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Flc-Cgil scrive a Carrozza: sanate “Quota 96”, di P.A. da La Tecnica della Scuola

Domenico Pantaleo, il segretario generale della Flc-Cgil, prende la penna a favore del personale di “Quota 96” e scrive alla ministra Carrozza: assuma tutte le iniziative per la risoluzione dell’ingiustizia dalla riforma Fornero nei riguardi del personale della scuola che aveva maturato i precedenti requisiti per il pensionamento al 31 agosto del 2012
La Flc-Cgil del resto aveva già preso posizione su questa scottante quanto assurda vicenda che ha penalizzato circa 3500 lavoratori, colpevoli di avere a disposizione la sola finestra di uscita corrispondente con la fine dell’anno scolastico per la pensione.
Oggi questa ulteriore spinta in modo da risolvere al più presto il torto subito e ripristinare il dirittoprima che inizi il nuovo anno scolastico.
La Riforma, dice infatti Pantaleo, non ha tenuto in conto che per il comparto scuola il servizio prestato si valuta sull’anno scolastico e non su quello solare.
Nella stessa lettera la FLC CGIL chiede che venga consentito l’accesso al pensionamento a coloro che, appartenendo a profili o insegnamenti in esubero, hanno i requisiti richiesti dall’articolo 14 della spending review del luglio 2012.
Il tema della revisione della riforma Fornero è urgente per garantire il diritto al pensionamento in modo flessibile e compatibile con le necessità dei singoli lavoratori, ma urge anche perché nei comparti della Conoscenza sia possibile garantire la stabilizzazione alle migliaia di precari in attesa di un futuro certo.
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Roma, 5 giugno 2013
Alla Prof.ssa Maria Chiara Carrozza
Ministro Istruzione, Università e Ricerca
Onorevole Ministro Carrozza,
tra le ingiustizie causate dalla Riforma Fornero sulle pensioni, c’è quella relativa al personale del Comparto Scuola, per il quale ai fini del computo del servizio prestato vale l’anno scolastico e non quello solare, come recita l’art.1 del DPR 351/98
La Riforma invece nella norma di salvaguardia ha bloccato l’esigibilità dei vecchi requisiti pensionistici anche per il Comparto Scuola al 31 dicembre 2011, quando avrebbe dovuto essere estesa al 31 agosto 2012.
Ricordiamo che il Comparto Scuola è l’unico ad avere una sola finestra di uscita dal lavoro che determina nell’attuazione della Riforma ritardi di pensionamento superiori a quelli causati a lavoratori di altri Comparti.
Nessun provvedimento di natura giudiziaria, facente seguito a ricorsi legali degli interessati, ha dato torto ai ricorrenti e nei prossimi mesi dovrà pronunciarsi la Corte Costituzionale. Ma le situazioni personali dei lavoratori coniugate con l’alto numero di precariato nel comparto, esigono dalla politica un atto di coraggio, che rimedi alla grave ingiustizia inferta al personale della scuola.
La FLC CGIL Le chiede di intercedere col Presidente del Consiglio Letta, in vista dell’audizione prevista in Parlamento per domani presso la VII Commissione, perché si intervenga con un provvedimento legislativo che tra l’altro non ha costi elevati, considerata la platea ristretta che interessa.
Allo stesso modo la FLC CGIL chiede che venga consentito l’accesso al pensionamento, a coloro che appartenendo a classi di concorso in esubero, hanno i requisiti richiesti dalla spending review della scorsa estate.
Come abbiamo avuto più volte occasione di dire, gli alti numeri del precariato della scuola richiedono interventi significativi di stabilizzazioni, la Riforma Fornero è una delle cause di impedimento a questo processo.
Siamo certi della Sua attenzione al problema segnalato.
Distinti saluti.
Il Segretario generale FLC CGIL
Domenico Pantaleo

da La Tecnica della Scuola 06.06.13

Fuga dai test di medicina e architettura “La prova a luglio fa crollare le iscrizioni”, di Corrado Zunino

