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"Un preambolo per il Pd", di Pier Luigi Bersani

È giusto leggere la partecipazione alle elezioni amministrative come la conferma di una grave disaffezione dei cittadini. È altrettanto giusto rimarcare che, in quel quadro, viene riconosciuto un primato al Partito democratico e ai suoi candidati (dire che si è perso anche quando si è vinto serve spesso per stare con un piede fuori dalle proprie responsabilità!). Il giorno seguente, il nostro risultato è scomparso. In un passaggio parlamentare relativo alla legge elettorale si è dato l’argomento ai giornali per titolare: il Pd si divide, il Pd sull’orlo della crisi, e così via.Già peraltro comincia a vedersi lo sport antico di tirare il sasso e nascondere la mano verso il governo che sosteniamo. Niente di nuovo sotto il sole: in una recente e dolorosa esperienza abbiamo visto come il venir meno a nostre decisioni collettive abbia cambiato il corso degli eventi nella politica del Paese.
È tempo di riconoscere che tutto questo è il segno di un problema profondo e strutturale, che non può essere affrontato con richiami al buon cuore ma piuttosto con un sincero confronto fra noi. Ho già provato a descrivere il tema con un interrogativo: vogliamo essere un soggetto politico o semplicemente uno spazio politico?
Il Pd è nato mentre già la crisi democratica italiana e l’umore antipolitico avevano generato formazioni a impronta padronale o comunque personalistica; formazioni, cioè, connesse in modo strutturale ed esistenziale al leader. La crisi ha accelerato e approfondito il processo, facendolo emergere un po’ ovunque in Europa. In proposito, le analisi ormai riempiono le biblioteche e convergono. Si sono affermate ovunque esigenze di semplificazione e accorciamento anche emotivo nei meccanismi di rappresentanza; la partecipazione si è andata riducendo ad un ruolo esornativo; la comunicazione si è messa al comando; la «sostanzialità» del consenso ha cominciato a rompere argini formali, istituzionali o addirittura costituzionali.
In Italia abbiamo visto per primi come quel tipo di offerta politica sia efficacissimo nel promettere risultati, ma impotente o disastroso nel produrli. Sappiamo ormai che interpretare abilmente ciò che pensa «la gente» non significa governare! Noi democratici abbiamo vissuto questa fase, che è stata per il Pd di affermazione e di radicamento, mettendo a critica quel modello e tuttavia tenendoci, rispetto a quel modello, flessibili fino al punto di essere, qua e là, cedevoli. Nella sostanza ci è sfuggita la radicalità della nostra alternativa e quanto fosse e sia controcorrente la nostra sfida.
È tempo di chiarirci le idee fino in fondo. Dentro la transizione e la crisi il nostro modello alternativo pretende di incrociare e interpretare la complessità, l’esplosione delle soggettività, gli spazi inediti di comunicazione e relazione attraverso la partecipazione consapevole, il pluralismo; attraverso la costruzione di una sintesi che muova da meccanismi che non semplificano ma anzi sollecitano e moltiplicano i protagonismi. Come non vedere che questo nostro incompiuto tratto distintivo (arricchito naturalmente da significati valoriali e contenuti programmatici) ha consentito comunque di essere una formazione che ormai «esiste in natura» in ogni luogo del Paese, di superare difficoltà e smentite quotidiane, di candidarci ad essere l’unico potenziale riferimento politico per uscire dalla transizione? D’altra parte, come non vedere il limite strutturale della nostra esperienza che ci trattiene dall’essere pienamente all’altezza delle responsabilità che il Paese ormai ci riconosce?
Questo limite sta nella forza e nell’univocità della sintesi. Il nostro modello per definizione drammatizza l’esigenza di sintesi, il nostro modello per definizione esclude di affidarla all’uomo solo al comando. La sintesi può venire solo dalla scelta politica consapevole e dichiarata da parte dei protagonisti diffusi di devolvere alla decisione del proprio collettivo una parte delle proprie convinzioni e delle proprie ambizioni (è in questa devoluzione peraltro che si materializzano il disinteresse personale e la moralità politica!). Più soggettività e più sintesi: non c’è altra strada, io credo, per stare nella modernità e per essere utili al Paese. Il Paese deve via via percepire che il Partito democratico ha una fisiologia che dà voce con grande apertura alle complessità e che assieme garantisce decisioni certe ed efficaci e capaci di resistere, quando è necessario, al senso comune del momento. Senza questo saremo trascinati dove, spero, non vogliamo andare: ad essere cioè uno spazio politico anche affascinante ed accogliente ma troppo esposto alle esibizioni individualistiche, alle baronie politiche o ai rabdomanti del senso comune. Un simile spazio può essere utile ad alcuni, a tanti, a tantissimi, ma non al Paese!
Questa necessaria discussione infatti non parla di noi, ma dell’Italia. Viviamo una crisi senza precedenti che ancora non ha esiti prevedibili. Ciò che stiamo vivendo non è politicamente il nostro orizzonte. Le sfide non sono finite, le abbiamo davanti. Programmi, contenuti, soluzioni possono essere discusse liberamente. Ma prima di tutto chiediamoci: vogliamo metterci all’altezza delle nostre responsabilità e del nostro compito? Vogliamo essere finalmente e pienamente un soggetto politico, traendone le conseguenze? Tutto questo è, ovviamente, un semplice preambolo. Ma un preambolo decisivo.

