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Addio finanziamento ai partiti, in Cdm un testo «snello», di Maria Zegarelli

«La politica o si autoriforma o muore». Ieri il presidente del Consiglio Enrico Letta è stato perentorio nel rivendica- re l’urgenza di atti concreti. «Ho preso la fiducia anche sul mio impegno ad abolire il finanziamento pubblico ai partiti e non intendo fare passi indietro», ha spiegato in Emilia dove si è recato per un sopralluogo nei centri colpiti dal terremoto un anno fa. E gli atti concreti arrivano oggi in Cdm nel corso del quale presenterà la proroga sull’Ecobonus per le ristrutturazioni e il ddl sullo stop ai fondi pubblici per i partiti annunciato già la scorsa settimana. Sorvola sulle battute che gli indirizza «l’amico» Matteo Renzi, quell’invito a non «vivacchiare» in questo governo di larghe intese che potrebbe diventare «di lunghe intese». Letta non si lascia tirare dentro le polemiche, «più o meno spregiudicate, più o meno quotidiane», raccontano dal suo staff, «neanche se arrivano da Renzi», e va dritto per la sua strada sapendo che le insidie sulla strada del suo esecutivo saranno costanti e non sempre arriveranno dal Pdl. «Alle critiche e ai sospetti che arrivano anche dal M5S noi rispondiamo con i fatti», replicano da Palazzo Chigi. Il disegno di legge che arriverà oggi ai ministri sarà snello, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Filippo Patroni Griffi ci ha lavorato insieme al ministro per le Riforme Gaetano Guaglieriello, a quello per i Rapporti con il Parlamento, Dario Franceschini, e ai tecnici dei vari ministeri fino a sera, mettendo da parte la sfilza di bozze recapitate da uffici e partiti ( compreso il ddl a firma tra gli altri dei deputati Pd, Tocci, Civati, Madia, Mucchetti, Rotta, Mineo, Decaro). Pochi articoli, che ancora stamattina verranno messi a punto, ma solo su una cosa alle nove di sera c’era certezza: abolizione totale del finanziamento da qui a tre anni che scalerà gradualmente via via che i contributi derivanti dalle dichiarazioni dei redditi dei privati entreranno materialmente nelle casse dei partiti. Ancora in via di definizione il quantum che sarà possibile destinare, oggi al Cdm si arriverà con tre ipotesi che oscillano dall’1 al 3 per mille così come è ancora decidere se le «erogazioni liberali» avranno un tetto. Sono previsti anche il ricorso a servizi gratuiti e agevolazioni postali mentre si sta ancora valutando l’uso gratuito degli spazi televisivi. Letta ha preteso un testo snello, ben sapendo quanto accadrà in Parlamento con la presentazione di emendamenti e modifiche e quindi ha scelto di non aprire troppo le «maglie» del Ddl.

«Sarà l’ennesima presa in giro», commenta Riccardo Nuti, vicecapogruppo alla Camera del M5s, secondo il quale «è chiaro che se tu metti detrazioni più ampie per chi versa contributi, è lo Stato che sta pagando, non c’è nessuna abolizione». Riccardo Fraccaro sfida Letta ad adottare il loro testo,. «che prevede l’abolizione dei rimborsi elettorali e la non erogazione di quelli già assegnati in base alla vecchia legge. E proponiamo che i soldi risparmiati vadano alla Cassa depositi e prestiti per un fondo a favore di piccole e medie imprese, ma su queste nostre iniziative c’è un boicottaggio politico».

Letta tira dritto. Ieri ha invitato con fermezza ministri e tecnici che stanno lavorando al Ddl a mettere da parte tutto il materiale arrivato da partiti e movimenti e a lavorare ad un testo del governo sulla base delle linee guida già illustrate. «Basta dibattiti, domani decidiamo», ha annunciato ieri. Un messaggio diretto anche all’amico Renzi che cerca di tirarlo per la giacca.

L’Unità 31.05.13

"La scomparsa della Lega tra liste civiche e lotte interne", di Toni Jop

Oggi, consiglio federale? Ma di che? Perché, piaccia o no, pare proprio che la Lega Nord sia finita, non ci sia più e non perché l’ha deciso il destino: hanno fatto tutto loro, Umberto Bossi, Roberto Maroni, Matteo Salvini e gli altri. Restano i nomi, la nomenclatura, alle loro spalle quasi nessuno; le recentissime amministrative hanno fatto un gran deserto degli orti leghisti della abortita Padania. Quindi, se si capisce bene e senza malizia, l’adunata di oggi si annuncia come l’apertura di un inevitabile processo di liquidazione; molto difficile, però, perché a dispetto delle cifre, quella nomenclatura governa.

Il primo problema sta qui: rappresentano quasi nessuno ma governano tre grandi regioni del Nord, il Piemonte con Roberto Cota, la Lombardia con Roberto Maroni e il Veneto con Luca Zaia. Non sono mai stati tanto piccoli e con tanto potere tra le mani, anzi non ricordiamo una forza politica di queste modestissime dimensioni premiata simultaneamente da tre governatori in grado di orientare gli interessi di una ventina di milioni di esseri umani.

Quel pur modesto quattro per cento raggranellato alle politiche è stato ridimensionato ancora dalle amministrative e benché in un buon numero di Comuni si attenda il ballottaggio – Treviso e Brescia comprese – per stringere i conti, non è azzardato ritenere concluso il ciclo delle alabarde e delle ampolline.

