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"Passa l’emendamento per allentare i vincoli del patto di stabilità", di Gabriele Farina

Continua l’iter del “Pacchetto Emilia” in Commissione bilancio al Senato. Tiene banco la fiscalità di vantaggio, proposta dai parlamentari Pd Stefano Vaccari e Manuela Ghizzoni, il cui impegno ha iniziato a portare i primi frutti. Durante la riunione di ieri, infatti, è stato accolto l’emendamento che consente di allentare il Patto di stabilità interno per i Comuni e le Province dell’area del cratere. Si tratta di un riconoscimento delle numerose istanze sollevate dalle amministrazioni locali; un’azione che, se effettiva, porterebbe una boccata d’ossigeno alle casse locali. «Come avevamo anticipato – sottolinea il senatore Vaccari – il plafond previsto è di 50 milioni di euro per l’Emilia e 5 milioni di euro per ciascuno per Veneto e Lombardia». Raggiunta la maggioranza anche su una proroga di sei mesi per portare a termine le verifiche di sicurezza e su una ritaratura della cosiddetta mappa di scuotimento; un aspetto particolarmente importante poiché il quadro attuale prevede differenze di trattamento tra zone limitrofe e, di conseguenza, «sperequazioni tra imprenditori» che si trovano a operare in quelle aree. La linea guida dovrebbe essere quella stabilita dalle mappe del territorio aggiornate offerte dal servizio di sismologia. Inoltre, sono stati approvati due emendamenti relativi ai fabbricati di imprese agricole e zootecniche. Il primo prevede la possibilità d’incrementare la superficie utile del 20% in fase di ristrutturazione, rispettando così i nuovi parametri per garantire un migliore rapporto “stalle/animale” come previsto dalla normativa attuale; il secondo, invece, proroga i termini utili per l’accatastamento, in modo tale da poter favorire una maggiore possibilità di ottenere risarcimenti in caso di strutture non ancora dichiarate al catasto. Infine, le imprese che hanno riscontrato delle perdite nel 2012 potranno distribuire i “segni meno” per i cinque anni successivi. «Sulle altre nostre proposte – ha proseguito il senatore Vaccari – lavoreremo nella notte e nella mattinata di domani (oggi, ndr) in Commissione. L’approdo in aula del provvedimento, proprio per consentire un’analisi più approfondita in Commissione, sarà con ogni probabilità spostato a domani (oggi, ndr) pomeriggio». Il parlamentare ha voluto precisare che non si tratta di una “no tax area”, come ha sostenuto la Lega, in quanto essa «non è praticabile per l’Unione Europea». Appena due giorni fa il Carroccio aveva rivendicato la paternità dell’idea, sostenendo che la «proposta di Vaccari e Ghizzoni è identica alla nostra, solo ristretta alle microimprese, cioè depotenziata»; a sostenerlo, il segretario regionale Fabio Rainieri e i consiglieri Cavalli, Corradi, Bernardini e Manfredini. La proposta, secondo le camicie verdi, sarebbe stata inoltre presentata “tardi”. «Questo era il primo passaggio utile per proporre nuove richieste sul terremoto e qui abbiamo chiesto che s’inserisse questa “fiscalità di vantaggio”», ha ribadito il senatore Vaccari.

La Gazzetta di Moden 05.06.13

“Noi, ragazze di piazza Taksim in giacca rossa per i nostri diritti”, di Marco Ansaldo