L’Unità 02.06.13

In dieci anni sono fuggiti 316 mila giovani “cervelli”, di R. Mas.

«La fuga dei cervelli è una perdita secca per l’Italia, che si accolla il costo della loro formazione e poi si vede deprivare di fondamentali energie. Occorre trovare le condizioni perché restino qui. Non si tratta di mettere divieti. Un’esperienza all’estero è fisiologica. Quello che è patologico è restare fuori». Le parole sono del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e sono tratte da una intervista rilasciata al direttore del Tg5, Clemente Mimun, quattro giorni fa.

Il dramma non è meramente umano, ma anche economico. L’Ocse calcola in 130 mila dollari il costo medio per la formazione base di un giovane. Confindustria ritiene che con università, dottorato, master, corsi di lingue eccetera, l’investimento per la formazione di un ricercatore si aggiri sugli 800 mila euro, e che solo negli ultimi anni – ha detto due giorni fa il presidente degli industriali Giorgio Squinzi «il nostro paese ha speso grosso modo 5 miliardi di euro e i nostri competitori increduli ringraziano del prezioso regalo».

Secondo una indagine sul campo condotta dal programma «Giovani talenti» di Radio24, tra il 2000 e il 2010 hanno lasciato l’Italia 316 mila «cervelli», cioè giovani tra i 25 e i 37 anni, muniti di laurea e con ambizioni professionali di alto profilo. Il primo paese verso cui guardano i giovani italiani è la Germania, seguita dall’Inghilterra, dalla Francia e dagli Stati Uniti, ma all’ottavo posto c’è già la Cina e al nono il Brasile.

Tutto questo non sarebbe, però, un problema se rientrasse nel normale flusso fisiologico dei cervelli che esiste in tutto il mondo sviluppato: per esempio da noi il tasso di espatri di laureati in discipline scientifiche (matematica, fisica, chimica, biologia) è del 16,2%, contro il 23,3% della Germania, il 25,1% della Gran Bretagna, il 21,1% del Belgio. La scienza ha bisogno di questi scambi. Il dramma sta nel fatto che da noi chi esce non torna indietro. Secondo una indagine del centro studi sulle migrazioni «Altreitalie», ciò che spinge i nostri ricercatori a migrare non è solo il desiderio di esperienza quanto l’insofferenza verso il sistema clientelare delle raccomandazioni che vige da queste parti.

Tant’è che mentre il 18,7 per cento vorrebbe tornare in patria quando si presentassero le condizioni, il 41,3% lo esclude in assoluto proprio per una «forma di odio e di risentimento verso il sistema accademico e scientifico del nostro Paese».

La Stampa 02.06.13

"Studio Cgil: 63 anni per recuperare i posti di lavoro perduti", di Marco Ventimiglia