Del resto, anche in questo caso non si azzarda nulla: hanno provveduto loro, i grandi nomi della Lega Nord, ad annunciare la triste novella. Adesso, da un paio di giorni, si insultano volentieri in faccia l’uno con l’altro, mentre Belsito, il loro fidatissimo ragioniere sta parlando davanti ai magistrati chiamandoli, più o meno, tutti in causa per quanto riguarda le responsabilità nella allegra e avventurosa gestione del patrimonio di “famiglia”. Stanno al margine, ma contano ancora, quindi, e intanto si randellano, così stanno le cose.

L’ACCUSA DEL SENATUR

Il primo ad alzare la voce è stato Bossi, e non si aspettava che lui, il mangiatore di rospi: ha invitato, a suo modo gentilmente, il glaciale Maroni a «fare un passo indietro». Poi, che alle spalle della sua sfortuna politica ci sia un’anima interna al Carroccio, Bossi non l’ha mai negato con il cuore. Ora è più deciso, ma trattiene qualche garbo: «Io sono stato tradito dalla Lega – ammette – ma da Maroni meno che dalla Lega». Vuol dire che, più o meno, si riserva di togliere le attenuanti generiche al suo ex aquilotto in un secondo tempo. Dietro di lui, è un macello. Flavio Tosi, ad esempio, sindaco di Verona ora traballante, maroniano da sempre e vero proconsole anche nel Veneto di Zaia, dà per morto il partito. Sostiene che è venuto il tempo delle liste civiche, come quella che gli ha dato il potere nella città veneta, a dispet- to di Bossi e delle sue direttive affinché non rinunciasse mai al simbolo.

Questo fa ulteriormente avvelenare i leghisti della prima ora che nel Veneto hanno la loro culla e che già hanno dichiarato guerra, prima del- le elezioni, a Maroni e anche a Tosi il quale, per tutta risposta, ha pensato di espellerne alcuni e di commissariare gli altri, negando loro un congresso di chiarimento. Incaprettati, i leghisti veneti sognano il vecchio Bossi e quel “bel” clima pieno di epos e tronfio di identità che non tornerà mai più.
Vanno compresi: il mondo sta crollando attorno a loro. Perché la storia delle liste civiche equivarrebbe a un inabissamento sistematico delle antiche simbologie e con queste anche dell’identità leghista. E al gioco delle liste stanno molti di quel parterre: Maroni è d’accordo, Roberto Castelli anche. Il governatore della Lombardia aggiunge che «la Lega non morirà mai», ma ormai non gli crede più nessuno, ha detto tutto e anche il contrario. Zaia, dal canto suo, mentre siede in testa alla regione Veneto, fa il pesce in barile: la base lo reclamava come antagonista degli imperialisti maroniani, ma lui cincischia, fa il ragionevole e si merita qualche delusione.

Così, sembra che la prossima vita dei leghisti sarà nelle liste civiche, ma questa non è la sola deriva in corso: Giancarlo Gentilini, ad esempio, è in corsa per la poltrona di sindaco di Treviso ma la sua candidatura è interamente imbevuta di calda nostalgia del fascismo, di leghismo neppure l’ombra. E anche Tosi, a quan- to pare, scherza con il fuoco della vecchia fiamma. Riciclaggio, è la parola d’ordine.

L’Unità 31.05.13

Sisma, «daremo risposte ai cittadini arrabbiati», di Andrea Bonzi

Una legge quadro nazionale sulle emergenze che indichi i binari entro cui ogni evento emergenziale trovi limiti, regole ed incentivi». È la promessa che il premier Enrico Letta fa agli amministratori riuniti ieri a Bologna, nella sede della Regione, per fare il punto sulla ricostruzione a un anno dal sisma che ha colpito il cuore dell’Emilia-Romagna. Un ritorno – quello di Letta nelle zone martoriate dalle scosse del 20 e 29 maggio 2013 – articolato in più tappe: dopo aver incontrato le categorie economiche, e i sindaci del “cratere”, con in testa il presidente della Regione e commissario straordinario Vasco Errani, il capo del governo è andato a visitare due aziende colpite dal terremoto a Medolla e Mirandola, per poi porgere un saluto al carabiniere gravemente ferito da Luigi Preiti davanti a palazzo Chigi, Giuseppe Giangrande, attualmente in riabilitazione al Centro di Montecatone, nell’Imolese. «L’ho trovato con spirito forte – ha commentato il premier all’uscita dalla struttura – e gli ho portato il ringraziamento dello Stato per il suo sacrificio».

Non è mancato il momento della contestazione: a Mirandola, infatti, una quarantina di aderenti ai comitati del “cratere” ha protestato con slogan e cartelloni. «Meno passerelle di politici, più soldi veri per i terremotati. La ricostruzione non è un lusso, ma un diritto», recitavano gli striscioni dei manifestanti. Letta, insieme a Errani, ha incontrato i contestatori in un confronto serrato ma con toni pacati durato oltre 20 minuti. Le preoccupazioni principali dei terremotati riguardano i mutui per ottenere i rimborsi delle case distrutte e i numeri della ricostruzione, che sarebbe molto più indietro di quanto riportato ufficialmente. È stato Errani a spiegare che «un terzo delle domande per le classi B e C sono già state accolte, delle quali molte in pagamento, e il numero delle situazioni risolte aumenterà esponenzialmente». Da parte sua, Letta punta sul decreto 43, che sarà approvato «nei prossimi giorni» e che conterrà molte delle «risposte che cittadini e istituzioni chiedono».