«La ragazza con la giacca rossa? Quella che resiste in piedi agli idranti della polizia turca? Tutti la cercano. Nessuno sa dov’è». A Piazza Taksim il tamtam è in atto da giorni. Non solo qui, ma sui social network, sui blog, Facebook, Twitter, tutta la galassia della comunicazione usata dai giovani che, seduti in cerchio, digitano di continuo con i polpastrelli sui loro telefonini. Ma la donna simbolo della rivolta contro il governo islamico sembra scomparsa.
Anche Sinem Babul, la fotoreporter
che l’ha immortalata nell’attimo in cui la giovane si opponeva al getto d’acqua delle forze dell’ordine, la cerca. «Non credo che sia stata portata via dalla polizia — dice nella redazione di T24, il giornale online autore in questi giorni non facili di un gran lavoro di informazione sul terreno — forse è tornata a casa e non vuole farsi vedere».
Eppure, a Istanbul, le sue immagini sono un po’ ovunque. La foto di lei con la sua giacca grondante d’acqua e le scarpe da tennis rosse è diventata un’icona sui manifesti, sugli sticker, pure come un fumetto. Ci sono poster, addirittura, in cui la sua figura appare ingigantita rispetto a quella degli agenti dotati di caschi e scudi. Sotto, la scritta: “Più spari, più diventa grande”.
«Questa foto incarna l’essenza della protesta — commenta Esra, che studia matematica all’università — e cioè la violenza della polizia contro manifestanti pacifici, persone che cercano di proteggere sé stesse e i valori in cui credono ».
Del resto, basta guardarsi intorno, qui, e vedere quante sono le ragazze di Piazza Taksim, giovani turche belle e determinate nella difesa dei propri diritti. Indossano magliette delle marche di moda, come le loro coetanee a Parigi o Berlino. Ma dal loro colletto penzola con disinvoltura la garza con la mascherina antigas, mentre sulle spalle portano la bandiera rossa con la mezzaluna e la stella.
C’è Hasine che, come una moderna Erinni, non nega di aver lanciato, «per esasperazione» ammette, qualche pietra contro un blindato. E Secil, con una piccola fascia bianca attorno al capo, che guata con occhi feroci una foto
del premier Tayyip Erdogan: «Lui dice che noi siamo dei “vandali”. Non ha proprio capito, anzi forse uscirà da questa crisi senza aver imparato nulla. Il governo non può intromettersi nella vita privata delle persone, impedendogli, come sta cercando di fare, di bere, fumare, persino di baciarsi in pubblico. Ma stiamo scherzando?».
Tutte rigorosamente non velate («ci mancherebbe pure — ironizzano, tornando subito serie — quello è un simbolo dell’Islam politico, noi siamo musulmane laiche »), ai polsi braccialetti e perline, con le loro sciarpe leggere al collo vengono da Nisantasi, Sisli, Levent, i quartieri della Istanbul bene. Lavorano come impiegate, nelle scuole, o sono iscritte all’università. Adorano i film di Nuri Bilge Ceylan, il pluripremiato regista turco, ascoltano il rock-pop dei Mor ve Otesi (i Viola e oltre), e si abbeverano ai libri di Orhan Pamuk, il premio Nobel nazionale. Rappresentano l’elite della Turchia repubblicana e moderna, come le loro colleghe scese in strada in queste giornate drammatiche a Smirne, Ankara e persino nella Cipro turca divisa a metà. Appartengono, come la ragazza con la giacca rossa, ai ranghi della borghesia più articolata, che teme di soccombere sotto l’ombra autoritaria e poco tollerante dell’invadente premier.
Erdogan è il bersaglio dei loro strali. «Ha fatto una legge per impedire l’aborto — dice Hasine, che studia chimica — Invita le famiglie a fare almeno tre figli. Si fa forte di essere stato votato dal 50 per cento degli elettori. Bene, io appartengo a quell’altro 50 per cento, la metà della popolazione per la quale lui non mostra né rispetto né considerazione, quelli che vuole stroncare. Ma io voglio avere un futuro qui, una carriera, libertà totale. Tutti concetti adesso minacciati».
Questa sera, in piazza, sotto al monumento ad Ataturk, il fondatore laico, si prepara un’altra notte di resistenza. Può fare freddo, e la polizia turca ha la mano piuttosto dura. Le ragazze si sono attrezzate. Indossano cappelli pesanti, sono vestite di nero, hanno comode scarpe da corsa. Esra torna col pensiero al poster con la ragazza che diventa un gigante. Ha un’idea: «E se domani — dice — venissimo tutte a Piazza Taksim con la giacca rossa?». E comincia subito a inviare messaggi alle amiche, ovunque, digitando con i polpastrelli sul suo cellulare.

