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"Precario un lavoratore su tre", di Laura Matteucci

All’Italia servono circa 1,7 milioni di nuovi posti di lavoro per riportare il tasso di occupazione ai livelli pre-crisi. L’allarme questa volta arriva dall’Ilo, l’organismo dell’Onu specializzato in tematiche del lavoro, che nel Rapporto 2013 ha sommato gli impieghi persi negli ultimi anni e l’aumento della popolazione in età attiva rispetto al periodo pre-crisi. La situazione italiana è anche più difficile di come annunciato dalla Cgil, secondo cui i posti di lavoro mancanti sono 1,5 milioni e per recuperarli saranno necessari 63 anni, cioè bisogna arrivare al 2076. A partire dal secondo trimestre del 2008, si legge nel rapporto, l’economia italiana ha perso circa 60 Omila posti di lavoro e, nello stesso periodo, la popolazione in età lavorativa è aumentata di circa 1,1 milioni. L’Italia figura tra i Paesi dove la disoccupazione continua ad aumentare (dal 6,1% nel 2007 fino all’11,2% del quarto trimestre 2012), segnando «uno degli aumenti più brutali>, dell’Unione europea tra il 2007 e il 2012, e dove sono più cresciute le disparità di reddito. Anche il rapporto dell’Ilo sottolinea la particolare difficoltà dei giovani: il tasso di disoccupazione per la fascia d’età 15-24 anni è salito di 15 punti percentuali e ha raggiunto il 35,2% nel quarto semestre 2012. In base ai dati dell’Istat, il tasso di disoccupazione tra i giovani è balzato al 41,9%. Diffusissima, peraltro, l’occupazione precaria (contratti involontari a tempo determinato o part-time): dal 2007, i precari sono aumentati di 5,7 punti percentuali, raggiungendo il 32% degli occupati nel 2012. Con un’impennata nell’ultimo anno, dovuta – dice l’Ilo – sostanzialmente alla riforma Fornero. I problemi sono soprattutto il calo della domanda interna, per via della stagnazione salariale e dunque di una maggiore povertà delle famiglie, e il debole aumento delle esportazioni, su cui si è concentrato il modello nazionale di ripresa: «L’Italia – si legge nel rapporto – ha messo in atto una serie di misure incentrate sull’offerta, con l’obiettivo di migliorare la competitività attraverso il taglio dei costi unitari di manodopera. Ma queste misure rischiano di rimanere inefficaci. Un grande numero di partner commerciali ha avviato contemporaneamente misure di austerità, compresi paesi con eccedenze di bilancio. Di conseguenza, la domanda esterna potrebbe non bastare a sostenere un modello di ripresa basato sulle esportazioni». L’organizzazione poi si dice contraria alla staffetta generazionale. «Infatti, il contatto con lavoratori più sperimentati attraverso il tutoraggio – osserva l’Ilo – può fornire consigli, istruire alle buone pratiche, aiutare a dissipare i malintesi riguardo ai giovani. È importante notare che i giovani non devono prendere il posto degli adulti”, e «il governo dovrebbe considerare altri mezzi per sostenere l’occupazione giovanile: il sistema di garanzia per mantenere i giovani dentro al mercato; incentivi all’assunzione di giovani più svantaggiati (disoccupati di lunga durata o poco qualificati), borse di formazione e sforzi per migliorare la corrispondenza delle competenze». In questo quadro cresce il rischio di tensioni sociali. Nell’Europa a 27 l’indice è salito dal 34% del 20 06-20 07 al 46% del 2011-2012. I Paesi più a rischio sono Cipro, Repubblica ceca, Grecia, Italia, Portogallo, Slovenia e Spagna, mentre il rischio è calato in Belgio, Germania, Finlandia, Slovacchia e Svezia. A livello mondiale, la disoccupazione ha raggiunto il 5,9% nel 2012, quando i senza lavoro erano 195,5 milioni, con un aumento di 0,5 punti rispetto al 2007 quando i disoccupati erano 169,7 mmilioni e si avvia a salire al 6% quest’anno, con un aumento dei disoccupati a 201,5 milioni. Entro fine 2014 la proiezione è di 205 milioni, 214 milioni entro il 2018. Per riportare l’occupazione ai livelli pre-crisi sono necessari oltre 30 milioni di posti di lavoro.

L’Unità 04.06.13

"Dai crolli allo spaccio l’oltraggio infinito alla Reggia di Caserta", di Conchita Sannino