Gli studenti italiani, in attesa di maturarsi, già sono scappati dai test d’accesso alle facoltà universitarie a numero chiuso, da quest’anno previste subito dopo l’esame di Stato. Per la prima volta dalla sua introduzione (1990), gli iscritti alla prova selettiva di Medicina sono in calo, in netto calo. Ad Architettura, addirittura, a un giorno dalla chiusura delle iscrizioni le richieste sono in media la metà certificando un crollo del 60 per cento all’Università Tor Vergata di Roma (dove Ingegneria edile, anche lei a numero programmato, registra domande inferiori del 72 per cento rispetto al 2012).
È una diserzione, più che una crisi: la fuga dal test. Certo, si possono trovare spiegazioni in ragionamenti fatti sul futuro: un dipartimento è a numero chiuso perché ci sono troppi laureati in quella specialità in giro per l’Italia, e quindi poco lavoro disponibile. L’architettura, da noi, è un mestiere inflazionato e sottopagato. Ma in realtà il
test flop ha ragioni più contingenti, legate al recente “bonus maturità”, l’ultima legge del penultimo ministro, Francesco Profumo. Oltre ad offrire una possibilità (un bonus) a chi si diplomerà bene (da 4 a 10 punti da far valere per il test d’accesso valutato in tutto 100), la novità profumiana ha provato a raccordare
gli atenei italiani sugli orologi europei e anglosassoni, a stroncare il mercato della preparazione in nero sui test, a offrire una seconda possibilità a chi la prova selettiva non l’avrebbe superata. Per realizzare tutto questo le risposte a quiz di quest’anno sono state anticipate da inizio settembre al 23-25 luglio.
Presto le nuove date si sono mostrate problematiche. Per diversi studenti gli orali di maturità finiscono a luglio inoltrato e lo sforzo richiesto per affrontare dopo
pochi giorni le prove di accesso sono apparse eccessive. A giugno molti maturandi — ancora immersi nello studio per l’esame di Stato — non hanno le idee chiare sul loro futuro, chiedono un mese di distrazione prima di scegliere. E invece domani si chiudono le iscrizioni alle facoltà a numero chiuso. Gli stessi atenei, che nelle ultime stagioni stanno provando a fare orientamento con largo anticipo presentando la loro offerta direttamente nei licei e negli istituti tecnici, quest’anno hanno dovuto organizzare l’accoglienza in tempi strettissimi: sono rimaste libere giusto le poche ore tra la fine della maturità e l’inizio dei test d’accesso.
Il rettore della Sapienza, l’università più grande d’Europa, già ha chiesto un congelamento del “bonus Maturità”: «L’anticipo delle prove», ha detto Luigi Frati, «in assenza di adeguata informazione ha fatto sì che vi sia un’insufficienza di domande e poi ad Architettura, in tutta Italia, ci sono meno iscritti dei posti programmati». Questa novità appare grottesca per un test che fino all’anno scorso selezionava un aspirante architetto ogni sei, uno ogni undici a Medicina. Il giorno dopo la Conferenza dei rettori ha ribadito il concetto — poche domande quest’anno — e la richiesta: fermiamo il pacchetto “bonus maturità”.
Per ora, a un giorno dalla chiusura iscrizioni, la fotografia illustra un meno 30 per cento al Politecnico di Milano (Architettura), meno 45 per cento a Medicina di Modena-Reggio, meno 66 per cento a Sassari. Alla D’Annunzio (Chieti-Pescara) martedì scorso si registrava un crollo dell’80 per cento. E poi si conta un numero di partecipanti inferiore ai posti disponibili al dipartimento di Ingegneria edile a Pavia, all’Architettura di Tor Vergata. E se, d’altra parte, le ultime ore di iscrizione sono sempre quelle più affollate, va detto che molti si segnano e poi non pagano: il 14 giugno, quindi, potremmo avere numeri peggiori.
Il neoministro Maria Chiara Carrozza segue preoccupata la situazione. Ha già detto che interverrà sul bonus maturità e, in particolare, a fine settimana rivedrà il meccanismo dei punteggi riducendo l’impatto del voto dell’esame di Stato rispetto alla valutazione del test. Con un decreto ministeriale probabilmente si dimezzeranno i “bonus” (oggi fissati, appunto, tra 4 e 10). Ma al ministero stanno valutando anche le date dei test.

