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"Una proposta per fermare il femminicidio" di Simonetta Agnello Hornby

Nel 1909 la contessa Giulia Trigona, dama di corte della regina Elena, all’età di trentadue anni fu accoltellata e sgozzata dall’amante trentenne in una camera d’albergo accanto alla stazione Termini. L’omicida tentò poi di suicidarsi – con un’arma più nobile: una pistola, oggi esposta al Museo del crimine di Roma – e, dopo essere stato condannato all’ergastolo, nel 1942 meritò il perdono reale, su richiesta di Mussolini: morì sette anni dopo nel suo letto, accudito dalla domestica che aveva nel frattempo sposato.
Per la notorietà e il rango dei personaggi coinvolti la notizia divenne di dominio pubblico come un fatto raro, invece la violenza c’era anche allora, e in tutti gli strati sociali. Tanta. Solo che la vergogna delle vittime e il desiderio della gente di non sapere la coprivano di un silenzio di perbenismo. Che io chiamo omertà.
Ho incontrato la violenza domestica all’età di cinque anni. A Siculiana, guardavo dal balcone della cucina – insieme alle cameriere – un ubriacone che la sera tornava nel vicolo in cui viveva. I vicini lo aspettavano per assistere al rito che si ripeteva sempre uguale: assaliva la moglie, lei urlava, chiedeva aiuto, poi i colpi, poi lei cadeva. A quel punto, come seguendo un copione, gli astanti, in coro, chiedevano clemenza, accusavano e commiseravano. I figli piccoli restavano muti. Il teatro della violenza.
Oggi basta un clic per accedere a violenze ben peggiori.
A ventun anni ho visto le ferite e i lividi sul corpo di una cliente dello studio di affari in cui lavoravo, una donna ricca, coperta di regali da un marito che – diceva lei – la adorava. Da allora ascolto con sospetto chi mi dice senza motivo di essere felice.
In veste di avvocato ho visto tanta altra violenza. L’ho guardata negli occhi. Occhi sfuggenti. Dalla verità, dalla responsabilità e dalla giustizia. Non è più tollerabile. Le donne che la subiscono hanno il diritto di dire «no», «basta», ad alta voce. Eppure tante non ne hanno la forza. Il pudore e la vergogna le ammutoliscono. Il loro silenzio è aiutato dalla riluttanza degli altri a lasciarsi coinvolgere e dalla mancanza di un approccio olistico da parte degli enti che dovrebbero assistere loro e le loro famiglie – i figli tendono a ricadere nei ruoli dei genitori: chi vittima e chi aggressore.
La donna che ogni sera attende il ritorno del suo uomo con un misto di terrore e ansia, ma anche la speranza che per una volta lui la risparmi, dev’essere incoraggiata a parlare: può essere aiutata a uscire da quell’inferno. È per questo che ho scritto «Il male che si deve raccontare». Racconto le storie delle mie clienti vittime di violenza e porto la speranza che cambiare vita si può.
Il 29 maggio, il presidente della Camera Boldrini ha incontrato Patricia Scotland, inglese e pari del Regno che da ministro laburista ha sensibilizzato i ministeri di Giustizia e degli Interni e i datori di lavoro sul tema della violenza domestica. Scotland ha dimostrato, dati alla mano, che la violenza domestica può essere sconfitta, vite possono essere salvate e madri e figli possono ricominciare a vivere senza paura. Il suo metodo, semplice ed efficace, migliora l’accoglienza delle donne da parte di enti del welfare e del sociale e della polizia, sensibilizza i datori di lavoro e crea un sistema olistico di sostegno per le donne e i figli tramite un tutor che rimane in carica per tre mesi. Questo ha contribuito a contenere sensibilmente la violenza domestica nel Regno Unito. Scotland ha capito come nessun altro l’immensa solitudine e la paura della vittima – isolata, senza denaro, incapace di gestire la quotidianità e le pratiche burocratiche. E ha capito il danno che subiscono i figli, testimoni, vittime anch’essi e futuri aggressori: due terzi dei minori autori di reato hanno avuto esperienza di violenza domestica, e la percentuale tende a salire. Il tutor coordinerà gli interventi dei servizi compilando un documento per stabilire il livello di rischio: lo stesso giorno il caso sarà portato a una riunione dei servizi che provvederà all’immediato necessario, secondo il livello di rischio. La vittima e la sua famiglia sapranno che per i successivi tre mesi riceveranno aiuto. La recidività delle vittime è diminuita del cinquanta per cento e le condanne sono aumentate. Nella sola Londra le morti sono diminuite da 49 a 5, anche con il concorso dei datori di lavoro delle vittime, che hanno formato la Corporate Alliance Against Domestic Violence (Caadv), una onlus di settecento aziende che sostengono le dipendenti vittime di violenza e di stalking attraverso pratiche efficaci e personale addestrato. Dal 2005, il costo nazionale del mancato lavoro delle donne è diminuito da 2700 milioni a 1900 milioni di sterline.
Il metodo Scotland, adattato alla realtà italiana, può essere usato come un punto di partenza. Ora è il fulcro della Eliminating Domestic Violence Global Foundation, creata nel 2011 e fonte di ispirazione in molti Paesi.
La violenza domestica si può debellare, ma ci sono altri nemici: il pessimismo, la sfiducia e quasi la paura di sperare. Nel Regno Unito la Scotland ha fatto tutto da sola, le donne non sono scese in piazza come in Italia. Noi dunque siamo avvantaggiati, ma adesso è importante che tutte le donne facciano fronte unico contro la violenza, anche con gli uomini – anche gli uomini sono vittime e possono cambiare.
Spero che il libro serva. È un tributo ai miei clienti inglesi e ai miei lettori italiani: lo meritano. Grazie alla generosità della casa editrice, il ricavato delle vendite – inclusi i nostri diritti d’autore – finanzierà la sezione italiana di Edv.