I primi sono gli africani. «Borsa bella, guardare solo, tieni». Poi i napoletani. «Volete fare un giro completo di tutta l’area? Una macchina con l’autista senza spendere troppo?». Poi è il turno dei casertani: «La guida mia ha più foto a colori e costa di meno, prendete ». Tutti ambulanti. Tutti abusivi. Intanto c’è chi orina o chi dorme sull’erba selvatica, chi insegue un altro turista o chiede l’elemosina. E non un cestino per le carte, non una panchina o una pensilina o un bagno chimico lungo il cosiddetto “vialone”, il vasto camminamento che ti conduce dalla stazione ferroviaria verso la visione potente della settecentesca Reggia. In fondo t’aspetta il Monumento che sembra un’astronave piantata lì da tre secoli solo per sottrarti al degrado di oggi,
cartolina di perfezione architettonica e giardini dal sontuoso disegno lontani anni luce dal grigio informe in cui gli tocca galleggiare. Con le competenze parcellizzate tra mille uffici, tra dentro e fuori quei cancelli: Soprintendenza, Demanio, Agenzia del Territorio, Comune. Con pezzi dello Stato in causa contro altri Pezzi. Un caso di scuola dell’arte italiana che va in malora.
Ecco, nel grande suk che avvolge l’esterno dei loro nobilissimi appartamenti e che fa rivoltare nelle tombe i Borbone, mancava in effetti solo la droga. Fuori. È lo stesso spazio attraversato solo quarantotto ore fa dal ministro della Cultura Massimo Bray, in bici, silenzioso, nella solita tenuta da privato cittadino in incognito. Eppure, qualcuno si è messo a vendere cocaina, hashish ed eroina, proprio lì dinanzi alla Reggia, proprio ai cancelli della Flora, varco est della sontuosa residenza. Commercio lasciato dilagare placidamente fino ai 23 arresti dei carabinieri. Fino al blitz su cani sciolti della delinquenza senza grandi boss alle spalle, scenario che il procuratore Luigi Gay e il comandante Giancarlo Scafuri hanno dovuto ricostruire in un contesto in cui né negozianti, né vigili urbani, né controlli amministrativi di alcuna natura sembravano accorgersi di nulla.
«Ma lo sapete che per l’abbandono che esiste qui fuori, da tempo, è già tanto che i turisti ancora arrivano a migliaia?», scuote la testa Antonio Petrillo detto Tonino, che a 60 anni continua a essere cameriere stagionale, sei mesi soltanto. E per arrotondare lascia il ristorante turistico dei padroni e arriva fin sotto alla soglia del Palazzo per fare da “richiamo” al locale. «Sapesse quante lamentele: lo vede questo spiazzo? Ci sono bambini e anziani che aspettano alle intemperie. Non c’è un’insegna che ti dica dove entrare e dove uscire. E intanto ogni mese crolla un pezzo di cornicione della grande Mamma Reggia. Poi si sono messi quelli della droga, l’ho sentito al telegiornale…».
Doveva capitare, prima o poi, sotto il grandioso Palazzo che si sbriciola pezzo dopo pezzo, un frammento di cornicione dopo l’altro, tesoro da quasi 600mila visitatori l’anno che però diminuiscono col passare degli anni, il perdurare della crisi e soprattutto con la sciatteria delle istituzioni locali. Primo museo del Mezzogiorno (dopo gli Scavi di Pompei), una risorsa inutilmente definita Patrimonio dell’umanità Unesco, visto che il sistema culturale del Paese l’ha dimenticata gradualmente. Fino a lasciare più che decimati i fondi per l’antica gloria vanvitelliana. Quasi senza neanche i soldi per pagare le bollette dell’illuminazione. Da queste parti, dove lo Stato abdica alla valorizzazione e le luci e i controlli si spengono, arrivano gli altri: il profitto criminale. Ma i pusher rappresentano solo l’ultimo e più clamoroso oltraggio. Dopo i campioni di “tuffi proibiti” nelle supervincolate fontane. Dopo l’ingresso clandestino degli ambulanti che si fingono fruitori del verde (l’abbonamento annuale costa solo 10 euro per attraversare ogni giorno il bellissimo parco). Dopo i rischi della sicurezza per le facciate fatiscenti, pericolo che ha addirittura fatto saltare un evento internazionale, lo scorso autunno, con i ministri europei del settore aerospaziale.
«Io ho la coscienza a posto, ma siamo bersagliati da polemiche spesso pretestuose. Qui intorno c’è un degrado spaventoso. Basta uscire al casello Caserta nord e attraversare un territorio senza controlli, senza ordine, senza lotta agli abusi. Per non dire della situazione del piazzale antistante la Reggia, che il Comune dovrebbe curare», allarga le braccia la soprintendente
Paola Raffaella David, che ha il merito di avere riaperto, in 4 anni, alcune sale e restituito alla fruizione almeno 200 dipinti che erano abbandonati. «Funzioniamo, e siamo amati nel mondo, nonostante tutto», dice lei. Che, anche nelle ultime settimane, è finita nel mirino del sindaco Pdl, Pio Del Gaudio, per la situazione di «crescente disaffezione dei turisti nei confronti della Reggia». Singolare che a dirlo sia un sindaco che non ha mai fatto strappare via le erbe selvatiche né inviato un agente della municipale intorno a quelle mura. Ma lui si difende con forza: «Intanto la soprintendente sbaglia o dice bugie quando afferma che il piazzale cade sotto la nostra competenza. Nessuno immagina quanto sia complesso il grappolo di proprietà e competenze che riguardano l’area. Il piazzale su cui affaccia la Reggia non sarebbe nostro». Cosa significa “non sarebbe”? Sorride: «Al di sotto c’è il demanio che chiede 40 milioni al Comune perché vi hanno costruito i parcheggi senza avere le autorizzazioni. E sopra, non ci siamo solo noi. Poi ho un Comune in dissesto: solo 90 vigili urbani che diventano 20 se togliamo gli invalidi e quelli negli uffici. Sono un povero sciagurato, come tanti sindaci ». Come la Reggia, primo monumento per abbandono, del Sud.