Di numeri, purtroppo, questa interminabile crisi economica ne sforna in serie. Quello fornito ieri dalla Cgil, però, fotografa la recessione da una prospettiva inedita. E non è quel che si dice un bel vedere. Infatti, nell’Ufficio economico di Corso Italia non si sono limitati ad effettuare una rilevazione classica e già di per sé drammatica, ovvero quanti anni saranno necessari, ben 13, per ritornare al livello del Pil nel 2007. Nello studio intitolato «La ripresa dell’anno dopo – Serve un Piano del Lavoro per la crescita e l’occupazione » c’è, appunto, un altro dato, allo stesso tempo sorprendente e terribile: nel nostro Paese saranno necessari addirittura 63 anni per recuperare il terreno perso in questi cinque anni in termini di occupazione. Non solo, sarà praticamente impossibile ritornare allo stesso livello pre-crisi per quanto riguarda i salari reali. VARIE IPOTESI Un’indagine, quella della Cgil, dove vengono simulate alcune ipotesi di ripresa, nell’ambito delle attuali tendenze e senza che si prevedano modifiche significative di politica economica, sia nazionale che europea. Il tutto per dimostrare la necessità di «un cambio di paradigma», ovvero «partire dal lavoro per produrre crescita». Lo studio, quindi, sostiene che mettendo in atto un “Piano del Lavoro” 1′ occupazione persa «può essere recuperata in tre anni e il Prodotto interno lordo in quattro ». In particolare, l’indagine analizza il contesto economico. Dal 2008 – si legge – il Pil perde mediamente 1,1 punti percentuali ogni anno mentre i posti di lavoro sono diminuiti di oltre 1,5 milioni rispetto al 2007. Ed ancora, i salari lordi perdono lo 0,1% ogni anno (quelli netti lo 0,4%), la produttività è mediamente negativa del -0,2%, così come gli investimenti diminuiscono, sempre in media, di 3,6 punti l’anno. Questo quindi il quadro di riferimento dove innestare le previsioni macroeconomiche dell’Istat, a prescindere dalla congiuntura internazionale, e calcolare di conseguenza quanto tempo ci vorrà ancora per parlare di ripresa e recuperare il livello pre crisi. Guardando al futuro, dunque, se si utilizza come fattore da moltiplicare la previsione Istat per la ripresa nel 2014 (pari a un +0,7%), si ottiene il risultato sopra citato, ovvero la necessità di attendere 13 anni (fino al 2026) per vedere tornare il Pil al livello del 2007. Nel dettaglio finanziario, sarà questo il tempo necessario per colmare il “gap” di 112 miliardi tra il Prodotto lordo del 2014 (1.380 miliardi) e quello del 2007 (1.492 miliardi). Utilizzando gli stessi criteri, invece, il livello dell’occupazione ritornerà ai valori di sei anni fa soltanto nel 2076! In particolare, occorreranno 63 anni per passare dalle 23.531.949 “unità di lavoro standard” del 2014 alle 25.026.400 registrate nel 2007 (-1.494.451 la differenza). E addirittura non si recupererà mai il livello dei salari reali. Infine, il livello di produttività verrebbe recuperato nel 2017 (in 4 anni dal 2013) e il livello degli investimenti nel 2024 (11 anni dopo il 2013). La Cgil ha preso in considerazione anche «ipotesi più ottimistiche» legate alla proiezione di un livello di crescita pari a quello medio registrato nel periodo 2000-2007, ovvero del +1,6%. In questo caso il risultato prevede che il livello del Pil, dell’occupazione e dei salari verrebbe ripristinato nel 2020 (7 anni dopo il 2013) mentre quello della produttività nel 2017 e il livello degli investimenti nel 2024 (12 anni dopo il 2013). Inoltre c’è un’altra rilevazione particolare, con l’indagine che calcola anche la perdita cumulata generata dalla crisi, cioè il livello potenziale di crescita che si sarebbe registrato nel caso in cui la recessione non ci fosse mai stata. Una cifra colossale: 276 miliardi di euro di Pil. «Per uscire dalla crisi e recuperare la crescita occorre un cambio di paradigma», ha commentato il segretario confederale della Cgil, Danilo Barbi. «Per non attendere che sia un’altra generazione – ha aggiunto – ad assistere all’eventuale uscita da questa crisi, e ritrovare nel breve periodo la via della ripresa e della crescita occupazionale, occorre partire dalla creazione di lavoro. La proposta contenuta nel nostro “Piano del Lavoro” si fonda su un forte sostegno alla domanda, che avvenga con un piano straordinario di creazione diretta di nuova occupazione, nonché nuovi investimenti pubblici e privati, verso l’innovazione e i beni comuni».

L’Unità 02.06.13

"Qualche idea per usare il tesoretto", di Mario Deaglio

Proviamo a fare un esercizio di ottimismo, non fosse altro che per reagire alla malinconia delle statistiche congiunturali. Ammettiamo che, nel lunghissimo tunnel che sta percorrendo, l’economia italiana andando avanti scopra, l’una dopo l’altra, diverse monete; che queste monete tutte assieme costituiscano un tesoretto; che, usato oculatamente, questo tesoretto possa sensibilmente accelerare l’uscita dal tunnel.
Non si tratta di un’ipotesi assurda, dopo che l’Europa ci ha tolto di dosso il macigno della procedura per deficit eccessivo. È vero che Barroso ha gelato la nostra soddisfazione avvertendo che l’Italia «ha ancora un gran lavoro da fare», ma comunque siamo stati promossi e la prima moneta del tesoretto è proprio conseguenza della promozione, della minore rigidità del tetto alla spesa che ne può derivare, dalla possibilità di effettuare qualche investimento non permesso dal regime precedente.