La Stampa 30.05.13

"L’ultimo insulto, quello del Tg2", di Natalia Lombardo

Come è facile scivolare sulla vita di una donna e cucirle addosso il vestito di sempre, col marchio impresso dalla cultura maschile che, come riflesso condizionato, quasi giustifica la violenza sul corpo e nell’anima delle donne. Basta un legame, un «finché», per sottintendere l’eterna e introiettata colpa della donna «bellissima» e pure femminista condannata all’inevitabile quanto orrido stupro. Così, nel giorno in cui la Rai dedica la mattinata contro la violenza sulle donne, con tanto di presidente Tarantola e di spot, grazie all’approvazione in Parlamento della Convenzione di Istanbul, al Tg2 proprio una donna scivola in quella coazione a ripetere che anestetizza la coscienza.

Nel servizio dell’edizione delle 13, Carola Carulli descrive Franca Rame come attrice, indissolubilmente legata a Dario Fo, col quale ha condiviso la vita e «l’utopia sessantottina», tra «satira e controinformazione feroce» (esiste una controinformazione soft?). Certo era «Una donna bellissima, Franca», racconta la giornalista, «amata e odiata. Chi la definiva un’attrice di talento che sapeva mettere in gioco la propria carriera teatrale per un ideale di militanza politica totalizzante» – ma per la coppia Rame-Fo la militanza era sul palcoscenico – e, prosegue Carulli, «chi invece la vedeva coma la pasionaria rossa che approfittava della propria bellezza fisica per imporre attenzione. Finché….». Ecco, il servizio porta inevitabilmente a pensare che l’attrice tanto esibiva tanto la propria bellezza, tanto faceva casino come militante… «finché il 9 marzo del 1973 fu sequestrata e stuprata. Ci vollero 25 anni per scoprire i nomi degli aggressori, ma tutto era caduto in prescrizione». Fantasmi: nel servizio si omette la firma fascista dello stupro e del sequestro di Franca Rame, non si dice che da comunista impegnata politicamente «i fascisti – sobillati da alcuni settori dell’’Arma dei carabinieri che li proteggevano – vollero darle in quel modo una lezione», fa notare il sito Globalist in un tam tam sulla rete. Non una parola, inoltre, sulla sua esperienza come senatrice. Tutte leggerezze, si dirà, così come nei telegiornali, pubblici e privati, ancora si nasconde il femminicidio sotto l’italica definizione di «dramma della gelosia». Del resto lo aveva messo in scena il marito Dario nel Mistero Buffo, mimando la camminata provocante di una donna destinata alla violenza, lei, «se l’è cercata, la donna, mica l’è di legno…».