La Repubblica 04.06.13

"L'anima venduta al profitto. Lezione da ricordare", di Oreste Pivetta

Quanti morti, quanti ne conteremo ancora. Una strage senza limiti di tempo. L’Italia è piena d’amianto, di eternit, impasto di cemento e amianto, solido, economico, inventato un secolo fa. Lo si vendeva come indistruttibile. Eterno appunto, con la conseguenza che ce lo ritroviamo tra di noi chissà per quanto. Ecco una impresa utile per una economia un po’ meno di mercato e un po’ più sociale: smaltire l’amianto, toglierlo di mezzo da tetti, capannoni, case, camini. Per ora ci sono le sentenze. Quella d’appello inasprisce quella di primo grado: 18 anni, due anni in più, di reclusione per Stephan Schmidheiny, imprenditore svizzero (è morto un mese fa l’altro imputato, Louis De Cartier De Marchienne, belga) e conferma le responsabilità di chi tonnellate d’amianto ha prodotto in Italia e venduto. A conclusione del primo processo si parlò di verdetto esemplare, che apriva una stagione nuova. Ora ci si può ripetere. «Un inno alla vita», dice il pubblico ministero torinese, Raffaele Guariniello, con un filo di enfasi. Di sicuro tanti morti sul lavoro e tanti morti in conseguenza di quel lavoro hanno un colpevole e non si potrà più dire «il caso”, «sfortuna”, «ignoranza,’ (la tesi difensiva) e quindi impossibilità di prevedere che cosa avrebbero potuto provocare quelle polveri dentro le quali gli operai erano costretti a faticare, a respirare, persino a riposare, polveri che giungevano dentro casa. A Casale Monferrato, a Cavagnolo, a Bagnoli, a Rubiera. La sentenza afferma che l’Eternit continuò a spargere veleni fino a metà degli anni ottanta, che il guasto provocato era noto, che si fece di tutto per tenerne all’oscuro chi dentro quella fabbrica e in quei paesi viveva. La condanna è per disastro doloso permanente e omissione dolosa di misure antinfortunistiche. Una volta tanto il linguaggio dei giudici è chiaro. Come stabilì il primo processo, due anni fa: chi comandava sapeva che l’amianto costituiva un pericolo mortale, provocava il cancro ai polmoni, generava l’asbestosi, ma decise di non fermare la macchina. Per non perdere soldi, chi comandava all’Eternit aveva «omesso di adottare i provvedimenti tecnici, organizzativi, procedurali, igienici necessari per contenere l’esposizione all’amianto… di curare la fornitura e l’effettivo impiego di apparecchi di protezione, di sottoporre i lavoratori ad adeguato controllo sanitario, di informarsi e informare i lavoratori circa i rischi specifici derivanti dall’amianto e le misure per ovviare a tali rischi». Con la condanna arrivano anche i risarcimenti milionari. Niente può risarcire 1700 morti, più quelli che verranno, più quelli di un passato lontano (l’Eternit, a Casale, si sviluppa dal 1907). Almeno non si è ripetuto però quanto è accaduto per altri morti e con altre sentenze: quelli del Vajont, ad esempio, o quelli del Petrolchimico di Marghera. Tante assoluzioni e nessuna giustizia per quanti finirono travolti dal fango o intossicati dalle polveri del cloruro di vinile monomero. La difesa degli imputati fu sempre la stessa: non sapevamo. Più probabile che fosse vero il contrario, come avrebbero dimostrato atti processuali e tante ricostruzioni. In questo caso, una pratica antica, una pratica assolutoria in tacito accordo dei poteri, s’è cancellata. Non sarà definitivamente, ma è un esempio. Come lo è stato quello per i metalmeccanici finiti nel rogo della Thyssen: omicidio volontario con dolo eventuale, perché nulla era avvenuto per caso, si sapeva, si poteva prevedere, per interesse si negarono quelle misure di sicurezza che avrebbero potuto evitare la strage (lo stesso pm, Raffaele Guariniello). Qualche mese fa una nave container urtò un molo del porto di Genova, abbattendo una torre di controllo. Altre vittime. Coincidenza: il giorno dopo, alla luce del sole, altri morti, otto morti sul lavoro in giro per l’Italia, italiani e stranieri: un operaio sulla scala folgorato mentre controllava le linee dell’alta tensione, un elettricista che precipita da una impalcatura, un agricoltore travolto dal trattore, un manutentore schiacciato da una pressa. Eccetera eccetera… Quanti sono C’è un numero che ricorreva un tempo nelle statistiche: mille morti sul lavoro ogni anno. I conteggi non sono sempre corretti. I numeri di quest’anno li ricordano i sindacati: centosettantatre, il 32 per cento in edilizia, il 31 in agricoltura. Così in Italia. Per lo più sono «caduti>, senza un volto, senza una storia. Dimenticati in solitudine, come sono stati dimenticati i seicento e forse più operai sottopagati, schiavizzati, schiacciati dalla loro fabbrica che crolla in India. Sono lontani. Una sentenza di tribunale può restituire la vita? No, di certo. Però può indurre qualcuno ad avvertire e temere il peso di una responsabilità, può stimolare la politica a scrivere le leggi giuste (che probabilmente già esistono), può muovere l’opinione pubblica. Potrebbe anche aiutarci a riflettere se sia il nostro tra profitto, mercato e gaio consumismo il modo giusto per crescere.

