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"I sogni a 5 stelle finiscono in Tv", di Curzio Maltese

“La grande tristezza”. È il titolo del film di questi mesi grillini. Il M5S era partito per fare la rivoluzione, «aprire il Parlamento come una scatoletta» e cento giorni dopo è già ridotto a festeggiare la poltrona da presidente di uno dei peggiori simboli della partitocrazia all’italiana, la commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai. L’eroe di questa straordinaria impresa è l’onorevole cittadino Roberto Fico.
È il tipico esponente del grillismo rampante, a partire dai due requisiti fondamentali. Primo, non avere la benché minima idea di come funzionino le istituzioni che si vorrebbero cambiare. In questo Fico è stato fantastico, nelle sue apparizioni televisive prima e dopo la nomina, straparlando di interventi sulla qualità dei programmi e sui palinsesti che la commissione parlamentare non può attuare per legge. E per fortuna, possiamo aggiungere. Secondo, agire in modo esattamente opposto allo scopo dichiarato. Nel caso di Fico e dei grillini il fine sarebbe quello di liberare la Rai dal controllo politico. Ma la prima cosa da fare, per liberare la Rai dai politici, sarebbe appunto l’abolizione della commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai. Un’anomalia impensabile in qualsiasi altra democrazia, dove è ovvio che siano i media a vigilare sulla politica e non viceversa. Nel momento in cui i sedicenti rivoluzionari, invece di chiedere l’abolizione, ne implorano la presidenza, tanti saluti alla nobile causa. Per altro, una presidenza ottenuta grazie a un ignobile inciucio fra Pdl e «Pdmenoelle». Gli otto milioni d’italiani che hanno votato Cinque Stelle forse non l’hanno fatto per vedere Fico alla vigilanza Rai e magari non saranno contenti. Ma Grillo sì. È felice. Beato lui. Dopo aver rifiutato anche la sola ipotesi di costringere il Pd a un vero governo innovatore, all’elezione di un nuovo presidente e a mettere fine per sempre alla stagione di Berlusconi, il leader del Movimento 5 Stelle aveva concentrato tutti i propri sforzi su questo grandioso, rivoluzionario obiettivo: la presidenza della più inutile e indecente delle commissioni parlamentari. Del resto, in televisione è nato. E anche lui, come Berlusconi, la considera la priorità del Paese.
Con un’opposizione come questa, Enrico Letta ha ragione a prevedere che il governo durerà altri cinque anni. Forse anche una decina. L’unica speranza che anche la democrazia italiana possa godere di una vera opposizione parlamentare, come le altre democrazie, rimane a questo punto una rivolta della base grillina contro i ducetti Grillo e Casaleggio e i sottostanti tirapiedi. In parte sta già avvenendo. In questi giorni Grillo ha lanciato sulla rete un referendum per stabilire chi sia il giornalista televisivo più servile, con l’intento ovvio di colpire gli obiettivi delle ultime polemiche: Milena Gabanelli, Gad Lerner e Corrado Formigli. È noto infatti che i rivoluzionari all’italiana odiano soprattutto le persone oneste e capaci, si tratti di magistrati, politici o giornalisti. Ma purtroppo per Grillo, il popolo del web ha messo al primo posto fra i faziosi e gli asserviti ai partiti Bruno Vespa, chissà perché, e ha ignorato del tutto i suggerimenti del capo, finiti agli ultimi posti o fuori lista. C’è da giurare che Grillo non si darà pace finché non avrà convinto i suoi seguaci che Gabanelli è peggiore di Vespa, il Pd peggiore di Berlusconi e Totò Riina detto ’u curtu più onesto di chiunque osi criticare lui e Casaleggio. Gli costasse pure il novanta per cento dei voti. Nel frattempo c’è da sperare che in Italia sorga un vero movimento per cambiare le cose, con o senza scontrini, a cominciare dall’abolizione degli enti e delle commissioni inutili e truffaldine.

La Repubblica 07.06.13

"Le fabbriche salvate dai padroni in tuta blu", di Luciano Gallino

E se i padroni non fossero necessari? È un sogno, ma con la disoccupazione che morde anche i sogni aiutano a cercare una soluzione. L’hanno trovata alcune migliaia di lavoratori che in Italia hanno reagito al fallimento della loro impresa e alla delocalizzazione. Hanno detto ai padroni: «Se ve ne andate, proveremo noi a mandare avanti l’azienda con il nostro lavoro».

