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"Napolitano, la mia vita dal Pci al Colle “Sì al bis per superare la paralisi ora riforme, poi ognuno per la sua strada”, di Simonetta Fiori

«Ora vi rivelo un retroscena», ha detto ieri a Firenze Eugenio Scalfari nel presentare la videointervista con Giorgio Napolitano. «Poco prima della scadenza del suo mandato, andai a trovarlo al Quirinale per proporgli di venire a Repubblica delle Idee, e lui accettò, nella convinzione che non sarebbe stato più presidente». Ma in quello stesso incontro, Scalfari gli chiese la disponibilità a farsi rieleggere. «Ero latore di un messaggio che proveniva da due alte cariche del partito democratico, dunque aggiunsi: ambasciatore non porta pena. Il presidente mi lasciò parlare e poi mi disse: no, tu la pena ce l’hai, perché non sei un ambasciatore neutrale. E mi spiegò dettagliatamente le ragioni per cui non voleva essere rieletto ». Poi le cose sono andate diversamente e nell’intervista Napolitano ripercorre i passaggi più delicati. Il dramma di un Parlamento «impotente» e la sua scelta di accettare il bis. Fino ad arrivare ad una fase, quella delle larghe intese, in cui le riforme «devono essere fatte», a partire dalla legge elettorale. Poi «ciascuno riprenderà la sua strada».
Un gremito Salone dei Cinquecento ha accolto ieri Scalfari con una standing ovation. «Beh, i vecchi si applaudono», sorride il fondatore di Repubblica. «Non tutti», chiosa al suo fianco Claudio Tito nel presentare l’intervista. Ecco ampia parte del dialogo tra Napolitano e Scalfari, tratto dal video proiettato alla festa di Repubblica.
Presidente Napolitano, mi piacerebbe ripercorrere la sua biografia politica e intellettuale: da dirigente del Pci a uomo delle istituzioni, fino a ricoprire la più alta carica. E vorrei cominciare da una frase che lei, parafrasando Benedetto Croce, pronunciò nel ‘95 al Gabinetto Vieusseux: «Perché non
possiamo non dirci liberali».
«Sì, sui valori del liberalismo si fonda qualsiasi prospettiva di trasformazione di una società. Ma prima devo raccontarle il mio lento avvicinamento al Pci, a cui m’iscrissi nel dicembre del 1945, dopo un percorso non privo di dubbi. A Napoli, all’Università, ero entrato in contatto con un gruppo di studenti molto brillanti, che poi avrebbero lasciato un segno in campo letterario e artistico, da Raffaele La Capria a Francesco Rosi, da Giuseppe Patroni Griffi a Luigi Compagnone. Frequentavamo il Guf, ossia l’organizzazione universitaria fascista dove si formarono anche molti antifascisti e molti comunisti».
Anche io frequentavo il Guf, da cui fui espulso. Mi consideravo un giovane fascista, ma il fatto che ad espellermi fosse stato uno dei capi del Pnf, il vicesegretario Carlo Sforza, mi fece venire dei dubbi. E lì cominciò il mio viaggio attraverso il fascismo.
«Qualcuno tra gli studenti aveva un interesse più spiccatamente politico, così cominciò a circolare il Manifesto dei comunisti, pubblicato in calce alla Concezione materialistica della storia di Antonio Labriola, nell’edizione Laterza con la celebre aggiunta di Benedetto Croce sulla critica del marxismo in Italia. Nelle nostre accese discussioni avevamo bisogno di un antagonista e quindi aprimmo le porte a un giovane fascista di cui ci fidavamo. Si chiamava Ruggiero Romano e sarebbe diventato uno storico importante. Questo per dirle come mi avvicinavo a quelle idee, molto da lontano. Quanto ai liberali, mio padre è stato liberale prima del fascismo. Sotto il regime visse appartato, esercitando la professione fino alla fine degli anni Trenta senza iscriversi Pnf. Poi finì per prendere la tessera. Era un importante avvocato penale della generazione di Enrico De Nicola, di cui era molto amico».
Nel marzo del 1944, dopo un lungo viaggio dall’Unione Sovietica, Palmiro Togliatti arriva a Napoli. E a sorpresa annuncia a un esterrefatto Cacciapuoti, segretario della federazione, di voler fare un accordo con Badoglio.
«Naturalmente anche io ne ebbi notizia – al cinema Modernissimo ci fu una grande manifestazione ma ero ancora distaccato dal partito. Nel gennaio di quell’anno avevo cominciato a scrivere su una rivistina,
Latitudine, che venne subito bocciata dalla federazione comunista per le citazioni eretiche di Gide e Malraux. Una parte di noi ne rimase sconcertata. Così mi ritirai nel mio guscio, andando a lavorare per sei mesi a Capri presso l’American Red Cross, la Croce Rossa americana. In autunno, presi a collaborare al quotidiano social-comunista La voce, ma al partito mi sarei iscritto un anno più tardi. Avevo ancora molti dubbi. La scelta arrivò alla fine del 1945, dopo aver sentito Giorgio Amendola al congresso provinciale. Una scelta dettata non da maturazione ideologica, piuttosto da un impulso morale. Napoli era una città stravolta dalla guerra, dalla occupazione, dalla miseria e dal degrado. Qual era il partito che più aveva combattuto contro il fascismo e ora si schierava per la liberazione del resto d’Italia? E qual era il partito che
più si mescolava con il popolo? Solo più tardi avrei cominciato ad avvertire le prime contraddizioni».
Qual è il suo giudizio storico su Togliatti?
«Aveva profondamente dentro di sé l’idea di un partito nazionale, dal profilo autonomo, ma allo stesso tempo non si staccò mai dalla guida di Stalin. Era dentro quell’universo, anche con le sue degenerazioni, da cui più o meno poteva tenersi lontano – non aveva nessuna funzione di direzione in Unione Sovietica – però quella fu la sua storia».
Una figura a lei vicina fu quella di Giorgio Amendola. Com’erano i vostri rapporti?
«Era un personaggio di grandissima umanità, capace di forte dissenso da Togliatti e allo stesso capace di rigorosa intransigenza in difesa del partito. Lo ricordo nel famoso Cinquantasei, quando i carri armati sovietici invasero l’Ungheria. Ci furono diverse manifestazioni contro le sedi del Pci, ma lui sapeva fronteggiare la protesta, con grandissimo coraggio anche fisico».