L’Unità 30.05.13

"Se ai ragazzi insegnamo la diseducazione civica", di Benedetto Vertecchi

Premetto che considero l’educazione civica un aspetto dell’attività delle scuole al quale sarebbe necessario rivolgere un’attenzione ben più ampia di quanto il più delle volte accada. Ma, proprio per questo, mi chiedo se le condizioni politiche e sociali in cui la scuola opera siano le più favorevoli a costituire uno sfondo di riferimento. Non si può ignorare, infatti, che l’educazione civica, anche più di quanto non avvenga per altri aspetti dell’educazione scolastica, rischia di produrre effetti controproducenti nel profilo di bambini e ragazzi se la proposta di cui è portatrice si presenta contraddittoria rispetto alla sua traduzione empirica, ovvero al modo in cui determinati principi sono concretamente attuati, o inattuati, nell’esperienza quotidiana. In breve, non si può continuare a dire a bambini e ragazzi che la Repubblica è fondata sul lavoro, se poi non ci si preoccupa di superare le angosciose incertezze che segnano la condizione di vita di milioni di lavoratori o di giovani in cerca di occupazione. Non si può spargere moralità sociale se si consente che una parte consistente del reddito sfugga al prelievo fiscale. Non si può affermare l’uguaglianza dei cittadini se le leggi non sono uguali per tutti, e ce ne sono di formulate per un uso personale. Si potrebbe continuare, ma sarebbe inutile, perché si dovrebbe stilare un elenco noto a tutti. Inoltre, da un punto di vista educativo, sarebbe moralistico riproporre tale elenco senza tentare un’interpretazione che contenga anche un’ipotesi per il superamento dei limiti indicati. Quel che si deve valutare è se proporre principi manifestamente contraddetti dai comportamenti di individui o gruppi più o meno consistenti di cittadini non abbia come effetto la sostituzione dei principi politici e di convivenza civile che sono alla base dell’educazione civica con un insieme di valori empirici, volti a rendere legittimo un successo che consista nell’acquisizione di vantaggi personali. Non è questa un’interpretazione peregrina. Bambini e ragazzi sono sommersi di stimoli nei quali il messaggio più ricorrente è ottenere denaro o condizioni di favore col minimo sforzo, senza troppo guardare per il sottile sulle implicazioni che possono derivarne. Spesso il successo è associato all’apprezzamento di atteggiamenti mentali caratterizzati dalla ristrettezza dell’orizzonte interpretativo (in altre parole, dalla furbizia). Bambini e ragazzi non sono orientati a considerare il trascorrere del tempo (è sicuro che ciò che al momento appare un vantaggio per chi lo consegue continui a esserlo nel tempo?), e neanche le conseguenze sugli altri del vantaggio privato che riescono a conseguire. È una morale sociale centrata sull’avvelenamento dei pozzi quella che non fa considerare come i vantaggi da furbizia siano pagati da altri. Se l’intento dell’educazione civica è di creare una cultura comune di riferimento per ciò che riguarda i diritti e i doveri dei cittadini e le regole che disciplinano la vita sociale, bisogna prendere atto che tale intento non può che essere conseguito per l’effetto convergente dell’educazione formale assicurata dalla scuola (cui spetta di fornire gli elementi conoscitivi) e di quella informale, che si acquisisce attraverso le esperienze che si compiono, giorno dopo giorno, nelle famiglie, tramite le interazioni sociali, per effetto delle suggestioni esercitate dai sistemi di condizionamento prevalentemente attivi attraverso i mezzi per la comunicazione sociale. La scissione tra i principi della convivenza (quelli espressi dalla Costituzione) e i valori empirici ossessivamente enfatizzati come segni della capacità di affermazione individuale rappresenta una manifestazione non marginale della crisi che il nostro Paese (ma non è il solo) sta attraversando. Quel che in Italia è più grave è un effetto di mitridatizzazione, che sta minando la capacità di stabilire un rapporto corretto tra le aspirazioni e i comportamenti individuali e quelli sociali. C’è da chiedersi se, al momento, le proposte che la scuola rivolge attraverso l’educazione civica non siano percepite da bambini e ragazzi come una forma di ipocrisia. Certi principi possono apparire esibizioni esortative che la società adulta si guarda dall’accogliere. Un’educazione civica così praticata è un’offesa per la Costituzione: meglio sarebbe sospenderne l’insegnamento. L’alternativa a una simile amputazione consiste in un’assunzione collettiva di responsabilità: si può insegnare l’educazione civica se si contrasta la disoccupazione, se non si considerano furbi ma criminali gli evasori fiscali, se non si approvano (e neanche si propongono) leggi ad personam, se tutti fruiscono di un’istruzione di qualità elevata, se non si devasta il territorio e via seguitando. La scuola può rendere sistematico l’apprendimento, ma i valori sui quali si fonda l’educazione civica non possono che costituire il riflesso delle scelte prevalenti nella società.