E se i padroni, dopotutto, non fossero necessari? Naturalmente è un sogno, ma con la disoccupazione che morde anche i sogni aiutano a cercar soluzioni per continuare ad avere un lavoro e non arrendersi alla prospettiva di una vita da cassintegrati, o da pensionati con dieci anni di anticipo. L’hanno trovata, una soluzione, alcune migliaia di lavoratori che in varie regioni d’Italia hanno reagito al fallimento della loro impresa, alla delocalizzazione, ai dirigenti di una corporation che dalla Finlandia o dall’Alabama decidono di chiudere un impianto in Italia perché rende meno di uno della Corea del Sud. Hanno detto ai padroni, ma anche a se stessi, «se voi ve ne andate, noi restiamo qui, e proveremo a mandare avanti l’azienda con il nostro lavoro». Alcune delle imprese che han continuato ad operare nonostante la fuoruscita dei capi o dei padroni hanno preso forma di cooperative; altre si sono date una veste giuridica diversa. Sia questa l’una o l’altra, adesso l’impresa la mandano avanti loro, operai e tecnici, dirigenti e impiegati.
In Argentina le chiamano fabricas o empresas recuperadas. Sono nate dal 2001 e si sono moltiplicate. Considerato quel che sta avvenendo in Italia, la loro storia è di speciale interesse, perché in essa si ritrovano varie situazioni che hanno con il nostro paese diversi elementi comuni. Nel 2001 l’Argentina stava attraversando, come noi oggi, una disastrosa crisi economica. Centinaia di imprese dichiaravano fallimento, e i dipendenti, con una età media sopra i quaranta, erano quasi certi che mai più avrebbero trovato un lavoro. Una ondata dissennata di privatizzazioni di aziende pubbliche aveva contribuito a disastrare il mercato del lavoro; il resto lo avevano fatto gli “aggiustamenti strutturali” imposti dalla Banca Mondiale e dal Fmi — simili a quelli che oggi arrivano a noi da Bruxelles o da Francoforte — da cui il drastico ridimensionamento dei sistemi di protezione sociale.
Non vi fu allora, in Argentina, alcuna particolare spinta di ordine politico a indurre i lavoratori a impegnarsi per gestire loro l’impresa, una circostanza che pare evidente anche nel caso italiano. Molti aspetti positivi maturarono dopo, e paiono emergere ora nel nostro paese giusto come avvenne laggiù. I lavoratori scoprirono, tra mille difficoltà, che riuscivano a mandare avanti la fabbrica o l’impresa non meno bene del padrone che era fallito o di fronte alla crisi era scappato all’estero. Stabilirono reti di relazione efficaci con le comunità locali e con altre imprese “recuperate”. Approfondirono il tema dell’autogestione, quello che negli anni 70 del Novecento era stato un tema importante per il movimento operaio, non privo di applicazioni positive, specie in Jugoslavia. Risultato: nel 2001 le empresas recuperadas erano alcune decine. Al presente si stima siano 350, che occupano circa 25.000 lavoratori in diversi settori produttivi.
Le imprese italiane autogestite, siano cooperative o altro, meritano quindi attenzione da parte del governo, dei sindacati, e delle tantissime imprese che un padrone ancora ce l’hanno. Da un lato perché a fronte di una crisi che è ormai certo durerà un altro decennio è essenziale esplorare ogni possibile strada per evitare che le imprese, a cominciare dalle Pmi, continuino a chiudere. Dall’altro perché queste fabbriche o aziende di servizio mostrano che se i lavoratori sono trattati come persone, piuttosto che come robot i quali debbono attenersi rigorosamente alla metrica tayloristica del lavoro imposta dall’alto, tirano fuori una intelligenza, una capacità professionale, una competenza nel costruire e gestire un’organizzazione, che quella metrica al tempo stessa nega e spreca. Con un danno grave sia per i lavoratori, sia per la stessa impresa. Ciò di cui i padroni, pur restando al loro posto, dovrebbero prendere nota. Qualche decennio fa si parlava molto, da noi come in altri paesi, della necessità di sollecitare la creatività e lo spirito di iniziativa dei dipendenti. Le imprese hanno preferito adottare modelli di organizzazione del lavoro che soffocavano di proposito l’una e l’altro. La crisi ha tra le sue cause anche quei modelli. Le “imprese recuperate” attestano che converrebbe cominciare a battere altre strade.