COLPITO IL CUORE PRODUTTIVO

Tra queste, «l’allentamento del Patto di stabilità» per i Comuni del “cratere”, in particolare la possibilità di assumere, «la garanzia della copertura dei prestiti per la ricostruzione», l’esenzione delle tasse sui risarcimenti ricevuti e la battaglia contro le mafie: «Qui non si infiltreranno», ribadisce Letta. Al premier, del resto, non sfugge come il sisma dell’Emilia abbia colpito al cuore la produttività di tutto il Paese. «La caduta del Pil è anche figlia del terremoto – aveva detto Letta, davanti alla platea degli amministratori -, è stato colpito uno dei pistoni che fa andare questo motore al massimo». I numeri del sisma – anche ieri alle 4 di mattina la terra ha tremato, con una scossa di magnitudo 2.9 tra Modena, Mantova e Reggio – sono impressionanti: 900mila le persone colpite, 27 i morti, 45mila gli sfollati, 13 miliardi di euro stanziati, di cui 6 alle aziende, 8mila volontari coinvolti, con l’aiuto di 500 associazioni. Se si pensa che 9 lavoratori su 10 in cassa integrazione dopo i danni hanno ripreso a lavorare, molto è stato fatto. Ma Errani sa bene che c’è ancora molta strada da fare: «I problemi ci sono e non li vogliamo nascondere – aveva ribadito in mattinata -. I terremotati hanno sempre ragione e noi vogliamo guardare in faccia a tutte le questioni», in particolare l’ostacolo della burocrazia troppo lenta.

Il sostegno del governo, per il governatore, «non mancherà», ma certo nel decreto 43 ci si aspettano risposte, in particolare sul «rinvio delle tasse: nessuno avrà un euro in più di quanto gli spetta – chiude Errani – ma la copertura per chi ha subito danni deve essere del 100%».

L’Unità 31.05.13

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Letta in Emilia a un anno dal terremoto
“Daremo risposte, qui si gioca il Pil”
di ANNA MARTELLATO
Da queste parti – nella fetta di Emilia colpita dal sisma in cui si produce il 2% del Pil nazionale – giovani o anziani, imprenditori o dipendenti, sfacciatamente o a denti stretti lo hanno sempre sostenuto: «Se ci rialziamo noi, si rialza il Paese». A un anno da quelle scosse che hanno inghiottito persone e aziende, a metterlo nero su bianco è un presidente del Consiglio, Enrico Letta, che dipinge questo pezzo di Penisola come il «motore di rilancio» dell’intera Italia.

Lo fa a Bologna, nella sede della Regione, prima di vistare a Medolla e Mirandola, tre aziende – il colosso alimentare Menù, quello del biomedicale Sorin e la Ptl, attiva nel settore dell’acciaio – simboli della voglia di rinascere della gente che vive in quello che è stato definito il “cratere” del terremoto. Gente con cui Letta non ha esitato a parlare e confrontarsi.

«Qui – ha osservato davanti al presidente dell’Emilia-Romagna, al ministro degli Affari regionali, Graziano Delrio e, fra gli altri, all’arcivescovo di Bologna, cardinale Carlo Caffarra e al vescovo di Carpi, Francesco Cavina – c’è un problema nazionale perché – ha scandito bene – c’è il motore della crescita del nostro Paese che è stato colpito. La caduta del Pil dell’anno scorso e di quest’anno – aggiunge Letta – è anche figlia del terremoto che ha colpito un pistone del motore dell’Italia».

Per questo, assicurando di volere «lavorare moltissimo per dare risposte» alla gente colpita, «l’Italia ha bisogno che questo motore vada al massimo. Per raggiungere di nuovo obiettivi di crescita e il segno più nel 2014 – ha spiegato ancora – bisogna cha il motore riparta con gli incentivi giusti». Priorità assoluta, tanto che, ha argomentato il presidente del Consiglio davanti all’assise in Regione, il decreto 43 sull’emergenza sisma «conterrà gli emendamenti necessari». Poi, ha ribadito su Twitter, «metteremo altre risposte nel decreto legge».

E pronto al «rilancio della politica di ristrutturazione ecocompatibile e contro il rischio sismico», cosa che «affronteremo domani nel consiglio dei ministri», il premier non ha mancato di ringraziare anche Franco Gabrielli «per avere accettato la mia richiesta di essere al fianco del Governo come capo della Protezione Civile», della quale, ricorda, «terrò personalmente la delega». Il tutto, senza dimenticare la necessità di «elaborare una nuova legge quadro nazionale sulle emergenze che indichi i binari» giusti, grazie a regole «che siano scritte prime, che siano chiare e note a tutti».

Passaggi importanti, su cui il presidente del Consiglio si è soffermato, pure fuori dai cancelli della Sorin, con una quarantina di persone in presidio davanti all’azienda con cartelli con scritto “Rimborso dei costi di ricostruzione effettivi” e “Meno passerelle dei politici più soldi veri”. Persone, rappresentanti di alcuni comitati di cittadini con cui Letta, accompagnato da Errani e saltando ogni filtro, ha dato vita a un faccia a faccia intenso ma dai toni pacati. Tra i punti maggiormente criticati, il meccanismo di garanzia per la concessione dei contributi alla ricostruzione, la fiscalità, i rapporti con le banche con una richiesta di moratoria dei mutui, e la richiesta di sospensione degli studi di settore per i commercianti. Prima di lasciare l’Emilia, Letta, non ha dimenticato un saluto, al Carabiniere, Giuseppe Giangrande, vittima di un colpo di arma da fuoco fuori da Palazzo Chigi e ricoverato in una struttura sanitaria di Montecatone, nell’Imolese. A lui, ha chiosato, «ho portato il ringraziamento dello Stato per il suo sacrificio, la vicinanza e il senso di profonda riconoscenza nei suoi confronti».