L’Unità 30.05.13

"L'Ilva di Taranto e le altre. Serve una regia pubblica", di Gianni Venturi*

A seguito delle ultime, clamorose iniziative giudiziarie, l’attenzione dell’opinione pubblica e del governo si è concentrata, in queste ore, sulle complicatissime vicende che hanno come epicentro lo stabilimento Ilva di Taranto e, intorno ad esso, il grande gruppo siderurgico di cui è proprietaria la famiglia Riva. Tuttavia non è possibile comprendere appieno implicazioni e conseguenze della vicenda Ilva se, andando oltre la cronaca politico-giudiziaria, non la si inserisce in uno specifico contesto industriale: quello del settore siderurgico nelle sue dinamiche europee e globali. L’11 giugno sarà reso noto, a Bruxelles, il Piano Ue per l’acciaio elaborato, in questi mesi, dalla Commissione e dal tavolo di alto livello presieduto da Antonio Tajani. Piano che deve confrontarsi con un fenomeno presente anche in altri settori industriali: un eccesso di capacità produttiva installata. Ebbene, se chiudesse l’Ilva di Taranto circa la metà di questa sovracapacità produttiva che pesa sugli impianti attivi nei Paesi dell’Unione sarebbe «tagliata»; almeno metà degli obiettivi di riduzione del Piano verrebbero raggiunti prima ancora della sua presentazione e tutti a carico del nostro Paese. Un Paese che rischia, nel settore siderurgico, di dipendere sempre più dalle importazioni da economie extra europee: basti pensare che nel primo trimestre del 2013, pur in piena recessione e con l’impianto di Taranto in attività, le importazioni di acciai piani è raddoppiata. In altre parole, mentre a Taranto e in altre zone del nostro Paese migliaia di lavoratori temono di ritrovarsi disoccupati, a Bruxelles, in Renania, e forse anche nel Far East, c’è qualcuno che già prepara i festeggiamenti. Quello siderurgico è il settore in cui, più di altri, si può misurare concretamente la più profonda e rapida trasformazione geo-economica mai avvenuta: nel 2015 il peso relativo del Pil europeo sul Pil mondiale scenderà dal 18% del 2000 al 15%; quello dei Paesi extra Ue, nello stesso periodo, passerà dal 15 al 29%, in uno scenario in cui coesistono carenze di domanda e squilibri di offerta nei singoli settori e nei singoli Paesi. Si può affrontare un passaggio così arduo senza che gli Stati si pongano il problema della prospettiva e della gestione delle crisi di grandi imprese strategiche di interesse nazionale? Persino gli Stati Uniti, un tempo patria dei Chicago Boys, ed erroneamente considerati da qualcuno come destinati a una sorta di disarmo industriale, hanno ridefinito, con Obama, non solo il ruolo centrale dell’industria, ma anche quello dell’intervento pubblico in economia. Nel nostro Paese e, nel caso specifico di Taranto, la via di un nuovo intervento pubblico in economia è tracciata dalla legge 231 del 2012: occorre imboccarla con decisione. Nel sistema siderurgico italiano, in particolare nelle lavorazioni del ciclo integrale, non c’è una prospettiva per i singoli impianti. Non c’è futuro per Piombino, per Genova o per Trieste che possa prescindere da ciò che avviene a Taranto e dalle modalità con cui soltanto una regia pubblica può organizzare la gestione della sovracapacità strutturale. Se non dovesse prevalere la logica di una gestione concordata, di un processo di integrazione produttiva, di un riassetto condiviso del settore anche attraverso integrazioni societarie, non potrebbero nemmeno avviarsi le economie di scala derivanti da tassi di saturazione più elevati e da un utilizzo più efficiente ed ambientalmente sostenibile degli impianti. Certo, occorrono investimenti, privati e pubblici. Occorre che il Piano di Azione della Commissione per la Siderurgia Europea esca dalla vaghezza degli obiettivi annunciati. Occorre una politica di sostegno alla domanda di acciaio in settori decisivi come quelli dell’automotive e delle costruzioni, una politica commerciale basata sul principio di reciprocità, un sostegno straordinario alle politiche di ricerca, sviluppo e innovazione nei processi e nei prodotti. Ma su ognuna di queste politiche occorrono assi di intervento finanziati e finanziabili anche attraverso la creazione di Ppp (Public Private Partnership); occorre che la Bei, insieme ai soggetti nazionali per esempio, nel nostro Paese, il Fondo Strategico della Cassa Depositi e Prestiti si faccia garante di una fase di profonda e complessa ristrutturazione del settore. Senza caricare il tavolo nazionale sulla siderurgia che si insedia domani di aspettative eccessive, è comunque indispensabile che lo stesso assuma questo orizzonte e questa consapevolezza.
*Coordinatore nazionale siderurgia Fiom-Cgil