La Repubblica 07.06.13

On. Ghizzoni “Per il Ministero la vicenda gas Rivara è chiusa”

“Anche il supplemento di Via richiesto da Erg Rivara Storage si intende ormai decaduto”. “Finalmente dal Ministero dell’Ambiente è arrivata una parola chiara e definitiva: la partita dello stoccaggio interrato del gas a Rivara è chiusa”: la parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni rende nota la risposta arrivata dal Ministero al Question Time richiesto dal gruppo Pd. “E’ bene – chiarisce la deputata Ghizzoni –che alla stessa domanda già formulata in autunno il nuovo Esecutivo abbia dato una risposta di segno opposto”.

Il Ministero dell’Ambiente scrive la parola fine anche sui procedimenti secondari ancora aperti relativi al progetto del deposito interrato di gas a Rivara. La conferma nella risposta che lo stesso Ministero ha dato nel corso del Question Time richiesto dal gruppo Pd. Il Ministero dell’Ambiente, infatti, non solo ribadisce che il Ministero dello Sviluppo economico, a marzo di quest’anno, ha rigettato definitivamente la richiesta del rilascio della concessione per lo stoccaggio sotterraneo di gas naturale che la società Erg Rivara Storage aveva presentato nel lontano luglio 2002, ma chiarisce anche che il procedimento di Via che era ancora pendente, in quanto “endoprocedimento”, è da considerarsi ormai definitivamente decaduto, o meglio, come si esprime lo stesso Ministero “caducato”. Nella risposta si ricordano le ultime tappe della complessa vicenda ministeriale del progetto di Rivara. Nel febbraio dell’anno scorso, il Ministero dell’Ambiente aveva dato il via libera alle operazioni di accertamento per la fase preliminare del progetto: se tale accertamento avesse dato esito positivo, allora si sarebbe riattivata la procedura di Valutazione di impatto ambientale (Via) per la fasi di realizzazione e di esercizio dell’impianto di stoccaggio. Il sisma del maggio 2012 aveva fatto sì che lo stesso Ministero chiedesse alla Commissione Tecnica Via un supplemento istruttorio che tenesse conto di quanto era successo. Nel frattempo, in agosto dell’anno scorso, il Ministero dello Sviluppo economico negava la propria autorizzazione a procedere con il programma di ricerca relativo alla fase di accertamento. A quel punto, anche il Ministero dell’Ambiente, in novembre, si era adeguato e aveva deciso di non dare ulteriore corso al procedimento. Quando i parlamentari Pd, nella passata legislatura, Manuela Ghizzoni in testa, avevano chiesto se la questione era, allora, definitivamente archiviata, la risposta del precedente Governo era stata interlocutoria, lasciando aperti margini di incertezza. “Ora anche quell’incertezza decade – commenta con soddisfazione Manuela Ghizzoni – E’ lo stesso Ministero che chiarisce definitivamente la questione. Finalmente la partita è chiusa. E’ un bene che a quella stessa domanda già da me presentata in autunno, oggi, il nuovo Esecutivo abbia dato una risposta di segno opposto”.

Il Pd chiede di rivedere la riforma Fornero per il personale scolastico

“L’Ufficio di Presidenza della Commissione Lavoro della Camera ha posto all’ordine del giorno dei lavori della prossima settima la nostra proposta di legge n. 249 che modifica la manovra Fornero in merito ai requisiti di accesso al trattamento pensionistico per il personale della scuola: avevamo chiesto la modifica già nella scorsa legislatura ma il governo non ha dato risposte”. Lo rendono noto Maria Luisa Gnecchi e Manuela Ghizzoni, capogruppo Pd nella Commissione Lavoro e vicepresidente della Commissione Cultura.

Le due parlamentari spiegano che “La manovra Fornero non ha tenuto conto del fatto che i lavoratori della scuola possono andare in pensione un solo giorno all’anno, il 1° settembre, indipendentemente dalla data di maturazione dei requisiti, per le giuste esigenze di funzionalità e di continuità didattica”.