La Repubblica 06.06.13

"Il paradosso che può aiutare il cambiamento", di Luigi La Spina

Parte oggi, con la convocazione al Quirinale per l’insediamento della commissione dei 35 saggi, il nuovo tentativo di cambiare norme importanti della Costituzione italiana. Di una grande riforma del nostro assetto istituzionale, ormai, si parla da oltre 25 anni e da un quarto di secolo sono falliti tutti i tentativi per riuscirci. La domanda che gli italiani si stanno facendo in questi giorni, perciò, è ovvia e parte da un’osservazione di puro buon senso: visto che il Paese soffre la più grave crisi economica dalla nascita della Repubblica ed è attraversato da tensioni sociali molto forti è davvero questo il momento più opportuno per provarci ancora una volta? Non sarebbe meglio che il governo si concentrasse sull’emergenza più preoccupante per la vita quotidiana di tanta gente e rimandasse il grande progetto di riforma a tempi migliori?

Il dubbio non solo è legittimo, perché il buon senso è una virtù, nonostante la sua cattiva fama presso intellettuali e politici nostrani, ma è anche opportuno, perché la comprensione dei cittadini, in una democrazia, dovrebbe costituire la spinta fondamentale per varare buone riforme, soprattutto in argomenti così delicati.

La risposta a questa domanda, però, potrebbe essere altrettanto semplice: l’attuale sistema istituzionale, politico e partitico ha dimostrato, ormai, la sua incapacità ad affrontare, con la radicalità e l’urgenza che proprio la crisi richiede, quei cambiamenti necessari per rimettere in moto un’economia e una società italiana che, come ha ricordato il governatore di Bankitalia qualche giorno fa, sono rimasti drammaticamente indietro rispetto all’evoluzione del mondo.

È convinzione abbastanza comune che le corporazioni di interessi nel nostro Paese, divise tra di loro, ma unite nella volontà di difendere ad oltranza le nicchie di privilegi raggiunte, siano talmente consolidate, talmente arroganti da resistere a qualunque tentativo di cambiamento operato dai governi che si sono succeduti negli ultimi decenni. Coalizioni di centrodestra e coalizioni di centrosinistra, se analizziamo un po’ più in profondità i risultati concreti ottenuti in tale direzione, sono state costrette ugualmente a una ritirata ingloriosa. Lo schieramento di Berlusconi ha fallito nel tentativo di una rivoluzione liberale che, tanto proclamata a parole, si è conclusa, nei fatti, nel nulla. Quello capitanato da Prodi, sulla parola d’ordine del riformismo democratico, si è dovuto arrendere non solo davanti al solito massimalismo conservatore di una parte della sinistra italiana, ma perfino davanti al ribellismo dei taxisti romani. La speranza, perciò, è quella che solo un rafforzamento della politica, nella sua capacità di decisione e, soprattutto, nella forza di attuare le decisioni prese, potrebbe sconfiggere il «male oscuro» dell’Italia in questi anni a cavallo del secolo, l’immobilismo della società che colpisce soprattutto i nostri giovani e la stagnazione dell’economia che la sta portando a un irreversibile impoverimento.

Dal primo dubbio nasce, però, una seconda domanda: questo governo Letta, così esposto ai contrasti politici e ideologici di una maggioranza politica «degli opposti», sotto l’incubo delle vicende giudiziarie di Berlusconi e di fronte a drammatici problemi economico – sociali, come quelli, ad esempio, della sorte dell’acciaieria e, in generale, della manifattura italiana, non sarà ulteriormente indebolito dalle dispute istituzionali che arriveranno nei prossimi mesi, a cominciare dall’ipotesi del presidenzialismo?