L’Unità 30.05.13

"Addio a Franca Rame, leonessa del teatro che regalò il coraggio alle donne", di Gad Lerner

La sera prima di morire Franca Rame aveva partecipato nel salotto di casa a una lettura collettiva di “Fuggita dal Senato”, il suo ultimo testo di denuncia della malapolitica che Dario Fo le chiedeva di recitare con lui in un teatro di Verona. Faticava, ma neanche concepivano che una come lei potesse non farcela. E ora, seduto su quello stesso divano, Dario si aggrappa all’ironia recitando il vecchio detto milanese: L’era inscì bela, ier!
Bella, sì, era bellissima, di una bellezza femminile sensuale e prorompente che nessuna altra grande attrice aveva saputo contenere altrettanto nel talento artistico e nella dedizione generosa per gli altri, facendone una donna speciale. Moglie e madre, anche sul palcoscenico. Attrice, anche nella quotidianità. Dentro al viavai parossistico che sono state le sue case-accampamento, sempre aperte all’ospitalità incondizionata di noi ragazzi sbalestrati, teatranti poveri, militanti sovversivi, ex detenuti senza fissa dimora. Non so dove trovasse l’energia per sopravvivere là in mezzo, dirigendo il traffico con la sua voce roca sovrastante il casino. Era un continuo fare la rivoluzione, femminista e comunista, ma proteggendo nello stesso tempo il figlio Jacopo dalle sue intemperanze giovanili e senza mai venir meno alla severa revisione dei copioni teatrali di Dario, che oggi infatti racconta: «Avevo paura a mostrarglieli, ma quello di Franca era l’unico giudizio netto del quale mi fidavo». Troppi ricordi si sovrappongono di fronte a questa donna che rinunciò a fare la diva e ora giace nella piccola camera da letto affacciata su Porta Romana, dove Dario vuole ancora distendersi per riposare accanto a lei. Spiegandoci di provare la stessa sensazione di passaggio esistenziale di quando morì sua madre.
Li ho conosciuti qualche anno dopo che la Rai, nel 1962, ne aveva decretato l’ostracismo perché colpevoli di aver rappresentato nello show del sabato sera la piaga degli incidenti sul lavoro. Per fare teatro dovevano arrangiarsi fuori dal circuito ufficiale. Furono i primi a elargirmi una paga: armato di ramazza, spazzavo i mozziconi di sigaretta dopo gli affollatissimi spettacoli al Circolo La Comune di via Colletta, dove videro la luce
Mistero buffo e Morte accidentale di un anarchico.
Solo nel 1974, per un paio d’anni, il sindaco Aniasi concesse loro l’uso della Palazzina Liberty.
Franca Rame ci era nata, in mezzo al teatro popolare di strada, nel 1929. Suo padre socialista girava per la Lombardia con un palcocarrozzone che si montava e smontava in tre ore, e a lei piaceva ricordare che l’avevano già portata in scena quando aveva solo otto giorni. Nel dopoguerra il suo fascino le aveva spianato la carriera del varietà, ma non poteva certo bastarle fare la bela tosa.
Con Dario Fo si sposarono in chiesa perché sua madre diffidava dalle unioni fragili dei teatranti, ma al funerale non saranno contemplati preti, semmai bandiere rosse. La loro compagnia teatrale nacque nel segno dell’allegria ma, fin da subito, anche della denuncia sociale. Un impegno da cui non derogarono neppure quando la televisione in bianco e nero ne fece delle star popolari. Resteranno fedeli alla Milano degli ultimi, come l’amico Enzo Jannacci che Dario, seduto sul sofà, ancora rimpiange: «Questo