“Per tener conto di questa specificità – sempre rispettata in tutte le normative in materia pensionistica antecedenti la manovra – la nostra proposta di legge – continuano Gnecchi e Ghizzoni – prevede che i requisiti per il pensionamento, previsti dalla normativa antecedente alla manovra Fornero, continuino ad applicarsi ai lavoratori della scuola che abbiano maturato gli stessi requisiti entro l’anno scolastico 2011/2012. La platea dei beneficiari non supera le 3000 unità tra docenti e personale ATA. Tra loro, diversi hanno intrapreso vie legali ottenendo provvedimenti giurisdizionali favorevoli: la politica non può più ritardare la correzione di un errore già acclarato dai giudici”.

“L’approvazione della norma – concludono le due parlamentari -, oltre a garantire il rispetto della specificità della condizione del personale della scuola e, conseguentemente, l’eguaglianza di trattamento tra tutti i lavoratori in relazione ai requisiti per il pensionamento, consentirà di incrementare le immissioni di docenti giovani all’interno della scuola, riducendo il precariato e contrastando un’anomalia propria dell’Italia che è il Paese europeo nel quale esiste la percentuale più alta di insegnanti di oltre cinquanta anni di età e quella più bassa al di sotto dei trenta”.

da Tuttoscuola.com

Scuola: Pd, al via discussione su modifica manovra Fornero pensioni

Gnecchi e Ghizzoni, “inutilmente avevamo chiesto risposte al precedente governo. Il problema riguarda 3000 persone tra docenti e personale Ata”. “L’Ufficio di Presidenza della Commissione Lavoro della Camera ha posto all’ordine del giorno dei lavori della prossima settima la nostra proposta di legge n. 249 che modifica la manovra Fornero in merito ai requisiti di accesso al trattamento pensionistico per il personale della scuola: avevamo chiesto la modifica già nella scorsa legislatura ma il governo non ha dato risposte”. Lo rendono noto Maria Luisa Gnecchi e Manuela Ghizzoni, capogruppo Pd nella Commissione Lavoro e vicepresidente della Commissione Cultura, le quali spiegano che “La manovra Fornero non ha tenuto conto del fatto che i lavoratori della scuola possono andare in pensione un solo giorno all’anno, il 1° settembre, indipendentemente dalla data di maturazione dei requisiti, per le giuste esigenze di funzionalità e di continuità didattica. Per tener conto di questa specificità – sempre rispettata in tutte le normative in materia pensionistica antecedenti la manovra – la nostra proposta di legge prevede che i requisiti per il pensionamento, previsti dalla normativa antecedente alla manovra Fornero, continuino ad applicarsi ai lavoratori della scuola che abbiano maturato gli stessi requisiti entro l’anno scolastico 2011/2012. La platea dei beneficiari non supera le 3000 unità tra docenti e personale ATA. Tra loro, diversi hanno intrapreso vie legali ottenendo provvedimenti giurisdizionali favorevoli: la politica non può più ritardare la correzione di un errore già acclarato dai giudici. L’approvazione della norma, oltre a garantire il rispetto della specificità della condizione del personale della scuola e, conseguentemente, l’eguaglianza di trattamento tra tutti i lavoratori in relazione ai requisiti per il pensionamento, consentirà di incrementare le immissioni di docenti giovani all’interno della scuola, riducendo il precariato e contrastando un’anomalia propria dell’Italia che è il Paese europeo nel quale esiste la percentuale più alta di insegnanti di oltre cinquanta anni di età e quella più bassa al di sotto dei trenta”.