La seconda moneta, del valore di qualche miliardo di euro l’anno, potrebbe risultare da un uso più intenso dei fondi di ricerca e dei fondi regionali europei, la terza potrebbe rendersi disponibile in autunno, dopo le elezioni tedesche, e consisterebbe in un trattamento analogo a quello ottenuto da Francia e Spagna, ossia in uno slittamento di due anni degli obiettivi per il bilancio pubblico, il che aprirebbe un polmone valutabile in almeno dieci miliardi di euro l’anno. Dall’eventuale sottoscrizione di un accordo con la Svizzera sulla tassazione dei capitali italiani investiti in quel Paese potrebbe provenire un vero e proprio gruzzoletto del valore di qualche decina di miliardi. Non va poi trascurato il notevole risparmio di interessi sul debito pubblico, derivante dalla sensibile riduzione dello spread.

Non si tratta certo di somme straordinarie. In ogni caso, però, grazie all’azione del suo predecessore, e ai sacrifici sopportati da milioni di famiglie italiane, il governo Letta, ha una marcia in più rispetto al predecessore stesso. Non deve (e politicamente non può) limitarsi a una politica difensiva; può, e deve, insieme alle forze politiche che lo sostengono, mettere a punto e realizzare una politica di sviluppo.
Di questa politica di sviluppo ancora non si vedono tracce sicure. Lo dice chiaramente il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco nelle sue Considerazioni Finali lette, com’è tradizione, alla fine di maggio dinanzi al Gotha dell’economia, della finanza e della vita pubblica italiana. Visco ha respinto vigorosamente la tendenza italiana all’autocompiacimento; pur riconoscendone la validità, ha giudicato insufficienti i progressi sinora compiuti, ha sottolineato la necessità di non disperderli e di consolidarli per avviare la ripresa. Ha parlato di risultati ancora fragili, e la fragilità della struttura economica italiana fa da sfondo a tutto il suo discorso. Ha giustamente messo in risalto il sonno italiano di un quarto di secolo, l’incapacità di rispondere a venticinque anni di cambiamenti «geopolitici, tecnologici e demografici».

In questa prospettiva, l’Italia del governo Letta assomiglia a un paziente che risvegliandosi da un lungo coma – nel quale l’ha metaforicamente rappresentata Bill Emmott in un fortunato documentario – si trova in un mondo diverso. Riuscirà a capirlo, a interagire con una realtà globale in movimento che non perde tempo ad aspettarci? La risposta deriverà in gran parte dall’uso che il governo saprà fare di questo non pingue tesoretto che si renderà disponibile gradualmente nei prossimi dodici-diciotto mesi. E nel decidere come usarlo si troverà di fronte a scelte molto scomode perché dovrà tirare da una parte o dall’altra una coperta troppo stretta.

Si preferirà ridurre (purtroppo necessariamente di poco vista la situazione delle finanze pubbliche) il costo del lavoro per tutte le imprese, come sostanzialmente chiede la Confindustria, oppure operare in maniera selettiva, aiutando, in maniera più consistente, le sole imprese che compiono determinate azioni «virtuose», ossia che investono e che assumono? Si dovrà cercare genericamente di salvare i posti di lavoro in pericolo, come chiedono il sindacato e una buona parte dell’opinione pubblica, oppure dare la precedenza alla creazione di posti di lavoro nuovi, in settori più efficienti, e favorire la formazione dei lavoratori giovani? Si preferirà ridurre le inefficienze dell’amministrazione pubblica oppure si cercherà di modificarne radicalmente la struttura, a cominciare dalla soppressione di province e tribunali?

Da un punto di vista teorico, i risultati migliori in termini di crescita si ottengono con le politiche selettive, che favoriscono i migliori e i più preparati. Quando però dalla teoria si passa alla pratica e ci si trova davanti a un impressionante panorama di decine di migliaia di imprese e di milioni di bilanci famigliari in difficoltà occorre ricordarsi che la politica non si fa a tavolino e che delle eccezioni alla selettività dovranno essere ammesse, anche se questo richiederà un tempo di ripresa più lungo. L’eccezione, tuttavia, non può diventare la regola: e la bilancia deve pendere dal lato della flessibilità, della crescita, dei giovani, del recupero dei venticinque anni perduti.

Gli italiani devono rendersi conto che nessun governo è uno sciamano, in grado di curare con qualche formula magica i mali accumulati nel nostro sonno di un quarto di secolo. E che nessun cittadino, nessuna categoria può legittimamente aspettarsi che i sacrifici li facciano solo gli altri. Solo se questa consapevolezza si diffonderà nella classe politica e nell’opinione pubblica avrà senso continuare in un’esperienza di governo all’insegna di un recupero di fiducia, solo così il tesoretto potrà essere speso bene.