L’Unità 04.06.12

"Un esempio per l'Ilva", di Luciano Gallino

La sentenza di Torino sulla Eternit pone un punto fermo, con una condanna di severità senza precedenti, a una terribile storia durata centoquindici anni. La elevata nocività dell’amianto fu infatti scoperta da un’ispettrice del lavoro inglese nel 1898. Sulle prime aveva qualche dubbio, ma un medico del lavoro da lei interpellato, che studiò al microscopio le particelle di amianto sospese nell’aria degli ambienti in cui veniva lavorato, concluse che per la loro forma tagliente e frastagliata esse potevano risultare estremamente dannose per chi le ispirava. Nei primi anni del Novecento medici francesi misero in relazione la morte di decine di operaie tessili con la polvere di amianto diffusa nei loro reparti.
Negli anni Venti e Trenta le morti imputate dai medici alla lavorazione dell’amianto diventano migliaia. Negli anni 60 si scopre che muoiono anche i parenti di coloro che lavorano a prodotti amiantiferi, nonché gli abitanti di quartieri situati nella vicinanza degli impianti che li fabbricavano. Verso la fine degli anni 90 uno studio della Agenzia Europea per l’Ambiente (Eea) stima che da quel tempo al 2035 i casi di tumori al polmone e mesotelioma si aggireranno sui 3-400 mila, quasi tutti mortali. In totale, si stima che soltanto in Europa le morti riconducibili all’amianto siano state, in oltre un secolo, alcuni milioni, e secondo le stime dell’Eea non sono affatto finite. L’uso dell’amianto nelle lavorazioni industriali è stato vietato dall’Unione Europea nel 1999. Appena centouno anni dopo che un’ispettrice del lavoro a due sterline la settimana aveva lanciato l’allarme.
Com’è possibile che una simile tragedia non sia stata fermata prima, i responsabili individuati e condannati, le fabbriche e i siti inquinati sottoposti decine di anni addietro a un’opera radicale di disinquinamento? Un fattore è stato il tempo. Diversamente da altre sostanze nocive – tipo, per dire, la diossina – l’amianto non uccide quasi subito. Ci si ammala, e si muore, perfino decine di anni dopo essere stati esposti alle sue polveri. Tale circostanza è stata sfruttata dalle direzioni delle corporation
attive nel settore dell’amianto, da falangi di legali da esse impiegati, come pure da centinaia di medici di parere opposto a quello dei loro colleghi, per sostenere nel corso di quasi un secolo che tra l’esposizione all’amianto e la patologia che colpiva chi lo aveva maneggiato o toccato o ispirato non era possibile stabilire con sicurezza una relazione causale. I tribunali americani ed europei hanno molto spesso dato loro ragione. Quello di Torino no.
La sentenza torinese ha spezzato tale muro di negazionismo quanto a tutela della salute sui luoghi di lavoro. È un salto nella incisività
dell’azione giudiziaria la cui portata va perfino al di là del problema amianto. Essa impone ai dirigenti delle imprese, ma anche ai loro principali proprietari, di prendere molto più sul serio di quanto non abbia fatto finora la maggioranza di loro il cosiddetto principio di precauzione. Esso dice che quando le conseguenze di un dato modo di operare possono essere estremamente gravi, la sola possibilità che esse intervengano debbono indurre a studiare d’urgenza quel modo stesso di operare, e a fronte di prove anche non certe sospenderlo. Se la Eternit avesse adottato tale principio, per non parlare delle tante imprese del medesimo settore, vi sarebbero state migliaia di morti in meno. È probabile che molte persone, nei prossimi anni, debbano essere grate, senza magari saperlo, al tribunale di Torino e ai suoi pm, per il fatto che le imprese avranno d’ora innanzi un solido motivo per guardarsi bene dall’ignorare il principio di precauzione. E questo vale per tutti. A partire dall’Ilva di Taranto.

La Repubblica 04.06.13

Mozione Pd concernente iniziative volte al contrasto di ogni forma di violenza nei confronti delle donne