Anche questo quesito è fondato sul buon senso, ma la risposta può essere meno pessimistica dell’apparenza, almeno per due ragioni. Letta, con l’avallo di Napolitano, ha dato al progetto della riforma costituzionale una scadenza temporale precisa, diciotto mesi. In questo modo, ha costretto il Parlamento a porsi un traguardo abbastanza ravvicinato per riuscire a vararlo, ma ha anche allungato a un anno e mezzo la durata minima del suo governo. Insomma, con una sola mossa, ha cercato di indebolire sia coloro che vogliono impedire i cambiamenti istituzionali con lo stallo di infinite logomachie sui grandi principi, sia coloro che desiderano interrompere al più presto il primo esperimento italiano di «grande coalizione».

La seconda ragione di parziale e prudente ottimismo sugli effetti delle discussioni parlamentari sulla riforma per la stabilità governativa, ma anche sulle possibilità dell’accordo, risiede nella necessità che tali cambiamenti abbiano una larga condivisione tra i partiti che compongono le Camere. La ricerca obbligata di una intesa sul piano delle modifiche istituzionali potrebbe costituire il collante indispensabile per costringere quella «maggioranza degli opposti» a trovare tutti quei compromessi quotidiani che saranno indispensabili, nei prossimi mesi, per affrontare l’emergenza economica. Ecco perché proprio la fragilità del governo Letta e le conseguenze di una crisi del suo ministero, con le annunciate dimissioni di Napolitano e le probabili elezioni anticipate, potrebbero pure aiutare a trovare, questa volta, quell’accordo sulla riforma costituzionale che si cerca da 25 anni. È un paradosso, ma di paradossi vive la democrazia italiana.