La Stampa 31.05.13

"La strage delle donne e i negazionisti di buona volontà", di Adriano Sofri

C’è una vera ragione di allarme sulle donne uccise, o c’è un allarmismo colposo o doloso? Si è andata ampliando la reazione negatrice, fino a diventare una campagna. Lo scandalo sul femminicidio è montato lentamente e tardissimo. Ha da subito eccitato dissensi troppo aspri e ottusi per non essere rivelatori. C’è stato anche chi ammoniva che gli uomini uccisi sono più numerosi delle donne uccise: vero, salvo che il confronto va fatto fra le donne uccise da uomini e gli uomini uccisi da donne, e allora diventa irrisorio. Strada facendo, le obiezioni si sono irrobustite, valendosi anche di una (effettiva) carenza di statistiche esatte. All’ingrosso, si è negato che le uccisioni di donne siano cresciute in numeri assoluti, e si è sottolineato che la crescita – impressionante – nella loro quota relativa rispetto al totale degli omicidi è dovuta solo alla riduzione degli altri omicidi, soprattutto quelli di mafia. Prima di motivare i dubbi sulla prima affermazione — il numero di femminicidi che resta sostanzialmente stabile nel tempo e nei luoghi — sbrighiamo la seconda: se nel complesso degli omicidi c’è una rilevante riduzione, e quelli contro donne restano inalterati, vuol dire che la nostra convivenza migliora tranne che nei rapporti fra uomini e donne. A questa allarmante constatazione si aggiunge l’altra.
Abbiamo alle spalle (recenti) un mondo patriarcale e un codice penale che giudicavano con sfrenata indulgenza, o con malcelata simpatia, gli uomini che ammazzavano le “loro” donne; e ora ci illudiamo di vivere in un mondo più affrancato dai pregiudizi e più libero per tutti. Anzi, un altro dato, secondo cui le uccisioni di donne sono molto più frequenti al nord che al sud, segnala una relazione complicata se non inversa fra liberazione dei costumi e insofferenza maschile. Rinvio, per una replica generale, al blog di Loredana Lipperini (“Il fact-screwing dei negazionisti”, 27 maggio). Per parte mia, faccio alcune obiezioni peculiari. Nella discussione “specialista” al neologismo “femminicidio” si è aggiunto da tempo l’altro “femicidio” (sono latinismi passati attraverso aggiustamenti anglofoni): il primo alludendo alle vessazioni che le donne subiscono da parte di uomini, il secondo all’assassinio. Il binomio mi sembra privo di senso e comunque di utilità, e tengo fermo il solo termine di femminicidio come, alla lettera, uccisione di donne. Gli obiettori all’esistenza di una “emergenza di femminicidi” hanno capito che la categoria riguardi le donne uccise da loro mariti e amanti e fidanzati o exmariti, ex-amanti, ex-fidanzati (e padri e fratelli…), dunque “dal loro partner”. Questa delimitazione è frutto di un significativo fraintendimento. È vero, e raccapricciante, che la gran parte delle violenze e delle stesse uccisioni di donne è perpetrata dentro le mura domestiche, dove i panni andavano lavati, cioè sporcati, al riparo da sguardi estranei. Ma questa selezione statistica toglie altre circostanze in cui donne vengono uccise “perché donne”. Addito le prostitute assassinate. Piuttosto: non “le prostitute”, ma le donne che si prostituiscono; correzione essenziale, se appena riflettiate alla differenza, di spazio e di emozione, fra i titoli che dicono “donna uccisa” o “prostituta uccisa”. Gli assassinii di prostitute sono molti e orrendi. Gran parte dei detenuti per omicidio di un carcere non speciale hanno ammazzato la “loro” donna, o una, o più, prostitute. Non è femminicidio? Per bassezza di rango? O perché le prostitute non hanno padre, coniuge, fidanzato, e gli assassini non sono i loro “partner”? Ma lo sono senz’altro. Nel caso delle prostitute, l’assassino è “il loro partner”. Basta a renderlo tale la cifra che sborsa o promette per il prossimo quarto d’ora, o il loro stare su un marciapiede a disposizione di chi le voglia e prenda a nolo. La nudità esposta delle prostitute da strada – le più allo sbaraglio – è per loro un modo di aderire, per la durata della loro fatica, all’alienazione di sé, di sospendere la propria identità salvo rientrarvi a nottata passata; per gli uomini, è la manifestazione denudata dunque resa astratta e universale – come la moneta, corpo che sta per tutti i corpi – del piacere che può loro venire, della loro questua di badanti sessuali. La gelosia maschile è così diversa da quella femminile (come attesta la sproporzione di botte e coltellate, salvo che la
si riduca alla differente musco-latura) perché noi uomini intuiamo e temiamo una superiorità sessuale femminile, una disposizione al piacere che nessuna
presunzione amorosa può del tutto addomesticare. Lo sapevano gli antichi, e ne avevano confidato al mito la memoria anche dopo aver ridotto le donne in cattività, prime fra gli animali domestici. Ne hanno ereditato la nozione, pur non sapendo più spiegarla né spiegarsela, e dandola falsamente come una prescrizione religiosa, le società che si dedicano scrupolosamente a mutilare le bambine degli organi sessuali, mutando in strumenti di dolore e anche di morte una fonte di piacere renitente al comando. (Ricordiamo il catalogo: “Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie di lui, né il suo schiavo e la sua schiava, né il suo bue né il suo asino…”). Alle donne che fanno le prostitute gli uomini prendono a basso costo e basso rischio un surrogato alla violenza casalinga e amorosa: come le bambole sulle quali i medici cinesi visitavano le loro pazienti vestite, le prostitute sono le fidanzate momentanee e traditrici su cui infierire. “Non era che una puttana”. Romena, russa, bielorussa, nigeriana: “Uccisa una nigeriana”.
Titoli in corpo piccolo (si chiama così la statura delle lettere a stampa, corpo), al di sotto del femminicidio consacrato. Vuoi mettere, si dirà, una nigeriana uccisa con la ragazza quindicenne che ci ha spezzato il cuore? Certo che no. Eppure sì.
È affare di noi uomini. Le donne che fanno le prostitute e partono ogni sera per la più asimmetrica delle guerre civili la sanno lunga, su noi, che esitiamo a seguire il filo dei pensieri fino al punto in cui fa il nodo. È seccante rileggere i più bei frutti della nostra creatività letteraria e artistica per scorgervi la rovina del Grande Delinquente che ha ucciso la puttana perché l’amava e la voleva solo per sé.
I volontari della campagna anti-scandalismo sul femminicidio protestano che una morte vale un’altra: la ragazza massacrata vale il pensionato rapinato (qualcuno si spinge a confrontare le uccisioni di donne con le vittime degli incidenti stradali!). Che si distingua chi perseguiti o uccida qualcuna o qualcuno perché è donna – o perché è gay, o perché è ebreo, o nero – sembra loro un’insensibilità costituzionale. Il paragone con le minoranze è improprio: le donne sono la sola maggioranza brutalizzata. Le leggi, dicono, valgono per tutti. È vero, e riconoscono aggravanti particolari. Come spiegano Lipperini e Murgia – e tante altre – occorre a un capo l’impegno culturale e all’altro capo il sostegno materiale ai centri antiviolenza. Aggravare le pene è il riflesso condizionato di legislatori di testa leggera e mano pesante. Di una sola misura c’è bisogno, più efficace a impedire di nuocere a chi ha minacciato, picchiato e molestato abbastanza da annunciare l’esito assassino. Qui è il punto penale: solo in apparenza preventivo, perché quelle minacce e molestie e violenze, quando siano accertate, sono già sufficienti alla repressione che il femminicidio attuato renderà postuma.
La minimizzazione del femminicidio si presenta come un’obiezione al sensazionalismo. Si potrà dire almeno che ha avuto una gran fretta. Si sono ammazzate donne per qualche migliaio di anni, per avidità amorosa e per futili motivi: da qualche anno si protesta ad alta voce, e già non se ne può più?

