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"Anche tra i giovanissimi cresce il numero di chi si informa. Però aumenta l’astensione", di Carlo Buttaroni*

L’interesse e l’attenzione nei confronti della politica è progressivamente cresciuto ma il numero di quanti si recano ai seggi per votare è contestualmente diminuito. Anche se si discute di politica più di quanto si facesse in passato, in realtà si pratica meno, e l’attività si limita a questioni che riguardano, direttamente o indirettamente, i momenti elettorali. La formazione del consenso è affidata alla rappresentazione della tv, perché la politica fa audience. Quando è «moderna», si affida ai pensieri (pensierini) dei leader postati sui social network, visto che anche i cinguettii permettono di contabilizzare gli ascolti. Il consenso solo marginalmente, e in misura sempre minore, si alimenta direttamente alle fonti primarie d’informazione politica, cioè i partiti.
I leader politici (grandi o piccoli, nazionali o locali) impegnano la grande maggioranza del tempo in tre attività: leggere le agenzie di stampa, emanare comunicati, parlare al loro interno. Si stima che queste tre funzioni assorbano, mediamente, più del 95% dei tempi della politica. Solo una parte residuale delle attività è destinata alla relazione con gli elettori e alla funzione di rappresentanza sociale. Con la conseguenza che le occasioni di partecipazione diventano più rarefatte. Perché stupirsi, quindi, se la distanza tra i cittadini e i partiti aumenta, se la fiducia nella politica diminuisce e se meno elettori si recano alle urne?
LA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA
La crisi della politica si riflette nel calo della partecipazione e investe in pieno la dimensione della democrazia rappresentativa. Un primo fattore che evidenzia la crisi, paradossalmente, è proprio il continuo richiamo al primato della sovranità popolare. Esso nasconde, in realtà, una deformazione profonda della rappresentanza stessa che trova forma nella verticalizzazione e personalizzazione delle leadership, nel rafforzamento degli esecutivi e nell’esautorazione delle assemblee legislative. Un assetto dove conta soprattutto il leader, identificato come espressione diretta e organica della volontà popolare, concepita a sua volta come la sola fonte di legittimazione dei pubblici poteri. È così che la scelta della maggioranza e del suo capo viene concepita come un fattore di valorizzazione e di rafforzamento della rappresentanza, tanto da far parlare di democrazia più diretta e più partecipativa. Il risultato è, invece, una deformazione in senso plebiscitario della democrazia rappresentativa con i partiti ridotti a comitati elettorali, dove il rapporto con l’opinione pubblica passa prevalentemente attraverso i media. Un approccio in cui sembrano prevalere quegli aspetti che ripropongono una tentazione pericolosa: l’idea del governo degli uomini, o peggio di un uomo – il capo della maggioranza contrapposto al governo delle leggi. Ma come affermava il giurista e filosofo Hans Kelsen «una siffatta volontà collettiva non esiste», e la sua assunzione ideologica serve a «mascherare il contrasto di interessi, effettivo e radicale, che si esprime nella realtà dei partiti politici e nella realtà, ancor più importante, del conflitto di classe che vi sta dietro». Per questo, scrive Kelsen, «l’idea di democrazia implica assenza di capi».
Il secondo fattore di crisi della democrazia rappresentativa si ritrova nella crescente occupazione delle istituzioni pubbliche da parte della politica. La nomina dei parlamentari attraverso liste bloccate, prevista dall’attuale legge elettorale, rappresenta la forma estrema ed esplicita di questa identificazione tra partiti e istituzioni. Non bisogna dimenticare un altro aspetto della crisi della democrazia che si riflette nella riduzione della partecipazione politica e nel declino del senso civico. All’origine c’è il venir meno del loro radicamento sociale.
LA SFIDA
Quali possono essere i rimedi contro la crisi della democrazia rappresentativa? Occorre innanzitutto restituire ai partiti il compito di organizzare e tutelare la partecipazione dei cittadini alla determinazione della politica nazionale introducendo norme stringenti sulla loro democrazia interna. C’è un luogo comune, infatti, che occorre sfatare: l’idea che, in tema di diritti e di rappresentanza politica, le garanzie giuridiche non servirebbero, ma sarebbero addirittura lesive dei principi di autodeterminazione politica. L’esperienza ha purtroppo fornito una dura, sconfortante smentita di questa illusione.L’autoregolazione non è sufficiente a impedire la degenerazione dei partiti e solo la forza di una legge dello Stato è in grado di imporre l’applicazione di principi democratici interni alle forze politiche. Una legge che potrebbe prevedere il rispetto di taluni vincoli statutari in tema di democrazia nella vita dei partiti quale condizione, ad esempio, del finanziamento pubblico. In questo modo sarebbe garantita sia l’autonomia dei partiti stessi che la democrazia interna. Sarebbero, infatti, liberi di affidarsi incondizionatamente a un leader o organizzarsi come organizzazioni monocratiche quei partiti che decidessero di rinunciare al finanziamento pubblico, mentre sarebbero obbligati a soddisfare i principi di democrazia stabiliti dalla legge quelli che intendono godere del finanziamento pubblico. Una cosa è certa: la garanzia della democrazia rappresentativa passa attraverso il rafforzamento della democrazia costituzionale. Quanto più si indebolisce il rapporto di rappresentanza, quanto più i rappresentanti si distaccano dalla società, tanto più diventa essenziale il sistema di limiti e di vincoli, di separazioni tra poteri e di garanzie, idonei a impedirne la degenerazione autoritaria.
In Italia, dove la costruzione della democrazia è stata fatta con l’apporto essenziale dei grandi partiti la crisi di rappresentanza e di partecipazione delle istituzioni politiche incide direttamente sullo stato della democrazia. Il populismo mediatico e l’economia degli interessi particolari hanno cancellato il senso delle istituzioni, su cui prevaricano i partiti sempre meno rappresentativi della società. Il termine egemonia nella cultura politica riporta inevitabilmente ad Antonio Gramsci e alla sua ipotesi di «riforma morale e intellettuale». In questo processo, Gramsci affida agli intellettuali un ruolo fondamentale nella costruzione di un diverso rapporto tra cultura e politica. Oggi, il numero e le qualifiche degli intellettuali sono molto aumentati e diffusi nel corpo sociale con diverse mansioni rispetto ai tempi di Gramsci, ma hanno perso la loro funzione di formulare un pensiero collettivo, di esercitare l’egemonia culturale per la nuova società. E oggi si riaffaccia nuovamente l’esigenza di trovare un filo conduttore culturale e politico, in una società disgregata e individualista. Gli intellettuali devono, dunque, riprendere a svolgere il confronto tra valori, teorie, prospettive future. Oggi più che mai, infatti, non solo è necessario difendere i diritti connessi alla propria condizione di cittadino ma anche porsi l’obiettivo irrinunciabile di una cittadinanza globale, fondata sul riconoscimento concreto dell’universalità dei diritti e sul comune intento di costruire una società in grado di garantire a tutti una vita dignitosa.