La Repubblica 05.06.13

Quel regalo di Natale al premier-padrone", di Massimo Giannini

Ci deve essere ancora uno spazio pubblico per la verità, in questa Italia punita dalla matematica della recessione e intorpidita dalla retorica della pacificazione. Le motivazioni della condanna di Berlusconi, nel processo Unipol-Bnl, occupano quello spazio con un frammento di verità impossibile da non vedere. In quelle 90 pagine non c’è solo la “pistola fumante” del gigantesco conflitto di interessi che il Cavaliere si porta sulle spalle fin dalla sua discesa in campo nel 1994
MA c’è anche la “prova regina” che spiega perché, oggi, non ha senso costituzionalizzare l’irriducibile anomalia berlusconiana, e negoziare con l’uomo che la incarna addirittura il passaggio dalla Repubblica parlamentare a una Repubblica presidenziale.
La vicenda è tristemente nota. Il processo Unipol-Bnl ruota intorno alla famosa registrazione della telefonata tra Piero Fassino e Giovanni Consorte, nella quale il segretario dei Ds chiede all’amministratore delegato di Unipol: «Allora, abbiamo una banca?». Il 24 dicembre 2005, vigilia di Natale, Fabrizio Favata, titolare della Solari. Com Srl e socio in affari di Paolo Berlusconi (nella I. P. Time Srl) per la commercializzazione dei decoder, si
presenta a Villa San Martino, ad Arcore. Con lui c’è l’amico Roberto Raffaelli, a sua volta titolare della Research Control System, società che gestisce attrezzature e tecnologie per intercettazioni telefoniche per conto della Procura di Milano. I due hanno un dono prezioso per Silvio Berlusconi, che li aspetta a casa insieme al fratello: l’audio della telefonata tra Fassino e Consorte, registrata l’estate precedente, ai tempi della scalata dei “furbetti del quartierino” Ricucci- Fiorani-Coppola. Il nastro è materia esplosiva, e scottante perché segreta persino per gli inquirenti: si tratta di un’intercettazione «non ancora trascritta né sintetizzata nei verbali » dei magistrati, e dunque «esistente al momento dei fatti solo in formato audio».
Per il Cavaliere, che in quel momento è presidente del Consiglio, l’occasione è troppo ghiotta, quasi irripetibile. Siamo a soli tre mesi dalla fine della legislatura e quindi delle elezioni politiche. La campagna elettorale è già cominciata. L’allora Cdl, secondo i sondaggi, va verso una sonora sconfitta. Se il contenuto di quella conversazione diventa pubblico, al culmine della polemica sugli scandali bancari e sulla commistione tra politica e affari, Berlusconi può assestare un colpo micidiale al centrosinistra coalizzato intorno a Romano Prodi nell’Unione (e in effetti, al voto del 9-10 aprile, il centrodestra quel colpo lo assesterà, recuperando lo svantaggio e lasciando al centrosinistra una maggioranza di appena due senatori).
Il 31 dicembre 2005, una settimana dopo l’incontro carbonaro di Arcore, il testo completo dell’intercettazione Fassino-Consorte viene pubblicato a nove colonne dal “Giornale”, il quotidiano della famiglia Berlusconi. Paolo, che ne è formalmente il proprietario, ha girato alla redazione la “pen-drive” in cui è registrato l’audio segreto. Per questo, il 7 marzo scorso il tribunale di Milano condanna lui a due anni e tre mesi, e Silvio a un anno, per il reato di concorso in rivelazione di segreto d’ufficio. Il Cavaliere intona il consueto ritornello: «È in atto una persecuzione intollerabile contro di me, che dura ormai da 20 anni». I suoi avvocati Longo e Ghedini sparano le solite munizioni ideologiche: «È una sentenza politica, che dimostra l’impossibilità di celebrare processi a Milano: Berlusconi quell’intercettazione non l’ha mai ascoltata».
Le testimonianze acquisite nel corso del processo, e ora il testo redatto dai giudici milanesi, spiegano il perché della condanna e smontano il castello difensivo dell’ex premier. Nelle motivazioni della sentenza si legge che la sera del 24 dicembre la registrazione audio della telefonata Fassino-Consorte «venne ascoltata attraverso il computer, senza alcun addormentamento da parte di Silvio Berlusconi, o inceppamento del pc». In un interrogatorio reso alla Procura ai primi di marzo 2009 da Favata è lui stesso a raccontare che «di fronte a un albero di Natale bianco» il manager della Rcs Raffaelli consegna il nastro nelle mani dell’allora presidente del Consiglio.