La Stampa 06.06.13

"Quella famiglia a caccia di verità", di Carlo Bonini

La morte di Stefano Cucchi meritava e merita giustizia. Non la ha avuta. Lo Stato che, una notte di ottobre di 4 anni fa, lo aveva preso in custodia sano e lo ha restituito cadavere si dichiara irresponsabile “per insufficienza di prove”. La sentenza della terza Corte di Assise di Roma derubrica la fine di questo ragazzo tra indicibili tormenti a banale colpa medica. Di quelle che nei tribunali sbrigano i giudici monocratici di fronte all’imperizia, alla negligenza di qualche camice distratto. Le lesioni di cui Stefano ha cominciato a morire in un sotterraneo del Palazzo di Giustizia non hanno responsabili. Perché compatibili non solo con la furia di un pestaggio per mano di agenti penitenziari, ma anche con “una caduta dalle scale”. L’imperizia, il cinismo di chi, infermiere, lo vide spegnersi in un letto del “reparto protetto” (insopportabile ironia della lingua italiana) dell’ospedale Sandro Pertini, sono state ritenute “irrilevanti” perché non causa diretta della morte. In fondo, nel cadavere di Stefano furono ritrovati solo 1.400 centimetri cubi di urina. In fondo, il catetere cui era agganciato si era ostruito e nessuno se ne era accorto. Ma chi è mai morto per una vescica gonfia come un pallone?
Resta dunque solo la cinica sottovalutazione di quei sei medici del Pertini che ebbero in cura Stefano e non seppero curarlo. Perché — anche questo ha stabilito la Corte di Assise — in quell’abbandono non ci fu “dolo” e dunque volontà, solo negligenza.
I processi penali accertano responsabilità individuali e la colpevolezza richiede una prova piena. Ma i processi fissano per sempre anche circostanze di fatto che diventano cruciali perché metro del senso di ingiustizia che una sentenza come questa trasmette. Ebbene, il processo Cucchi ha avuto un testimone chiave che non è stato creduto. O, evidentemente, non a sufficienza. Un ragazzo africano, Yaya Samura, che divideva con Stefano Cucchi la cella nei sotterranei del Palazzo di Giustizia in attesa del processo per direttissima. Che ne vide il pestaggio dallo spioncino. E a cui Stefano mostrò i pantaloni sporchi di sangue, le ecchimosi e le ferite provocate dai calci di chi si era accanito su di lui. Quel ragazzo africano raccontò ai pm ciò che aveva visto prima che qualsiasi suggestione potesse disturbarne il ricordo. Le sue parole hanno trovato formidabile riscontro nelle strisciate di sangue interne dei pantaloni di Stefano, tipiche di chi li arrotola per mostrare una ferita. Non è bastato. E sarà interessante, quando questa sentenza sarà motivata, capirne la ragione.
La Corte di Assise premia al contrario le facce di pietra degli agenti della polizia penitenziaria accusati di quel pestaggio. La loro scelta (che pure è un diritto) di non aver mai voluto rispondere né da indagati, né da rinviati a giudizio, né da imputati su ciò che accadde in quei sotterranei. Se davvero Stefano era caduto dalle scale, perché non farne subito relazione? Perché non dirlo quando vennero sentiti una prima volta dai pm come testimoni? Perché non dirlo dopo, durante il processo? Né i giudici sembrano aver tenuto in gran conto la circostanza di per sé assai significativa che i pantaloni insanguinati di Stefano furono ritrovati solo tre mesi dopo la sua morte nascosti in un armadietto del Pertini. La dimostrazione, ammesso ce ne fosse bisogno, che sulla sua morte l’occultamento della verità cominciò nel momento esatto in cui fece il suo ingresso in ospedale.
Ma c’è di più. Alla memoria di Stefano, alla sua famiglia, all’opinione pubblica non è stata neppure risparmiata l’onta di una di quelle perizie di ufficio che, nel linguaggio degli “arcana” tipico degli addetti di scienza, rende regolarmente opinabile anche ciò che opinabile non appare non solo al buon senso, ma anche ai ricordi dei testimoni. Medici anche loro, che visitarono Stefano in tribunale, a Regina Coeli, al Fatebenefratelli e tutti concordi nel diagnosticare un corpo offeso da percosse. Già, la perizia. Un modo come un altro per alzare le mani. Per arrendersi all’imperfezione dell’accertamento di una verità altrimenti intollerabile. Eppure chiara come acqua di fonte. Stefano Cucchi è stato ucciso dallo Stato nelle cui manette aveva docilmente infilato i polsi. «Non è come nei film», lo aveva rassicurato un agente della polizia penitenziaria al suo arrivo a Regina Coeli. È vero. Ora sappiamo che può essere peggio.

La Repubblica 06.06.13

Concordia (mo) – Incontro/Dibattito: Tra populismi e larghe intese: il PD protagonista delle scelte di governo per il Paese e per la ricostruzione dell’Emilia

Sala delle Capriate – 2° piano Biblioteca Via per S.Possidonio, 2
CONCORDIA

Incontro – dibattito con l’On.
Manuela GHIZZONI
Vicepresidente della Commissione cultura, scienza e istruzione della Camera
Introduce Gianni LEVRATTI, Segretario PD Concordia

"Lavoro, 50mila posti in meno", di Raffaello Masci

Volete un posto sicuro e ben remunerato? Fate l’idraulico. Oppure il parrucchiere. Al limite il muratore. Ma scordatevi tutto il resto. Altrimenti accontentatevi di lavoretti precari, pagati poco più di 800 euro. E sempre a trovarli, perché se lo scorso anno si assumeva poco (380 mila posti nel settore privato), quest’anno si assumerà ancora meno (330 mila sì e no). Questo è l’andazzo del mercato del lavoro, specie per i giovani, come emerge da tre studi di merito che sono stati presentati ieri.