La Repubblica 31.05.13

"Giovani, allarme lavoro. Napolitano: basta ritardi", di Marcella Ciarnelli

Il lavoro su cui la nostra repubblica «è fondata» sta diventando sempre più un obbiettivo difficile da raggiungere, specialmente per i giovani. Su questo, ancora una volta, a poche ore dalla celebrazione del 2 giugno, il presidente della Repubblica ha voluto ripetere il suo allarme, divenuto sempre più acuto man mano che l’uscita dalla crisi economica appare difficile. E la cui immediata conseguenza è quella di allontanare dall’Italia tante fondamentali energie, certamente quei ragazzi che non possono contare su una raccomandazione «un piccolo tassello del problema» ma sempre «una pratica da combattere e sradicare ». «Dobbiamo essere una Repubblica all’altezza dell’articolo 1 della Costituzione » ha detto Il presidente Napolitano, in un colloquio con il direttore del Tg5 Clemente Mimun, evocando il confronto che ci fu in Costituente per arrivare alla stesura finale di quel primo articolo. «Ebbe grande significato, si discusse moltissimo e si scelse questa dizione anziché l’altra “una Repubblica dei lavoratori”. “Fondata sul lavoro” è qualcosa di più, significa che c’è un principio regolatore a cui si devono uniformare tutti gli attori sociali e tutte le rappresentanze politiche».