Una versione che Favata ribadisce anche due anni più tardi, quando al programma “Piazza Pulita” rilascia un’intervista in cui afferma: «Berlusconi ci ricevette ad Arcore la sera del 24 dicembre 2005, ascoltò l’intercettazione e poi ci promise eterna riconoscenza… All’epoca il segretario dei Ds è stato allontanato. Abbiamo tolto a Berlusconi il maggior competitor… si rende conto cosa vuol dire?». E alla domanda «quindi lei sta dicendo che Berlusconi quella sera era cosciente e soprattutto consapevole di quello che gli stavate portando in casa?», Favata risponde: «Assolutamente, assolutamente sì… «.
Con tutta evidenza Berlusconi premier sa, vuole e decide «nella sua qualità di pubblico ufficiale ». Sa «della strenua richiesta di Raffaelli di incontrarlo per potergli presentare personalmente il suo progetto» per alcuni affari in Romania e ottenerne «l’appoggio, atteso che, secondo quanto lui stesso ha affermato, non avrebbe ceduto la chiavetta se non in quella occasione». Sa bene «il motivo per cui si svolgeva quella visita, in parte destinata a fargli sentire la famosa telefonata, nella chiara prospettiva della sua pubblicazione». Sa ancora meglio «il peculiare interesse in quel periodo pre-elettorale » che quel nastro riveste, «tenuto conto della già sottolineata portata politica di quella conversazione ». Vuole quindi che sia data in pasto all’opinione pubblica alla vigilia del voto, perché «l’espressione “abbiamo una banca” pronunciata dall’allora segretario ds Fassino, è significativa della capacità della sinistra di “fare affari” e mettersi a tavolino con i poteri forti, in aperto contrasto con la tradizione storica, se non di quel partito, quanto meno dell’orientamento del suo elettorato». E infine decide, proprio lui, nella sua «qualità di capo della parte politica avversa a quella di Fassino», di far uscire quell’intercettazione sul quotidiano di sua proprietà, dando «il suo benestare alla pubblicazione della famosa telefonata».
Sta in «questo ruolo precipuo del premier» — che usa il suo braccio mediatico per colpire un avversario politico e abusa del suo ruolo istituzionale per violare un segreto istruttorio — la ragione della sua condanna e la patologia insostenibile del suo conflitto di interessi. Sta nella «gratitudine eterna» che il Cavaliere giura a Favata e Raffaelli quel 24 dicembre, in cambio del «regalo di Natale» che gli hanno consegnato, l’estorsione sistematica alla quale il leader della destra italiana sottopone le istituzioni democratiche e le opposizioni politiche. Ancora una volta, c’è un inquietante «metodo di governo», nel modus operandi del potere berlusconiano. E lo si può cogliere anche nelle carte di questa vicenda processuale, riandando all’intervista di Favata a “Piazza Pulita” nel 2011: «In quella chiavetta che consegnammo ai fratelli Berlusconi — ricorda l’imprenditore — c’erano tante altre intercettazioni, che coinvolgevano diversi politici. Mi ricordo che Paolo Berlusconi chiese se riuscivamo a trovargli un nastro in cui D’Alema diceva al suo interlocutore di non parlare per telefono».
Qui agiscono, in sincronia e sintonia, la macchina del fango e quella del ricatto. Nell’uso e nell’abuso di un apparato oscuro e spionistico, che incrocia servizi e Guardia di Finanza, intelligence militare e civile, e che abbiamo visto all’opera in tutte le vicende più oscure del quasi Ventennio, dall’affare Telekom Serbia alla security Telecom Italia, dalla P4 al caso Marrazzo. Intercettazioni, video, dossier acquisiti in vario modo, spesso anche illecito, e spesi sul mercato politico per screditare o distruggere gli avversari reali o potenziali.
Le inchieste giudiziarie avranno il loro corso, nei processi Unipol- Bnl, Ruby e diritti tv Mediaset. La Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione prenderanno le loro decisioni, che fatalmente determineranno la vita o la morte delle Larghe Intese. Ma intanto questo è accaduto, nel-l’Italia torbida di questi anni. Conviene ricordarlo una volta di più, mentre anime perse del centrodestra e anime candide del centrosinistra pretendono di ragionare di presidenzialismo con lo Statista di Arcore.