La Stampa 02.06.13

"Napolitano: basta perdere tempo", di Umberto Rosso

Stop ai veti incrociati sulla riforma elettorale alla quale sta lavorando il governo di larghe intese. È questo il senso del monito di Giorgio Napolitano che ieri, nel video messaggio per la festa della Repubblica, è tornato a mettere in guardia i partiti sui rischi «per la stabilità politica e istituzionale ». Allo stesso tempo il premier Enrico Letta sostiene che bisognerà trovare nuove regole per eleggere il Colle. Intanto Beppe Grillo va di nuovo all’attacco: farò i conti con Rodotà e Gabanelli, dice. Avviso ai litiganti: «Io vigilerò sull’inconcludenza». Giorgio Napolitano torna a mettere in guardia sui rischi «per la stabilità politica e istituzionale», e nel video messaggio per la Festa della Repubblica intima lo stop alla guerra dei veti incrociati che ha rivisto all’opera sulla riforma elettorale pure nel governo delle larghe intese. Invece, non c’è tempo
da perdere in manovre e sgambetti di fronte all’emergenza disoccupazione. In sintonia con il capo del governo Enrico Letta che, dal Festival dell’economia di Trento, annuncia che la priorità è «il taglio delle tasse sul lavoro» e sembra aprire sul presidenzialismo: «Non si può più eleggere il capo dello Stato con il sistema dell’aprile scorso, giornate drammatiche».
Napolitano dunque torna a farsi sentire contro lo slittamento delle modifiche al Porcellum, che il Colle invece fortemente vuole. Di fronte ad un’urgenza drammatica, con la disoccupazione giovanile «problema numero uno», per Napolitano i partiti della maggioranza devono cambiare passo. Così, di fatto, indica una scadenza, dà un tempo-limite: dodici mesi. Secondo il capo dello Stato infatti da qui al 2 giugno del prossimo anno l’Italia «dovrà essersi data una prospettiva nuova, più serena e sicura». Enrico Letta raccoglie e rilancia sul tema occupazione, «è la nostra priorità», sorride spiegando che «anche il mio governo è una start-up, pure se un po’ sballottata», poi parla anche di riforme istituzionali. «Non è più possibile — dice il presidente del Consiglio — eleggere ancora il capo dello Stato con il sistema dei grandi elettori. Quella di metà aprile è stata una settimana drammatica per la nostra democrazia». Apertura al presidenzialismo, all’elezione diretta del capo dello Stato? Il premier corregge interpretazioni così nette, «dico solo che non è più accettabile un clima come quello che abbiamo vissuto in quei giorni, con ciò che è successo a Marini e Prodi». Però dal centrodestra arrivano apprezzamenti, «le parole di Letta portano all’elezione diretta del presidente della Repubblica» plaude Cicchitto. Con speculare bocciatura da sinistra.
Napolitano, che stamattina presenzia alla parata ai Fori e nel pomeriggio incontra i cittadini nei giardini del Quirinale (e poi i giornalisti), avverte dunque che vigilerà «perché non si scivoli di nuovo verso opposte forzature e rigidità e verso l’inconcludenza». Il che riguarda sia le «scelte urgenti e vitali» contro la crisi economica sia la legge elettorale e le riforme istituzionali «più che mai necessarie ». A chi si rivolge il capo dello Stato, chi tira il freno a mano nella maggioranza, col rischio di bloccare l’esecutivo? Al Colle non avrebbero gradito le manovre del centinaio di parlamentari pd (soprattutto renziani e prodiani) che hanno rilanciato il Mattarellum (non per il sistema elettorale in sé ma per le modalità e la tempistica). E ancora meno apprezzati i veti dei falchi che nel Pdl hanno sabotato qualunque ritocco al Porcellum, con lo stesso Berlusconi che ha messo in coda a tutto la riforma elettorale. L’accordo sulla “safety net” è saltato, ma Napolitano avverte che non intende assistere anche in questa legislatura ad una melina che sfocia nel nulla. Ha accettato la rielezione confidando che «le forze politiche, a cominciare da quelle maggiori, sappiano mostrarsi a loro volta responsabili». Il primo banco di prova sta «nel discutere e confrontarsi ma con realismo e senso del limite», senza mettere a rischio la stabilità.