2013 prima di Franca mi ha portato via le altre persone più care, Enzo, don Gallo… «.
Vivevano in un piccolo appartamento di via Ansperto negli anni più aspri della violenza politica. Proprio lì sotto, nel marzo del 1973, cinque squadristi la presero con la forza e la violentarono a bordo di un furgone. Ne uscì tumefatta ma ferrea nella volontà di pubblica denuncia. Il suo monologo Lo stupro ci lasciò allibiti per il coraggio. Così come il successivo Tutta casa, letto e chiesa che dava finalmente voce al movimento femminista. Perché Franca Rame all’occorrenza sapeva essere sgradevole anche con i compagni, quelli che la vedevano sempre un passo indietro a Dario Fo senza capire che era lei a dare la linea, nell’arte e nella politica. Così come era lei a pretendere che gli incassi dei loro spettacoli servissero a finanziare le cause più scomode: il sostegno agli operai licenziati e poi la difesa dei detenuti politici per cui fondarono “Soccorso rosso”. Non potrò mai dimenticare, in una livida giornata genovese dell’aprile 1980, quando bussai alla sua camera d’albergo per informarla che il vecchio avvocato Edoardo Arnaldi si era sparato un attimo prima che i carabinieri lo arrestassero in quanto militante delle Brigate Rosse. Franca era al tempo stesso affranta e furiosa di quello che avvertiva come il tradimento di una nobile causa.
Nel 1997 arrivò la rivincita del premio Nobel per la letteratura a Dario, la cui targa campeggia nel salotto colorato dalle sue maschere e dai suoi dipinti. Il Nobel a Fo? Restò sbigottita un’Italia perbenista che li aveva relegati a artisti marginali, ignorando che le loro commedie fossero fra le più rappresentate nel Nord Europa e perfino oltreoceano. Franca impose subito che quei soldi venissero destinati a una fondazione per gli artisti in difficoltà, e non fu certo facile amministrarli con le loro mani bucate. Poi è venuta la breve parentesi nelle istituzioni, al Senato. Disgustata dai giochi di Palazzo, delusa da Di Pietro, non ci mise molto ad andarsene da Roma, ma fino all’ultimo ha sentito il bisogno di raccontare — anche in forma teatrale — la sua critica alla politica politicante.
Si sono amati intensamente alla loro maniera vitale, eccessiva, ruvida, Franca e Dario. Presi e lasciati e ripresi, inconcepibili l’uno senza l’altra. Magari lei scappava dall’adorato Jacopo a Alcatraz, nella campagna umbra trasformata in comune ecocompatibile; e allora Dario correva da loro. Digerì pure Coppia aperta, quasi spalancata, resoconto delle loro burrasche. Perfino oggi ne sorride con tenerezza, fra una telefonata di Ferruccio Soleri e l’altra di Moni Ovadia. Quella donna è stata un vulcano di energia, la sua voce temprata dalla recitazione risuona dentro a chi ha avuto la fortuna di condividere con lei il teatro della vita.
La Milano del teatro ufficiale li riabbracciò nel gennaio 2011 con una lunga serie di repliche al Nuovo di piazza San Babila. Tardiva riconciliazione, e ogni sera Jacopo spaventato si chiedeva se papà e mamma ce l’avrebbero fatta. Furono splendidi, come sempre. Lei con la sua chioma vaporosa platinée e con gli occhiali grossi a esaltarne lo sguardo inconfondibile che seduce e rimprovera. Una leonessa.