Un anno dopo Antonio Giolitti, altro suo grande amico, lascerà il partito perché non ne condivideva le scelte sui fatti d’Ungheria.
«Sì, ma la sua grandezza morale fu che uscì dal Pci senza mai diventare anticomunista. Fece un meraviglioso racconto del suo rientro dal congresso che aveva sancito ufficialmente la solidarietà con l’Urss. Insieme a lui, c’era Giuseppe Di Vittorio, profondamente ferito per come l’avevano trattato. Giolitti lo ritrasse singhiozzante, in preda a una crisi emotiva. Naturalmente avevano ragione Giolitti e Di Vittorio. E tanti anni dopo io ho avvertito il bisogno di dirlo ad Antonio pubblicamente: avevi ragione tu, io ero in torto. Mi sembrò un debito da pagare».
Questo le fa molto onore. Ora vorrei chiederle del suo rapporto con Enrico Berlinguer.
«Eravamo amici, legati anche da un rapporto personale, che includeva le famiglie. C’erano però delle differenze. Berlinguer era un uomo forte del partito, là convogliava tutte le sue energie politiche e intellettuali. Cominciò la vita parlamentare tardi, nel 1968, e secondo lo stile proprio del partito, ossia in modo abbastanza distaccato. Io invece arrivai alla Camera da giovane – nel 1953 avevo 28 anni – e subito mi immersi nel lavoro delle commissioni. Questo forse aiuta a capire anche il mio particolare percorso dentro le istituzioni ».
Quando nacque Repubblica, nel gennaio del 1976, noi ci mostrammo contrari al compromesso storico, favorevoli invece alla linea dell’alternativa democratica.
«Nel 1973, dopo il colpo di Stato in Cile, io fui solidale con Berlinguer nella sua proposta politica. E tre anni più tardi partecipai alla delegazione che incontrò Aldo Moro. Ma già in quel periodo cominciò a delinearsi tra noi una diversità di vedute. Io ero dell’idea che l’accordo con la Democrazia Cristiana fosse necessario per far fronte alle due minacce maggiori, l’inflazione galoppante e il terrorismo. Le condizioni erano per noi molto impervie: non si trattava di guidare un governo in cui ci fosse anche l’avversario. No, si trattava invece di accettare la guida dell’avversario e di restare fuori. L’obiettivo era superare la conventio ad excludendum.
Ma bisognava dirlo con chiarezza, senza dissimulare tutto questo dentro un involucro ideologico che teorizzava l’introduzione di elementi di socialismo dentro la società italiana. In sostanza, quella politica fu caricata di elementi un po’ mitici».
Presidente, ora una domanda sulla Costituzione. La Carta stabilisce che il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio e, su sua proposta, nomina i ministri. Ma non parla di consultazioni. Il presidente può fare tutte le consultazioni che vuole, ma non è obbligato dalla Carta. Lei invece le ha sempre fatte.
«Le consultazioni sono una prassi che deriva dalla Costituzione. Non c’è stato presidente che non vi abbia fatto ricorso. Il primo fu Luigi Einaudi».
Nell’agosto del ’53, Einaudi nominò Giuseppe Pella presidente del Consiglio, ma senza alcuna consultazione.
«Successivamente però ci sarebbe stato un incidente sulla nomina del ministro dell’Agricoltura e Pella fu costretto alle dimissioni. Al Quirinale ho trovato il commento di Einaudi su quella vicenda, che dice più o meno così: è dovere del Presidente non permettere che i poteri assegnatigli dalla Costituzione vengano trasmessi ai successori con incrinature. L’ho fatto incorniciare nel mio scrittoio».
Quando mancavano pochi giorni alla scadenza del suo primo settennato, io venni a trovarla e le chiesi di rimanere. Ma lei mi spiegò le ragioni del suo rifiuto. Però poi sono accaduti degli eventi che l’hanno costretta a restare.
«Ero profondamente convinto di dover lasciare,
ma poi non ho potuto dire di no. E’ stato un momento terribile. Abbiamo assistito a qualcosa che non avevamo mai visto in passato. Io ho partecipato a diverse elezioni presidenziali, e ce ne sono state alcune assai combattute. Pertini fu eletto a schiacciante maggioranza, ma al sedicesimo scrutinio. Per Leone – con un Parlamento spaccato in due – arrivammo al ventitreesimo scrutinio. Però non avevamo mai avvertito quel senso di impotenza del Parlamento che abbiamo vissuto nel tumultuoso succedersi delle ultime elezioni. E allora ho detto sì per senso delle istituzioni».
Il Paese era diviso, si avvertiva la necessità di una continuità istituzionale.
«Continuità istituzionale non significa conservare l’esistente. Io sono un tenace assertore della necessità che, sul terreno delle regole e delle riforme istituzionali, gli opposti schieramenti riescano a trovare un impegno comune. Ma le riforme devono essere fatte. Naturalmente un’alleanza politica è sempre un’alleanza a termine, in particolare quando è un’alleanza eccezionale, come fu quella tra il ‘76 e il ‘79, e come è quella attuale. Ma rimango sbalordito quando, dopo appena quaranta giorni dalla formazione del governo, sento serpeggiare la preoccupazione che questa alleanza possa durare troppo. Ora il problema è far vivere il governo per un’esigenza minima di stabilità istituzionale e di sopravvivenza del paese. Poi ciascuno riprenderà la propria strada. Ma sulle riforme bisogna trovare il consenso più largo».
A cominciare dalla legge elettorale.
«Non ho alcuna intenzione di rivivere, da presidente della Repubblica, l’incubo di quei mesi durante i quali, nella commissione Affari Costituzionali del Senato, si è pestata l’acqua nel mortaio e non si è stati capaci di partorire alcuna riforma elettorale. Riforma che pure tutti i partiti giuravano di voler fare… Bisogna quindi mettersi a lavoro, possibilmente con discrezione, evitando ciascuno di sventolare la propria bandiera».