Il primo è del Cna, una delle maggiori organizzazioni dell’artigianato, che ha realizzato una ricerca su dati Unioncamere in cui rileva le professioni più richieste. Un altro è della Società informazione Onlus con il contributo della Cgil sulla condizione dei precari. Il terzo è della Cgia di Mestre e riguarda le prospettive di assunzione delle aziende italiane. Incrociando queste ricerche appare l’immagine di un mercato del lavoro in cui si assume sempre meno, si applicano contratti atipici e mal pagati sempre di più e – soprattutto – si cercano figure professionali che hanno a che fare più con le mani che con i libri.

Nel primo semestre di quest’anno – dice il centro studi degli artigiani di Mestre, Cgia – le nuove assunzioni previste dalle imprese private italiane dovrebbero sfiorare quota 330.000, e cioè 50.300 posti in meno (-13,2%) rispetto a quelli preventivati nello stesso periodo del 2012. La quota potenzialmente accessibile ai giovani non supera il 29% e meraviglia, soprattutto, che in un paese che ha fame e sete di lavoro, il 13,1% delle richieste di lavoro andrà inevasa perché riguarda mestieri introvabili. In termini assoluti – concordano le ricerche sia di Cna che di Cgia – la figura più desiderata dalle imprese artigiane è l’idraulico: sul totale complessivo delle competenze «introvabili», l’11% appartiene a questo profilo. Acconciatori ed estetiste seguono a ruota e sono anche loro mestieri rari, al punto che nel 2012 hanno rappresentano insieme circa l’8% delle figure professionali difficili da trovare. Ma nella fascia alta del borsino dei mestieri più gettonati (e meno disponibili) ci sono poi cuochi, camerieri, addetti alle pulizie, commessi, operai specializzati nell’edilizia, segretarie, autisti, tecnici amministrativi, esperti in marketing e metalmeccanici. L’insieme di queste professioni copre quasi il 70% del fabbisogno richiesto dagli imprenditori. Per il resto, il mercato del lavoro è sempre più «atipico», costituto cioè da inquadramenti che esperiscono tutte le varianti della precarietà: a tempo determinato, part time, a progetto e via elencando. I precari , ci dice l’indagine, sono ormai una massa smisurata che supera i 3 milioni e 300 mila unità, e sono anche una massa maltrattata, per la quale lo stipendio arriva ad una media di 836 euro al mese. Per oltre un terzo si tratta di lavoratori della pubblica amministrazione (moltissimi quelli di scuola e e sanità) e quasi quattro su dieci vivono al Sud. Va detto, però, che hanno titoli di studio medio bassi, se si considera che il 39% non va oltre la terza media. Un a volta, almeno, c’erano gli stranieri a inventarsi nuove imprese: a fine 211 erano 233 mila quelle condotte da un cittadino non italiano. Dopo di che la situazione è precipitata, e in un anno le imprese «straniere» sono diminuite del 6,7%. Su come sbloccare queste criticità, ieri ha parlato al Senato il ministro Enrico Giovannini, indicando nei centri territoriali per l’impiego l’elemento su cui agire: «Se non riusciamo a migliorarli in modo significativo – ha detto il plafond di 400-500 milioni stanziato per lo youth garantee spalmato su 7 anni, non è adatto alla gravità della situazione».

Il leader di Confindustria Giorgio Squinzi non è scettico rispetto a queste proposte, ma è stanco di osservare un governo di scarsa incisività: «Serve stabilità e governabilità – ha detto abbiamo bisogno di un Governo che sappia che crescere si può e si deve e non che sia soggetto a continue fluttuazioni».