La Repubblica 05.06.13

Baruffi e Ghizzoni “Pagare gli straordinari ai vigili del fuoco”

I deputati Pd hanno firmato una interrogazione sulle ragioni del mancato pagamento. La questione del mancato pagamento degli straordinari ai vigili del fuoco per le ore lavorate al servizio delle zone colpite dal sisma è approdata sul tavolo dei ministri Saccomanni e Alfano grazie a una interrogazione firmata dai deputati modenesi del Pd Davide Baruffi e Manuela Ghizzoni assieme ad altri colleghi della Camera. Nell’interrogazione si chiarisce come i ritardi non possano essere imputati né alla Regione Emilia-Romagna né al Dipartimento nazionale di Protezione civile.

La Regione Emilia-Romagna già in aprile aveva adottato l’ordinanza e le misure necessarie per velocizzare i tempi di liquidazione, l’Agenzia regionale di Protezione civile ha già versato la somma relativa alla prima tranche al Ministero dell’Economia e delle Finanze, ma i vigili del fuoco non sono ancora stati pagati per le ore di straordinario che, dalle scosse del maggio scorso, hanno prestato per l’emergenza prima e poi per l’avvio della ricostruzione post-terremoto. A portare il tema sul tavolo dei ministri dell’Economia Saccomanni e dell’Interno Alfano sono i deputati modenesi del Pd Davide Baruffi e Manuela Ghizzoni che, insieme ad altri colleghi della Camera, hanno firmato una interrogazione incentrata sul mancato pagamento degli straordinari ai vigili del fuoco ad un anno dal sisma. Il tema è di strettissima attualità perché, come si ricorda nel testo dell’interrogazione, il commissario straordinario Errani sta per firmare una nuova ordinanza per l’impiego dei vigili del fuoco fino al 31 agosto per “portare a compimento il lavoro avviato in questi primi 12 mesi del sisma”. Nonostante questo neppure la prima tranche dei pagamenti, con i soldi peraltro già sbloccati, sono arrivati materialmente nelle buste paga di chi si è impegnato fin da subito in compiti di basilare importanza per le zone del cratere. Secondo il calcoli effettuati, infatti, oltre al lavoro di prima emergenza, i vigili del fuoco, nell’arco di 12 mesi, hanno effettuato 65mila verifiche ispettive sulla stabilità degli edifici e 55.200 tra interventi di soccorso, demolizione o messa in sicurezza degli edifici pericolanti. Se i ritardi, come detto, non sono imputabili né alla Regione né al Dipartimento nazionale di Protezione civile, Barruffi, Ghizzoni e i parlamentari firmatari dell’interrogazione chiedono di sapere “quali sono le ragioni per le quali il Ministero dell’Economia e delle Finanze non ha provveduto al pagamento di quanto dovuto, quale tempistica sia prevista per lo sblocco dei pagamenti in questione e quali iniziative i ministri competenti intendano adottare al fine di evitare ulteriori ritardi nell’erogazione”. Inoltre, per evitare il ripetersi di episodi analoghi che peraltro sono molto simili a quanto già accaduto in occasione delle campagne estive per il contrasto degli incendi boschivi, gli interroganti si domandano se non sia il caso che “il Ministero dell’Economia provveda direttamente al pagamento degli straordinari nella busta paga del mese successivo a quello nel quale le ore di lavoro sono state svolte, regolando poi le partite finanziare con gli altri enti pubblici in maniera indipendente”.

"Il vero tema è una nuova Italia", di Alfredo Reichlin

Tutti invoca le riforme. Molto bene. Ma chi abbia una certa consapevolezza del disastro di dimensioni storiche che incombe sull’Italia non può non porsi qualche domanda. Ascolto proposte vaghe su nuovi modelli di Stato e mi chiedo se una certa classe dirigente che poi, in definitiva, è tra i maggiori responsabili di questo disastro, abbia capito con che cosa deve fare i conti. Detto in poche parole, si tratta del problema che ha posto il Governatore della Banca d’Italia. Cioè del fatto che l’Italia decade perché (cito) «non siamo stati capaci di rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici degli ultimi 25 anni».

Non è poco. Lo penso e lo scrivo da tempo. Perciò mi si scuserà se, pur non rifiutando la discussione su nuovi modelli costituzionali, non riesco a convincermi che la ragione di questo autentico disastro sta nelle lungaggini del sistema parlamentare. Io penso invece che è l’intera struttura non solo statuale ma sociale dell’Italia che non ha retto e non regge. E la colpa di ciò sta nel fatto che la sfida della europeizzazione richiedeva un grande disegno di riforma che il ceto politico non è riuscito nemmeno a concepire. Sapevamo tutto sulla differenza tra sistema francese e sistema tedesco ma sapevamo poco sulla società italiana.

Noi come andiamo al Congresso? Al solito, solo con una lotta tra chi comanda e l’ennesima disputa sulle regole? Stiamo attenti. Gli italiani stanno ponendo anche al Pd una domanda grossa che riguarda la nostra stessa esistenza. Il Pd a che serve? E prima ancora: a che serve la politica? Io penso che è stato giusto sostenere un governo di eccezione ma non è dissolto il rischio che l’ondata di discredito della politica travolga l’intero sistema politico e che quindi non Berlusconi ma grandi masse pensino che è giunto il tempo di liquidare la democrazia dei partiti. Starei perciò molto attento a ridurre il nostro dibattito nei confini della «governabilità». Discutiamo pure di regole ma io penso che il problema vero a cui la sinistra non può più sfuggire, è il problema della «rappresentanza». Forse sono troppo vecchio e mi sbaglio. Ma il bisogno che sento in modo assillante è quello di ritrovare le vie della rappresentanza dei processi sociali e intellettuali più profondi. I quali esistono e sono questi che chiedono una nuova guida.