La Repubblica 10.06.13

"Intervista a Massimo Monaci. Giù il sipario", di Francesca De Sanctis

Video, petizioni, lettere, perfino proteste sui tetti. I piccoli e grandi Teatri d’Italia, pubblici e privati, mettono in campo tutti gli strumenti che hanno a disposizione per dire “NO alla chiusura”. La crisi sta ammazzando anche loro. Basta fare un rapido giro d’Italia, dal nord al sud, per capire che in molti casi è già andato in scena l’ultimo spettacolo. Se n’è accorto pure Maurizio Crozza, che di recente, in un monologo sulla crisi della cultura aveva denunciato: «Centinaia di teatri stanno chiudendo in tutta Italia!». Spesso quelli in difficoltà sono spazi storici, con anni e anni di esperienza alle spalle: parliamo dell’Arena del Sole Bologna, dell’Archivolto di Genova, dell’Eliseo di Roma, e poi il Sancarluccio di Napoli, il Teatro Bellini e lo Stabile di Catania… L’elenco è molto più lungo e fa una certa impressione. Gestire gli spazi è sempre più faticoso, dunque. Cos ì succede anche che molte sale romane chiedano un affitto da pagare alle compagnie ospiti. Di conseguenza, per gli attori che non lavorano nella capitale, trovare una «piazza» a Roma è diventata un’impresa ardua. E questo vale non solo per le giovani compagnie, ma anche per i grandi nomi. Il problema serio è che il tutto si traduce in un abbassamento del livello qualitativo dell’offerta, che solo in parte riesce ad essere compensato dai mille e vitali festival che pur autoproducendosi ce la mettono davvero tutta per presentare programmi originali.
Che la crisi avesse messo in ginocchio un po’ tutto il settore culturale, in verità ce ne eravamo accorti già da tempo. E i dati Siae dello scorso anno, relativi al settore spettacoli, ce lo avevano confermato. Dallo studio di oltre 4 milioni di spettacoli censiti dalla Siae nel 2011 emerge una generale diminuzione della spesa al botteghino (-0,98%) e della spesa del pubblico (-1,90%). In particolare, per quanto riguarda l’attività teatrale, si registra una flessione in tutti gli indicatori: l’offerta di spettacoli segna un -3,1%, gli ingressi -2,31%, la spesa al botteghino -4,73%, la spesa del pubblico -4,29% e il volume d’affari -2,74%.
Ma come si è arrivati a queste cifre? E quando è iniziata la crisi? «È cominciata senza dubbio con i tagli al Fus e poi è andata avanti senza tregua» ci dice Massimo Monaci, presidente di Agis Lazio (l’associazione di categoria che annovera tra i propri associati 80 teatri, 45 compagnie di prosa e 18 istituzioni musicali e 70 parchi divertimento in tutto il Lazio) nonché direttore artistico dello storico Teatro Eliseo di Roma, purtroppo in forte difficoltà, tanto da aver lanciato un appello per la ricerca di nuovi soci e sponsor. «È vero dice Monaci l’Eliseo cerca nuovi soci. Il periodo è molto complicato, dunque lo è anche per noi. Ci sono due livelli secondo me da considerare in questa crisi: il primo è la crisi generale che il nostro Paese sta attraversando da circa un anno e mezzo, il secondo riguarda il nostro sistema teatrale, che ormai non regge più perché gli enti istituzionali (Comune, Provincia, Regione), che un tempo facevano rete, ora non hanno la forza, il peso, la volontà di intervenire. Tutto questo per il Teatro Eliseo, come per tanti altri teatri privati, si è tradotto nel venir meno di tanti sponsor, per noi essenziali. L’80% del budget dei privati è fatto proprio di sponsor e ricavi del botteghino, gli Stabili pubblici, invece, soffrono della lentezza e dei tagli agli enti locali. Inoltre, arriva ora la notizia che il Fus per il 2013 subirà un nuovo taglio per oltre il 5%!».
A tutto questo va anche aggiunto il calo dei ricavi, «dovuto non a una diminuzione del pubblico pagante precisa Monaci -, che è rimasto sostanzialmente lo stesso, ma ad un aumento di biglietti last minute, offerti a prezzi ridotti». E a Roma e nel Lazio, a differenza di altre regioni come la Lombardia (dove tuttavia la scorsa estate ha chiuso i battenti un sala storica come il Teatro Smeraldo) più attrezzata dal punto di vista legislativo, la situazione è sempre meno gestibile a causa dell’alto numero di teatri presenti. «Qui non c’è una legge quadro per lo spettacolo dal vivo, dunque è la giungla. Attraverso l’Agis abbiamo cercato di fare rete, ma se non c’è un interlocutore reale diventa difficile».
Ed ecco che la politica entra in gioco: «la politica deve decidere che la cultura è anche rilancio economico. Le modalità di assegnazione delle risorse economiche sono poco trasparenti. A Milano esistono convenzioni con parametri chiari, in Puglia c’è una legge regionale… Ci vorrebbe una buona politica, segnali concreti però».
È quello che chiede anche Giorgio Gallione, direttore artistico con Pina Rando del Teatro dell’Archivolto di Genova, in serio pericolo a causa dei tagli ai contributi pubblici: «Chiediamo al Ministero un adeguamenti del contributo annuale e al Comune di Genova e alla Regione Liguria di adoperarsi affinché il problema possa essere risolto». Intanto si raccolgono firme on-line: «Abbiamo superato le 5mila firme sul sito internet, alle quali vanno aggiunte altre duemila raccolte su carta. Questi numeri dimostrano che non siamo soli e ci fa molto piacere, significa che in questi anni abbiamo fatto un buon lavoro, purtroppo però capita spesso di dover lanciare degli allarmi. Anni fa ormai abbiamo restaurato il Teatro Gustavo Modena e la Sala Mercato, ora abbiamo bisogno di aiuti altrimenti è difficile andare avanti con una programmazione di qualità. Abbiamo avviato dei contratti di solidarietà per circa 20 persone, ma non molliamo, perché questo teatro è un presidio culturale in una zona difficile». Tra i primi firmatari dell’appello ci sono, tanto per citarne alcuni, Stefano Benni, Claudio Bisio, Stefano Bollani, Lella Costa, Maurizio Crozza, Angela Finocchiaro, Neri Marcorè, Marina Massironi, Michele Serra…
Ma appelli, raccolte firme, allarmi generali purtroppo da soli non bastano. Di certo il neo ministro Bray dovrà occuparsi, fra le tante questioni urgenti, anche del settore spettacoli, partendo magari proprio dal disegno di legge sul teatro che era stato presentato a fine 2012. Prevedeva, tra le altre cose, che gli Stabili dovessero lavorare di più sul territorio, che non ci potesse essere un mandato se non triennale e rinnovabile una sola volta, che i finanziamenti fossero triennali, che le direzioni artistiche dovessero essere date a organizzatori e non a registi che fanno solo i propri spettacoli. Insomma, potrebbe essere un buon punto di partenza per ricominciare a far vivere e a dare speranza a chi da anni lavora con passione e professionalità.