UNA GENERAZIONE A RISCHIO Il lavoro, dunque. Il lavoro dei giovani, innanzitutto. Altrimenti il rischio è di doversi misurare con la disaffezione e la sfiducia di un’intera generazione che rischia di essere «perduta». «Si deve innanzitutto garantire la massima attenzione da parte delle Istituzioni – Governo, Parlamento e anche Regioni ed Enti locali – per la condizione dei giovani che rischia davvero di essere molto critica: ci si sente privi di prospettive, e si deve reagire anche a questo stato d’animo, a questa deriva psicologica. Certamente non bastano le assicurazioni, ma intanto credo che già solo il mettere l’accento sul problema serva, e poi occorrono decisioni, scelte concrete come quelle di cui proprio in questo momento si sta parlando in Italia e in Europa» poiché la disoccupazione giovanile non è un problema solo italiano. Ha ricordato, infatti, Napolitano che «il più importante settimanale internazionale di economia, The Economist, è uscito con una copertina e un editoriale il cui titolo è “Una generazione senza lavoro”: si parla di 26 milioni di giovani solo nei Paesi del mondo cosiddetto ricco che non sono più nel processo formativo, non stanno facendo addestramento e non hanno lavoro; nell’insieme, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha fatto la cifra di 75 milioni di giovani disoccupati, qualcosa di simile alla popolazione di un grande paese. La verità è che sono cambiate le tecnologie, sono cambiati i termini della competizione, si è colto molto in ritardo il rischio di un dilagare della disoccupazione giovanile sia in Occidente sia anche nei Paesi emergenti o in una parte di essi». Il governo sta lavorando su questo tema ed il presidente, quindi, ha scelto di non entrare nel merito delle prossime decisioni, tra esse la staffetta generazionale, che dovranno avere però un solido fondamento. «È da seguire con grande serietà l’esperienza che si sta facendo in Francia, dove anche il Presidente Hollande ne ha parlato di recente: si dà rilievo ai cosiddetti “contratti di generazione”, il passaggio del testimone da un anziano a un giovane nei luoghi di lavoro. Vedremo se ci sono le condizioni per fare qualcosa di simile anche in Italia, ma lo vedrà l’esecutivo». Intanto molti giovani lasciano l’Italia e vanno all’estero per avere una occupazione. «Una perdita secca» la definisce il presidente che ha aggiunto: «Credo si tratti di una reazione naturale alle difficoltà che si incontrano in Italia, e penso, in modo particolare, a giovani che coltivano campi di ricerca anche dopo la laurea e non hanno possibilità di sbocco qualificato. Naturalmente è una libera scelta quella di cercare all’estero opportunità di lavoro che spesso si trovano davvero in misura maggiore e in modo più semplice che in Italia. La questione è creare le condizioni perché possano tornare, e in questo senso varie norme di legge già sono state approvate: una in particolare per iniziativa di due parlamentari (allora erano semplici parlamentari) degli opposti schieramenti, l’onorevole Enrico Letta, attualmente Presidente del Consiglio, e l’onorevole Maurizio Lupi, attualmente Ministro del governo Letta». Ed ai giovani che si vedono superare da coetanei meno dotati ma più raccomandati cosa si può dire? «Il problema della disoccupazione giovanile ha delle dimensioni tali che non è scalfito se non in misura irrilevante dall’assunzione per raccomandazione. La verità è che ci sono milioni e milioni di giovani che, né con la raccomandazione, né senza raccomandazione, riescono a trovare lavoro».

L’Unità 31.05.13

“Noi lavoriamo anche per Matteo la sua corsa non ha una scadenza”, di Francsco Bei

Dario Franceschini: sulla targa fuori dalla porta del suo ufficio c’è scritto “ministro dei rapporti con il Parlamento e al coordinamento delle attività di governo”. Ovvero, come traduce lui stesso vista l’attuale maggioranza precaria, «il ministro alle rogne». Stavolta però, nonostante Renzi accusi il governo di “vivacchiare”, Franceschini alza la voce per rivendicare il gol segnato due giorni fa sulle riforme: «È stata una giornata molto importante, purtroppo in parte oscurata dalle distinzioni che ci sono state sulla legge elettorale. Non ci avrebbe scommesso nessuno che, a un mese dalla nascita del governo, fosse possibile definire un percorso certo verso le riforme, con una larghissima maggioranza e la non ostilità delle opposizioni».
Percorso «certo»? Viste le bicamerali del passato, consenta un certo scetticismo…
«Lo scetticismo è fondato. In passato la durezza dello scontro politico e le convenienze reciproche hanno sempre bloccato il percorso delle riforme. Ma stavolta è diverso».
Perché mai?
«Perché gli avversari di sempre oggi collaborano al governo. E questa finestra del governo di servizio può consentire la collaborazione anche sulla definizione delle regole comuni prima di ridiventare avversari».
Attenzione, Renzi dice che il bipolarismo ormai sembra diventato «una parolaccia», non è che vi state innamorando troppo di questa coalizione innaturale? Lo sa che molti sospettano un’operazione neocentrista per fondere le colombe del Pdl con l’ala governativa del Pd?
«Questa collaborazione con il Pdl è possibile proprio perché il sistema bipolare italiano è diventato irreversibile. L’alternanza tra noi e la destra è consolidata e resterà tale al di là delle persone e dei leader che ora guidano i due schieramenti. È così che funzione in tutti i paesi europei, l’alternanza tra progressisti e conservatori è la norma delle democrazie in tutto il mondo. Il resto sono solo nostalgie».
Renzi ha fretta di tornare a votare?
«No, io credo alle parole che dice in pubblico e in privato. E sono le stesse: sostiene il governo e lo stimola, con qualche punzecchiatura, a dare risposte ai problemi per la cui soluzione è nato. E poi Matteo sa bene che le sue carte per la leadership non
sono a scadenza come uno yogurt, per usare le sue parole. Se il governo viene aiutato a lavorare bene: chiunque verrà dopo, vincendo le elezioni, sarà avvantaggiato».
Perché parla di sistema bipolare? Adesso c’è anche Grillo…
«Sì, il sistema ora è tripolare.
Ma penso e spero che l’anomalia del voto ai 5Stelle sia destinata presto a essere riassorbita in un normale schema bipolare europeo».
Come pensate di «riassorbire » i grillini?
«Comprendendo e dando risposta alle ragioni di delusione e di protesta che hanno spinto tanti italiani a votarli. Dobbiamo farlo sia nel Paese sia in Parlamento, confrontandoci sulle proposte dei parlamentari 5stelle, distinguendo questo lavoro dalle urla e dagli insulti di Grillo».
Ieri se l’è presa anche con Rodotà…
«Rodotà è una delle personalità più importanti del nostro paese e della sinistra italiana. Abbiamo fatto una scelta diversa sulla presidenza della Repubblica, ma riconoscergli questo ruolo è incontestabile».
Renzi invece vi accusa di «vivacchiare » e vi sprona a fare subito la legge elettorale.
«Interpreto anche questo come una sollecitazione a fare, del resto il percorso avviato ieri deve portare entro 18 mesi a superare il bicameralismo, a ridurre il numero dei parlamentari, a cambiare la forma di governo e la legge elettorale. Il governo sarà parte attiva di questo processo ma, come Matteo sa bene, si tratta di leggi costituzionali e queste sono in mano alle Camere. E lui lì dentro è ben rappresentato».
Intanto il renziano Giachetti ha provato ad affondarvi riproponendo il Mattarellum. Puntate ancora a una legge di «salvaguardia » che eviti di tornare a votare con il Porcellum?
«Mi sembra intelligente, anche in previsione di una sentenza della Corte costituzionale, lavorare a delle norme che consentano di non tornare a votare con il Porcellum se — tocchiamo ferro — non dovesse arrivare a compimento il percorso delle riforme costituzionali. Ma le posizioni di partenza sono molto lontane, con il Pdl che vuole solo eliminare il premio di maggioranza e il Pd che vuole ritornare al Mattarellum».
E il governo che vuole?
«Ritengo sia corretto lasciare la soluzione di questo problema al confronto parlamentare tra questi due partiti e le altre forze politiche».
Intanto il Pd si è spaccato di nuovo sulla legge elettorale…
«Se un gruppo discute una proposta, vota a grande maggioranza e, in aula, la minoranza si adegua a quanto deciso insieme, non la ritengo una spaccatura. È la democrazia bellezza».