presidente Tekné

L’Unità 03.06.13

"Carrozza: Fondi in arrivo per la scuola ma tempi incerti", da La Tecnica della Scuola

Serviranno a combattere la dispersione scolastica e favorire la mobilità sociale. Tra le misure immediate rimane quella di aprire gli istituti il pomeriggio. Per un quadro più dettagliato sui progetti del nuovo responsabile del Miur bisognerà attendere il 6 giugno, quando di fronte alle commissioni Cultura di Camera e Senato presenterà le linee programmatiche del suo dicastero.
Le buone intenzioni del ministro Carrozza cominciano a scontrarsi con la dura realtà. Composta da un Governo particolare, decisamente a corto di fondi e tutto proteso a far quadrare i conti. “Stiamo lavorando per reperire fondi per l’istruzione e la ricerca, ma i tempi per un provvedimento specifico sono ancora incerti”, ha detto il ministro dell’Istruzione a margine della consegna della Costituzione ai diciottenni a Buti (Pisa).
Per poi aggiungere una frase, stavolta indicativa sul programma del nuovo responsabile del Miur. “Faremo squadra con gli altri ministri – ha sottolineato Carrozza – per reperire fondi per le misure sull’occupazione, ma anche per sfruttare quelli sulla coesione per combattere la dispersione scolastica e favorire la mobilità sociale, oltre a utilizzare una parte di spending review finalizzata a sfruttare risorse per la ricerca e non nell’ottica di spremere sempre la scuola”.
In termini pratici, quanto detto dal ministro dovrebbe innanzitutto concretizzarsi nella possibilità di aprire maggiormente le scuole al territorio: da mattina a sera. Anche il sabato pomeriggio, visto che la stessa Carrozza si è compiaciuta di questo evento visitando sabato 1° giugno un istituto scolastico nel pisano. Ei fondi di cui parla servirebbero principalmente a sovvenzionare il personale (docenti e Ata) chiamato a rimanere in servizio in orario extra-curricolare.
Per avere un quadro più dettagliato sulle strategie del nuovo Ministro bisognerà attendere ancora qualche giorno: giovedì 6 giugno, presso le commissioni Cultura di Camera e Senato, sono previste, da parte sua, delle comunicazioni “sulle linee programmatiche del suo dicastero”: l’inizio della presentazione dell’intervento è fissato alle ore 13,30.

La Tecnica della scuola 03.06.13

"Le pericolose idee grilline sulla televisione pubblica", di Vittorio Emiliani

Grillo credeva di poter continuare per un pezzo a urlare i propri anatemi contro tutti coloro che non gli dicono supinamente di sì. E invece comincia a prendere porte in faccia, a incassare, in pochi mesi, sconfitte brucianti. Inizia a constatare che amministrare non è come chiacchierare e che in Parlamento non si vive di slogan e di frasi fatte, ma bisogna studiare le carte, impadronirsi di norme e regolamenti, approfondire i “precedenti” (e sono interi dossier) nazionali ed europei, decidere rapidamente senza il conforto suo e di Casaleggio. Fare politica è una cultura. Non un giochino. Comincia forse a capire che schifare i talk-show televisivi esaltando lo straordinario ruolo salvifico della rete non è forse un’idea geniale perché significa non comparire mai, nel bene e nel male, di fronte a milioni di spettatori/elettori lasciando ai partiti tradizionali tutta la scena. Allora manda un po’ dei suoi a lezione di comunicazione televisiva dall’altro socio fondatore Roberto Casaleggio per poi vararli in qualche arena. Non solo. Ma aspira a presiedere la commissione bicamerale di Vigilanza sulla Rai e sulle telecomunicazioni. E il suo parlamentare Roberto Fico, ieri da Lucia Annunziata, ha corroborato la pretesa di sedersi al posto di Sergio Zavoli col possesso di una laurea in Scienza delle Comunicazioni che, detto francamente, ce l’hanno decine di migliaia di giovani (puntualmente disoccupati).

Probabilmente crede anche che da Palazzo San Macuto si governi sostanzialmente Viale Mazzini. Questa, per la verità, è un’idea che in molti hanno coltivato. Sarà bene che qualcuno dica all’onorevole Fico che la Rai-Tv è una azienda, anzi un’azienda complessa, con dinamiche imprenditoriali, messa a suo tempo dalla Berlusconi-Gasparri in condizioni di inferiorità rispetto a Mediaset, costretta a competere sul mercato degli ascolti perché col canone più basso e più evaso d’Europa copre, a fatica, la metà dei costi e deve per questo attrarre pubblicità, altrimenti va in rosso, e il cavallo bronzeo di Francesco Messina stramazza.

Mesi fa Grillo avanzò la solita ricetta magica: ridurre le reti Rai alla sola Rai3 pagata dal canone. E le altre due reti storiche? Ai privati. E RaiNews24, e gli ormai numerosi canali del digitale terrestre? Ai privati. Già li vedo Berlusconi e i suoi cari che si fregano le mani. E la radio? Boh…Grillo non sa, o finge di non sapere, che nessuna Tv sta in piedi al mondo con una sola rete. E che il problema vero, assillante, mai risolto, è semmai quello di mettere “in sicurezza”, con una Fondazione o con altri strumenti, per intero questa azienda dall’enorme potenziale svilito dal prevalere, con la legge Gasparri, dell’impero berlusconiano e dalla indifferenza o cecità del centrosinistra.