"I falsi di Travaglio su l’Unità e il Fondo per l’editoria", di Claudio Sardo

Anche ieri Marco Travaglio su Il Fatto ha dedicato parte del suo articolo ad insultare il nostro giornale. Tra le balle che ha sparato, la più ingiuriosa è che lo Stato pagherà i debiti de l’Unità. E Travaglio ha mentito ben sapendo di mentire.
Infatti, a l’Unità riportata in edicola nel 2001 dalla società Nie, dopo aver rilevato la testata dalla precedente editrice Travaglio ha lavorato, ha percepito il giusto compenso e quel lavoro contribuì in parte al suo successo professionale. La Nie è una società per azioni e come tale è soggetta al diritto comune: grazie ad essa l’Unità è tornata in edicola senza ereditare in alcun modo i debiti accumulati dallo storico giornale del Pci. Se ci fossero problemi residui legati a quel debito pregresso, non riguarderanno certo la nuova società e il giornale rinato ormai da tredici anni. Le parole di Travaglio appartengono dunque al genere del discredito gratuito, dell’insulto usato come arma polemica.
Lo Stato c’entra invece con il Fondo destinato all’editoria cooperativa, politica e di idee. Da qualche tempo Travaglio è contrario: evidentemente ha cambiato idea perché per lunghi anni ha lavorato, appunto, a l’Unità quando peraltro il contributo era assai più consistente di oggi. Sia chiaro, cambiare opinione è legittimo, anche se sarebbe meglio evitare toni così saccenti e dispregiativi, vista l’incoerenza che è alle spalle. Le tesi di oggi di Travaglio tuttavia meritano una risposta: del resto, sono le stesse che in forma meno esplicita esprimono i grandi gruppi editoriali. Vogliono il taglio immediato dei fondi, perché sperano così di far morire i giornali in cooperativa e quelli politici, soprattutto quanti hanno una distribuzione nazionale e sono dunque concorrenti diretti, sia pur marginali, dei maggiori quotidiani.
Dimenticano però di dire che il Fondo destinato a questo piccolo segmento è stato tagliato, anzi ridotto ormai ai minimi termini. Negli anni in cui Travaglio lavorava a l’Unità il Fondo era di 700 milioni di euro, oggi sono in bilancio poco più di 70 milioni da ripartire per un centinaio di piccole testate (che danno lavoro, nell’insieme, a qualche migliaio di persone). La quota del Fondo riservata ai giornali politici è di 16 milioni (Antonio Padellaro, oggi direttore de Il Fatto, sostenne a suo tempo su l’Unità che le risorse pubbliche erano scarse e andavano aumentate: stava parlando dei 700 milioni e, a dire il vero, usò argomenti molto più seri di quelli di oggi di Travaglio). Il Fondo ha la sua ragione negli squilibri del mercato editoriale italiano e nelle condizioni di estremo sfavore per le testate medio-piccole (a partire dai pesanti condizionamenti del mercato pubblicitario). Qualcuno pensa davvero che la nostra democrazia sarebbe più ricca, che il nostro panorama editoriale e culturale sarebbe migliore se morissero di colpo decine di giornali?
Ci sono stati nel recente passato episodi circoscritti ma gravissimi di truffa ai danni del fondo: giornali quasi inesistenti che hanno attinto al contributo pubblico. È stata una truffa innanzitutto contro di noi. Abbiamo chiesto (e ottenuto) un più rigoroso criterio di assegnazione delle scarse risorse: contributi legati ai contratti di lavoro a tempo determinato e alle copie effettive vendute in edicola (non più alla tiratura). Oggi il contributo è molto povero: per noi è un quinto del bilancio complessivo. E soprattutto non determina più un diritto soggettivo: sulla base della legge vigente siamo costretti a mettere in bilancio le risorse spettanti, ma poi, due anni dopo, ci vengono riconosciuti fondi largamente decurtati, spesso dimezzati. E questo è oggi uno dei fattori di maggiore squilibrio per i conti economici de l’Unità.
Sarebbe meglio per noi fissare una data oltre la quale chiudere definitivamente il Fondo. Tre-quattro anni, ad esempio, nei quali lo Stato sigla un patto con tutti noi: avete diritto a queste poche risorse, ve le daremo certamente, fate programmi con le banche, utilizzatele per ristrutturare, rafforzare l’integrazione carta-web, sostenere la necessaria innovazione, poi finirà ogni contributo. Per noi la certezza (che oggi manca) è importante non meno del contributo decrescente che viene dallo Stato. Ovviamente, questo impegno dovrebbe essere accompagnato da una seria legislazione anti-trust del settore, a partire dal mercato pubblicitario, in modo da avvicinare alle proporzioni europee la ripartizione tra quotidiani, tv, settimanali, web.
C’è infine un’ultima polemica di Travaglio che riguarda Grillo. Non merita molte parole, perché Travaglio è patetico nel negare il sostegno dato a Berlusconi. I Cinque Stelle avrebbero potuto far nascere un governo diverso. Invece Grillo ha detto no a Bersani e ha fatto di tutto per riportare il Cavaliere al governo, pensando così di lucrare sull’«inciucio» Pd-Pdl. Siccome gli elettori non hanno l’anello al naso, alle amministrative Grillo ha perso una valanga di voti. Invece Travaglio è contento così e non vuole assolutamente che si cambi: guai chi tocca Berlusconi al governo. Così può continuare a scrivere che è tutta colpa del Pd e de l’Unità. Invece anche tra i grillini in Parlamento c’è chi non è più disposto a servire il Cavaliere.