La Repubblica 31.05.13

"Salvate il soldato Beppe (ma da se stesso)", di Francesco Merlo

Grillo, nonostante le tue canagliate, io vorrei che tu, Renzi ed io…”. Ancora potrebbe, questa prima sconfitta di Beppe Grillo, mutarsi in valore civile. E forse solo un Epifani dantesco potrebbe aiutare Grillo a salvarsi dal Grillo impazzito che sproloquia persino contro Rodotà, che pure è stato il suo fiore di purezza, il suo Garibaldi o meglio il suo Mazzini, il suo alibi di nobiltà.
Ha avuto la fortuna, Beppe Grillo, di subire un imperioso alt degli elettori quando ancora non tutto è perduto. Ha infatti il tempo di rivedere, correggere e ripensare anche il se stesso tramutato in canaglia. E il segretario del Pd, ora che non ne ha bisogno per sopravvivere, dovrebbe chiamare il furioso attaccabrighe al confronto diretto, senza il corteggiamento trafelato e penoso ai gregari che umiliò Bersani, ma lanciando un ponte di sinistra, un osservatorio, un blog a due piazze, una cosa (“ah, cosa sarà?, che fa muovere il vento”) che sia fatta di dibattiti serrati e anche di quegli sbeffeggiamenti (reciproci, però) che Grillo ha trasformato in scienza della politica.
Si sa che negli animi nobili la sconfitta migliora il carattere, lo ingentilisce. Ma se l’animo è ignobile, lo inacidisce. E le sgangherate reazioni di Grillo, chiuso nel suo blog virtuale trasformato in bunker reale, esprimono appunto quell’umore che gli inglesi chiamano ‘sour grapes’, uva acida. Con insolenze da teppista, che raccontano meglio dei numeri elettorali, il malessere mentale dello sconfitto che non si rassegna, Grillo malmena dunque Stefano Rodotà che era il suo candidato al Quirinale contro la sinistra. Ora che si è permesso di criticarlo con un’intervista al Corriere, dandogli dei consigli generosi e sensati, Rodotà non è più «un ragazzo di ottanta anni» ma «un ottuagenario sbrinato di fresco» e «miracolato dal web». E qui c’è per due volte, sia nel plauso giovanilista sia nel disprezzo antisenile, la stessa (rovesciata) volgarità fascistoide di ‘giovinezza giovinezza’ accanto al vaneggiamento del ‘chi non è con me è contro di me’. Era già successo alla Gabanelli, succederà ancora. Oltre la lista delle Quirinarie ci saranno altri amanti strapazzati, anche perché, come dicono in Sicilia, «cu di mulu fa cavaddu, u primu cauciu è u so», chi tratta un mulo come un cavallo, si becca il primo calcio.
«Abbiamo vinto», dice Grillo negando l’evidenza e aggredendo Renzi (anzi Renzie, come Fonzie, eh eh) e poi Civati, Bersani, Veltroni… E intanto Lombardi e Crimi vanno «a caccia di pezzi di merda» con un linguaggio che, in bocca loro, diventa agghiacciante. I parlamentari si rubano le mail a vicenda, il gruppo sembra destinato a sgretolarsi ma la Lombardi trova la parola giusta da sillabare: «Confermo, sono delle merde. Mer-de!». Nel delirio della sconfitta, gli amici, che hanno la faccia dei nemici e viceversa, inchiodano Grillo al suo blog-bunker, sempre più sfigurato nell’acidità. E l’impolitica diventa impotenza. Solo un fissato può davvero credere di avere perduto per colpa degli altri, del dominio padronale sui mass media, della pochezza degli italiani. Certo, non deve essere facile per lui. Ma per sua fortuna nessuno può chiedergli di dimettersi. Solo di rimettersi.
Per recuperare il suo fascino seduttivo (non su di noi, ovviamente) il perdente deve sempre diventare leggero. E non è un problema di eleganza, ma di sostanza. Solo ammettendo la sconfitta Grillo potrebbe guarire dalla spocchia e capire che non basta più essere il divertimento intellettuale di alcuni vip dello spettacolo e lo sfogatoio plebeo della rabbia italiana. Potrebbe valorizzare le intelligenze dei suoi parlamentari, spronandoli a studiare almeno un po’, smetterla di punire, espellere e controllare, potrebbe consegnarsi finalmente alla politica che è una delle più nobili attività dell’uomo, e proprio per questo degenera in vizio e corruzione. Non lo fa, ma ancora potrebbe.
Più che denunziare, Grillo ha irriso il potere degenerato, ha spernacchiato il Palazzo tronfio e sordo. Non è stato il primo a sbeffeggiare la politica, ma è stato il primo a fare dello sbeffeggiamento una politica. Ed è senza precedenti nella storia d’Italia, salvo forse Giovannino Guareschi, che solo alla fine, come Grillo, se la prese con gli italiani: «Popolo bue, li hai votati? Adesso pedala» (e speriamo che per questo paragone non si offenda, la buonanima). E però solo con Grillo la tradizione dello spernacchiamento, che va da Marziale a Pasquino, da Totò a Dario Fo, ai Guzzanti e, nel suo modo supercilioso di mezzo Landini e mezzo Montanelli, a Marco Travaglio, ha cessato di essere il cibo dell’intrattenimento più o meno intelligente ed è diventato il manifesto di un partito che alla Camera è ancora maggioranza relativa. Ebbene, da questo sbeffeggiamento la politica non tornerà più indietro.