Grillo non può pensare di affrontare la montagna di problemi che la comunicazione pone in Italia con gli editti, francamente ridicoli, contro Milena Gabanelli prima innalzata sugli altari e poi gettata in pochi attimi alle fiamme dell’inferno mediatico per aver fatto il proprio mestiere di «inchiestista» senza vincoli di appartenenza, e contro Giovanni Floris divenuto anch’egli un «nemico» da esecrare e possibilmente esiliare. Ma i talk show il M5S li vuole frequentare sì o no?
Se Beppe Grillo non si desta dal suo delirio solitario e assoluto, se non si dà una calmata e non ragiona sulla complessa realtà delle cose, rischia di buttare a mare un potenziale rilevante di cambiamento politico. Che poteva e può essere quanto mai utile ad un Paese depresso, bisognoso di ridarsi slancio, coraggio, progettualità. Nelle regole e nella trasparenza. La politica non è uno show. È insieme capacità di progettare e capacità di lavorarci sopra duramente, faticosamente, quotidianamente. Non è l’ora dei dilettanti allo sbaraglio. Se Grillo e M5S si illudono di poter risolvere i problemi con una battuta sarcastica più o meno felice, sbagliano di grosso. Prenderanno altre facciate, andranno a sbattere e butteranno via un’occasione importante. La satira e la politica son due cose diverse, due linguaggi, due impegni differenti, confonderli può suscitare applausi lì per lì. Ma, alla lunga, lascia soltanto cenere dietro di sé.