L’Unità 06.06.13

"Chiuse 55mila aziende manifatturiere. S&P: le banche hanno tolto 44 miliardi alle imprese", di Matteo Colaninno

“I dati comunicati oggi dal Centro Studi di Confindustria confermano la profondità della crisi e le sue pesanti ripercussioni sul sistema industriale italiano. È necessario tamponare con urgenza un’emorragia che tra il 2009 e il 2012 ha fatto chiudere i battenti a 55 mila imprese, al ritmo di 40 al giorno, e perdere oltre mezzo milione di posti di lavoro nel settore manifatturiero. Affinché l’Italia si confermi nei prossimi anni la settima potenza industriale del mondo e la seconda in Europa alle spalle della Germania, non possiamo più attendere l’adozione di nuove politiche industriali, fondate su una strategia di riposizionamento competitivo del nostro sistema industriale, che faccia dell’occupazione e innovazione i punti di riferimento imprescindibili. Per questo è necessario concentrare su queste due priorità le risorse che il governo riuscirà a recuperare e insistere a livello europeo per un cambiamento della linea politica della Ue, in modo da affiancare all’attenzione sui conti pubblici la spinta e il sostegno allo sviluppo”. Così Matteo Colaninno, parlamentare e componente della segreteria del PD.

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Nel manifatturiero il calo di occupati “ha già raggiunto le 539mila persone nel periodo tra il 2007 e il 2012 e superato le -490 mila rilevate tra il 1990 e il 1994 e rischia di superare le -724mila registrate tra il 1980 e il 1985”. Lo rileva il Centro studi Confindustria negli >Scenari industriali spiegando che “le imprese italiane saranno probabilmente costrette a tagliare ulteriori posti di lavoro nei prossimi mesi”.
Ma, avverte ancora il Csc, “a differenza di quanto avvenuto nei primi anno Ottanta l’espulsione di manodopera in corso non appare corrispondere a un’esigenza di ricerca di maggiore efficienza nel settore”.

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Sono pari a 44 miliardi di euro i finanziamenti che nel 2012 le banche hanno tagliato alle imprese italiane. Il dato emerge da un report di Standard & Poor’s. Il documento evidenzia un crescente “ricorso alle emissioni obbligazionarie” per tamponare i tagli al credito.

Le imprese italiane, lo scorso anno, hanno messo obbligazioni per 20 miliardi, che hanno parzialmente compensato, il calo di 44 miliardi di credito dalle banche. Oltre ai problemi innescati dalla crisi, si legge nel rapporto, “le imprese italiane si trovano ad affrontare un ulteriore problema, che riguarda non solo le grandi, ma anche le piccole aziende, ovvero quello di emettere obbligazioni sul mercato finanziario”. Le imprese italiane “trovano sempre più difficile ottenere finanziamenti bancari, che tradizionalmente rappresentano la loro maggiore fonte di credito”.

Aggiungendo poi “l’allentamento della normativa societaria e fiscale introdotto lo scorso anno”, ci sarà un aumento del ricorso all’emissione obbligazionaria.

“Noi crediamo – prosegue poi il rapporto – che un maggiore ricorso al mercato obbligazionario potrebbe contribuire a migliorare le strutture di capitale delle imprese italiane e ridurre i rischi di rifinanziamento” allungando le scadenze di finanziamento delle imprese italiane e diversificando la base degli investitori. Tale processo, avverte però l’agenzia di rating, potrebbe essere “lungo e arduo” a causa dello scarso interesse degli investitori istituzionali domestici alle obbligazioni delle piccole e medie imprese e all’assenza di uno sviluppato mercato del collocamento privato, che rimane limitato tra i 150 milioni e i 200 milioni di euro.

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