baby sitter, insomma tutti i servizi domestici, passati da 13.320 euro a 13.086.

L’arretramento degli stipendi reali, al netto dell’inflazione, è una drammatica realtà che aggrava la crisi economica e frena la ripresa e la crescita. Anche perché, da uno studio della Cgil risulta che se pure l’Italia riuscisse, come in molti annunciano, a intercettare la ripresa economica che sarebbe prevista per il prossimo anno, non riuscirebbe comunque «mai» a far fare un balzo in avanti ai salari, ovvero, non si recupererebbero i soldi perduti in questi pochi anni. Lo studio prevede il recupero del gap del Pil in 13 anni, quindi nel 2026, il recupero dell’occupazione addirittura in 63 anni, soltanto nel 2076, per tornare alle 25.026.400 unità di lavoro standard nel 2007 dalle 23.531.949 del 2014 (con una differenza di 1.494.451 posti di lavoro). Non si recupererà mai invece il livello dei salari reali: in confronto con l’inflazione effettiva, cioè il deflatore dei consumi, la variazione è negativa nel 2014.

Il Corriere della Sera 10.06.13

"Quando in casa il capofamiglia è la mamma", di Maria Novella De Luca

Erano le invisibili. Quelle che dal lavoro erano uscite, spesso alla nascita del primo figlio, quelle che nel lavoro non erano mai entrate, quelle che invece volevano finalmente riposarsi. Diplomate, anche laureate, classe media e working class. Oggi sono capofamiglia, spinte fuori dall’ombra, uniche portatrici di reddito, un esercito crescente di donne che nella desertificazione della crisi si sono reinventate salari e mestieri, dando vita ad un nuovo, singolare e moderno matriarcato. È nella classifica dell’ultimo rapporto Istat, che segnala il dato paradossale di un aumento dell’occupazione femminile (più 117mila unità rispetto al 2008) mentre la recessione spazza via stipendi maschili e giovanili, che si trovano le cifre di questa embrionale inversione di ruoli. Le famiglie in cui soltanto la donna lavora, (negli Stati Uniti dove il fenomeno è esploso si chiamano breadwinner, procacciatrici di cibo), nel 2012 sono diventate l’8,5% delle coppie con figli. Un numero significativo con una velocissima evoluzione temporale, passata dal 5% del 2008 all’8,4% di oggi.
Racconta Giuseppina Albinoni, insegnante di scuola primaria, e mamma di Alice e Giorgio di cinque e sette anni. «Sono una di quelle maestre precarie ma fortunate che per anni hanno potuto contare su supplenze annuali e semestrali. Ogni notte, da Battipaglia, mi mettevo in viaggio per Roma, una vita d’inferno, ma ce la facevo. Dopo la nascita di Alice però la fatica è diventata troppa. Mio marito era responsabile di un grosso supermercato, guadagnava discretamente. Così ho deciso per un po’ di restare a casa. Due anni fa Salvatore è stato licenziato, sei mesi di cassa integrazione poi più nulla. Mi sono fatta forza e ho ricominciato a partire, ad alzarmi alle tre del mattino. E’ durissima, ma oggi per fortuna ci sono i soldi del mio stipendio. E insegnare è bellissimo ». Cifre, segnali, da guardare in filigrana però, avverte Daniela Del Boca, che insegna Economia Politica all’università di Torino. «Dietro questo mutamento di ruoli ci sono le donne più povere, quelle del Sud, che costrette dalla crisi del lavoro di mariti e partner, vincono passività e scoraggiamento ed escono di casa, accettando le uniche occupazioni disponibili, nel terziario, nei servizi, nell’assistenza. Ma ci sono anche le coppie più giovani, in cui i maschi hanno accettato che si possa lavorare a fasi alterne, e se lei non c’è, lui si prende cura della famiglia ». E poi le over 50, (molte già vicine ai sessanta), sostegno di interi nuclei, per le quali il miraggio della pensione si è allontanato, e infine Daniela Del Boca, una percentuale ancora minima in Italia di manager, professioniste il cui stipendio è pi ù alto di quello dei coniugi.