L’Unità 03.06.13

"Il Paese fluido che ha smarrito la fede", di Ilvo Diamanti

È finita una lunga stagione politica, durata quasi settant’anni. Segnata da sentimenti di appartenenza e ostilità partigiana. E da grande stabilità elettorale. Quell’epoca pare alla fine, come l’Italia della continuità. Dal 1948 al 2008 ha presentato una mappa del voto coerente e con poche novità. Perché gli italiani, in fondo, votavano allo stesso modo, da un’elezione all’altra. NEL corso della prima Repubblica, divisi fra comunisti e anticomunisti (i democristiani e i loro alleati). Nella Seconda Repubblica, opposti fra Sinistra e Berlusconiani. O, ancora, fra anticomunisti e antiberlusconiani. L’anticomunismo, anche senza il comunismo, è rimasto, infatti, il principale elemento di continuità della nostra storia politica ed elettorale. Tanto che la geografia del voto nella Seconda Repubblica si è riprodotta attorno all’Italia Rossa, riassunta nelle regioni del Centro. Da sempre zone di forza della Sinistra. Il PCI, prima. L’Ulivo e, soprattutto, il PD in seguito e di recente. Fattore di radicamento. Ma anche un limite. Quasi una “riserva indiana”. Anche negli ultimi vent’anni, nonostante il crollo della Prima Repubblica, il muro che separa gli elettori, in Italia, è rimasto. A dividere gli schieramenti. A frenare i passaggi di voto fra destra e sinistra. Pardon: fra anticomunisti e antiberlusconiani. Al massimo, da un’elezione e l’altra, intorno all’8% di elettori “migranti”, in movimento (dati Itanes). Che, in buona parte, si compensavano reciprocamente. Così l’esito delle elezioni si risolveva per pochi punti percentuali. In base alla capacità dei principali soggetti politici – e soprattutto del “partito personale” di Berlusconi – di risvegliare gli elettori tentati dall’astensione. Oppure, in base al gioco di alleanze e desistenze fra i partiti.
Quell’Italia non c’è più. Al suo posto, un Paese fluido. Dove le certezze politiche si sono sciolte, insieme a quelle di voto. In effetti, è successo tutto in fretta. Anche
se l’incubazione è stata lunga e laboriosa. Però la grande glaciazione elettorale, infine, si è consumata. Disciolta. Quasi all’improvviso. Alle elezioni politiche dello scorso febbraio. Quando circa il 40% degli elettori ha votato diversamente rispetto alle precedenti elezioni politiche del 2008. Oppure non ha votato. (Oss. Elettorale LaPolis-Università di Urbino). Così è finita la Fede – politica. E si è logorato il voto “fedele”. Dato, magari, senza passione. Per abitudine o per ostilità verso gli altri. Si tratta di un mutamento profondo, destinato
a durare. Perché la “prima volta” rende possibili altre (s)volte. Altre scelte, ogni volta diverse. Significa, cioè, aprirsi al cambiamento come regola.
Dietro a questa svolta, vi sono ragioni di lunga durata. Anzitutto, il declino delle appartenenze ideologiche e religiose. Poi, il distacco dai partiti. Il ri-sentimento verso il ceto politico. Un orientamento radicato e di lungo periodo, in Italia. Negli ultimi anni, è cresciuto in fretta. Vent’anni dopo la stagione di Tangentopoli, il malessere contro le istituzioni, i partiti e i politici si è