L’Unità 10.06.13

"Turismo sessuale Sono 80mila gli italiani a caccia di minorenni", di Ludovica Jona

Ha dell’incredibile l’ultimo episodio di cronaca che riguarda il turismo sessuale: Un italiano, già arrestato in un centro turistico della Thailandia per aver adescato alcuni minorenni, è riuscito a portare in Italia un bambino thailandese, registrandolo all’ambasciata italiana a Bangkok come suo figlio, concepito con una donna locale. Nei giorni scorsi l’uomo, un sessantenne di Lecco, è stato farmato dai carabinieri su ordinanza di custodia cautelare da parte degli investigatori del Nucleo investigativo di Milano, nell’ambito di un’indagine sulla pedo-pornografia online e su segnalazione di un altro ragazzo che ha raccontato di avere da lui subito molestie quando era minorenne. Il bambino, portato in Italia all’età di tre anni, oggi ne ha dieci. Anche se al momento non sono state provate violenze su di lui, il piccolo è cresciuto con un uomo, accusato di reati sessuali, che per lo Stato italiano è suo padre.
«Se la documentazione rilasciata dall’ambasciata comprova che il bambino è suo figlio, il Tribunale dei Minori non interviene con accertamenti, a meno che, come è avvenuto in questo caso, vi siano atti giuridici sospetti, o segnalazioni, della scuola o dei servizi sociali», commenta Marco Scarpati, presidente di Ecpat Italia, l’associazione che fa capo al network internazionale che lotta contro lo sfruttamento sessuale dei minori Ecpat (End Child Prostitution and Trafficking).
Secondo una stima realizzata da Ecpat Italia, gli italiani negli ultimi anni sono arrivati ai primi posti come numero di turisti a scopo sessuale: un record mostruoso.
Circa 80.000 risultano i nostri connazionali che ogni anno si spostano in Repubblica Dominicana, Colombia e Brasile, Est Europa e Sud Est Asiatico per avere sesso con minorenni. In Kenya, in particolare, oggi siamo in assoluto i più presenti: il 18% degli stranieri che «comprano» minorenni locali, secondo l’Unicef. Significa circa 15.000 bambine che vivono tra Malindi, Bombasa, Kalifi e Diani. In genere hanno tra i 12 e i 14 anni. Ma possono averne anche 9, 7 o 5. «Non dobbiamo credere che il turista del sesso, che poi può essere anche una persona che viaggia per affari, sia per forza un pedofilo», sottolinea Scarpati. «Spesso avviene che persone che nel proprio Paese hanno un comportamento sessuale nella norma, ovvero diretto verso altri adulti, all’estero modificano la loro condotta cercando sesso con minori», denuncia l’avvocato presidente di Ecpat Italia.
FUORI DAGLI SCHEMI
Secondo uno studio condotto dall’Università di Parma e coordinato da Ecpat, l’età del turista sessuale si è abbassata e non corrisponde più esclusivamente al vecchio cliché del pedofilo classico: Le persone che cercano all’estero sesso con minori hanno tra i 20 e i 40 anni, possono essere sposati o single, maschi o femmine (anche se la maggioranza sono maschi), ricchi o turisti con budget limitato. Possono avere un alto livello socio-economico o provenire da un ambiente svantaggiato. Nella maggioranza dei casi lo fanno per provare un’emozione nuova, in modo occasionale (60%), oppure abituale (35%), i pedofili, ovvero coloro che vengono attratti esclusivamente da bambini sotto i 12 anni, sono circa il 5%.
«Spesso ci chiamano parenti e amici di persone che vanno all’estero con lo scopo di avere rapporti sessuali con minorenni racconta Scarpatiè accaduto che ci abbiano contattato addirittura madri, chiedendoci consiglio su cosa fare». Ecpat in questi casi offre consulenza e informazioni, avvertendo che, secondo la legge 269/98 contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, l’italiano che commette il reato di abuso sessuale all’estero, è colpevole anche in patria.
Ecpat offre anche consulenza rispetto ai servizi sociali presenti sul territorio nazionale e nel caso di reati commessi, segnala alle forze di polizia. Per contrastare l’orrore dello sfruttamento sessuale sui minori, le segnalazioni fatte in Italia sono importanti come quelle che possono essere compiute anche all’estero, dalla Cambogia al Brasile, al Kenya: «Di fronte a casi sospetti di adulti stranieri con bambini locali, in bar o alberghi, si deve allertare subito una organizzazione che è attiva sul territorio e che è quindi in contatto con la polizia locale».
Soprattutto in questa stagione che anticipa l’estate, «è fondamentale il lavoro di sensibilizzazione», dice Scarpati. Ed è per questo che Ecpat Italia in collaborazione con Fiab onlus (Federazione Italiana Amici della Bicicletta) ha organizzato la Marcia cicloturistica «Un altro viaggio è possibile» contro il turismo sessuale a danno di minori che si terrà oggi in 29 le città italiane. Si tratta di una campagna realizzata in previsione dei Mondiali di calcio in Brasile, con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica, le istituzioni e la società civile in vista del grande evento sportivo, che si terrà nell’estate del 2014.
In Brasile è enorme il numero di minori sfruttati nel mercato del sesso, circa 500mila, ma si prevede che crescerà in occasione dell’evento, perché «l racket della prostituzione si organizza per aggiungere nuove ragazze continua Scarpati -. In Sudafrica nel 2012, furono trasportati bambini da tutti i territori circostanti, per accontentare la richiesta». Per evitare che altri abusi si consumino è importante mettere al lavoro le polizie di tutto il mondo, ma anche lanciare l’allarme, già ora: «Partire in largo anticipo significa poter informare al meglio i possibili turisti in partenza, Chiediamo che i Mondiali siano ad impatto zero per i bambini», conclude il presidente. Se avete voglia di pedalare anche voi ecco, Regione dopo Regione, le località che hanno aderito alla campagna di sensibilizzazione: Abruzzo (Giulianova, Vasto); Campania: (Napoli, Benevento, Salerno, Pompei); Emilia Romagna: (Bologna, Rimini, Ravenna); Lazio: (Roma, Ostia); Lombardia: (Brescia, Cremona); Piemonte: (Torino, Caselette); Puglia: (Brindisi, Bari, Foggia, Lecce). Sicilia: (Catania, Caltagirone, Gela, Palermo, Piazza Armerina, Ragusa, Siracusa); Toscana: (Grosseto); Veneto: (Padova, Vicenza).

L’Unità 09.06.13

"Berlinguer ci dice, il ricordo", di Guglielmo Epifani

In questi 29 anni dalla sua morte improvvisa, di Enrico Berlinguer molto si è scritto e molto si è discusso. Proprio il tempo trascorso e la permanente attualità di tanti temi, da lui proposti alla guida del Partito comunista italiano, danno il profilo e la misura esatti del ruolo che ha avuto nella storia e nella vicende non solo nazionali. Fu insieme uomo della transizione verso l’Eurocomunismo, della piena democratizzazione della politica italiana e assertore dell’emancipazione e delle lotte dei Paesi del Terzo mondo.

Fu il teorico del compromesso storico, dopo la tragedia cilena, l’autore del dialogo col vescovo di Ivrea, Luigi Bettazzi, su una società aperta ai valori cristiani, e l’uomo che preparò il governo di unità nazionale nel 1978. Fu il sistematore di una idea di austerità alta, nei consumi e negli stili di vita, di un nuovo modello di sviluppo rispettoso dell’ambiente e del territorio. A lui si deve il merito di avere sollevato il tema della questione morale e di avere intuito come una progressiva degenerazione dei comportamenti della politica avrebbero potuto infliggere un colpo pesantissimo alla credibilità delle istituzioni e della stessa rappresentanza.