Qualcosa di analogo a ciò che fecero ai loro tempi i padri della sinistra democratica quando per uscire dalla subalternità rispetto ai poteri e alle idee allora dominanti dettero agli sfruttati non solo solidarietà ma una soggettività politica. E ciò attraverso la creazione di nuovi straordinari strumenti cognitivi e di lotta: il suffragio universale, il sindacato, il partito politico di massa. Cose grandi. Così oggi. Il bisogno che abbiamo è quello di dare una base forte, reale a un grande progetto politico in grado di far uscire l’Italia da una crisi così profonda, una crisi che non può ridursi all’economia essendo so- prattutto, ed essenzialmente, la crisi della vecchia identità storica e geopolitica della nostra nazione. Una crisi quindi, che non è separabile da una riflessione sulla necessità di mettere in campo non tanto un nuovo Quirinale che a me sembra vada benissimo ma sopratutto un forte soggetto politico che non c’è. Ricordiamoci che al fondo, la nostra è anche una crisi della sovranità: chi comanda, chi è il sovrano, cosa c’è al posto del vecchio Stato nazione. Stiamo attenti a come discutiamo su queste cose.

Le vecchie dispute sul Partito non servono. Sono le cose nuove del mondo che ci chiedono un partito grande e diverso. Io penso che abbiamo bisogno di un partito «largo», come del resto il Pd venne concepito, un partito dove convivono e si confrontano tra loro esperienze e culture diverse. Ma non un semplice contenitore di giochi politici, bensì una comunità umana che possa essere abitata anche dalle classi subalterne, cosa che non è oggi. Per soggetto politico, questo intendo: un luogo dove si elabora una visione del futuro, un progetto. E quindi dove si forma quel coagulo di forze, di intelligenze e di valori capaci di condizionare la vita sociale e morale di tutti gli italiani. Il tema del partito è inseparabile dal tema dell’Italia dal momento che l’Italia è posta di fronte alla sfida di ridefinire la sua vecchia identità nazionale. Ed è esattamente ciò che chiede un nuovo pensiero politico e una nuova soggettività (qualcosa di più che dimezzare il numero dei parlamentari: cosa ottima).

Di qui l’enorme responsabilità che pesa sul Pd, la sola forza che potrebbe adempiere a questo compito. A me sembra questo il tema del congresso. Il «nuovo» è restituire sovranità alla politica e quindi alla democrazia. È aprire una lotta contro la mostruosa degenerazione oligarchica della vita economica che sta disintegrando la coesione sociale. Dove andiamo se si logora questa fondamentale risorsa? Vedo anch’io la necessità di riformare processi costituzionali farraginosi e insostenibili (due Camere, le province, i costi della macchina politica, ecc). Ma fatemi capire quale nuovo rapporto tra governati e governanti sta dietro la scelta di una forma di Stato diverso dalla democrazia parlamentare, la quale – non dimentichiamolo – è stata quella grande conquista che ha consentito alle masse profonde italiane di prendere per la prima volta la parola. Discutiamo pure, ma ciò che deve essere chiaro è lo scopo.

Bisogna rafforzare la governabilità dando più potere all’uomo solo che comanda? Sono anni che il nostro dibattito ruota intorno a questa parola magica: governabilità, e in nome di questa parola si sono consumate divisioni feroci. Ma a qualcuno non viene il dubbio che se l’Italia è così mal governata non è solo perché i partiti non si mettono d’accordo sulle regole ma per il fatto che i partiti sono diventati sempre più elitari e
sempre meno capaci di «rappresentare» oltre che di «governare»? Forse è colpa anche di questo «riformismo senza popolo». Forse conta l’indifferenza per i fenomeni culturali e ideali. Forse è una certa subalternità verso l’economia del denaro fatto col denaro. Forse è tutto ciò che ha reso difficile la governabilità dell’Italia.

Governare è «guidare» una nazione, non è solo conquistare il consenso elettorale. È ridare ai partiti il ruolo loro che è proprio quello di creare il necessario tramite tra la società civile e le istituzioni, e così impedire che esse diventino gusci vuoti. Il tema del congresso è l’Italia. È come sia assolutamente urgente arrestare il disfacimento ormai in atto del sistema produttivo, delle funzioni statali, dei beni collettivi, a cominciare da quel patrimonio umano insostituibile che è il lavoro dei giovani. Altroché se bisogna riformare le istituzioni, a cominciare dall’abolire una pessima legge elettorale che non consenta agli italiani di scegliere i propri rappresentanti.

Va benissimo una commissione parlamentare che affronti le necessarie riforme costituzionali. Ma stiamo attenti che ciò non fornisca alibi per non affrontare la più grande delle questioni, quella davvero costituente che è la capacità dell’Italia di reggere alla sfida di natura storica che la obbliga a trasformarsi in una componente attiva ed essenziale della costruzione di una federazione politica europea. E così ritrovare, a questo livello, la sovranità politica perduta e quindi una riforma seria degli assetti democratici, federalismo compreso.