gonfiato nuovamente. Fino a esplodere. Ma non si è affidato ai giustizieri di sempre: i giudici, i magistrati. Verso i quali la fiducia dei cittadini non è più quella di un tempo. Il distacco politico si è, invece, tradotto in due differenti comportamenti. L’astensione e la protesta antipartitica. Intercettata, per primo e soprattutto, da Beppe Grillo e dal M5S. I nuovi giustizieri della Casta. I quali hanno rappresentato il principale veicolo del movimento elettorale. In Italia si è, così, diffuso un atteggiamento di crescente incertezza. In vista delle elezioni di febbraio, solo il 54% degli elettori afferma di non aver avuto dubbi “se” e “per chi” votare, all’inizio della campagna elettorale. E il 23% sostiene di aver deciso nell’ultima settimana. Anche se tra gli elettori del M5S sale al 30% (Indagine LaPolis, marzo 2013).
Le elezioni amministrative hanno amplificato questo nuovo orientamento. Perché il declino delle fedeltà tradizionali ha liberato gli elettori da vincoli di continuità, a ogni livello. Così, più ancora che in precedenti occasioni, sono divenuti determinanti motivi “specifici”. Legati all’offerta politica “locale”. Cioè: i candidati sindaci ma anche, e forse di più, i candidati consiglieri, presenti nelle liste. La capacità dei partiti di mobilitarsi sul territorio. E la ricerca delle – talora la caccia al-
le – preferenze. Queste ragioni spiegano la tenuta del centrosinistra, superiore a quella del centrodestra, che ha retto nel Mezzogiorno. Così si spiega anche il risultato – molto ridotto, rispetto alle attese – del M5S. Che ha presentato candidati sindaci meno noti. In più, rifiutando di allearsi con altre liste o di crearne di proprie, ha rinunciato ad attirare altri voti. Locali e personali. Una quota elevata di elettori che l’avevano votato alle politiche, così, ha scelto di astenersi, come mostrano le analisi di flusso dell’Istituto Cattaneo e del Cise- Luiss. Soprattutto a Roma. La città maggiormente “colpita” dall’astensione. Non a caso, perché nella capitale è forte l’identificazione con il governo e lo Stato centrale. I principali attori e fattori della delusione politica. Il non-voto, così, è divenuto un’opzione quasi “normale”. Come in altre democrazie, d’altronde. Per questo mi è difficile accettare i commenti che parlano di “vittoria del partito del non-voto”. Perché si tratta di una visione distorta, oltre che enfatica. Se il calo della partecipazione, rispetto alle amministrative precedenti, è stato di circa 16 punti percentuali, nel complesso dei 92 comuni maggiori al voto, si scende a 8,5 isolando le città che rinnovano la propria amministrazione
in anticipo rispetto alla scadenza naturale. Al 12,5 solo escludendo Roma, che, per ragioni di dimensione, “condiziona” il dato generale. Infine, se guardiamo la distribuzione del non-voto su base territoriale, emerge un quadro molto differenziato. In particolare, si osserva come l’astensione, nel Mezzogiorno, a sud di Roma, rispetto alle politiche, sia perfino diminuita (di circa quattro punti). Per effetto dei meccanismi “locali” e “personali” a cui facevo accenno.
Tutto ciò induce a confermare che l’era della “fede” politica è finita. Insieme alle fedeltà partitiche e antipartitiche. E alle “rendite” di posizione e di opposizione. In futuro è, dunque, probabile che circa metà degli elettori scelga, di volta in volta, se e per chi votare. Per cui nessuno può sentirsi al sicuro. Il che renderà più importanti le campagne elettorali, oltre alla capacità dei soggetti politici di offrire “buone ragioni” per votare per loro. E, prima ancora, per votare. Perché se votare non è più una fede, a non-votare non si fa peccato.