Sul piano sociale sostenne di persona la battaglia dei lavoratori contro la Fiat, e condivise la posizione di non accettare il taglio dei punti di scala mobile; mentre fu fermissimo nella lotta contro l’inflazione, e a favore di una politica dei sacrifici in nome del lavoro e della occupazione. Come è evidente ognuno di questi temi, non solo ha segnato fortemente il confronto politico di quegli anni, in particolare tra il 1973 e il 1984, ma ha continuato a determinare un’influenza indiscutibile anche dopo, in qualche modo fino ad oggi. Per esempio, sono stati in molti a scrivere di quel che unisce e di quel che divide questo momento politico da quello del 1978. Se ci si chiede perché così esteso e profondo sia tuttora il senso della sua guida politica, anche aldilà di errori che furono commessi, la risposta va cercata nel fatto che molte di quelle ispirazioni rispondevano a domande e sensibilità profonde, largamente presenti nel Paese, e che se non affrontate adeguatamente si trascinano fino ad oggi con il loro carico di rinnovamento e di tensione civile.

Vale per l’economia, per la condizione dei giovani e del lavoro, per il distacco tra cittadini e istituzioni. Vale soprattutto per la democrazia. Berlinguer ebbe una duplice capacità: quella dell’innovazione e quella della conservazione e trasmissione di valori permanenti, quali la giustizia sociale, la pace, il rifiuto della violenza. In questo, anche se da posizioni politiche a volte diverse, fu molto simile a un altro grande protagonista di quella stagione, Luciano Lama. Nella lotta contro il terrorismo, contro la strategia della tensione, ma anche nel senso di responsabilità mostrati di fronte alla piaga dell’inflazione, ognuno dei due, pur partendo da ruoli e piani diversi, si mosse nella stessa direzione.
Non si può però ricordare tutto questo rimuovendo la grande stima e il grande affetto che circondò Berlinguer. Era un capo amatissimo, dal grande seguito popolare, ad onta di un carattere schivo e riservato, e stimato da avversari e interlocutori di ogni appartenenza. Il modo con cui morì, a Padova dopo le sofferenze di quel comizio, stampato nella memoria degli italiani, lo consacrò come una delle poche icone laiche della politica nazionale. Il giorno in cui si sentì male, Sandro Pertini si trovava per un caso della sorte che davvero colpisce nella stessa città e fu tra i primi a correre all’ospedale. Nel riportarlo a Roma lo salutò come un figlio, un amico e un compagno. E anche in questo il vecchio combattente della libertà finì con il rappresentare l’emozione di tutto il Paese.

L’Unità 09.06.13

"Sporcarsi le mani", di Claudio Sardo

Dopo gli anni neri di Alemanno, Roma può voltare pagina. Il ballottaggio di oggi e domani ha un grande valore politico: per i cittadini della capitale anzitutto, che meritano di avere un’amministrazione capace di progettare il futuro, di rianimare imprese e servizi, di ricostruire coesione sociale. Ma il governo di Roma è anche un pezzo importante del governo nazionale. Quando Roma è stata capace di trainare e di liberare risorse, ne ha beneficiato l’intero Paese.

Negli ultimi anni invece Roma è stata l’immagine del declino nazionale: e il discredito del governo della città è diventato un moltiplicatore di sfiducia e di spinte centrifughe. Ignazio Marino rappresenta ora una speranza. Di ricostruzione, non solo di cambiamento nella dimensione civica. In questo tempo di profonda crisi e di stallo istituzio- nale, è in gioco la possibilità di rinnovamento della politica, è in gioco la rigenerazione del circuito democratico, è in gioco la stessa unità nazionale, di cui Roma può essere collante se non viene percepita come un peso.

Marino è una personalità originale nel centrosinistra. Il suo carattere «eretico» ha suscitato simpatia e favorito la partecipazione al suo progetto. Se, come speriamo, i romani lo sceglieranno, diventerà da sindaco un protagonista di quella sinistra innovativa e plurale che, sola, può tenere insieme l’Italia e al tempo stesso sospingerla fuori dal precipizio della recessione e della paura. È il ruolo politico che già svolgono Pisapia, Renzi, Fassino, Merola, Emiliano e i tanti primi cittadini che nelle loro città tengono quotidianamente insieme aspirazioni al cambiamento e risposte concrete alle domande dei cittadini. Il centrosinistra, Pd in testa, non avrebbe resistito alle sconfitte, senza queste radici nelle città e nelle Regioni: sono la linfa, e talvolta la riserva critica.

E ora il Pd non può che ripartire dalle città. Oggi, con i ballottaggi, si svolgerà anche il primo turno delle comunali siciliane, dove da un anno Rosario Crocetta ha impresso un cambio di passo. Il buongoverno si misura nelle contraddizioni della crisi, nel vivo dei bisogni materiali. Il primo turno amministrativo ha prodotto segnali d’allarme – a partire dal clamoroso record di astensione – ma anche un incoraggiamento al Pd. Che viene chiaramente percepito nella crisi come il solo ancoraggio di responsabilità e di governo. Non era mai accaduto che i candidati di uno stesso partito fossero in testa in tutti i Comuni capoluogo. Stavolta è accaduto. Sono candidati diversi per sensibilità e storia personale: hanno fin qui prevalso per le loro qualità civiche e per il loro radicamento.

Ma c’è qualcosa di più. Nei cittadini che sono andati al voto ci sono domande forti al centrosinistra, solo in apparenza contraddittorie. Si chiede di cambiare rotta, di aprire una nuova stagione politica nel Paese.

Ma si chiede anche di non fuggire dalle responsabilità e dalla realtà. C’è un Paese che soffre, che è arrabbiato, che ha paura, che non capisce quale sarà il proprio futuro, e per questo vuole essere governato nella crisi. Vuole che qualcuno risponda al telefono, vuole poter bussare e vedersi aprire la porta, vuole che le emergenze siano affrontate e non solo denunciate.