La Repubblica 30.05.13

"Più giovani e flessibili, ecco i nuovi laureati", di Federica Cavadini

L’ultima istantanea sul laureato italiano è in Rete ed è stata presentata ieri a Milano. Intanto. È più giovane: rispetto a dieci anni fa un paio d’anni in meno, il titolo arriva a 25, non più a 27. E meno frequentemente è un fuori corso. Gli studenti in regola con tempi ed esami, che erano una minoranza, appena uno su dieci, sono diventati il 40%. Queste le buone notizie. Il contesto è quello denunciato dal consiglio universitario nazionale nei mesi scorsi: poche immatricolazioni, fuga dagli atenei («mancano all’appello quasi sessantamila studenti», denunciò il Cun). «Oggi i diciannovenni che si immatricolano sono soltanto tre su dieci», è stata la premessa anche ieri, alla presentazione dell’Identikit dei laureati 2012, rapporto confezionato annualmente dal consorzio interuniversitario Almalaurea.
Il messaggio. «Pensando ai 400 mila giovani e alle loro famiglie che stanno decidendo se continuare gli studi, vorremmo ribadire che con una formazione superiore si lavora meglio e di più: le opportunità per i laureati oggi, con la crisi, sono il 14% in più», ha detto Andrea Cammelli, direttore del consorzio, prima di raccontare con i numeri i nuovi laureati.
Lo studio è stato realizzato su 227 mila studenti delle 63 università nel consorzio, che significa l’80% del totale. Non hanno aderito la maggioranza degli atenei milanesi e lombardi. E a questo proposito da Milano è stato rilanciato l’appello ai rettori, dal Politecnico alla Statale, da Bocconi a Bicocca. «Almalaurea oggi ha un’anagrafe dei laureati con un milione e ottocentomila curriculum disponibili anche in inglese per le imprese di tutto il mondo, un peccato non avere una banca dati completa».
Poi la riflessione sull’identikit del laureato. Da notare che per la maggioranza dei neodottori (71%) la pergamena entra per la prima volta in famiglia: «Questo vale soprattutto per le triennali introdotte con la riforma del 2004, si scende al 53% se si considerano i corsi a ciclo unico». E c’è il dato nuovo sulla regolarità negli studi, con il numero dei fuori corso in netto calo. E sulla frequenza alle lezioni, che cambia a seconda dei percorsi, più alta per Ingegneria, Architettura e professioni sanitarie, più bassa per l’area giuridica.
Un altro numero da leggere: la crisi incide sulle esperienze di lavoro durante gli studi, dopo un periodo di crescita calano dal 77 al 71%. Mentre sono sempre più diffusi tirocini e stage: più della metà dei neodottori ha avuto un’esperienza di lavoro in azienda. Prima della riforma del 2004, gli studenti che avevano questa opportunità erano un terzo. Poi, le esperienze all’estero, a partire da Erasmus, anche queste in crescita: siamo al 14% e il numero sale fra i laureati magistrali. A proposito di studenti globali e internazionalizzazione, la capacità attrattiva dei nostri atenei è ferma al 3,5% di iscritti stranieri. Mentre i nostri studenti sono pronti a partire. «Nonostante i luoghi comuni è diffusa la disponibilità a effettuare trasferte frequenti di lavoro, è pari al 31%». E al trasferimento di residenza direbbero sì il 44% dei laureati. Un no è stato dichiarato soltanto dal 3%. Più disponibili e flessibili i nuovi laureati anche su lavori part time e contratti a tempo determinato. E adesso disponibili prima. L’età media della laurea nel 2004 era 26,8 anni, adesso il diploma di primo livello arriva a 23,9, di laurea magistrale a 25,2 e a ciclo unico a 26.

Il Corriere della Sera 30.05.13

"Finanziamenti per la divulgazione scientifica", di Manuela Ghizzoni

Sono stata relatrice, in Commissione, dell’Atto del Governo che prevede la redazione della Tabella triennale (per gli anni 2012-2014) in cui sono inseriti i soggetti beneficiari dei finanziamenti per iniziative per la diffusione della cultura scientifica. Si tratta di risorse che gli Enti dedicati alla divulgazione scientifica attendono con trepidazione, poiché ne finanziano la meritoria attività di divulgazione, a vantaggio di scuole, giovani, famiglie…

Per chi fosse interessato, a questo link http://www.camera.it/leg17/824?tipo=I&anno=2013&mese=05&giorno=22&view=filtered&commissione=07#
può leggere la mia relazione al provvedimento.

In calce, il parere approvato – con il voto favorevole di tutti i gruppi, eccetto la Lega – a sintesi della discussione dei componenti della commissione.