La Repubblica 03.06.13

"Il blocco d’aria rallenta le stagioni", di Luca Mercalli

È stata la depressione «Günther» sulla Polonia a convogliare aria umida contro le Alpi del nord dove sono caduti fino a 250 mm di pioggia, come in Tirolo, attivando la grande piena del Danubio.
L’ennesimo evento di tempo inclemente di questa primavera che sull’Europa centro-occidentale è risultata, secondo le zone, la più fredda dal 1991.

Oppure dal 1987, o anche dal 1962 sulla Gran Bretagna, e pure grigia e piovosa, come tra Basilea e l’Alsazia, dove si sono registrate 292 ore di sole invece delle 495 normali. Per contro Mosca ha avuto un eccezionale anticipo d’estate con termometro a 30 gradi, insieme alla Lapponia da settimane oltre i 25 gradi con rischio di incendi boschivi.

Variabilità climatica naturale e riscaldamento globale si combinano in un complesso sistema di retroazioni che proviamo a inquadrare. La ragione della persistenza di condizioni opposte nello spazio di qualche migliaio di chilometri risiede nella situazione di blocco creata da ondulazioni su grande scala della circolazione atmosferica. L’Oceano Artico vive recenti drastiche trasformazioni, con il minimo storico della superficie di ghiacci di banchisa registrato nello scorso settembre e temperature sopra la media.

Diminuisce così la differenza termica tra il polo e l’equatore, fenomeno chiamato «amplificazione artica», al punto da rallentare la corrente a getto che si localizza sul fronte polare, al contatto tra aria tiepida subtropicale e aria fredda boreale. Come un fiume d’aria che quando è rapido corre quasi rettilineo da ovest a est, e quando rallenta genera invece ampi meandri, le correnti principali tendono a formare profonde ondulazioni orientate sui meridiani. Così lungo il ramo ascendente l’aria calda tropicale può spingersi ben oltre il circolo polare, come successo in Russia e Scandinavia, mentre sul ramo discendente l’aria fredda cola verso sud, ed è ciò che è capitato su Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia centrale in questi mesi. Queste ondulazioni sono lente a evolvere e quindi si bloccano per molte settimane sulle stesse regioni portando o caldo e siccità o pioggia e freddo. La danza barometrica dell’oscillazione Nord-Atlantica (Nao) che alterna sull’Europa stagioni più fresche e piovose ad altre più calde e secche viene così forzata dal riscaldamento globale a produrre sorprese climatiche. Ma anche per questa prima settimana d’estate tutto rimane fermo, avremo ancora aria fresca e temporali sul centro-nord Italia in attesa che il blocco ceda.