Anche se domani il risultato fosse il migliore possibile, il Pd farebbe bene a contenere i festeggiamenti. I nodi più difficili restano da sciogliere. E i consensi ricevuti sono molto esigenti. Ma una lezione è arrivata: la politica del tanto peggio tanto meglio non sempre paga, non sempre si può lucrare sulla disperazione altrui e sulle cose che non vanno. C’è un momento in cui bisogna assumersi delle responsabilità. In cui bisogna sporcarsi le mani. La parziale rivincita del Pd al primo turno non sarebbe stata possibile senza la credibilità dei progetti dei candidati-sindaci del centrosinistra. Ma non sarebbe stata possibile neppure senza l’impegno nel governo nazionale. Il governo Letta con il Pdl non è ciò che il Pd voleva. Ma – pur in un Parlamento senza maggioranza – il Pd ha deciso di mettere la sua forza al servizio di un’emergenza e di cambiamenti circoscritti ma possibili. Se avesse mandato tutto all’aria, se si fosse fatto catturare dalla depressione e avesse fatto precipitare il Paese al voto anticipato, forse oggi saremmo davanti ad uno spaventoso bipolarismo tra Berlusconi e Grillo.

Invece il Pdl cresce nei sondaggi ma cala nelle elezioni vere. E i Cinque stelle sono in flessione ovunque. Segno che la crisi politica della destra è strutturale, e non è vero neppure che il Cavaliere detta l’agenda. Berlusconi balbetta, non ha più alcun progetto per il Paese: gioca di rimessa e cerca al più di garantirsi un potere di condizionamento. Per parte sua, Grillo ha scommesso tutto sulla maggioranza Pd-Pdl, pensando di trarre ancora dividendi dal declino del Paese, come quegli speculatori che giocano sul crollo delle Borse. Ma a molti suoi elettori non è andato giù che Grillo abbia oggettivamente lavorato per Berlusconi.

Il Pd ha davanti una sfida difficile. La sua responsabilità è che non può fallire, perché l’Italia rischia di non avere alternative. Ha grandi risorse nei sindaci. Ma ha anche tanti limiti, tante lacune. Il congresso sarà una prova di maturità. E non da meno lo sarà il governo, che ha bisogno di una solida guida del centrosinistra per reggere agli sconclu- sionati strappi berlusconiani: il lavoro resta la priorità delle priorità; e le riforme istituzionali necessarie passano dal rispetto dei principi costituzionali. Non si arriverà a nulla sulla strada del presidenzialismo, mentre invece il risultato positivo è possibile rafforzando il ruolo del primo ministro, superando il bicameralismo paritario, riducendo il numero dei parlamentari attraverso l’elezione di secondo grado alla Camera delle Regioni. Il Pd si faccia sentire, anche durante il proprio congresso.

L’Unità 09.06.13

"I bambini in armi", di Vittorio Zucconi

Dove si uccidono bambini, anche i bambini uccideranno. Per i Taliban, il fatto che sia stato un ragazzino di 11 anni a colpire Giuseppe La Rosa e rimandare in Italia la 53esima bara dall’Afghanistan, non è un orrore, è un vanto, da esibire come un trionfo.
Il nostro governo — in attesa di ricostruzioni sicure — sospetta che sia solo propaganda: ma non sarebbe certo la prima volta che viene armata la mano di un ragazzino dai signori della guerra. Come non ci sono più confini geografici allo strano, quanto atroce conflitto che insanguina il mondo da Boston al Pakistan, da Manhattan alla Somalia, così non ci sono più confini anagrafici. Undici anni di età, il tempo nel quale il crepuscolo dell’infanzia lascia il posto all’alba dell’adolescenza, possono sembrare pochi per chi vive nelle società relativamente ordinate e scandite dal ritmo della scolarità e dei censimenti. Ma per i figli della violenza quotidianamente subita e inflitta, quegli undici anni sono ormai la piena maturità dell’orrore.
Li chiamano “I figli di Dio” nei campi di addestramento in Waziristan, in Somalia, in Pakistan, ma non sono i figli di quel Dio pietoso che accoglieva gli innocenti, e gli esposti, gli orfani e i figli di nessuno lasciati infagottati nelle porticine girevoli dei conventi o sui gradini degli istituti. I loro padri sono i martiri degli attacchi terroristici, gli shaeed, i suicidi-assassini, i guerriglieri uccisi sotto i missili o in combattimento. Sono accolti e indottrinati nel culto del sacrificio dei loro padri fatto per la “Causa” e addestrati in polverosi nidi d’infanzia nel mezzo del nulla, in kindergarten infernali, all’uso delle armi da fuoco e degli esplosivi. Soprattutto, all’anelito per la “Santa Morte” jihadista.
Il Taliban undicenne che forse ha lanciato la bomba a mano dentro il Lince italiano è già un adulto, probabilmente un veterano e reduce di altri assalti, magari come ausiliario, servente, portatore d’acqua, finalmente promesso all’azione diretta. Nei campi della
galassia criminale si vedono bambini di cinque, sei anni, impratichirsi nell’uso di rivoltelle con il grilletto opportunamente allentato per rispondere alla debole pressione delle loro manine e il video clip vengono messi orgogliosamente in circolazione in Rete per mostrare come le nuovissime generazioni si preparino a sostituire i caduti nella guerra santa.
Un sito di ricerca americano, diligentemente compilato dal dottor Robert Johnston, elenca con cura da brividi tutti gli attentati mortali compiuti negli ultimi anni utilizzando bambini, pur escludendo gli almeno 20 mila baby killer organizzati come mini soldati nelle guerre locali in Africa.
Quattro gruppi terroristici, in Siria, Somalia, Pakistan e Afghanistan vantano questi asili della morte, dove si preparano i futuri attentatori. Ci sono prove crescenti, ha detto uno studioso inglese di terrorismo, Neil Doyle, che questi bambini siano costretti ad arruolarsi, a vivere un vita da forzati in questi mini gulag del terrorismo. Come ci sono bambine costrette alla prostituzione,
così ci sono maschietti forzati alla guerra. Nelle riprese diffuse da gruppi affiliati ad Al Qaeda, li si vede maneggiare armi sotto lo sguardo attento di istruttori appena un poco più grandicelli. Come l’assassino di Giuseppe La Rosa.
La storia, anche quella più retoricamente patriottica, propone molti esempi di bambini eroi, di martiri in calzoncini corti pronti a morire per la causa o a sollevare gli adulti contro l’oppressore del momento, dal Balilla genovese ai Tamburini Sardi e alle Piccole Vedette della tradizione italiana. Ma erano disposti a morire, non a uccidere. Il piccolo assassino con il suo “kit” da terrorista, come la scatola del Lego, del piccolo chimico o del piccolo medico che regaliamo ai figli, è il nuovo soldatino di piombo vivente, da utilizzare nel gioco della guerra vera. Minori sono stati reclutati e utilizzati da organizzazioni palestinesi contro gli israeliani nella Seconda Intifada, fra il 2000 e il 2005, secondo la Coalizione internazionale contro i soldati bambini e Amnesty International.
Bambini «facilmente reclutati con tecniche di manipolazione psicologica o per il desiderio di vendicare parenti e genitori uccisi ».
E qui, nella reciprocità atroce della morte che chiama morte, sta la radice della guerra dei bambini. Gli eserciti delle nazioni che si considerano civili non prendono deliberatamente di mira i bambini, le scuole, gli asili. Ma i missili e le bombe lanciate da aerei, elicotteri, droni ne uccidono in numeri che non saranno mai accertati. Al “figlio di Dio”, all’orfano che piange sul cadavere del padre, sul corpo della madre o della sorella, poco importa delle scuse e della spiegazioni dei generali che aprono inchieste e parlano di «errori» o di «effetti collaterali». Realtà e propaganda mostrano processioni di piccoli corpi dilaniati sulla polvere o in corsie di ospedali primitivi, sequenze di scuole demolite da bombe, non sempre lanciate con la firma.
Neppure tutte le ferite sono sanguinati o visibili. Settantacinque mila bambini di Manhattan dovettero essere seguiti e assistiti da psichiatri e psicologi per i traumi profondi generati dall’11 settembre. Soltanto negli ultimi dodici mesi, tredici scuole in varie province dell’Afghanistan sono state colpite da bombe, in quel Paese dove ormai 53 italiani sono caduti in una missione che ogni anno, ogni giorno che passa, rende sanguinosamente, quanto palesemente più insensata. Otto di loro erano istituti elementari dove si educavano femmine a leggere e scrivere, abominio e blasfemia per i Taliban puri e duri: sono stati assaliti con gas. I piccoli sono, nell’infamia di questa guerra non guerra, assassini teleguidati, come gli aerei robot, non da lontani computer, ma da adulti che programmano la loro mente. Chissà che disegnini fanno, nelle ore libere, i bambini di cinque anni educati negli asili del terrore?