La Camera, premesso che:
la comunità internazionale già si è mossa da tempo in relazione al tema della violenza sulle donne con la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna del 1979, la dichiarazione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro le donne del 1993, la risoluzione del 20 dicembre 1993 sull’eliminazione della violenza nei confronti delle donne, la risoluzione del 19 febbraio 2004 sull’eliminazione della violenza domestica nei confronti delle donne, la risoluzione del 20 dicembre 2004 sulle misure da adottare per eliminare i delitti d’onore commessi contro le donne e la risoluzione del 2 febbraio 1998 sulle misure in materia di prevenzione dei reati e di giustizia penale per eliminare la violenza contro le donne;
    fra le iniziative più importanti, si segnalano anche la piattaforma per l’azione approvata dalla IV conferenza mondiale sulla donna dell’ONU a Pechino nel 1995, la conferenza mondiale di Stoccolma contro lo sfruttamento sessuale dei minori del 1996, la risoluzione dell’Assemblea mondiale della sanità «Prevenzione della violenza: una priorità della sanità pubblica» del 1996, nella quale l’Organizzazione mondiale della sanità riconosce la violenza come problema cruciale per la salute delle donne, la risoluzione (n. 52 del 1986) dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite sulla «Prevenzione dei reati e misure di giustizia penale per eliminare la violenza contro le donne», solo per citare le iniziative più importanti;
    il Parlamento europeo si è ripetutamente espresso sul tema con la risoluzione del 2 febbraio 2006 sulla situazione nella lotta alla violenza contro le donne ed eventuali azioni future; la risoluzione del 17 gennaio 2006 sulle strategie di prevenzione della tratta di donne e bambini, vulnerabili allo sfruttamento sessuale; la risoluzione del 24 ottobre 2006 sull’immigrazione femminile: ruolo e condizione delle donne immigrate nell’Unione europea;
    la Commissione europea con la Carta delle donne 2010 ha introdotto, nella strategia di attuazione della parità di genere, anche la lotta e il contrasto alla violenza contro le donne;
    il Consiglio dell’Unione europea nel 2004 ha adottato una direttiva (n. 2004/80/CE) relativa all’indennizzo delle vittime di reato che, al paragrafo 2 dell’articolo 12, stabilisce che: «Tutti gli Stati membri provvedono a che le loro normative nazionali prevedano l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed adeguato delle vittime»; nel patto europeo per la parità di genere 2010-2015, inoltre, ha evidenziato la stretta connessione tra la strategia Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva e la Carta delle donne 2010 della Commissione europea, ribadendo la centralità della lotta alla violenza di genere per un «rafforzamento democratico ed economico dell’Unione»;
    l’Italia ha ratificato fin dal 1985 la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1979, impegnandosi ad adottare «misure adeguate per garantire pari opportunità a donne e uomini in ambito sia pubblico che privato». Le ultime raccomandazioni del Comitato per l’eliminazione della discriminazione contro le donne al nostro Paese sono state fatte in occasione della quarantanovesima sessione di valutazione, tenutasi nel luglio 2011 presso le Nazioni Unite a New York, e sono state pubblicate il 3 agosto 2011;
    il rapporto ombra elaborato dalla piattaforma «Lavori in corsa: 30 anni CEDAW», presentato il 17 gennaio 2012 alla Camera dei deputati, insieme alle raccomandazioni del Comitato per l’eliminazione della discriminazione contro le donne, riferisce che la violenza maschile sulle donne è la prima causa di morte per le donne tra i 16 anni e i 44 anni in tutta Europa e nel mondo e, in Italia, più che altrove. Nel nostro continente ogni giorno 7 donne vengono uccise dai propri partner o ex partner;
    il primo rapporto dell’ONU tematico sul femminicidio, presentato il 25 giugno 2012, frutto del lavoro realizzato in Italia dalla special rapporteur Rashida Manjoo, afferma che «Il continuum della violenza nella casa si riflette nel crescente numero di vittime di femminicidio in Italia». Il rapporto sottolinea che, nel nostro Paese, gli stereotipi di genere sono profondamente radicati e predeterminano i ruoli di uomini e donne nella società. Analizzando i dati relativi alla presenza nei media, il 46 per cento delle donne appare associato a temi quali il sesso, la moda e la bellezza e solo il 2 per cento a questioni di impegno sociale e professionale;
    il legislatore italiano si è attivato dando nuovo impulso alla riforma della normativa in questo settore, approvando, ad esempio, la legge 15 febbraio 1996, n. 66 «Norme contro la violenza sessuale», la legge 3 agosto 1998, n. 269 «Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù»; la legge 5 aprile 2001, n. 154 «Misure contro la violenza nelle relazioni familiari»; il decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, la cosiddetta «legge anti-stalking»;
    il 27 settembre 2012, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali pro tempore, con delega alle pari opportunità, ha firmato la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011 (Convenzione d’Istanbul);
    secondo gli ultimi dati forniti dal Ministero dell’interno, nel 2011 in Italia ci sono stati 160 omicidi le cui vittime erano donne, di questi 84 compiuti per mano di partner o ex partner. Secondo una stima, sono state 124 le donne uccise nel 2012 e 35 le vittime nei primi mesi del 2013. Per quanto riguarda i dati sulla violenza sulle donne, forniti dalle forze dell’ordine al Ministero dell’interno, essi sono parziali, trattandosi di dati basati sulle denunce. Secondo fonte Istat il 93 per cento di questi fenomeni restano nel sommerso;
    quanto sinora esposto porta a considerare la violenza di genere come un fenomeno di carattere universale, un atto discriminatorio che nega alle donne – o riduce – il semplice godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali; per violenza si devono, pertanto, intendere tutte quelle azioni verbali, fisiche, sessuali, psicologiche, economiche o morali che intendono colpire le donne e ricondurle ad una posizione di inferiorità e dipendenza;
    la violenza contro le donne riguarda tutti i ceti sociali e colpisce donne di tutte le età, etnie, religioni e, in alcuni, casi può assumere il drammatico aspetto di violenza contro bambine;
    alla base della violenza di genere vi è la concezione di impari rapporti di potere fra uomini e donne che minano le basi democratiche della società stessa; per questo un’efficace lotta alla violenza contro le donne non può prescindere dal coinvolgimento degli uomini e da un forte contrasto delle diseguaglianze economiche e sociali tra i generi e una vera e propria rivoluzione culturale sull’eguaglianza;
    nonostante la produzione normativa internazionale, europea e nazionale atta a contrastare la violenza di genere, i fatti di cronaca dimostrano l’incapacità di incidere efficacemente nella regressione del fenomeno,

impegna il Governo:

   nell’ambito delle sue competenze, ad adottare, sostenere ed accelerare ogni iniziativa normativa volta ad adeguare l’ordinamento interno alle prescrizioni contenute nella Convenzione d’Istanbul, nel rispetto dello spirito della stessa, che si fonda sulle linee guida necessarie ad un’efficace lotta alla violenza di genere: prevenzione, protezione, repressione, monitoraggio e integrazione delle singole politiche;
   a provvedere alla formazione specializzata di tutti quegli operatori sociali, sanitari o giudiziari che vengono a contatto e prestano assistenza alle vittime;
   ad assumere iniziative per rendere omogeneo lo sviluppo di servizi idonei all’assistenza alle vittime di violenza sessuale e domestica presso i pronto soccorso ospedalieri come ambito privilegiato per l’apertura di sportelli dedicati in cui sia presente personale specializzato, dedicato alla presa in carico delle vittime di violenza, in stretto collegamento con la rete territoriale e che costituiscano il punto di riferimento nell’emergenza;
   a prevedere l’obbligo per questure e commissariati della presenza, nei propri uffici, di una quota di personale, titolare di una formazione specifica in materia di delitti contro la personalità individuale e la libertà sessuale, competente a ricevere le denunce o querele da parte di donne vittime di tali reati;
   ad individuare programmi di assistenza specifica dei minori che siano stati vittime, anche se indirettamente, di fenomeni di violenza domestica;
   a promuovere l’adozione di un codice di deontologia recante principi e prescrizioni volti a tutelare, nell’esercizio dell’attività giornalistica, nell’ambito della comunicazione pubblicitaria, nella costruzione dei palinsesti televisivi e radiofonici, il rispetto della dignità delle donne e della soggettività femminile, nonché a prevenire ogni forma di discriminazione di genere e di femminicidio;
   ad individuare tutte le risorse economiche finanziarie atte a ripristinare il fondo contro la violenza alle donne, istituito dall’articolo 2, comma 463, della legge n. 244 del 2007 (legge finanziaria per il 2008), finalizzato alla prevenzione, all’informazione e alla sensibilizzazione nei confronti del fenomeno della violenza contro le donne, nonché al sostegno finanziario dei centri antiviolenza e delle case-rifugio;
   a rendere piena e concreta l’attuazione della direttiva 2004/80/CE e, in particolare, dell’articolo 12, paragrafo 2, predisponendo iniziative per l’istituzione di un fondo per l’indennizzo delle vittime dei reati a sfondo sessuale;
   ad istituire in tempi rapidi un osservatorio permanente sulla violenza contro le donne, nel quale convergano flussi stabili di dati sulla violenza, provenienti dai vari Ministeri coinvolti, dall’Istat, dai centri antiviolenza e da soggetti pubblici e privati;
   a predisporre, insieme alle regioni e agli altri enti locali, un piano nazionale contro la violenza di genere sulle donne, di concerto con la Conferenza unificata;
   ad istituire un tavolo interministeriale al fine di affrontare il femminicidio da tutti i punti di vista, approntando anche progetti integrati che garantiscano una maggiore incisività nella prevenzione e nel contrasto al problema della violenza di genere;
   ad approntare una campagna di sensibilizzazione che spinga sempre più donne vittime di violenza a denunciarne gli episodi e a promuovere nell’inserimento nei programmi scolastici l’educazione alla relazione al fine di sensibilizzare gli studenti e prevenire la discriminazione di genere e la violenza;
   ad assumere iniziative normative per estendere la sfera di applicazione del permesso di soggiorno, di cui all’articolo 18 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998, anche alle donne vittime di violenza;
   ad attuare il programma contro la tratta e lo sfruttamento degli esseri umani e per la tutela delle vittime;
   a presentare alle Camere con cadenza annuale una relazione sullo stato d’attuazione della normativa in materia di violenza di genere, femminicidio, stalking, e delle iniziative poste in essere da tutti i soggetti coinvolti.
(1-00039)
(Nuova formulazione) «Speranza, De Micheli, Giacomelli, Grassi, Martella, Velo, Bellanova, De Maria, Fregolent, Garavini, Pollastrini, Rosato, Mauri, Roberta Agostini, Amoddio, Antezza, Arlotti, Bazoli, Biffoni, Biondelli, Bonaccorsi, Bonafè, Braga, Paola Bragantini, Brandolin, Campana, Carnevali, Cimbro, Cuperlo, Ermini, Ferranti, Gasparini, Giuliani, Greco, Gribaudo, Gullo, Ghizzoni, Lenzi, Leonori, Madia, Malpezzi, Manfredi, Magorno, Marroni, Marzano, Mazzoli, Miotto, Mogherini, Mongiello, Montroni, Moretti, Mosca, Murer, Nardella, Orfini, Paris, Pes, Petitti, Giorgio Piccolo, Piccoli Nardelli, Picierno, Giuditta Pini, Quartapelle Procopio, Raciti, Rossomando, Sbrollini, Scalfarotto, Scuvera, Sereni, Tartaglione, Tidei, Valeria Valente, Vazio, Verini, Villecco Calipari, Zappulla».