La Stampa 03.06.13

"Nessuna scorciatoia", di Ezio Mauro

Quando non siamo capaci di usare uno strumento collaudato, ottenendo i risultati previsti, la colpa è nostra, non dello strumento. Prima di gettarlo via, dovremmo provare a cambiare i nostri metodi e la nostra mentalità, tornando a un corretto utilizzo delle regole e delle tecniche. Invece il sistema politico, dopo la clamorosa prova di impotenza dell’elezione presidenziale dominata dai franchi tiratori del Pd, vuole cambiare le regole, passando al presidenzialismo con il Capo dello Stato eletto dal popolo. Come se il fallimento cui abbiamo assistito increduli fosse dovuto alle procedure, e non alla mancanza di una politica degna di questo nome.
Il presidenzialismo (o meglio il semi-presidenzialismo, perché di questo si tratta) non è in sé un tabù. È la vocazione e la qualificazione costituente di questi partiti che lascia molti dubbi. Si mette mano alla Costituzione senza un disegno generale e un sentimento dello Stato condivisi, cercando in tal modo di far durare il governo per ragioni esterne, di semplificare i meccanismi istituzionali nella direzione del leaderismo carismatico, soprattutto di creare un’ideologia artificiale di riferimento ad una maggioranza anomala. In più, si procede attraverso un meccanismo di scambio tra poteri, non attraverso la ricerca di una comune cultura repubblicana, capace di adeguare la Costituzione ma soprattutto di rispettarla.
Prima che sia tardi, ricordiamo che questo sistema ha dato al Paese presidenti come Scalfaro, Ciampi, Napolitano, Einaudi e Pertini. E non dimentichiamo che la scorciatoia presidenzialista sembra una corsia privilegiata per i due opposti populismi che occupano in questa fase la scena. Attenzione, dunque, a mettere le mani sulla Costituzione cercando nelle sue modifiche quei rimedi che la politica dovrebbe trovare in se stessa, se vuole riconquistare la fiducia dei cittadini senza quell’adulazione del popolo che si chiama
demagogia.

La Repubblica 03.06.13

"Il costo dei respingimenti", di Rachele Gonnelli

La strategia della «tolleranza zero» è costata, dal 2005 al 2012, un miliardo e 600 milioni. Per rimpatriare gli immigrati si è speso soprattutto in voli, scorte, costo dei Cie. Una politica disumana e dispendiosa. È il rapporto «Lunaria» sugli arrivi irregolari in Italia.