La Repubblica 09.06.13

"Non serve un re all'Italia che cambia", di Eugenio Scalfari

Ci sono almeno tre questioni che hanno assunto in questi giorni grande attualità. Quella che più interessa i cittadini e le imprese riguarda il rilancio dei consumi e degli investimenti. Per ottenere in un tempo breve — diciamo entro un anno — questi risultati sono necessari i seguenti interventi: un’iniezione di liquidità di almeno 50 miliardi, un aumento consistente del credito bancario alle imprese, incentivi fiscali alle aziende che assumono lavoratori, diminuzione di almeno 5 punti di cuneo fiscale, potenziamento del contratto di apprendistato, nessun aumento della pressione fiscale. Il tutto nel rispetto degli impegni assunti con l’Europa.
Per ottenere risorse a copertura dei suddetti interventi è necessaria una politica fiscale decisamente progressiva nei confronti delle rendite, dei consumi voluttuari, dei patrimoni esorbitanti, dell’evasione e del riciclaggio organizzato dalla criminalità mafiosa.
Ma ci vuole contemporaneamente un’autorevole politica europea che imprima uno slancio dell’Unione e dell’Eurozona verso la crescita e l’equità.
Il cittadino italiano, come quello di qualunque altro Paese, non ha né il tempo né il modo di seguire questo complesso di obiettivi che costituiscono un ingranaggio intricato e delicato che dev’essere affrontato nei modi e nei tempi appropriati. Pensare che un governo che si sia posto questi obiettivi possa realizzarli in pochi mesi significa non aver capito niente.
La spinta al cambiamento dev’essere intensa e tenace ma gli effetti non possono che prodursi gradualmente realizzando opportune alleanze con altri Stati e altre istituzioni dell’Unione europea, a cominciare dalla Bce.
Berlusconi e il Pdl hanno dichiarato nei giorni scorsi che il governo Letta (del quale sono tra i sostenitori) deve «piegare la Merkel oppure uscire dall’euro». Posta la questione in questi termini, essa significa una cosa sola: il Pdl vuole l’uscita dell’Italia dall’euro. Grillo dice da tempo e ripete sistematicamente la medesima cosa. I populismi, anche se collocati in parti diverse dello schieramento politico, nella sostanza coincidono: cercano di reclutare consensi attraverso la demagogia.
L’Italia fuori dall’euro non avrebbe altra possibilità che trasformare la moneta nazionale, il risparmio, il valore dei patrimoni, i tassi di interesse, i profitti, l’occupazione, e insomma l’intera nostra vita materiale in un pascolo della speculazione mondiale, in una terra di nessuno dove i più forti dettano la legge.
Basterebbero queste considerazioni per togliere ogni credito ai populismi e agli intellettuali che li sostengono. Se ciò non avviene lo si deve al fatto che la storia dell’Italia è stata per secoli una storia di predatori, spesso provenienti da oltre frontiera ma coadiuvati dall’interno, “Franza o Spagna purché se magna”: tra gli altri guai ci fu anche quello che non si mangiava affatto o assai poco; mangiavano semmai i furbi che davano una mano o a Franza o a Spagna. Andate a rileggerla la storia del nostro Paese: è fatta da grandi eccellenze e da un popolo che non ha coscienza di esserlo. Quando la ebbe fu un popolo eroico, ma accadde purtroppo assai di rado, ridotto com’era ad una moltitudine di poveracci che lavoravano la terra per dodici ore al giorno per una minestra di fagioli o una fetta di polenta. E nel frattempo
credeva a chi gli prometteva la luna. Vogliamo tornare a questo?
* * *
Ho scritto all’inizio che questi sono i temi che più interessano o dovrebbero interessare i cittadini. Ma ce ne sono altri due, strettamente connessi tra loro, che hanno natura politico-istituzionale. I cittadini di solito li trascurano, presi come sono dalla vita di tutti i giorni e dalle innumerevoli difficoltà che essa comporta. Se ne occupano le minoranze impegnate nella vita politica; questo non toglie tuttavia che quelle questioni non provochino conseguenze anche sulla nostra vita quotidiana sebbene non sia facile rendersene conto.
Sono infatti numerosi i pareri di chi le giudica questioni superflue di fronte alla drammaticità dei sacrifici reali. In realtà la differenza non è nella sostanza ma nella percezione: i sacrifici bruciano sulla pelle, i mutamenti istituzionali cambiano il metabolismo, sono mutamenti silenziosi e non percepibili se non a media distanza; quando infine si manifestano è troppo tardi per intervenire, la nascita e la crescita del nostro enorme debito pubblico che cominciò trent’anni fa ne sono una delle più clamorose conferme.
I due temi di cui ho accennato prima sono: i mutamenti costituzionali e i modi con cui farli da un lato, la legge elettorale dall’altro. Vediamo il primo.
Il governo ha nominato 35 saggi. Hanno un breve arco di giorni per discutere tra loro i vari problemi e redigere un parere consultivo da trasmettere alla Commissione di 40 membri che comprende deputati e senatori delle Commissioni per gli Affari costituzionali delle due Camere i quali, valendosi o non valendosi del parere dei 35 consulenti, proporranno le loro conclusioni al dibattito dell’aula. Il Parlamento formulerà il testo definitivo delle leggi di modifica costituzionale seguendo la procedura prevista dall’articolo 138 della Costituzione.
Non starò a ripetere il dettato del predetto articolo. Ricordo soltanto che esso prevede modifiche costituzionali che siano molto dettagliate, indicando i singoli articoli da modificare e perfino i commi che debbono essere letteralmente trascritti affinché risulti ben chiaro quali siano le previste modifiche. In prima votazione occorre una maggioranza del 75 per cento degli aventi diritto in due successive letture. Se quella maggioranza non viene raggiunta sarà sufficiente una maggioranza del 50 per cento più uno che deve però essere confermata da referendum popolare. La novità è che un referendum popolare sarà previsto anche qualora le modifiche passino con la maggioranza del 75 per cento.