E bisogna riconoscere che in Italia
la comicità e la satira hanno una funzione unica al mondo. E basta guardare come Crozza riesce a tirare fuori la parte più vera dei politici, sia pure capovolta. L’altra sera anche la Carfagna, confrontandosi con le battute di Crozza, è stata simpatica e intelligente. E si può discutere se si tratta di un altro segnale della decadenza italiana, se è una fuga o una medicina, ma non si può negare che è questa l’essenza del grillismo e, proprio quando comincia il suo declino, si capisce che non si potrà più fare a meno della forma che lo sberleffo ha dato alla politica.
Dunque è ora di provarci davvero a salvare Grillo da Grillo, magari evitando di esibirsi nella pratica diffusa di bastonare il cane che annega. E non solo perché non è elegante né generosa l’idea, troppo sbrigativa, di potergli dare presto il colpo di grazia, con una spietatezza un po’ ridicola. Ma anche perché è il cane da guardia del legittimo, giustificato malumore italiano e perciò almeno il Pd dovrebbe evitare di cantare una vittoria che potrebbe essere quella di Pirro, o, se preferite, quella di Sansone che morì con tutti i filistei.
Inoltre qui si rischia di buttare via, con l’acqua sporca del livore tribunizio e del vaffa, quel radicalismo sociale che è la giusta punizione della politica diventata affarismo, clientelismo e guadagno illecito, la deriva finale della partitocrazia denunziata da Pannella quarant’anni fa.
Sicuramente gli elettori hanno punito il moralismo di Grillo che è ideologismo eccessivo e grottesco, ma è pur sempre alla morale che il moralismo attiene. Certo è morale andata a male, ma guai a liberarci anche dal bisogno di morale che Grillo aveva intercettato e al quale non riesce a dare un orizzonte diverso da quello drammaticamente perdente del «resterò solo io», «non abbiamo fretta», «morirete tutti», «pezzi di merda», « traditori», «venduti».
Anche la critica alla televisione aveva un suo fondamento. Gli elettori si sono accorti che, non andando Grillo, in tv è arrivato un serraglio di grillologi: giovani giornalisti con l’insulto creativo e zero titoli, professori senza alunni e, al posto dei portavoce e dei portaborse, i portarancore, i professionisti del livore. La critica alla cattiva tv ha prodotto una pessima tv. Ma rimane vero che Grillo aveva intercettato un giustificato «ne abbiamo abbastanza» della pulp tv fatta di sbranamento e calci in bocca, e di un giornalismo politico fondato sull’eccitazione con il forcone del divo e del mezzodivo.
Forse solo il Pd può fermare questo ‘cupio dissolvi’ e aiutare Grillo a salvarsi e innanzitutto perché non è detto che la sinistra radicale che lo votò torni davvero a casa e che non si prepari invece un postgrillismo che sostituisca alla pratica astiosa dello sbeffeggiamento quella delle maniere spicce nelle fabbriche, nelle strade, nel conflitto sociale, nell’estremismo ambientalista. Non che sia davvero immaginabile un ritorno al terrorismo, come dice il solito Grillo che pensa di compendiare in sé tutto il vissuto e tutto il vivibile, ma può accadere che esplodano, come attorno alla spazzatura e alla Tav, i plebeismi, il luddismo o nuove forme di criminal sindacalismo nel nome (usurpabile) della nuova povertà italiana, contro l’euro, contro l’Europa e contro lo stesso Grillo, visto che la campana del crescente astensionismo suona forte anche per lui.
Epifani, che capisce questo mondo e ha forse la stoffa per governarlo, potrebbe davvero provare a salvare Grillo da Grillo. E senza patti, lontano dal mercato delle commissioni e delle maggioranze, preparare il dopo Letta e il superamento definitivo del berlusconismo, convincendo Grillo, come cantano Dalla e De Gregori ‘a lasciare la bicicletta sul muro e parlar del futuro’ dentro una passione italiana e, con l’animo dei forti, persino una vaghezza di amicizia: “Grillo, io vorrei che tu Renzi ed io / fossimo presi per incantamento. Nonostante le tue canagliate”.

La Repubblica 31.05.13