Andava e veniva, Rasek. Quando lo ingaggiavano al pianobar, prendeva il battello da Tunisi, faceva una serata, una settimana, una stagione a Palermo, poi tornava, se invece non c’era lavoro restava a casa. Funzionava così tra Italia e Tunisia nei primi anni Settanta. Costi per lo Stato italiano, zero. È stato solo dopo, molto dopo, che Rasek ha dovuto operare una scelta per non finire bollato come «clandestino». Ha scelto di trapiantarsi armi e bagagli in Sicilia, abbandonando moglie e figlie, portandosi dietro solo il figlio maggiore. Un grande dolore. Il mare non è più un ponte, la via di casa, ma un fossato medievale, militarizzato.
Non ci sono storie personali come questa nel rapporto «Costi disumani», sottotitolo «la spesa pubblica per il contrasto dell’immigrazione irregolare», presentato dall’associazione Lunaria in una sala della Camera dei Deputati. Nel dossier ci sono solo numeri, inediti. O meglio, analisi delle voci di spesa della politica basata sui respingimenti. Si scopre così che gran parte dei fondi utilizzati per i Cie servono per l’allestimento degli stessi, cioè l’acquisto o l’affitto, la manutenzione, le mobilia, rispetto alle spese per i servizi e il sostentamento degli immigrati. Questi centri di detenzione, nati per identificare e rimpatriare le persone senza permesso di soggiorno sono divenuti piccole prigioni dove attualmente, dopo Maroni, si può essere reclusi fino a 18 mesi senza aver commesso alcun crimine e senza altra possibilità di difesa che davanti a un giudice di pace, non togato e non specializzato in materia di diritto d’asilo. Mentre si risparmia sul vitto nei Cie e sugli stipendi agli operatori, perché in epoca di spending review le gare si fanno al massimo ribasso: costo medio al giorno pro capite 30 euro al giorno, avvocati compresi.
Politiche analizzate sono basate poi sul pattugliamento delle frontiere marittime e terrestri, inclusi sistemi di radio e video sorveglianza sempre più sofisticati che rappresentano si scopre una delle voci più dispendiose, sia a livello nazionale sia comunitario. Radar, fuoristrada, minibus, motovedette, aerei, elicotteri sistemi informatici non si sa con quali marchi -, questo si è comprato con la maggior parte dei fondi stanziati a Bruxelles e a Roma nei diversi Fondi per il contraso all’immigrazione. Tutto nel nome di una presunta «sicurezza» declinata come «strategia di contrasto all’immigrazione irregolare», così la chiamano i governi che si sono succeduti dal 1999 ad oggi e che l’hanno individuata, senza distinzione di colore e campo politico, come priorità, al posto dell’accoglienza. La «politica del rifiuto», la chiama invece la presidente di Lunaria Grazia Naletto, portavoce anche della campagna Sbilanciamoci. Per lei e per tutte le associazioni con cui Lunaria fa rete non è affatto l’unico approccio possibile. Non è certamente la scelta più giusta, perché produce costi umani esorbitanti, dall’ecatombe di naufragi ai diritti fondamentali violati nei Cie, «inaccettabili per uno Stato di diritto» anche per l’Europa. Ma non è neanche la più efficace. Al contrario, è dispendiosa e inefficiente. E resta funzionale solo ad alimentare un’economia caratterizzata da una forte commistione tra attività formali, informali e sommerse, alimentate da lavoro nero, sottopagato e mancanza di diritti.
Tra il 1986 e il 2009 oltre 1 milione e 600 mila stranieri sono stati regolarizzati con successive sanatorie. Mentre i migranti entrati irregolarmente e catturati sono stati, tra il 2005 e il 2011, solo 540mila. Di questi quelli rimpatriati sfiorano il 14% (73mila) e quelli allontanati cioè con decreto di esplusione, spesso ignorato dal singolo sono il 26% (141mila). Nel complesso meno del 40% degli immigrati irregolari rintracciati sono stati sottoposti a procedura di via. Con un picco nel 2011 durante le cosiddette Primavere arabe. Il tutto con costi abnormi: questa strategia di «tolleranza zero» è costata dal 2005 al 2012 la bellezza di un miliardo e 600 milioni.
Dove sono finiti questi soldi? Questo che è solo il primo rapporto sulle politiche migratorie dell’Italia redatto da Lunaria (disponibile sul sito www.lunaria.org) dimostra l’opacità del meccanismo con un capillare lavoro di reperimento di dati ufficiali. Un lavoro non facile perché come conclude con una chiamata in causa per una maggiore vigilanza della Corte dei Conti, delle commissioni parlamentari competenti e del Parlamento europeo la trasparenza è molto carente ovunque nel settore. Mancano dettagli, documentazione, valutazione dei risultati. E anche nei Cie, gli appalti spesso sono ancora senza gara perché dopo 15 anni di detenzione amministrativa per i «clandestini» il sistema è ancora basato sull’emergenza, senza omogeneità né rendicontazione. Neanche la Commissione De Mistura nel 2007 è riuscita a fare luce sui fondi impiegati.
Un capitolo a sé riguarda il Frontex, l’agenzia europea nata nel 2004 per il controllo integrato delle frontiere meridionali dell’Unione, che in pochi anni ha visto quadruplicare il suo budget e il suo personale con interventi crescenti nel 2011, a fronte di finalità e limiti sfumati, tali da farla apparire come «un servizio di intelligence addetto ai migranti». Lunaria chiede l’immediata chiusura dei Cie e in ogni caso il ritorno a una detenzione per identificazione di massimo 30 giorni. Così come vorrebbe che la finalità principale del Frontex, con i suoi potenti mezzi tecnologici, fosse il soccorso in mare ai migranti. Uno strumento utilizzato molto poco, al contrario di ciò che vorrebbero associazioni come Lunaria e l’Arci, è il rimpatrio volontario assistito: incluso un aiuto per aprire un’attività e reinserirsi nella terra d’origine ha un costo unitario medio di 4mila euro, a fronte dei 4-9 mila di un rimpatrio forzato che prevede scorta e spesso una missione di più giorni di agenti in divisa e procedure di sicurezza altrettanto costose per il viaggio. Con una differenza: non c’è divieto di tornare. Si rientra, si tenta, si torna inidetro. Un po’ come faceva Rasek quando le frontiere erano più aperte e l’aria migliore.

L’Unità 02.06.13