La Repubblica 02.06.13

"Due testimoni alle prese con i mali dell'Italia", di Eugenio Scalfari

La cosiddetta narrazione serve a guardare il passato e a raccontarlo con gli occhi di oggi ricavandone un’esperienza da utilizzare per agire sul presente e costruire il futuro. Narrare il passato è dunque un elemento indispensabile per dare un senso alla vita. Chi rinuncia a raccontare vive schiacciato sul presente e il senso, cioè il significato e la nobiltà della propria esistenza, fugge via.
Nei tempi oscuri che stiamo attraversando sono molti quelli che hanno rinunciato alla narrazione oppure che l’hanno trasformata in una favola senza alcun riscontro con la realtà. Le narrazioni sono ovviamente soggettive poiché ciascuno di noi guarda il passato con i propri occhi, ma il riscontro con i fatti avvenuti è doveroso; poi ci sarà il confronto sulle differenze. Le favole, invece, sono lo strumento preferito dei demagoghi e servono solo per accalappiare gli allocchi.
Le narrazioni più interessanti in queste giornate di notevole intensità politica ed economica le hanno fatte due persone, titolari delle due istituzioni più stimate dalla pubblica opinione: il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nelle sue “Considerazioni finali” che sono presentate ogni anno all’assemblea della Banca il 31 di maggio e il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in un’ampia intervista con il nostro giornale registrata nei giorni scorsi e che spetterà a me presentare domenica prossima a Firenze dove si svolgerà la nostra iniziativa denominata “la Repubblica delle Idee”.Una narrazione economica e sociale quella di Visco, sociale e politica quella di Napolitano. Scriverò dunque dell’una e dell’altra in questa mia nota domenicale perché compongono entrambe una narrazione coerentemente complementare da due distinti punti d’osservazione. Aggiungo che mi riconosco in entrambe poiché entrambe indicano la stessa via d’uscita dal famigerato tunnel nel quale ancora ci troviamo: senso di responsabilità e di realismo, innovazione, coraggio.
Ma c’è anche un terzo protagonista in sintonia con queste indicazioni ed è il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, cui spetta di trarre indicazioni politiche dalla duplice narrazione ed anche lui, allo scadere dei primi cento giorni del suo governo, darà i primi concreti segnali del percorso intrapreso nella sua conversazione fiorentina con Ezio Mauro.

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La narrazione di Visco comincia da 25 anni fa, cioè dal 1988. È una data approssimativa per difetto, poteva e forse avrebbe dovuto andare indietro d’una altra decina d’anni perché è dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso che la partitocrazia diventa un sistema e il debito pubblico comincia la sua corsa.
Comunque i mali storici individuati da Visco sono quelli che affliggono da gran tempo il nostro Paese: l’industria rallenta il suo tasso di crescita, la base occupazionale è statica con tendenza a restringersi sempre di più, le dimensioni delle aziende sono nella loro stragrande maggioranza piccole e piccolissime,
difettano di capitali e rifiutano di aprirsi al capitale di rischio, perciò l’autofinanziamento è molto scarso e sono le banche a darsene carico. La forza lavoro ha quasi interamente disertato dall’agricoltura e si è riversata nei servizi che però sono quasi tutti di manovalanza o di professionalità strettamente corporative. Il capitalismo ha una dimensione di incroci azionari incestuosi che designano un sistema di tipo oligopolistico. Le innovazioni difettano, la finanza prende il posto della manifattura, langue la ricerca aumentano le rendite e le diseguaglianze, il tasso di evasione e il mercato sommerso galoppano, la classe operaia si frantuma in centinaia di contratti. Le mafie fanno il resto.
Questa è la diagnosi di Visco che affronta poi la crisi economica iniziata nel 2008 e impetuosamente arrivata in Europa l’anno successivo dove dura tuttora. Gli imprenditori hanno cercato di scaricarla sui licenziamenti e sul lavoro precario a bassissima remunerazione. Nella competitività siamo agli ultimi posti e siamo in coda anche nella produttività benché per fortuna proprio due giorni fa tutti i sindacati e la Confindustria hanno raggiunto un accordo di grande importanza sulla contrattualità di secondo livello e la rappresentanza sindacale nelle imprese. Poi Visco affronta il tema delle banche. Molti osservatori, pur riconoscendo l’esattezza del quadro da lui tracciato, hanno però rilevato che le sue critiche alle banche sono state molto più discrete e mescolate ad apprezzamenti non sempre meritati.
A me non sembra. Visco ha detto che il sistema bancario è complessivamente solido con la sola eccezione rilevante di Monte Paschi. Sostanzialmente è così. Ha aggiunto che la percentuale dei fondi investiti dalle banche in titoli pubblici italiani rappresenta poco più di un decimo di quelli erogati a imprese e famiglie ed è vero anche questo.
Ha infine rilevato che il credito erogato è diminuito perché le imprese hanno ridotto la domanda e perché una parte del credito richiesto non è «meritato» come prova il brusco aumento delle sofferenze equivalente a vere e proprie perdite che ormai hanno raggiunto il 7 per cento delle erogazioni alla clientela.
Fin qui la difesa del sistema, il quale però secondo il governatore ha trascurato di ammodernarsi, è andato in caccia di sportelli senza rimodernare la struttura aziendale con la conseguenza di una diminuzione dei profitti e di un calo nella raccolta e nella produttività.
La Bce non ha fatto mancare la liquidità ma gran parte di essa è rimasta giacente nelle casse di Francoforte. La strigliata alle banche c’è dunque stata, eccome, ma non separata dal fatto che la mancata crescita di dimensione delle piccole imprese ha scaricato un peso abnorme sul sistema bancario cui il governatore rimprovera anche di non aver spinto la moltitudine dei “padroncini” ad aprirsi al capitale di rischio.
Bisogna dunque che le banche cambino molte cose, così ha concluso il governatore, rivendicando anche l’accresciuta vigilanza europea e i maggiori poteri d’intervento chiesti dalla Banca d’Italia. Insomma la carota per ieri ma un nodoso bastone pronto ad essere usato domani se non aumenta l’ammodernamento bancario e l’erogazione alla clientela a minori tassi di interesse indotti dalla diminuzione dello spread.