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Intervento di
MICHELA MARZANO. Signora Presidente, onorevoli colleghe, onorevoli colleghi, oggi vorrei cominciare con una citazione da Italo Calvino: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare, e dargli spazio».
  Nell’inferno delle violenze contro le donne che abitiamo tutti giorni, non possiamo limitarci ad accettarlo diventandone parte fino al punto di non vederlo più. Dobbiamo combatterlo e dobbiamo farlo da un punto di vista non solo personale, ma anche istituzionale. Dobbiamo combatterlo e dobbiamo farlo non solo proteggendo le vittime e punendo i colpevoli ma anche e soprattutto attraverso la cultura e la forza della ragion critica. Quel pensiero critico che, come ci hanno insegnato tra gli altri Theodor Adorno e Hannah Arendt, permette di fare a pezzi i pregiudizi, gli errori, i compromessi, le scuse, l’oscurantismo, i ritardi, le ingiurie, la banalità, in una parola, le radici della violenza. Solo il pensiero critico permette di riconoscere chi e che cosa in mezzo all’inferno – per riprendere Calvino – non è inferno. La violenza non la si può eliminare del tutto, l’ho già detto la settimana scorsa, qui in Aula. Però, la si può contenere e prevenire e per farlo abbiamo uno strumento importantissimo: l’educazione. Educazione, educazione e ancora educazione: dobbiamo far capire a tutti e tutte, fin da piccoli, che il proprio valore è intrinseco e non strumentale, che ogni persona, a differenza delle cose che hanno un prezzo, non ha mai un prezzo, ma una dignità e che la dignità non dipende da quello che gli altri pensano di noi, da quello che gli altri ci dicono, da quello che gli altri ci fanno. Questo è lo spirito critico che dobbiamo far crescere nelle future generazioni. Fino a quando una donna crescerà convinta che il proprio valore dipende dallo sguardo che gli uomini portano su di lei e dai giudizi che piovono sul proprio comportamento, ebbene la donna non saprà che la dipendenza che la lega ad un uomo è la stessa dipendenza che ci lega tutti ai nostri simili e che dipendere non vuol dire assoggettarsi e che l’assoggettamento rende schiavi, e concludo.
Étienne de la Boétie, l’amico di Montaigne, ci ha spiegato i meccanismi della servitù volontaria: ogni essere umano aspira alla libertà, ma che non ha mai conosciuto la libertà come fa a capire che la propria condizione di schiavitù non è frutto della necessità o della natura, ma solo quello della dominazione violenta e ingiustificata altrui ? Non si può combattere la violenza se non si educano le ragazze alla consapevolezza del proprio valore e della propria libertà, esattamente come non si può combattere la violenza se non si educano i ragazzi alla consapevolezza del valore delle libertà altrui.
Educare, educare, ancora educare, modificando i manuali scolastici e formando gli educatori: tutto parte da lì, nonostante il disprezzo attuale per la cultura, ingolfati come siamo in un mondo del fare, che, senza pensiero, è solo un agitarsi cieco e sordo a ciò che ci rende umani (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

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Intervento di SIMONA FLAVIA MALPEZZI.
Signora Presidente, onorevoli colleghe, onorevoli colleghi, mentre noi qui, una settimana fa, votavamo la ratifica della Convenzione di Istanbul e ricordavamo anche la drammatica vicenda di Fabiana, l’ennesima vittima di femminicidio, giovanissima, adolescente, vittima di un altro adolescente, altri adolescenti venivano invece premiati dalla provincia di Milano per il concorso di cortometraggio »Rompere il silenzio. Stop alla violenza di genere«, che ha visto protagonisti i centri di aggregazione giovanili e scuole superiori proprio della provincia.
  Al di là dell’orgoglio personale, perché i primi posti sono stati occupati dalle espressioni educative del territorio da cui provengo, l’Adda Martesana (al primo posto il Centro di aggregazione giovanile »Labirinto« di Cernusco, seguito dal »Nautilus« di Cassina e, a pari merito, il Liceo scientifico »Giordano Bruno« di Melzo e il Centro giovanile »Costellazioni Sirio« di Cologno Monzese), rimane il fatto che questi risultati sono il frutto delle buone politiche rivolte ai giovani, ma che non possono essere semplicemente lasciate alla buona volontà e alla caparbietà degli amministratori locali, che lottano quotidianamente perché non hanno fondi, ma che non tagliano di un euro le politiche giovanili, perché ci credono. Queste non devono essere le eccezioni, ma la norma !
  Ed ecco, noi, anche alla luce della ratifica della Convenzione di Istanbul, dobbiamo farci garanti di questa norma, dobbiamo impegnarci affinché vengano stanziati i finanziamenti per potenziare tutti i percorsi didattici di educazione alla relazione, ma anche di peer education, di quella educazione tra pari, o meglio, di quella prevenzione tra pari, che funziona perché i giovani hanno credibilità tra i giovani, perché queste attività educative mirano a potenziare nei pari le conoscenze, gli atteggiamenti, le competenze che consentono di compiere gesti responsabili e consapevoli.
  Tali progetti, però, funzionano solo se contestualizzati in una rete sociale e politica. Scuola, servizio sanitario, istituzioni locali svolgono un ruolo fondamentale e indispensabile. La pluralità di competenze necessarie diventa insostenibile se ne manca anche una sola e noi non possiamo permetterci che sia proprio lo Stato la parte mancante.
  È anche per questo che chiederò il patrocinio per il video vincitore del CAG »Labirinto« di Cernusco sul Naviglio – che poi è uno spot contro la violenza di genere – e lo chiederò alla Presidenza del Consiglio dei ministri, affinché questo cortometraggio possa circolare: sono i ragazzi che parlano ai ragazzi, sono i coetanei che parlano ai loro coetanei.
  Solo credendoci, investendo e collaborando, riusciremo a realizzare quella rivoluzione culturale che potrà scardinare quei retaggi di subalternità che ancora oggi – e ne abbiamo purtroppo gli esempi – rischiano di mascherare la violenza come gesto d’amore, giustificandola come forma di gelosia e quindi rendendola accettabile.
I ragazzi della CAG » Labirinto« lo dicono chiaro nel loro video:»Chi ti ama, non ti mena«. Grazie (Applausi).