L’Unità 04.06.13

"Ricostruzione della carriera, via al riconoscimento dei gradoni", di Antimo Di Geronimo

Al via il riconoscimento dei gradoni nelle ricostruzioni di carriera. A partire dal 22 maggio scorso, infatti, il sistema informativo dell’istruzione (Sidi) è stato aggiornato con delle nuove funzioni che consentono di applicare il contratto del 13 marzo. E cioè, l’accordo che dispone il recupero dell’utilità del 2011 ai fini della progressione di carriera.

Lo ha fatto sapere il ministero dell’istruzione, con una nota emanata il 22 maggio scorso (AOODGSSSI n.1211). Il provvedimento è stato inviato alle scuole, perché le ricostruzioni di carriera rientrano tra gli adempimenti a carico delle istituzioni scolastiche (tra le tante, si veda la circolare 9 maggio 2001, n.86). Fatte salve le ricostruzioni le cui domande siano state presentate prima del 1°settembre 2000. Per tutte le altre la competenza è delle scuole. Che devono provvedere direttamente a determinare gli importi derivanti dal riconoscimento dei servizi per il ruolo. E cioè dei servizi prestati dai lavoratori interessati prima dell’accesso al ruolo di appartenenza. Riconoscimento che determina, a sua volta, la collocazione nella classe stipendiale corrispondente al numero di anni di servizio effettivamente prestati, anche se non di ruolo.

Questi ultimi, però, non vengono valutati per intero: i primi 4 valgono al 100%, gli altri valgono 2/3. Per essere considerati valutabili i servizi pre-ruolo devono essere stati prestati in possesso del titolo di studio previsto per l’accesso alla qualifica e il periodo di riferimento non deve essere stato inferiore a 180 giorni.

È prevista però un’eccezione: se il servizio è stato prestato ininterrottamente dal 1° febbraio fino al termine delle operazioni di scrutinio finale, ai sensi dell’art. 11, comma 14, della legge 3 maggio 1999, n. 124, il periodo viene comunque considerato valido, come se si trattasse di un intero anno di scuola. Il beneficio viene attribuito a domanda del lavoratore interessato.

Il diritto al riconoscimento dei servizi e, dunque, alla ricostruzione di carriera, si prescrive in 10 anni. Il diritto agli eventuali arretrati decade invece dopo 5 anni. Nell’imminenza del decorso del termine è opportuno presentare una diffida ad adempiere con costituzione in mora, che ha l’effetto di interrompere il termine della prescrizione. Che decorrerà nuovamente a far data dalla presentazione della diffida. Quanto agli effetti in busta paga, l’accordo del 13 marzo comporta il recupero del 2011. In soldoni: 1000 euro in più a testa a regime e circa 4mila sulla cosiddetta liquidazione. Che spettano a tutti, ma la cui applicazione varia da persona a persona, a seconda dell’anzianità di servizio.

I gradoni, infatti, vengono maturati al compiersi di determinati periodi di anzianità, attualmente corrispondenti alle seguenti fasce stipendiali: 9, 15, 21, 28, 35. Il numero a cui fa riferimento la fascia corrisponde al superamento di un traguardo individuato in un determinato numero di anni di servizio. Per esempio, il lavoratore che è in fascia 21 è un soggetto che ha superato i 20 anni di servizio e a tale anzianità corrisponde anche un determinato importo dello stipendio. Importo che varia e a seconda della qualifica: più alto per i docenti, più basso per gli Ata (con la sola eccezione dei direttori dei servizi generali e amministrativi, che mediamente guadagnano più dei docenti).

Resta il fatto, però, che l’art. 9, comma 23, del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78 ha disposto che: «Per il personale docente, amministrativo, tecnico ed ausiliario (Ata) della scuola, gli anni 2010, 2011 e 2012 non sono utili ai fini» dei gradoni. Il 2010 è stato recuperato con il decreto interministeriale n. 3 del 14/01/2011. Decreto con il quale il governo ha destinato parte dei risparmi dovuti ai tagli agli organici degli ultimi anni a rifinanziare i gradoni. E il 2011 è stato recuperato con l’accordo del 13 gennaio, che utilizza i rimanenti soldi dei tagli e una parte dei soldi del fondo di istituto. Dunque, il 2012 non è stato ancora recuperato.

da ItaliaOggi 04.06.13

"Basta con il blocco degli stipendi", di Antimo Di Geronimo

No al blocco della contrattazione, dei gradoni e dell’indennità di vacanza contrattuale. La scuola è stata utilizzata troppo spesso «come luogo di prelievo forzoso di risorse». E un altro blocco degli incrementi stipendiali finirebbe per aggravare ulteriormente la sofferenza di un comparto, che negli ultimi anni è stato già duramente colpito dai tagli.