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Mi auguro che tra una settimana saranno molti a seguire sul nostro sito, oltreché nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, la conversazione con Giorgio Napolitano.
Il tema è affascinante: come mai un giovane non propenso alla militanza politica improvvisamente sceglie di iscriversi al Partito comunista; come mai diventa militante e dirigente locale e poi deputato ad appena 28 anni; come mai è tra i pochi a praticare il lavoro parlamentare nelle Commissioni economiche della Camera e contemporaneamente diventare anche dirigente nazionale del Partito. Qual è stato il suo rapporto con Togliatti e come ne giudica oggi la linea politica. Quale fu il suo rapporto con Amendola, con Ingrao, con Berlinguer. E poi la sua esperienza europea. La sua cultura formatasi sui testi di Gramsci, di Antonio Labriola, di Calamandrei, di Benedetto Croce e di Luigi Einaudi. La sua amicizia per Antonio Giolitti. E il formarsi fin da molti anni fa della sua vocazione istituzionale che lo portò, già nel lontano 1995, a dire in un discorso di spessore culturale al Circolo Vieusseux di Firenze: «Perché non possiamo non dirci liberali». Insomma la storia di una persona che occupa ora da oltre sette anni il vertice dello Stato, da dirigente del Pci a uomo delle istituzioni al di sopra delle parti.
Ascolterete il suo racconto e perciò ne anticipo qualche tema ma non il suo svolgimento. Il finale invece è di strettissima attualità perché riguarda l’attuale «strana maggioranza», le ragioni che lo hanno indotto ad accettare il nuovo mandato presidenziale e la nomina da lui decisa del governo di larghe intese che dovrà durare fino a quando non avrà tratto fuori il Paese e collaborato a trarre fuori l’Europa dalle dolorose difficoltà in cui versiamo. Ma nel frattempo il Parlamento dovrà compiere alcune indispensabili riforme in parte economiche ma in parte istituzionali e costituzionali, a cominciare da quella elettorale che cancelli la legge vigente.
Questi sono gli obiettivi da lui indicati al primo posto dei quali c’è l’occupazione in genere e quella giovanile in particolare. Responsabilità e coraggio, esorta il Presidente, che questa volta è pronto ad intervenire nell’ambito dei suoi poteri poiché è intollerabile, per quanto riguarda soprattutto la legge elettorale, che si ripeta il già visto mesi fa quando – avendo tutte le forze politiche giurato che avrebbero abolito il Porcellum – pestarono per mesi l’acqua nel mortaio senza nulla concludere. Stavolta non sarà così, dice il Presidente e quasi lo grida verso la fine della nostra conversazione. Mentre lui parlava pensavo che il suo è uno dei rari casi in cui i vecchi sono molto più innovativi dei giovani: li sorregge l’esperienza e lo spirito di servizio al bene comune. Lo sentirete. Aggiungo ancora che Napolitano è contrario al presidenzialismo in un Paese come il nostro. E spiega il perché.
Ieri in un’intervista con l’Unità anche Stefano Rodotà ha manifestato analoga opinione: è contrarissimo al presidenzialismo e al semi-presidenzialismo. Lo sapevo da tempo perché conosco le sue opinioni, ma apprezzo che l’abbia ripetuto pubblicamente ora che molti e di varia matrice politica se ne dicono favorevoli. Rodotà come Napolitano e, modestamente, anch’io. Faccio a meno di dire il perché visto che Rodotà lo ha già ampiamente spiegato e il Capo dello Stato lo spiegherà a Firenze tra una settimana, alla festa del nostro giornale.