Tabella triennale 2012-2014, relativa ai soggetti beneficiari dei finanziamenti per iniziative per la diffusione della cultura scientifica
(Atto n. 4)

PARERE APPROVATO DALLA COMMISSIONE

La VII Commissione (Cultura, scienza e istruzione),
esaminata la tabella triennale 2012-2014, relativa ai soggetti beneficiari
dei finanziamenti per iniziative per la diffusione della cultura scientifica (atto n. 4);
valutata l’opportunità di promuovere una apposita iniziativa legislativa in favore della divulgazione scientifica in ambito storico e umanistico;
considerata l’esigenza di sostenere la costituzione di un sistema nazionale organico di musei e centri scientifici e storico-scientifici e lo sviluppo
di un rete locale di musei civici di storia naturale, orti botanici e musei scientifici di interesse locale, nonché di orti botanici e musei scientifici delle università con appositi finanziamenti aggiuntivi, che vadano ad intergare la dotazione della legge n. 6 del 2000;
stigmatizzato il ritardo con cui si sta perfezionando il procedimento, che
determina la differita erogazione dei contributi con impatto negativo sull’attività oggetto del contributo stesso; si raccomanda, quindi, al Governo di intervenire tempestivamente allineando le prime erogazioni al periodo di validità della tabella triennale;
ritenuto pertanto urgente procedere con l’approvazione del previsto parere
per poter consentire l’erogazione dei finanziamenti previsti, che consentono il funzionamento di prestigiose istituzioni di divulgazione scientifica, quali la Fondazione Idis – Città della Scienza che nel marzo scorso è stato colpito da uno spaventoso incendio doloso che ne ha devastato le strutture;
sollecitato il Governo ad evitare che si creino conflitti d’interesse in capo ai componenti del Comitato tecnico scientifico, in modo che l’organismo possa funzionare regolarmente e che sia sempre assicurata la valutazione da parte di due esperti esterni al CTS;

PARERE FAVOREVOLE

con le seguenti condizioni:
1) trasmetta il Governo alla Presidenza delle due Camere, nel più breve tempo possibile, le relazioni riferite ai trienni 2006-2008, 2009-2011 – non ancora inoltrate al Parlamento – previste dall’articolo 1, comma 6, della legge 28 marzo 1991, n. 113, allegando le specifiche relazioni presentate da ogni singolo ente inserito nella tabella di cui sopra;
2) il Governo si impegni, in occasione dell’approvazione della prossima legge di stabilità, a potenziare le risorse complessive destinate al finanziamento della legge n. 6 del 2000, che non è mai stato integrato successivamente alla emanazione della legge stessa;
3) si chiarisca la decisione assunta dal CTS di escludere dal finanziamento 10 enti che hanno ottenuto un punteggio pari o superiore a 60;
4) si prenda in esame la possibilità di rinnovare la procedura di valutazione degli Enti che hanno riportato un punteggio tanto insufficiente da far ritenere che il CTS sia incorso in errori e grossolane mancanze, come potrebbe essere accaduto per la Società Astronomica Italiana e l’Unione Matematica Italiana, già finanziati nei precedenti trienni poich
è svolgono, da decenni, un’intensa ed efficace attività di divulgazione della cultura scientifica nei confronti dei giovani e degli insegnanti;
5) nelle more dell’eventuale revisione della procedura di valutazione degli enti esclusi, sia comunque assicurato il contributo spettante agli enti ammessi a beneficio, con particolare riferimento alla Fondazione Idis – Città della Scienza anche in considerazione della difficile fase di ricostruzione a seguito degli eventi richiamati in premessa;

e con le seguenti osservazioni:
a) per il futuro, si provveda con congruo anticipo a mettere a conoscenza gli enti potenzialmente destinatari dei finanziamenti presenti nella tabella triennale dei criteri in base ai quali gli stessi saranno attribuiti, evitando – come invece accaduto nel decreto direttoriale. n. 369 del 26 giugno 2012 – l’impiego di più criteri distinti ma in effetti
largamente sovrapponibili l’uno all’altro;
b) per una maggiore trasparenza nel lavoro del Comitato tecnico scientifico (CTS) sia, altresì, resa pubblica – anche utilizzando i mezzi informatici – la valutazione conseguita da tutti i soggetti richiedenti, inclusi quelli sotto la soglia di accettazione, accompagnata da una sintesi delle motivazioni che hanno portato il Comitato alla formulazione del giudizio complessivo: tale procedura consentirebbe ai soggetti proponenti di migliorare qualitativamente le loro proposte per la tornata successiva e di valutare, in trasparenza, i motivi della eventuale esclusione;
c) si chiarisca l’esclusione, avvenuta d’ufficio, di 9 domande di enti già inserite nella tabella triennale 2011-2013 relativa ai contributi concessi
per il funzionamento agli enti privati di ricerca, sebbene la legge n. 6 del 2000 e il decreto dirigenziale n. 369 del 2012 non prevedano tale incompatibilità.