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"Non rinunciare ai collegi uninominali", di Roberta Agostini e Valeria Valente

Che l’attuale legge elettorale debba essere superata non vi è dubbio. Il premio di maggioranza (nazionale alla Camera, diversi premi regionali al Senato), assegnato alla coalizione o al partito che raggiunge il miglior risultato senza nemmeno prevedere una soglia minima, si è rivelato incapace in questi anni di garantire stabilità di governo, ha falsato il meccanismo della rappresentanza democratica e potrebbe produrre paradossali risultati di “sovrarappresentanza” pure in presenza di risultati assai modesti.

Il meccanismo delle «liste bloccate» costituisce ormai un fattore insostenibile di distanza tra elettori e classi dirigenti, tra istituzioni e popolo, tra cittadini e politica. Il fatto di non essere riusciti a cambiare la legge nei mesi scorsi pesa su tutte le forze politiche, anche se le responsabilità sono diverse. Il discorso del Presidente della Repubblica è stato esplicito, la Corte Costituzionale si pronuncerà nei prossimi mesi, la nascita del nuovo governo è stata legata all’obiettivo di mettere mano alle riforme istituzionali e alla nuova legge elettorale. A questo compito deve lavorare il nuovo Parlamento.

Tra i punti più delicati da affrontare vi è il possibile ritorno al voto di preferenza. Un istituto che, sebbene sia stato protagonista in passato di pagine non felici del nostro sistema politico, viene oggi preferito da molti e richiesto nella convinzione che sia lo strumento più efficace per restituire all’elettore la facoltà di scelta dei singoli candidati. Certo, è una modalità che vige per i Comuni e le Regioni, ma nessuna delle principali democrazie europee contempla la preferenza nei propri sistemi elettorali. Francia, Germania, Regno Unito, Spagna sono Paesi con sistemi elettorali, storie e culture differenti nei quali, nonostante la politica e i partiti della sinistra abbiano attraversato crisi di legittimità anche gravi (basti pensare al fatto che in Francia nel 2002 i socialisti si adoperarono per far vincere Chirac al secondo turno contro Le Pen), la solidità del sistema consente alternanza, stabilità e legittimazione delle classi dirigenti.

Le leggi elettorali vanno valutate anche in relazione all’obiettivo di rafforzare i meccanismi democratici della partecipazione e della decisione politica, e dunque anche in relazione ai modelli di partito. Per quanto ci riguarda, vorremmo contribuire a costruire un partito che torni a sentirsi una comunità legata da un progetto, valori e obiettivi comuni, che assicuri sedi democratiche e trasparenti di decisione e selezione della classi dirigenti, governato da regole che assicurino diritti e doveri uguali per tutti e che presiedano all’organizzazione della vita interna promuovendo competenze, esperienze e capacità di direzione politica, a partire da quelle delle donne. Partiti vivi e aperti, risorse e non ostacoli per la vita democratica del Paese. Per questo dovremmo assicurare la possibilità di scelta dei candidati, obbligando le forze politiche a chiedere il consenso sulla base della forza e della capacità dei singoli ma anche e soprattutto sulla base di un progetto ed un profilo comune.

Guai a demonizzare la necessità di raccogliere il consenso anche sulle persone e nei singoli territori ma guai pure a non scegliere, per centrare questo obiettivo il metodo e lo strumento più giusto. E infatti, le criticità cui ci riporterebbe il ritorno alle preferenze sono così tante che non possono essere sottovalutate. In primo luogo, con la preferenza i partiti rischierebbero di abdicare a una responsabilità che dovrebbe essere uno dei loro compiti più importanti: la promozione di una classe dirigente.

Con il ritorno alle preferenze, inoltre, non meno fondato è il rischio dell’aggravarsi di una questione etica. La spinta a costruire sistemi di potere territoriale in grado di generare e produrre consenso personale, infatti, richiede tanto, troppo danaro per le campagne elettorali e determinando una maggiore «permeabilità” del sistema da parte di lobby e poteri economici locali presta sicuramente più il fianco al rischio di risvegliare appetiti da parte dei poteri criminali. Senza contare che, al di là delle buone intenzioni e delle sincere speranze, le competizioni elettorali che prevedono questo strumento sono quelle storicamente più impermeabili e resistenti al ricambio delle classi dirigenti perché premiando spesso i candidati in possesso di maggiori strumenti (finanziari e relazionali) e con un consenso già consolidato finiscono per penalizzare l’entrata di nuovi soggetti, in primis giovani e donne.

Per tutte queste ragioni appare stucchevole la convinzione di coloro secondo cui il ritorno a un sistema di questo tipo aiuterebbe il difficile passaggio dalla seconda alla terza repubblica dal momento che per troppi aspetti rischia di ricordarci la prima e per le stesse ragioni appare incomprensibile la resistenza a tutt’oggi espressa, in modo particolare dalle forze del centrodestra, verso il sistema dei collegi. Sarebbe quest’ultima la scelta migliore per traghettare l’Italia in avanti. Il sistema dei collegi, certamente corredato da norme che prevedano un’adeguata garanzia per quanto riguarda la presenza femminile, richiede alle forze politiche la selezione e la candidatura per ogni singolo collegio di donne e uomini capaci, meritevoli ma anche e per forza apprezzate e riconosciute in quel territorio.

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