La repubblica 02.06.13

"Se perfino l’università ora è made in China", di Giampaolo Visetti

Dal ristorantino all’università. Dal barbiere low cost al manager della multinazionale. La Cina cambia volto ed esporta nel mondo anche l’istruzione del futuro. Lo sbarco in Europa non è di basso profilo: un ateneo nel centro di Londra, cuore della conoscenza nel vecchio continente, a due passi da Oxford e da Cambridge. ad aprire il campus, stile anglosassone e metodi asiatici, l’ università dello Zhejiang, tra le cinque migliori nella seconda economia del pianeta. Accordo fatto con il glorioso Imperial College, che da lunedì metterà
a disposizione le proprie aule agli insegnanti reclutati dal ministero dell’ Istruzione di Pechino. Cattedre a contratto e stipendi più ricchi rispetto alla media degli atenei inglesi: gli studenti potranno trovare docenti cinesi, ma pure di altre nazioni del mondo.
La grande novità sono i programmi: rigorosamente cinesi, con la garanzia di una laurea a prova di Oriente, l’area più concorrenziale, ricca e in crescita del secolo. Tra gli obbiettivi,
attività accademiche congiunte, ossia l’integrazione totale dei corsi dell’ Imperial College e dell’Università dello Zhejiang, gioiello della regione più industrializzata della Cina. Studenti e professori potranno muoversi tra Londra e Hangzhou, oppure seguire a distanza le stesse lezioni, come in un’unica
classe, sia in inglese che in mandarino.
È il passo successivo all’improvvisamente invecchiato “Erasmus”, la nuova istruzione ai tempi della globalizzazione. E a nessuno sfugge che Pechino sia
già oltre gli Istituti Confucio, 1780 inaugurazioni in pochi anni e in ogni continente, primo strumento per la costruzione del nuovo softpower “made in China”. Aprire università in Europa, negli Usa e presto in Africa, investendo una montagna di yuan per formare giovani stranieri, è la missione più delicata dell’“espansione culturale” varata dai leader comunisti. Ambizione: cambiare l’immagine della Cina all’estero, elevarla al ruolo di nuova superpotenza, trasmettendo direttamente la conoscenza alle classi dirigenti dei prossimi
decenni. Per «conquistare i cervelli», rendendoli compatibili con i nuovi assetti globali, Pechino annuncia che non baderà a spese: dopo campus e
università, si appresta ad esportare anche istituti di ricerca, laboratori e centri sperimentali a disposizione delle aziende hi-tech.
Si apre così, tra Oriente e Occidente, l’era della concorrenza all’ultimo studente, al luminare più internazionale e al diploma sino- anglosassone senza più confini. La Cina, conquistato il primato mondiale per
numero di neo-laureati, promette infatti di mandare in pensione anche il “modello Silicon Valley”, simbolo del progresso nell’era americana: meno finanziamenti ai concentrati nazionali di menti esiliate nei deserti e risorse illimitate a strutture in rete, sparse in ogni angolo del globo, purché con il marchio chiaro del Dragone. «Vogliamo abbattere i muri che ancora dividono la conoscenza — ha detto Zhang Xiuqin, capo della cooperazione internazionale del ministero dell’Istruzione — : per insegnanti e studenti si aprono opportunità senza precedenti». Il campus a Londra non è che la prima tappa. Nel 2012 i giovani stranieri che hanno beneficiato di una borsa di studio cinese sono stati 23 mila. Entro cinque anni Pechino ne metterà a disposizione 200 mila, importando cervelli in Cina, oppure inviandoli negli atenei che si appresta a distribuire nei luoghi- chiave del pianeta: a New York, dove già opera la Shanghai University, ma pure a San Francisco, Parigi, Berlino, Sydney, Johannesburg, San Paolo, Città del Messico, Mosca, in tutta l’ Asia e anche a Firenze, dove sta per sbarcare il campus della Tongji University di Shanghai.
Dal Libretto Rosso di Mao ai manuali di scienza dei materiali: la Cina archivia i dogmi di massa e lancia la sfida per la leadership del progresso 2.0. Solo la meta non cambia: ritornare l’Impero di Mezzo, anche nel tempo del web da indossare.

La Repubblica 01.06.13