La Stampa 05.06.13

"Tre milioni di precari con una paga media di 836 euro al mese", di Massimo Franchi

I precari in Italia sono ben 3.315.580, guadagnano mediamente la miseria di 836 euro mensili e uno su tre è impiegato nella pubblica amministrazione. È uno dei tantissimi dati contenuto nel «Rapporto sui diritti globali 2011′, quest’anno sottotitolato «Il mondo al tempo dell’austerity», redatto dall’associazione «Società INformazione » e promosso, tra gli altri, dalla Cgil (Legambiente, Action Aid, Arci, Antigone) e presentato ieri mattina a Corso Italia. Nelle 1.100 pagine dell’undicesimo rapporto curato da Sergio Segio, il lavoro ha un ruolo centrale e riguarda ben tre dei sette capitoli di argomento, prima della impressionante mole di dati. Proprio in questa sezione si scopre che solo il 15% dei precari ha conseguito una laurea, il 46% dei precari ha un diploma di scuola media superiore. «Nella scuola e nella sanità hanno trovato una occupazione 514.814 persone, nei servizi pubblici e in quelli sociali 477.299». Se si includono poi «i 119mila circa che sono occupati direttamente nella Pubblica Amministrazione (Stato, Regioni, enti locali, ecc.) – afferma ancora l’indagine – , il 34% del totale dei precari italiani è alle dipendenze del Pubblico. Gli altri settori che registrano una forte presenza di questi lavoratori atipici sono il commercio (436.842), i servizi alle imprese (414.672) e gli alberghi e i ristoranti (337.379). Il Sud l’area che ne conta il numero maggiore. Se oltre 1.108.000 precari lavorano nel Mezzogiorno (pari al 35,18% del totale), le realtà più coinvolte, prendendo come riferimento l’incidenza percentuale di questi lavoratori sul totale degli occupati a livello regionale, sono la Calabria (21,2%) e la Sardegna (20,4%). Il tema è toccato anche da Susanna Camusso, autrice della prefazione al volume assieme al segretario generale del sindacato mondiale (Ituc) Sharan Burrow. I giovani vogliono partecipare alla ricostruzione economica del Paese e per questo la Cgil «chiede una ripresa degli investimenti in grado di sollecitare innovazione e generare lavoro qualificato e dignitoso, ricco di sapere e di responsabilità da destinare in particolare» a loro. «Le politiche di euro-austerità hanno prodotto un ulteriore impoverimento dei Paesi più deboli, un aumento della disoccupazione e delle diseguaglianze, la compressione del reddito da lavoro e dei diritti soprattutto a scapito delle nuove generazioni”, scrive Camusso. La presentazione del rapporto è stata introdotta da un videomessaggio di Moni Ovadia. L’artista vede nell’«economicismo » l’origine dell’austerità «perché tutto si può subordinare ad essa» mentre «gli speculatori e l’establishment non pagano per le loro colpo perché mancano le sanzioni». In questo quadro «l’idea di difendere i diritti» diventa una battaglia persa: «invece bisogna attaccare perché solo con più diritti si può uscire dalla crisi e la battaglia può solo essere globale». Il curatore del volume Sergio Segio ha parlato apertamente di «austericidio »: «queste politiche stanno uccidendo interi sistemi produttivi, enti locali e milioni di persone a cui si è tolto lavoro e speranza; l’austerità è un’ideologia, una lotta di classe che drena ricchezza dai poveri ai ricchi e dal Sud al Nord del mondo (con il fenomeno del land grabbing (l’accaparramento dei terreni agricoli). In questo quadro globale l’Italia è quella messa peggio anche a causa della bomba atomica del pareggio di bilancio inserito in Costituzione». Ma il 2013 sta comunque registrando un cambio di rotta importante: «Se perfino il direttore generale dell’Fmi Cristine Lagarde arriva a dire che l’austerità frena la crescita, forse c’è speranza», chiosa Segio. Il Rapporto sui diritti, lodato da tutti i presenti come strumento fondamentale, non se la passa bene. L’impegno della Cgil e della sua casa editrice Ediesse non è sufficiente. E allora Segio traccia l’unica via possibile per metterlo in sicurezza: renderlo globale. Una via già intrapresa, come dimostra la partecipazione del sindacato della Catologna.

L’Unità 05.06.13