Il monito viene dalla VII commissione istruzione del Senato, presieduta dal pd Andrea Marcucci, che lo ha formalizzato in un parere approvato il 29 maggio scorso.

Le osservazioni del collegio senatoriale riguardano lo schema di decreto del Presidente della Repubblica, recante il regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti. E sono state trasmesse alla commissione affari costituzionale di palazzo Madama. Che esaminerà la bozza di provvedimento oggi dalle 14.30 in poi con eventuale prosieguo domani alla stessa ora.

La commissione istruzione ha fatto presente, inoltre, che il governo dovrebbe riqualificare le spese per tutto il comparto pubblico della conoscenza, tenuto conto che, secondo le conclusioni del Consiglio europeo del 28-29 giugno 2012, esse sono da considerarsi quali investimenti in capitale umano.

Quanto allo specifico del provvedimento, se l’ipotesi di regolamento andrà in vigore così com’è, l’effetto sarà quello di un’ulteriore perdita del potere d’acquisto degli stipendi dei dipendenti pubblici. In modo particolare per la scuola. Per questo comparto, infatti, oltre al blocco della contrattazione collettiva e degli incrementi dell’indennità di vacanza contrattuale per il 2013 e il 2014, è prevista anche la cancellazione dell’utilità del 2013 ai fini della progressione economica di carriera (i cosiddetti gradoni).

E gli effetti più devastanti si avrebbero soprattutto per quest’ultima previsione. Il perché è presto detto. Il blocco della contrattazione collettiva per altri due anni avrebbe come effetto immediato la preclusione dell’adeguamento delle retribuzioni al costo della vita nel biennio. Ma tale effetto verrebbe, per così dire, «attutito» dall’applicazione dell’indennità di vacanza contrattuale. Che consente di recuperare annualmente circa la metà del tasso di inflazione programmata.

E comunque, eventuali rinnovi contrattuali, per quanto tardivi, non precluderebbero il recupero totale, di fatto, di quanto è andato perduto finora. Perlomeno in via meramente teorica. Anche il blocco del ricalcolo dell’indennità di vacanza contrattuale, in seguito, potrebbe essere comunque sanato.

Non così, invece, per la cancellazione dell’utilità del 2013, che comporterebbe un ulteriore ritardo di un anno nella maturazione della progressione stipendiale. Il tutto con danni strutturali nell’ordine di circa 1000 euro mensili, circa 4mila euro in meno sulla liquidazione ed effetti sull’importo della pensione.

Va detto, inoltre, che sebbene governo e sindacati abbiano già trovato una soluzione per la reintegrazione dell’utilità del 2010 e del 2011, la strada per il recupero del 2012 appare tutta in salita. E la cancellazione del 2013 complicherebbe ulteriormente le cose. Tanto più che saremmo di fronte ad una progressiva decontrattualizzazione dell’unica materia che non era stata rilegificata dal governo Berlusconi con la legge 15/2009 e con il decreto Brunetta.

La cancellazione dell’utilità del quadriennio 2010-2013 ai fini dei gradoni (il triennio 2010-2012 con il decreto legge 78/2010 e il 2013 con il regolamento al vaglio del senato) costituisce, infatti, una vera e propria riduzione dell’importo delle retribuzioni. Perché nel comparto scuola la progressione economica di carriera non corrisponde a mutamenti di qualifica. Quanto, invece, ad una diversa quantificazione degli importi stipendiali diretta a valorizzare l’esperienza accumulata sul campo.

Bloccare i gradoni significa, quindi, ridurre i fondi complessivamente spettanti all’intera categoria e, di conseguenza, ridurre l’importo delle retribuzioni dovute secondo il contratto attualmente in vigore. Il tutto lasciando intatti i fondi destinati all’accessorio. In altre parole, il governo, anziché ridurre i fondi da destinare alla copertura del lavoro straordinario, che per loro natura sono previsti per la copertura finanziaria di prestazioni solo eventuali, ha tagliato e sta per tagliare risorse necessarie ad onorare debiti retribuitivi derivanti dall’erogazione del lavoro ordinario. E cioè derivanti dall’adempimento della prestazione obbligatoria ordinariamente connessa alla realizzazione della funzione.

da ItaliaOggi 04.06.13