Ma dietro questo affacciarsi di nuovo “matriarcato” c’è una economia da tempo di guerra (gli uomini erano al fronte, le donne cercavano di sopravvivere), o il compiersi di una parità di sessi? Dice Del Boca: «Ho riflettuto a lungo, e nonostante questo risveglio sia figlio della disoccupazione maschile, e gli impieghi che le madri di famiglia riescono a trovare siano magari dequalificati, c’è qualcosa di positivo. Lavorare vuol dire uscire di casa, guadagnare, aver contatti, è istruttivo per i figli e il marito. Un giorno, quando usciremo dall’emergenza, queste donne avranno un’esperienza in più». Adesso però il prezzo da pagare sembra alto, a volte insostenibile. Al di là delle condizioni sociali. «Quando Piero ha perso il lavoro e non è più riuscito a trovarlo — racconta Antonia, ginecologa romana — qualcosa dentro di lui si è rotto. Eppure di soddisfazioni professionali ne aveva avute tante, ma la sua azienda ha “rottamato” i cinquantenni, ingegneri con più di trent’anni di esperienza. Abbiamo due figli adolescenti, e oggi viviamo soltanto con il mio stipendio di medico ospedaliero.
Abbiamo ridotto tutto, facciamo una gran fatica, ma non siamo poveri. Piero però è sempre arrabbiato, depresso, sembra quasi avercela con me, perché ho una professione che amo e mi coinvolge. Non so cosa succederà di noi due…».
Conferma con amarezza Anna Oliverio Ferraris, psicologa, e attenta analista dei rapporti familiari: «Quando un uomo resta disoccupato ne risentono tutti. La moglie, i figli e non solo in termini economici. È la perdita di ruolo che brucia nel cuore dei maschi, la paura di perdere autorevolezza, nel nostro paese il fattore culturale è ancora molto forte, non c’ è intercambiabilità, se non in una piccola area di coppie giovani, le donne da sempre hanno invece doppi, tripli ruoli, riescono comunque ad attivarsi».
Allora bisogna circoscrivere l’area in cui questo matriarcato sembra fiorire, seppure come risposta ad una tragedia di fabbriche che chiudono e salari che svaniscono. Spiega Linda Laura Sabbadini, direttore del Dipartimento di Statistiche sociali dell’Istat: «L’occupazione femminile ha un andamento atipico rispetto alla crisi. Fino al 2010 sono state le donne ad aver perso di più, espulse da ogni tipo di attivit à. Poi mentre i settori tradizionalmente maschili entravano in recessione, edilizia, industria pesante, anche l’indotto delle grandi fabbriche, le donne in particolare al Sud, nelle aree povere, si sono inserite nei servizi, nel terziario, in professioni che oggi sostengono le famiglie».
Ecco allora le voci del territorio, come quella di Rosalba Cenerelli, segretario provinciale della Cgil di Napoli, che descrive quel deserto di salari e occupazione che stringe Afragola, Giugliano, Frattamaggiore, Casoria. «Ormai qui lavorano soltanto le donne. È impressionante: ad ogni ora del giorno vedi centinaia di uomini per strada, al bar, senza fare nulla. Alcuni, i più giovani, si occupano dei figli, della casa, molti invece sono bloccati, paralizzati. Così sono le madri ad aver preso le redini, anche quelle che non avevano mai lavorato: commercio, servizi, piccole fabbriche tessili, servizi alla persona, cooperative sociali. Pochi soldi, spesso al nero, ma garanzia di sopravvivenza. E pur nella difficoltà, il fatto che le donne diventino sostegno economico è comunque positivo, agli occhi dei figli, del marito, della società. È una emancipazione».
Perché accade che dopo un po’ queste madri chiedano diritti, asili nido, scuole. E la risposta maschile è duplice. «Ci sono casi in cui la violenza domestica aumenta — dice Cenerelli — gli uomini sono frustrati, disperati. E infatti sia le Asl che noi come sindacato stiamo aprendo sportelli di ascolto per dare sostegno a chi ha perso tutto».
Oppure si cresce. Come è stato per Rosa Amato, 37 anni, e suo marito Eugenio. «Sono un’artigiana del cuoio, ma dopo la nascita dei nostri tre figli non ero più riuscita a lavorare. A Pasqua del 2011 la ditta di Eugenio ha chiuso, siamo sopravvissuti con la pensione di invalidità di mia madre. Poi è successo il miracolo: una mia amica mi ha detto che cercavano operaie esperte in una fabbrica di cinture a Frattamaggiore. Ho fatto una settimana di prova e mi hanno preso, subito, facendomi anche i complimenti. Lavoro otto ore al giorno, sono in regola e con gli straordinari arrivo a mille euro. Può sembrare nulla ma noi viviamo. Ed Eugenio si occupa dei bambini e della casa. È bravissimo, meglio di me… »

La Repubblica 10.06.13