Ci sono state molte critiche a questa impostazione, si è parlato di stravolgimento della Costituzione esistente. Francamente non vedo in che cosa consista lo stravolgimento: il 138 resta invariato, la sua procedura non è minimamente scavalcata.
Le modifiche costituzionali riguardano la fine del bicameralismo perfetto, che non esiste in nessun paese europeo; il taglio del numero dei parlamentari e dei senatori, l’abolizione delle Province. Sono mutamenti indispensabili e addirittura tardivi rispetto agli inconvenienti che hanno finora arrecato al normale svolgimento della vita pubblica.
C’è poi la questione principale, la forma di governo e l’eventuale introduzione del presidenzialismo o semipresidenzialismo. Quest’ultimo però è un tema che va ben oltre i casi previsti dall’articolo 138; investe infatti la struttura stessa della Costituzione e richiederebbe la elezione d’una vera e propria Assemblea Costituente. Questo sì sarebbe uno stravolgimento che aprirebbe la strada ad una probabile crisi dello Stato di diritto e del rapporto tra i vari poteri istituzionali.
Il tema del presidenzialismo e del semi-presidenzialismo è una sorta di passaggio verso forme para-monarchiche che sono esplicitamente escluse dalla vigente Costituzione e francamente non si sente il bisogno ma se ne avvertono semmai i possibili e gravi rischi.
Diverso è il tema della forma di governo. Un rafforzamento dell’Esecutivo, per esempio un’ipotesi di Cancellierato alla tedesca, può essere ritenuto utile sempre che a quel rafforzamento ne faccia riscontro uno analogo che riguardi i poteri di controllo del Parlamento. E qui viene il tema della riforma elettorale che dovrà abolire la legge vigente sostituendola con altri modelli che possono prevedere collegi a doppio turno o l’adozione di criteri proporzionali mitigati da norme in favore della governabilità.
I 35 consulenti hanno il compito di approfondire lo studio di questi complessi problemi; la Commissione parlamentare dei 40 servirà a dar forma a un disegno di legge con le varie modifiche previste; le Aule discuteranno e approveranno il testo definitivo. I tempi sono stati stabiliti da Enrico Letta in 18 mesi per queste riforme, senza le quali il governo si dimetterà. Se invece saranno realizzate continuerà fin quando la maggioranza che lo sostiene lo riterrà necessario per il risanamento dell’economia. Poi la stessa maggioranza si scioglierà e la sinistra democratica tornerà ad opporsi ad una destra democratica che ancora non c’è perché al suo posto c’è soltanto populismo contro il quale non si combatte certo una guerra civile ma un’opposizione dura e tenace.
Per quanto riguarda la sinistra democratica non si può certo dire che essa sia pronta ad adempiere ai compiti che gli spettano per definizione. Deve ancora risollevarsi dallo stato di confusione e di prostrazione in cui versa da tempo; deve risolvere la questione morale liberando le istituzioni dalle interferenze dei partiti; deve mettersi al servizio della società civile sempre che la società civile a sua volta dimostri di non essere succube della demagogia, del populismo e delle velleità utopiche. Classe dirigente e società civile non debbono mai dimenticare che l’Italia è una costola dell’Europa e
l’Europa è una costola del mondo globale.
Siamo in una fase di passaggio d’epoca, non stancatevi di ricordarlo. I passaggi d’epoca sono fasi emozionanti, avventurose, drammatiche ed entusiasmanti, una sorta di parto collettivo che non dimentica i progenitori ma costruisce il futuro.
I valori che presiedono a questa meravigliosa avventura sono la giustizia e la libertà ma non ci può essere l’una senza l’altra e tutte e due senza la fraternità. La bandiera dei tre colori rappresenta l’immagine valoriale di questo passaggio d’epoca. Nascono nuovi diritti, ciascuno dei quali porta con sé nuovi doveri. Spetta ai giovani realizzarli. I padri possono soltanto testimoniare; ai giovani spetta di agire con responsabilità e purezza di cuore.
Post scriptum.
Domani la Corte costituzionale tedesca darà inizio con pubbliche udienze ad un processo che ha come oggetto il trattato di Maastricht che secondo alcuni ricorsi presentati da vari soggetti e associazioni tra i quali spunta la Bundesbank, sarebbe stato violato da una politica “spendacciona” adottata da alcuni governi di paesi membri e perfino da alcune istituzioni europee tra cui la Banca centrale. Si tratta di un’iniziativa di cui, dal punto di vista europeo, è assai dubbia la costituzionalità e che può determinare – talora quei ricorsi fossero accolti – un drammatico conflitto di competenze tra la Corte tedesca e la Corte di giustizia europea di Strasburgo. Sarà quindi opportuno che la pubblica opinione e tutte le istituzioni europee seguano con estrema attenzione quanto accadrà nelle prossime settimane a Karlsruhe e preparino le eventuali contromosse da prendere. Ieri, parlando a Firenze alla festa della “Repubblica delle Idee” il presidente del Consiglio, Enrico Letta, si è soffermato su questa questione ipotizzando che cosa accadrebbe se la Costituzione degli Stati Uniti prevedesse ancora approvazioni riservate ai parlamenti degli Stati federati e alle rispettive Corti costituzionali. Per superare questo stato di cose ci volle a metà dell’Ottocento nientemeno che la guerra di secessione. In Europa di guerre per fortuna non si parla più perché ne abbiamo avute per almeno un millennio, ma la situazione è ancora quella di governi nazionali, Parlamenti nazionali e Corti di giustizia nazionali, senza un reale potere unificato. Questo è un tema di fondo sul quale Enrico Letta ha richiamato l’attenzione di tutti e che merita una scelta dei cittadini e delle forze politiche che li rappresentano.

La Repubblica 09.06.13